mercoledì 20 agosto 2025

E veniamo, dopo aver reso pubblico il saggio divulgativo di cui parlavo in post precedenti, alla prima opera di trattazione di uno specifico tema che implica una serie di ragionamenti a carattere giuridico. Il saggio ha ad oggetto i rapporti tra Ambiente e P.A.

Ciò che segue è la parte introduttiva.

La introduzione in parola rappresenta una sintesi dello schema di lavoro che ho deciso di seguire nella redazione dell’elaborato. Vorrei iniziare con l’introdurre il lettore ad alcuni concetti, che ho inteso raccogliere in due insiemi distinti, in base, rispettivamente, al settore del diritto cui i suddetti concetti idealmente appartengono. Insiemi che, ciò nondimeno presentano dei punti di intersezione i quali consentono di trattare in maniera sintetica alcune delle norme,

2 dapprima costituzionali e successivamente rubricate in legge ordinaria, che riguardano: le prime la disciplina e l’attività della Amministrazione Pubblica, le seconde la disciplina e la tutela del patrimonio ambientale, nella misura e nel modo che, attraverso l’applicazione delle norme come sopra definite, l’attività e le prerogative della Pubblica Amministrazione, non vadano a contrapporsi all’esigenza di tutela e protezione dell’ambiente da fenomeni deteriori a carico di quest’ultimo, fenomeni dovuti come appena detto, ad una o a più “operazioni di modifica” dell’assetto di un qualsiasi ecosistema, il che sarebbe a dire di un qualsiasi elemento o insieme di elementi di origine naturale, il quale sussiste in virtù di meccanismi autonomi come ad esempio l’ecosistema costituito dalla flora e dalla fauna del Congo. Poiché da decenni è universalmente noto che le foreste congolesi costituiscono, con termine giornalistico, il “polmone dell’ecosistema terrestre” direi che parlare per un attimo di ciò che si verifica nell’ecosistema congolese a causa dell’intervento dello Stato e della sua “componente” di Amministrazione pubblica nello sfruttamento indiscriminato delle risorse presenti in loco, possa contribuire a chiarire ciò che accade quando l’aspetto della modifica ambientale a fini di profitto va a confliggere con la tutela della prosperità dello stesso contesto ambientale. In Congo esiste un legame tra politica e multinazionali rivolto allo sfruttamento indiscriminato delle risorse di superficie, a maggiore consumo perché più agevolmente appropriabili, cioè in sostanza la flora e la fauna, oppure di risorse non direttamente fruibili, in quanto per renderle proprie occorre maggiore impiego di risorse economiche e infrastrutturali. Si parla di sostanze come il petrolio, o il carbone, che come è noto devono, per forza di cose, essere estratti e raffinati perché possano essere utilizzati in maniera economicamente redditizia. Tutto ciò che ho appena detto sul Congo 

3 può essere esteso, procedendo per analogia, anche a quanto si potrebbe dire riguardo ad altre realtà internazionali, ad esempio la Foresta Amazzonica. Si parla di biosfera o ecosistema. La differenza tra i due termini è rispettivamente quantitativa, ma in sostanza essi hanno lo stesso significato, cioè di unità ambientale in equilibrio per quanto attiene alle risorse disponibili e alla produzione e riproduzione di risorse, in assenza di interventi umani deteriori o peggiorativi delle condizioni ambientali in loco.

4 La situazione del Congo, che in questa sede può essere solo accennata è peraltro molto simile a quella di molti Stati africani. Si veda in proposito J. Reader, Africa. Biografia di un continente, Mondadori, Milano, 2017.

Per quanto riguarda riguarda la nostra “piccola Italia”, va pur detto che noi Italiani non disponiamo delle risorse ricavabili invece dall’ambiente naturale congolese, e cionondimeno alcuni fenomeni di scontro tra provvedimenti della Pubblica amministrazione, sfruttamento di risorse e esigenze di tutela ambientale possono astrattamente ma anche in maniera molto concreta, verificarsi anche in Italia. Lo scopo di questo mio lavoro è innanzitutto la ricerca dei provvedimenti della Pubblica Amministrazione aventi ad oggetto la tematica ambientale; per poi individuare e commentare quei provvedimenti che espressamente o tacitamente, direttamente o indirettamente, costituiscono un pericolo per l’ambiente naturale, o per meglio dire sono idonei a produrre, concretamente o con tutta probabilità se non di fatto, un danno all’ambiente. Il primo capitolo della presente scrittura è inteso a descrivere e commentare quelle che sono le disposizioni costituzionali poste a disciplina della biosfera, cioè dell’ambiente naturale, e successivamente quelle emanate dalla Pubblica Amministrazione per poi commentare la normativa inerente agli scopi che mi propongo in questo primo capitolo del presente scritto, cioè individuare quel tipo di provvedimenti amministrativi che potrebbero incidere in maniera deteriore sul “demanio” naturale, ossia su tutto ciò che la natura produce in assenza di sfruttamento umano e che peraltro è in proprietà dello Stato allo stesso modo in cui la Pubblica Amministrazione è una componente dello Stato. Ovviamente quando scrivo “in maniera deteriore” mi riferisco all’eventualità, purtroppo sempre presente, di provvedimenti adottati dalla Pubblica Amministrazione che determinino danni all’ambiente, ad esempio perché le direttive di cui sono destinatarie sempre le PP.AA. vengono mal comprese e i conseguenti atti e provvedimenti non corrispondono all’esigenza di una adeguata gestione delle risorse: adeguata alle necessità ambientali nel senso di non arrecare danni all’ambiente se ciò non è indispensabile. Ciò che in altre parole è contenuto nel primo capitolo del presente lavoro è dapprima un accenno agli articoli 9 e 32 4 della Costituzione in materia ambientale, successivamente la trattazione della disciplina costituzionale, relativa alle PP.AA. e degli articoli relativi.

Infine il T.U. 5 relativo all’ambiente, allo scopo di individuare, se ve ne sono, eventuali antinomie presenti tra questi sistemi di regole nella loro vicendevole compenetrazione. Il secondo capitolo del presente lavoro è teso ad elencare e commentare la principale causa delle interazioni negative tra uomo e ambiente, e cioè le attività industriali. Si potrebbe anche affermare con un certo grado di sicurezza che non è l’industria ma l’agricoltura a causare la deforestazione. Ciò corrisponde al vero solo in parte. Esistono in natura luoghi talmente ricchi di risorse, ad esempio i diamanti della Costa d’Avorio, in cui l’interesse per la deforestazione, cioè alla eliminazione della flora che pure in quegli stessi luoghi è molto abbondante, è relegata in secondo piano in quanto i diamanti hanno un valore così elevato sui mercati internazionali da rendere del tutto irrilevante lo sfruttamento delle foreste. Tutto ciò, ripeto, nella prospettiva di una possibile omissione di controllo da parte delle Pubbliche Amministrazioni e nei riguardi sempre dell’ambiente, nella misura in cui le attività industriali vanno ad incidere negativamente sull’ambiente naturale in prossimità del sito ove le suddette attività si svolgono. Va anche ricordato però che coloro che, tra i privati, gestiscono una attività industriale, molto probabilmente collocheranno la propria attività presso luoghi naturali ove “scaricare” i prodotti di scarto dell’attività industriale in parola, nei casi in cui tali prodotti non siano trasportabili in altro loco, come le scorie nucleari, oppure nell’atmosfera, come il percolato che si forma dopo un certo tempo nelle discariche a cielo aperto e che poi evapora aumentando il livello di inquinamento degli agglomerati urbani viciniori. Ma parlerò anche di quelle normative a carattere ideologico che prepongono la materia della tutela ambientale alla implementazione dello sviluppo economico, se questo si realizza attraverso una inevitabile compromissione della realtà ambientale del territorio. Il terzo capitolo del presente lavoro è relativo alla materia “tutela dell’ambiente” per come essa materia è concepita a livello europeo, cioè a livello di Testo Unico sull’ambiente, provvedimento del 2006.

7 L'introduzione in parola è tratto da un’opera accademica relativa ai rapporti tra ambiente e sviluppo industriale. Il titolo dell’opera, che ha come autore un ricercatore della Università degli studi della Campania, ed è intitolata al “diritto dell’ambiente e dell’energia”, sulla base anche di profili comparativi, cioè di confronto tra le "nostre" politiche ambientali e le politiche ambientali di altri ordinamenti.

8 UE, e a quali sono i provvedimenti più rilevanti adottati in sede europea per venire incontro ad una esigenza, peraltro molto pressante di conciliare capitalismo, cioè sviluppo, e ambientalismo, ossia una tendenza non solo politica, che è presente anche in molti provvedimenti che a tal proposito mi paiono essere dirimenti, provvedimenti adottati ovviamente in Sede Europea, e che mi pare sostanzino l’espressione, peraltro assai diffusa di “sviluppo sostenibile”. La tendenza che mi pare di cogliere nello zelante impegno UE a tutela dell’ambiente è quella per la quale occorre, anche ai fini dell’attribuzione all’UE di una Costituzione condivisa, e cioè in primis la qualità di Stato federale o confederale, una qualità che sia riconosciuta ufficialmente, cioè “costituzionalmente”, ossia fare in modo che tra le multinazionali 8 del petrolio, e le organizzazioni ambientaliste, ad esempio Greenpeace 9 , che vedono nell’ambiente naturale un bene la cui tutela è imprescindibile dalla sopravvivenza dell’intero “orbe terracqueo”, si trovi un accordo, ovviamente attraverso la dialettica parlamentare in sede UE. Accordo in virtù del quale innanzitutto e “soprattutto” adottare uno stile di vita sano per ridurre gli sprechi e le brutture di una società che, se non rispetta sé stessa in ogni singolo individuo che di essa società è parte, allora può ottenere, in virtù delle proprie scelte, soltanto conflitti, brutalità, disparità non colmabili nel reddito pro/capite di ciascuno, criminalità, asocialità, guerriglia urbana. Basta leggere un giornale o una rivista a carattere internazionale o magari un testo accademico inerente, per capire la situazione. Il quarto capitolo dello scritto è invece focalizzato su un “certo” tipo di inquinamento, anzi su due casi emblematici di come lo sviluppo economico possa nuocere all’ambiente, non importa se ambiente di lavoro o ambiente urbano o ambiente naturale: il caso della contaminazione da amianto e il caso della contaminazione da radiazioni, con particolare riferimento al “caso Chernobyl.” Il quinto capitolo sarà invece teso, in una prospettiva internazionale, al commento delle modalità di crescita economica di alcune Nazioni in via di sviluppo, ma ormai divenute abbastanza ricche da poter competere, se non altro in prospettiva, con le maggiori potenze economiche e militari del mondo contemporaneo, soprattutto occidentale. Parlerò in particolare della Cina. Il sesto e ultimo capitolo vorrebbe essere un commento a un’opera velatamente tecnico/scientifica scritta da un professore americano: Jeremy Rifkin, commento che mi appare necessario a chiarire anche ai “profani”, cioè a coloro che non sono scienziati di professione ma che nutrono comunque un certo interesse per i temi scientifici, certe espressioni e certi modi di dire che pian piano verranno fuori nel corso della scrittura.

Parte quinta: L’anima in Sant’Agostino

Mi si consenta di concludere il presente lavoro con un tentativo di commento e chiarificazione fondato su due opere giovanili di Sant’Agostino, entrambe aventi come oggetto di riflessione la sostanza animica. Nel prosieguo dello scritto si evidenzieranno le differenze che corrono nella riflessione sull’anima tra San Tommaso e Sant’Agostino, il primo più legato alle categorie aristoteliche, come il lettore che sia giunto a questo punto della lettura non mancherà di osservare; il secondo maggiormente ispirato da Platone e anche in minor misura dalle Enneadi di Plotino. Gli scritti in parola sono intitolati, l’uno all’”Immortalità dell’anima”, l’altro alla “Grandezza dell’anima”. Cominciando col commentare il primo dei due scritti nominati cioè “L’immortalità dell’anima”, occorre dire inizialmente che il ragionamento di Sant’Agostino è meno

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complesso di quello di San Tommaso, ma anche meno chiaro, e che ciò costituisce un ostacolo non indifferente alla comprensione dello scritto in parola. Per quanto i limitati mezzi logici e speculativi di cui lo scrivente dispone lo consentano, tenterò di chiarificare, e in maniera che oso sperare in qualche modo originale, lo scritto in parola. All’inizio del primo scritto di cui tenterò il commento si trova una serie di osservazioni che dovrebbero operare una differenziazione a carattere concettuale tra ciò che sussiste per sé e ciò che non sussiste per sé. Ma vediamole nello specifico. Sant’Agostino comincia con l’affermare che se il novero delle conoscenze umane sta in qualche luogo, se non può star se non in una realtà che vive, cioè nell’intimo di coloro che quella cultura, quel sapere coltivano, allora quel sapere esiste sempre e si trova nell’anima dell’uomo. Appurato ciò Agostino afferma che ciò che vive ed è immutabile come tutto ciò che può essere imparato, cioè la conoscenza, il sapere, presuppone che anche il luogo in cui dato sapere risiede sia immutabile e non corruttibile. Tale luogo non può che essere l’anima, in quanto nessuna cosa che contenga un’altra cosa che esiste da sempre e per sempre, può considerarsi non esistere per sempre. Come l’oggetto del capire esiste sempre e di per sé, allora anche l’anima, la quale soltanto è preposta all’acquisizione di conoscenza, esiste e sussiste di per sé e vive sempre. Ora, mentre il corpo umano è mutevole, la ragione non lo è, cioè la ragione è immutabile. E’ invece mutevole tutto ciò che non è sempre nello stesso modo. Essendo sempre uguale a sé stessa la ragione è immutabile. Quindi, sia che si identifichi con la ragione, sia che sia collegato ad essa e sia che da essa prescinda, l’animo umano è immutabile. Altro requisito dell’animo umano è che esso è fonte di movimento, e tuttavia continua ad essere immutabile, mentre vi sono alcune cose che non sono dotate di

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movimento in sé, cioè da esse stesse originato, e quindi non sono per sempre sussistenti ma corruttibili. Allo stesso modo ciò che può essere diviso in parti non è in grado di essere perfettamente uno e non esiste un corpo senza parti come non esiste un tempo senza intervalli, così occorre che perché l’essere si rapporti a queste realtà passi del tempo, e vi è quindi bisogno di memoria per poterle comprendere, nella misura del possibile. E l’attesa riguarda momenti futuri, la memoria momenti passati. Nulla infatti esiste se non viene percepito nell’attimo in cui compie una operazione, cioè nel presente. Tutto ciò che non esiste nel presente ma o nel passato o nel futuro è un qualcosa di mutevole, e quindi non sussistente per sé ma soltanto nel ricordo e nell’attesa. Da ciò si può inferire che pur muovendo cose mutevoli, l’anima non muta. Quindi se a causa dell’animo che muove i corpi si produce qualche mutamento di essi, non si deve ritenere che anche l’animo muti, e quindi nel tempo si corrompa e muoia. Se infatti nell’animo sussiste qualcosa di immutabile che non può esistere senza la vita, è necessario che all’animo sia riservata una vita perenne. Poiché inizialmente si detto che il sapere, ciò che viene definito da Agostino “disciplina”, è immutabile, se è vera questa proposizione è vero anche che l’”impulso” verso la disciplina e la stessa disciplina risiedono all’interno del soggetto che quella disciplina conosce e attraverso cui modifica la realtà sensibile. Ma se è vero questo allora la disciplina, immutabile, deve risiedere in una parte dell’uomo parimenti immutabile e questa parte è l’anima. Ora l’animo sente di possedere una nozione, solo se essa affiora al suo pensiero. Quindi nell’animo può esservi qualcosa che l’animo stesso non avverte in sé. Quando ciò accade si parla di dimenticanza o incompetenza. Ma poiché quando siamo interrogati da qualcuno, le nozioni che ci occorrono per elaborare la risposta le troviamo in nessun altro luogo che nel nostro animo, è evidente ancora una volta che poiché le nozioni che esso animo trova in sé stesso sono immortali allora lo è

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anche l’animo se è vero che tutti i principi di ragione esistono nel suo interno per quanto esso sembri non possederli o non ricordarli. Tuttavia a ben vedere anche nell’anima esiste un principio di mutamento, il quale si scinde in due modalità di mutamento. L’anima può infatti mutare o secondo le affezioni del corpo o secondo le proprie. Quelle del corpo sono ad esempio gli anni d’età, le malattie, i dolori, i travagli, i malesseri, i piaceri; quelle proprie dell’anima il desiderare e il rallegrarsi, il temere e l’affliggersi, lo studiare e l’imparare. Tutti questi mutamenti però sono soltanto accidenti che non mutano la sostanza dell’anima, anche se possono mutare permanentemente quella del corpo. Così ad esempio la cera da bianca che era può entrare in contatto con un corpo che la rende nera. Ma questo non vuol dire che la cera sia diventata qualche cosa di diverso da ciò che era prima. Ciò vale anche per l’animo. Quindi se l’anima è il soggetto, e se un anima non può essere che un’anima viva, né il sapere può esistere in essa senza la vita, e se il sapere è immortale, allora l’anima è immortale. Passando ad analizzare una parte dell’essere che è simile sebbene distinta dalla sostanza animica, cioè la “ragione”, occorre dire che innanzitutto la ragione è lo sguardo dell’anima, col quale essa fissa il vero legame che interessa l’anima, escludendo quello con il corpo; oppure è la contemplazione stessa del vero, senza il tramite del corpo; o ancora è il “vero” stesso che viene contemplato. Nessuno discute che la ragione nel primo senso sia nell’anima. Il grande problema infatti riguarda il terzo senso, cioè se quel vero che viene contemplato senza l’uso del corpo, esiste per sé stesso o sia nell’animo. Agostino conclude che ciò che è ente di ragione è senz’altro contemplato attraverso l’animo, tutto ciò in quanto intuitivamente l’animo ci fa comprendere che si tratta di oggetti intellettuali e quindi svincolati dalla percezione sensibile. Si potrebbe dire che l’animo si separa dalla ragione e quindi dagli enti di ragione solo se tra realtà che non sono collocate nello spazio possa esservi una reciproca separazione. Se si dubitasse da alcuni che l’anima

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è immortale allora a costoro andrebbe fatto notare che essendo ente di ragione e capace di pensare gli enti di ragione sia la “ragione stessa” a sorreggere l’anima conferendo ad essa l’essere e l’immutabilità. L’animo non può mai essere separato dalla ragione, quindi non può perire. Può tuttavia accadere che proprio l’allontanamento dalla Ragione non possa avvenire se non a causa di un decremento dell’anima, se è vero che il contatto animico con il principio di Ragione rende l’animo perfetto e immutabile. Ora, ogni decremento dell’anima tende al nulla e tendere al nulla vuol dire tendere alla distruzione. Ma non tutto ciò che tende al nulla diviene nulla, anche se si avvicina a quest’ultimo. Il decremento interessa per altri motivi anche il corpo e non solo l’animo. Ma per quanto un corpo possa tendere al nulla esso non lo raggiunge mai, come insegna il paradosso zenoniano di Achille e della tartaruga e come insegna la conoscenza matematica degli infinitesimi. Tanto ciò è vero per il corpo, quanto a maggior ragione è vero per l’anima. Per dimostrare quanto si è detto in merito al corpo assumiamo come punto di partenza il principio secondo cui nessuna realtà crea o genera sé stessa. E’ parimenti necessario che ciò che non è stato creato o non ha avuto origine e tuttavia esiste, sia perenne. Ora poiché il corpo è qualcosa di creato occorre che il creatore abbia qualcosa in più rispetto alla creatura, cioè il corpo. E ciò vale per tutti i corpi esistenti in natura, tanto nel microcosmo quanto nel macrocosmo. E’ cioè necessario che il corpo sia stato creato da una natura sovra/corporale o spirituale. Ora, questa forza, o natura incorporea, creatrice dell’universo corporeo fa sussistere l’universo con una potenza costantemente presente. Ciò che non esiste per sé stesso infatti, verrebbe meno al venire meno della causa per la quale esiste. Tutto ciò non vale per l’animo, il quale anche se creato partecipa di sostanza imperitura e può quindi sussistere anche di per sé, cioè senza che la sostanza di cui è parte lo tenga legato a sé, e per assurdo anche se la sostanza che l’animo costituisce venga meno. Poiché l’anima sussiste per sé ed è quindi eterna non occorre che essa operi per sé stessa

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alcun movimento poiché è nella sua natura “dare” movimento senza però partecipare di quello stesso movimento. Poiché perciò l’anima dà movimento al corpo, a tutti i corpi, occorre pensare non solo che l’animo sia migliore del corpo ma che non possa mai accadere né che l’anima cessi di essere anima né che il corpo cessi di essere corpo a causa del venire meno dell’anima. Da tutto quanto detto si può ricavare che tutto ciò che partecipa dell’anima partecipa della vita, mentre tutto ciò che manca di anima è ciò che chiamiamo inanimato cioè privo di vita, intendendo per vita il movimento autogenerato dall’anima presente in un corpo. Si tenga presente che l’animo non muore a causa della morte del corpo che lo contiene, sebbene legato ad esso da un nesso inscindibile che tiene in vita il corpo attraverso l’anima. L’anima è la stessa vita del corpo, anche nel momento in cui abbandona il corpo, senza però condividerne la stessa sorte, ossia la morte.  Come forse qualcuno potrebbe pensare l’anima non fa parte della costituzione di un corpo, ma è qualcosa di inalterabile. Niente a che vedere ad esempio con le pratiche ascetiche, che tendono ad influenzare l’anima così come potrebbero in qualche modo e con certe pratiche rendere il corpo immune al dolore fisico. Se ciò non fosse non sarebbe possibile all’anima allontanarsi dal corpo alla morte di quest’ultimo. Quindi la buona costituzione del corpo è nel corpo stesso e non nell’anima altrimenti alla morte il corpo abbandonerebbe sé stesso, mentre è vero il principio che nessuna sostanza abbandona sé stessa. Ciò che determina la morte di un corpo è l’anima, nel momento in cui questa abbandona il corpo. Per passare ad altro si ipotizzi che l’animo sia costretto a diventare un corpo contro la propria volontà e contro la propria natura. Da chi potrebbe esservi costretto? Senza’altro da un’ente che fosse più potente dell’animo, ad esempio da un certo tipo di corpo. Ma logica e realtà vogliono che nessun corpo possa mai essere più potente di un’anima. Se poi si trattasse di un animo più potente, questi sarebbe in grado di sottomettere solo qualcosa che è già sottomesso al suo potere. E’ infatti necessario che, qualunque animo ne abbia un altro in suo potere, intenda e voglia esercitare il

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suo potere solo su quell’animo e non su un corpo. Infine questo presunto animo che costringe o è l’animo di un corpo animato oppure è privo di corpo. Ma in quest’ultimo caso fa parte di un’altro mondo e se è così, è sommamente buono e mai vorrebbe indurre in un altro animo, quest’ultimo privo di corpo, una tale ignobiltà. Ma, si domanda Agostino, un’anima può essere trasformata in un corpo? Per quanto il corpo occupi uno spazio, l’anima si unisce ad esso non spazialmente, ma in relazione all’ordine gerarchico delle due nature: quella del corpo e quella dell’anima. Da ciò si può capire che la forma per cui il corpo “è” gli viene conferita dall’essenza suprema per il tramite dell’anima. Ed è per questo che la funzione dell’anima non è diventare corpo ma dare vita al corpo. E non si trova nulla, se non l’anima vivificante che sia tra la vita suprema, che è Sapienza e Verità inalterabile, e ciò che da ultimo viene vivificato, cioè il corpo. Esiste in sostanza, dice Agostino, una sorta di “scala dell’essere” alle cui sommità stanno gli esseri superiori che trasmettono una quantitativo di forma agli esseri immediatamente inferiori, e questi ultimi a quelli ancora inferiori e così via nella catena dell’esistenza. Ed è interesse di tali esseri che l’anima o forma sia anima e forma e che i corpi rimangano corpi senza che le due nature si sostituiscano l’una all’altra. E’ per questo motivo, come per gli altri che abbiamo addotto a sostegno della immutabilità della forma animica, che l’anima dà vita a un corpo anziché essere un corpo; e che oltre a ciò l’anima ha una natura immortale che le consente di sopravvivere al corpo. A questo punto del discorso e terminata la sintesi del primo dei due scritti agostiniani di cui mi ero prefissa la trattazione, passerò al secondo, intitolato come detto alla “Grandezza dell’anima”. La peculiarità di questo scritto di Agostino è che esso si svolge in forma di dialogo tra lo stesso Agostino e il suo amico Evodio, con chiaro riferimento al modo di procedere platonico.

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Evodio è il primo dei due protagonisti del dialogo a prendere la parola e a rivolgere ad Agostino alcune domande riguardo all’anima e cioè: da dove l’anima derivi, quali siano i suoi attributi; quanto sia grande; perché sia stata data al corpo; quali trasformazioni subisca una volta entrata nel corpo e una volta che se ne sia allontanata.  Agostino finge di non aver capito e domanda a sua volta se Evodio voglia conoscere il luogo in cui l’anima si trovava prima di prendere possesso di un corpo oppure quale sia la sua sostanza. Poiché Evodio dice di voler sapere entrambe le cose Agostino risponde che la dimora, o patria dell’anima è Dio stesso, dal quale essa anima è stata creata. Non si potrebbe invece dare un nome alla sua sostanza, poiché la sostanza dell’anima non rientra tra le nature conoscibili, cioè essa non è fatta né d’aria, né d’acqua, né di fuoco. Poiché Evodio critica Agostino dicendo che, se l’anima è stata creata da Dio, essa deve per forza di cose avere una sostanza conoscibile, Agostino risponde che pur sapendo che la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco sono state create da Dio non se ne può definire la sostanza. Così è per l’anima. Non del tutto convinto da questo ragionamento, ma desideroso di approfondire, Evodio chiede ad Agostino quali siano gli attributi dell’anima, al che Agostino afferma recisamente che attributo dell’anima è l’immortalità, in quanto creata direttamente da Dio che è di per sé immortale. E alla domanda successiva sul perché l’uomo non sia capace di creare cose immortali Agostino risponde che l’uomo non può creare cose immortali poiché egli stesso non è immortale. Alla domanda relativa alla grandezza dell’anima Agostino risponde chiedendo a sua volta se intento di Evodio sia sapere le “dimensioni” fisiche dell’anima oppure la sua grandezza intesa come “virtù”. Poiché Evodio vuole conoscere entrambe le cose, Agostino comincia col dire che la “dimensione” dell’anima, cioè l’insieme

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delle sue misure è inconoscibile, in quanto l’anima non è un corpo, perché se anche quest’ultimo è materiale, l’anima non lo è. Per rafforzare la propria spiegazione sull’assenza di dimensioni nell’anima, Agostino conduce Evodio a riflettere sul fatto che se si paragona una sostanza materiale, come è un albero ad una sostanza non visibile come l’idea di giustizia, non si può dire che l’albero esista in quanto corporeo ma ciò non valga per l’idea di giustizia. Poiché Agostino dimostra inconfubilmente ad Evodio che un corpo non necessariamente è dotato di anima, e che quest’ultima è una prerogativa che, in natura compete solo agli uomini, allora Evodio tenta di accostare l’anima ad una qualcosa di immateriale che pure esiste in natura senza che si possa definire secondo le proprie dimensioni e che non di meno sia fatto della stessa sostanza immateriale di cui è fatta l’anima. Questo qualcosa è definito da Evodio come corrente d’aria o più semplicemente vento. Pur ammettendo che quest’ultimo è un corpo Agostino afferma che esso potrebbe essere accostato all’anima in quanto non ha dimensioni, ma è al contempo differente dall’anima in quanto è un fenomeno che appartiene alla realtà percepibile con i sensi mentre l’anima non lo è. Quanto alla sua dimensione l’anima ha la dimensione o le dimensioni del corpo che la ospita. A questo punto è Agostino a porre una serie di domande a Evodio per consolidare il discorso sulle proprietà dell’anima. Agostino chiede perciò ad Evodio se egli ricordi la città di Milano. Alla risposta affermativa di Evodio Agostino evidenzia che l’anima ha la capacità di ricordare e che tale capacità, cioè la memoria si trova nell’anima, ossia solo l’anima possiede questa facoltà. Ma, domanda ancora Evodio, come può l’anima avere conoscenza di tutti i luoghi che ha percepito esistere attraverso i sensi e che percepisce se essa è priva di dimensioni? Per rispondere alla questione sulle dimensioni Agostino parte dal considerare ciò che nella realtà sensibile può essere considerata una linea, ad esempio il filo di ragnatela prodotto da una ragno. Se di quel filo si può dire che esso è in qualche modo lungo largo e profondo lo stesso non si può dire degli enti di ragione che

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dimorano nell’anima, cioè le linee e le figure astratte dalle loro concretizzazioni reali. La domanda ulteriore che Agostino rivolge ad Evodio è se si possa ottenere una qualche figura se si conduce all’infinito una linea da uno o entrambi i versi. Poiché Evodio ammette che per ottenere una figura sono necessarie almeno tre linee, che, ammette Evodio, nella loro disposizione a formare un triangolo sono esteticamente più belle se tutte della stessa lunghezza, cosicché ogni linea sia posta di fronte ad un angolo, Agostino domanda: se poi si aggiungesse alla figura un angolo ulteriore cosa si otterrebbe, qualcosa di migliore o di peggiore? La risposta di Evodio è che la figura così ottenibile sarebbe migliore della precedente perché maggiormente dotata di uguaglianza. Ma se si volesse indagare quale sia la figura dotata di maggiore uguaglianza e quindi più perfetta, questa non sarebbe certo il quadrato. E neanche lo sarebbe il triangolo. Allora la figura più perfetta è quella che non è composta di linee rette, angoli o diagonali, ma soltanto la lunghezza la quale a differenza della larghezza risulta prevalente in quanto non può essere divisa come non lo può una linea retta, se non per il lungo. Dopodiché Agostino invita Evodio a considerare se vi sia un ente di ragione che non ammette divisibilità. Questo ente è il punto. Il punto non ha dimensioni, non ha lunghezza, né larghezza, né profondità. Ma se tutti gli enti di ragione che ti ho indicato, dice Agostino, esistono solo in quanto concetto mentre non esistono nella realtà, allora è vero o non è vero che essi possono essere percepiti solo dall’anima, che è ente di ragione essa stessa? Ma se l’animo non è né corpo né cosa corporea, allora cos’è?, domanda Evodio. Agostino risponde paragonando l’anima a un qualcosa di più perfetto degli enti di ragione, poiché se gli enti di ragione, prima fra tutti la linea, non ammettono divisibilità o, al pari della linea la ammettono minimamente, deva allora per forza e a maggior ragione esistere un qualcosa che sia più perfetto della linea perché del tutto indivisibile. Questo qualcosa dice Agostino, è l’anima. Alla domanda se l’anima sia legata al corpo nella crescita, se cioè cresca come cresce il corpo di un infante che diventa uomo, Agostino risponde attraverso alcuni esempi che l’anima in quanto è la più perfetta creazione della divinità, cresce sì, ma non in quantità, cioè non in

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dimensioni ma in virtù, la quale ultima è quanto di meglio si possa ricercare attraverso le facoltà intellettuali che l’anima rappresenta. Non quantità dunque, ma valore. L’anima infatti, ad esempio, dice Agostino, imparando un’arte o acquisendo cultura, non cresce in dimensioni ma cresce in valore, in potenza, in competenza. Per passare ad altro e definire ciò che in rapporto all’anima è la sensazione, Agostino la definisce come la consapevolezza da parte dell’anima di ciò da cui il corpo è affetto. Cominciando il discorso dalla sensazione visiva Agostino chiede a Evodio da che cosa è affetto il suo corpo mentre parla con Agostino. Evodio risponde che la visione del volto di Agostino è una sensazione, o meglio sollecitazione degli occhi, perché se tale sollecitazione non vi fosse essi occhi non vedrebbero nulla. Ma Agostino rintuzza Evodio chiedendo quale sia questa sollecitazione, al che quest’ultimo risponde che la sollecitazione visiva interessa la vista. E quindi dice Agostino chi gioise subisce gioia. O no? Ovviamente no, perché sempre Agostino afferma che le affezioni del vedere e del sentire fanno parte del corpo cui l’anima inerisce. Ma le affezioni dell’animo, poiché a quest’ultimo rispondono, si possono avere della cosa vista e sentita anche a distanza quando la stessa cosa non è presente, attraverso la memoria. Per quanto riguarda la dottrina delle definizioni Agostino la spiega nel modo seguente. La definizione è un insieme di parole logicamente collegate che servpono a descrivere le caratteristiche di un soggetto. Una delle regole che sottostanno alla definizione è la regola della “conversione”. Cioè se la definizione viene ripetuta in diverso ordine sintattico ma contiene gli stessi termini definitori si può dire che le due definizioni coincidono, sempre però che abbiano una qualche realtà. Ad esempio non si può dire: “l’uomo è un animale quadrupede” ma si deve dire “l’uomo è un animale bipede”. Se si vuole applicare con profitto la regola della conversione di deve dire: “tutti gli uomini sono bipedi” e “un animale bipede può

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essere chiamato uomo”, essendovi tra le dette proposizioni niente di logicamente e ontologicamente incongruente. Per quanto riguarda ancora le affezioni corporee, alcune di esse, dice Agostino, derivano dai sensi, altre possono solo essere congetturate. Un esempio è il confronto tra una bestia e un essere umano. Anche la bestia è suscettibile di affezione al pari di un uomo, ma essa non fa uso della ragione per discernere le affezioni che derivano dai sensi, in quanto è priva di ragione. Sempre per rimanere al tipo di rapporto che in questo senso corre tra una bestia e un uomo va detto che la scienza è un qualcosa di prettamente umano perché l’uomo è dotato di anima razionale e quindi un animale non potrebbe ragionare sulle proprie affezioni così da trarne dei principi di sicenza. L’uomo infatti è consapevole di una affezione del corpo tramite il ragionamento sulla affezione stessa, ragionamento che alla bestia è precluso. Nel dialogo tra Agostino e Evodio si pone poi una questione singolare. Se cioè il suono di una parola, suddvisa una per una in tutte le lettere che la compongono e che corrispondono ad altrettanti suoni, perda il proprio significato. E’ sicuramente vero che il significato della parola è dato dall’insieme delle sue lettere unite e pronunciate l’una di seguito all’altra. Ma cosa si può dire di un anima il cui corpo venga diviso in parti? La stessa cosa, per analogia che si può dire per le parole private della successione delle lettere. Si è persa l’anima della cosa così come quella del corpo, anche se il corpo continua a muoversi, o parte di esso, come accade quando si tagli la coda ad una lucertola. Esistono però parole che, anche se divise non perdono del tutto il proprio significato ma piuttosto ne acquistano altri: Agostino fa l’esempio della parola “lucifer”, che se divisa in sillabe suona luci (cioè dativo latino di luce) e fer (che è l’imperativo del verbo portare), ciò a dire che a volte un residuo di vita, se l’esempio fatto vale anche per gli uomini, può rimanere fissato al corpo anche se l’anima lo ha abbandonato.

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Dopo aver disquisito in maniera sofistica, cioè usando gli stessi artifici dei sofisti, Agostino fa un lungo discorso circa l’anima e il proprio destino terreno e ultraterreno, descrivendo quelli che lui chiama “gradi” dell’ascensione dell’anima verso Dio. Si tratta di un discorso a carattere teologico non molto originale, che è più simile ad una omelia che ad un discorso filosofico e i cui dettagli credo possano essere tralasciati, per evitare di tediare il lettore col commento di un discorso che si può ascoltare in qualunque funzione liturgica e che è volto non ad indagare i principi di natura ma ad elogiare la propria fede e i dogmi su cui questa è fondata. Tutto ciò che di attinente all’anima è contenuto nell’opera in commento è stato sintetizzato e riassunto anche attraverso l’aggiunta di considerazioni personali da parte dello scrivente. Credo che non sia necessario aggiungere altro.

Parte quarta: considerazioni sull’esistenza dell’anima in San Tommaso d’Aquino.

Introduzione

Giunto a questo punto dello scritto, il lettore potrebbe chiedersi quale sia la ragione che ha mosso lo scrivente a parlare di un qualcosa che nei tempi in cui viviamo, tempi in cui il “materialismo”, fenomeno sociale ed economico che riduce l’essenza dell’uomo al rango di monade indistinta, inibendone la riflessione su ciò che va oltre il consumo di beni e di merci, e che, esso materialismo, è ormai penetrato in ogni ambito della società e persino tra alcuni esponenti delle gerarchie cattoliche, in altro modo, in altre forme, ad esempio con la riduzione della organizzazione ecclesiastica ad una sorta di “comitato d’affari”, direi che la domanda è più che pertinente. E la risposta mi pare essere che per parlare di anima, come già detto nell’intitolazione della presente partizione dello scritto in parola, occorre avere una coscienza, possibilmente non obnubilata da ciò che abbiamo, in quanto uomini e in quanto

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uomini di questo “tempo”, di fronte ogni giorno: la decadenza morale e spirituale che affligge la società dei consumi. Come detto all’inizio del presente lavoro, scopo dello scrivente è risvegliare il senso critico del lettore, e per fare ciò non basta parlare o scrivere di religione o di “religioni” ma occorre fornire al lettore un punto di riferimento che interessa tutti i culti di cui ho scritto finora e anche quelli che la necessità di non dilatare oltremisura le dimensioni del presente lavoro, non mi ha consentito di trarre a oggetto di analisi. Ma vi è una seconda ragione che mi porta a parlare di anima. E la ragione è che non si può definire fenomeni di aggregazione sociale quali sono le religioni senza far riferimento a ciò che di tutte costituisce il sostrato indefettibile, cioè “credere” in qualcosa che non si può vedere, non almeno a partire dalla condizione umana e quindi dalla materialità apparente di questa stessa condizione. E non sto parlando soltanto del Paradiso cristiano/cattolico o degli altri numerosissimi esempi di “regni ultraterreni” propri ad altri culti. Sto parlando invece di tutto ciò che concerne l’uomo come essere “vitale” e della cui vitalità tutte le religioni ravvisano la causa in un elemento non visibile ad occhio nudo e che pure costituisce il principio di detta vitalità. Questo elemento è l’anima.

Poiché peraltro la mia personale formazione intellettuale non è legata alla teologia o alla filosofia, da sempre strumenti di indagine su ciò che razionalmente si può intendere e che sempre razionalmente porta a volte a conclusioni esattamente opposte sulla stessa questione, il che dimostra che spesso il ragionamento speculativo, sia esso meramente empirico o legato al trascendente, può essere fallace, allora mi sono permesso di integrare la presente partizione del lavoro che man mano si dipana e che è vicino alla fine, con un riferimento ad una parte della speculazione metafisica di colui il quale, per l’acume critico e per la saldezza della fede venne detto dai posteri “Doctor Angelicus”, cioè San Tommaso D’Aquino. Ciò che mi propongo, nel contesto della presente partizione è perciò di rendere accessibile, attraverso un commento “a commento” dell’opera accademica di Monsignor Sergio Simonetti – che a suo tempo ebbe la felice idea di scrivere un saggio sul concetto di “anima” come descritto nelle opere di San Tommaso – il

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pensiero sempre del Doctor Angelicus relativamente alla sostanza animica. L’intenzione sarebbe di consentire, attraverso il presente scritto, nel modo in cui si va sviluppando, una facilitazione dell’indagine introspettiva sia a coloro che sono incerti circa l’esistenza dell’anima e della coscienza in essa contenuta e sia a coloro che negano questi due principi e ad essi sostituiscono la concezione empirica per quanto riguarda la vitalità del corpo, e quella strettamente razionalista per quanto riguarda l’origine del pensiero e della coscienza.

Capitolo primo: le fonti

Il mondo greco fu come è noto, soggiogato da quello romano, ma al tempo stesso vale l’”adagio” secondo cui come i greci furono militarmente conquistati dai romani, allo stesso modo e reciprocamente essi greci conquistarono i romani dal punto di vista culturale, e quindi anche per quanto riguarda la filosofia, in tutte le branche che essa filosofia aveva espresso durante la propria fase di maturazione presso l’antica civiltà “ellenica”, il che sarebbe un altro modo per dire “greca”. Relativamente a ciò che costituisce oggetto della presente partizione del lavoro che, una volta concluso, vorrei sottoporre al lettore è, come anticipato poc’anzi nella introduzione, per il meno un tentativo di “commento”, al commento dei passi del pensiero tomista relativi all’anima, commento incentrato sull’opera di Aristotele, come si trova elaborato nell’opera tommasiana.

La domanda che l’Autore del libro in commento si pone, per cominciare la trattazione degli scritti di Tommaso, è: a partire da quale momento nel mondo occidentale non grecizzato si comincia a parlare di “sostanza”? Quest’ultimo è termine di grande rilevanza nella dottrina tommasiana ed è utilizzato per accostarsi ad una definizione esatta, o la più esatta possibile, del concetto di “anima”. Nella cultura latina il termine “essentia” indicava ciò che noi indichiamo col termine “sostanza”. Fu probabilmente Seneca a tradurre il termine in questione dal greco “ipostasi” con il significato di “realtà”. Ma esiste anche un altro termine e cioè “usìa” che potrebbe tradursi comunque con sostanza.

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Ma su tutti, colui il quale ci fornisce la definizione più completa del termine è Platone. In Platone il termine “usìa” ha il significato di: “proprietà o ricchezza”; un qualcosa di reale che esiste indipendentemente da chi lo percepisce; l’essenza di una cosa, il suo aspetto formale; l’essere di ciò che esiste nell’Iperuranio, cioè nel mondo delle idee; l’esistenza reale e la realtà come vengono espresse dalla copula verbale “essere”; i tre livelli dell’essere, cioè le idee immutabili, le realtà intermedie come l’anima, le cose sensibili come i corpi.

Passando ad analizzare l’uso del termine in Aristotele, anche per il filosofo di Stagira la parola in questione, o meglio la sua definizione, costituiscono le basi della filosofia. In Aristotele tuttavia il termine “usìa”, sta ad indicare un solo elemento cioè la sostanza. Il filosofo afferma che tutto ciò che costituisce l’eterno problema, l’eterno oggetto di ricerca: “che cos’è l’essere?” equivale a quello “che cos’è la sostanza?”. Quindi anche riguardo all’anima, data per vera la statuizione di Aristotele, occorre interrogarsi su quale sia la sua sostanza, cioè in definitiva quali ne siano gli attributi intrinseci e imprescindibili, se dalla definizione di anima non si vuole passare alla definizione di altro, a causa se non altro di scarsa precisione concettuale. Una volta individuata la sostanza come sostrato di tutto ciò che esiste, Aristotele passa poi a distinguere due tipi di sostanza: un sostanza “prima” e una sostanza “seconda”. La sostanza prima è un “soggetto” che presenta determinate caratteristiche. La sostanza seconda è invece un predicato dell’individuo, cioè del soggetto. Soltanto la sostanza prima è sostanza nel vero senso del termine, ciò che esprime quella cosa particolare che esiste di per sé. Ma come definire in senso metafisico ciò che la sostanza è in realtà? Aristotele utilizza a mo’di qualificazioni della sostanza una serie di attributi che vengono detti, sempre dal filosofo di Stagira, “accidenti” o per meglio dire “categorie”. Ma mentre le altre categorie esprimono i caratteri di un qualcosa che è, esiste una categoria che descrive l’oggetto di definizione in ciò che esso è “per sé”, cioè la sua “essenza”. Dati tali presupposti l’individuo è definito sostanza “prima”, in quanto esso differisce dagli universali perché sussiste indipendentemente da essi, in quanto non è il risultato

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dell’attribuzione ontologica di categorie ma è sussistente di per sé. La sostanza seconda è quindi un predicato della sostanza prima, poiché ne indica quanto meno genere e specie, ma Aristotele specifica che la specie è più sostanza del genere, perché l’individuo sostanziale riesce meglio definito nella sua specie che non nel suo genere. Come dire che l’attribuzione ad un individuo della specie “uomo” conferisce allo stesso individuo un “quid pluris” rispetto all’attribuzione allo stesso individuo del genere “animale” cui egli in ogni modo apppartiene. Tuttavia il postulato fondamentale è che deve senz’altro darsi la sostanza individuale perché sia garantita l’esistenza della sostanza seconda ad essa sottordinata.

Citando il Reale, troviamo le seguenti definizioni di sostanza:

- Può chiamarsi sostanza solo ciò che non si predica di altro, non inerisce ad altro, ma che è sostrato ed inerenza di predicazione di tutti i diversi modi di essere.

- Sostanza può essere solamente un ente che può esistere di per sé o separatamente dal resto, dotato di una forma di sussistenza autonoma.

- Può chiamarsi sostanza solo ciò che è alcunché di determinato; non può quindi esserlo un attributo generale né alcun che di astratto e universale.

- Sostanza deve essere un qualcosa di intrinsecamente unitario, e non un mero aggregato di parti o una qualsivoglia molteplicità organizzata.

- E’ sostanza solo ciò che implica atto.

La sostanza può essere considerata come l’unione di due principi, nessuno dei quali può venire meno senza che la sostanza stessa perda la propria essenza, ossia ciò che essa è in sé. I due principi di cui è composta la sostanza sono forma e materia, la prima definibile come ciò che dà vita e movimento alla seconda. In altre parole è mediante l’atto che la forma accede alla materia, che è mera potenzialità e le dà la condizione di sostanza, che per sé è composta di materia e forma in un tutto inscindibile. La sostanza è quindi una unione di principi, forma e atto da un lato; materia e potenza dall’altro. Tuttavia ciò che sta alla base del sinolo, che lo

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sostanzia senza per questo essere da altro sostanziata è la forma, che sempre il Reale trae a fondamento della sostanza.

Incidentalmente viene in rilievo il problema della “natura” delle cose, cioè la risposta alla domanda: “qual è la natura di questo?” o “che natura ha questa cosa?” Secondo Aristotele la natura è l’essenza delle cose che hanno in sé un principio di movimento, essa è quindi collegata ad attività e movimento.

L’ultimo aspetto da analizzare relativamente alla sostanza è la sua conoscibilità. In effetti le sostanze in quanto tali non sono percepibili dai sensi. Questo perché l’essere precede la conoscenza, ossia le cose esistono in sé prima di esistere per l’uomo. Il modo in cui giungiamo al concetto di sostanza è fatto di astrazione e di induzione e quindi è frutto del mero intelletto senza l’apporto del dato sensorio. Riguardo alla preminenza della sostanza circa tutto ciò che è conoscibile e che esiste, e quindi anche con riferimento all’anima, che è l’oggetto della presente parte del lavoro, Aristotele individua una caratteristica dell’anima che la rende predicabile anche se separata dal corpo, col quale per quanto precedentemente affermato costituisce un tutto inscindibile, ma dal quale può essere resa indipendente, almeno a livello concettuale, attraverso l’azione dell’intelletto. Ma a parte ciò Aristotele si pone il problema di definire l’anima in maniera esatta e lo fa a partire dall’esperienza dei corpi viventi e del loro comportamento. Al termine del suo discorso Aristotele conclude che l’anima è ciò che rende vivo un “corpo” altrimenti privo di vita, che è la sua forma o essenza. Aristotele afferma altresì che l’anima “è il principio delle facoltà ed è definita da esse, ovvero dalla facoltà nutritiva, razionale, sensitiva e dal movimento”. Dice ancora lo Stagirita che l’anima è la forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ora, tale sostanza è atto e pertanto l’anima è atto del corpo, cioè di una quantità di potenzialità materiale. Ovviamente tutto ciò implica che il corpo non possa sussistere in vita senza l’anima. Una volta appurato ciò, Aristotele passa ad analizzare un terzo elemento, dopo aver riflettuto su anima e corpo come unione di forma e materia, atto e potenza.

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L’elemento in parola è dato dalla inferenza secondo cui a seconda della propria specie l’anima assume diverse forme e diverse funzioni, ciò in quanto pur essendo la forma animica sempre uguale a sé stessa, accade che nella pianta, negli animali e nell’uomo la sostanza agisca in maniere differenti, e ciò a causa del tipo di materia cui l’anima dà vita e alle abilità di questa materia, che come detto può essere umana, animale e vegetale.

Detto ciò la parte che Aristotele considera più alta nell’anima è definita, forse sulla scia di Platone, “il luogo delle forme”, che secondo Aristotele e a differenza di Platone, si trovano non in un luogo esterno all’individuo ma nell’anima, che però rispetto alle forme è vista come in potenza poiché pian piano ne acquisisce conoscenza, fino a giungere al punto in cui la conoscenza delle forme si completa e l’anima diviene capace di pensare a sé stessa. Il culmine della filosofia aristotelica è proprio nella capacità del soggetto di pensare a sé stesso nell’atto di pensare e questo avviene nella parte cognitiva dell’anima, che Aristotele considera la più nobile. Per quanto detto Aristotele afferma, riguardo all’intelletto, che c’è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le cose che conosce e un intelletto che tutte le cose produce nel senso di richiamarle alla mente, e questo intelletto è separabile, impassibile e non mescolato perché contiene l’atto per essenza. Nella conclusione finale Aristotele mette da parte il discorso sull’intelletto e torna a parlare dell’anima in quanto sede della conoscenza formulando un principio di importanza capitale: “che in definitiva la conoscenza implica una sorta di compenetrazione tra gli oggetti della conoscenza, cioè la scienza è in certo modo l’oggetto della scienza; la sensazione è in certo modo l’oggetto della sensazione; occorre perciò ricercare come ciò si verifichi”.

Capitolo II. La natura dell’uomo: anima e corpo

Relativamente al termine “sostanza” Tommaso prosegue affermando, sempre in nota ad Aristotele, che il termine sostanza si può intendere in due sensi. Nel primo si dice sostanza la quiddità di una cosa, cioè sempre il “che cosa è in sé”, che viene

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espresso attraverso le definizioni, di fatto diciamo che la definizione costituisce l’essenza delle cose, cioè la sostanza; e ancora che questa sostanza che per i Greci ha nome “usìa”, noi possiamo chiamarla essenza. Secondo, si dice sostanza il soggetto o supposto che esiste nel predicamento della sostanza, ossia ciò che inerisce ad una determinata sostanza pur non essendone l’elemento costitutivo. La sostanza viene designata anche con tre nomi che esprimono la realtà naturale, la sussistenza e l’ipostasi secondo tre diversi aspetti che la sostanza può assumere quale realtà concreta. Cioè in quanto sussiste in sé stessa e non in un altro soggetto si dice sussistente. In quanto fa da presupposto ad una natura presa nella sua universalità si chiama “realtà naturale”, e in questo senso il singolo uomo rappresenta la realtà naturale della natura umana. In quanto infine fa da supporto agli accidenti si dice “ipostasi” o “sostanza”.

Bisogna però notare che mentre per Aristotele la costituzione metafisica dell’ente è data da materia e forma, o da atto e potenza, per San Tommaso l’essere è composto anche da essentia e actus essendi. Se l’originalità di Tommaso è indiscutibile bisogna però ricordare che già un Boezio sostenne che l’essere ideale astratto non esiste; però l’essere esiste, realmente distinto, nel sinolo id quod est, in cui l’id quod riceve sopra di sé la essendi forma, cioè partecipa dell’essere.

Se si opera poi un confronto tra la dottrina tomistica dell’anima e quella attribuibile ad esempio ad un Sant’Agostino, si nota che per quest’ultimo l’anima è “una particella di ragione” strutturata nel senso di “reggere un corpo”, il che sarebbe come dire dare ad esso la vita e la vitalità.

Tornando ad Aristotele questi, per spiegare il processo di conoscenza distingue un intelletto attivo da un intelletto passivo lasciando così problematico il rapporto così concepito con l’anima che è forma del corpo. Poiché questo passo dello stagirita è ambiguo, fiorirono nel corso dei secoli possibili soluzioni alla problematica che sempre lo stagirita aveva lasciato irrisolta, ad esempio la soluzione proposta da Alessandro di Afrodisia, ma anche quella di Temistio, risalente al IV secolo d.C.

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Se dai Greci passiamo ai commentatori di lingua araba, come Avicenna, possiamo affermare che costui sostenne che l’intelletto sarebbe una sostanza eterea, quindi invisibile e indipendente dal corpo. Rileva in particolare la seguente affermazione del filosofo musulmano, il quale afferma che l’oggetto dell’intelletto non è l’universale o “gli” universali, ma una serie di oggetti non divisibili, e tuttavia rispetto all’intelletto infiniti perché se si passa da ciò che è universale e quindi “uno” alla potenzialità leggibile dall’intelletto attivo, il risultato è l’infinità degli oggetti, infinitamente conoscibili proprio perché infiniti. In definitiva Avicenna conclude che l’anima umana, in quanto capace di conoscenza grazie all’intelletto, è legata al corpo da una affectio ossia affinità o per meglio dire “aderenza volontaria” che la porta ad avere cura del corpo e a governarlo.

Questo modo di intendere Aristotele da parte di Avicenna fu però criticato duramente da un altro grande commentatore arabo, cioè Averroè. Per Averroè l’intelletto materiale, cioè in potenza, poiché è assolutamente incorporeo ed indipendente dal corpo non è la forma del corpo umano ma una sostanza separata unica per tutta la specia umana. Tuttavia San Tommaso si era reso conto del fatto che ipotizzare l’esistenza di un inteletto capace di conoscere e discernere, che fosse separato dal corpo, poteva condurre a negare il comportamento morale dell’uomo. Se infatti quest’ultimo avesse dovuto addebitare ad un qualosa di esterno al “sinolo”, cioè all’unione inscindibile di forma e potenza, di atto e materia, la propria capacità di conoscere e discernere, allora anche i comportamenti peccaminosi non avrebbero potuto essergli attribuiti, e quindi l’uomo avrebbe perso il proprio senso morale, divenendo impossibile, a causa della propria irresponsablità, attibuire all’uomo meriti o demeriti.

E’ per questi motivi che l’Aquinate non accetta l’interpretazione di Averroè e di altri. Secondo Tommaso l’anima umana è pura forma, non un composto di materia e forma. Per giustificare questa affermazione Tommaso richiama Aristotele, attraverso la mediazione di Avicenna e dice: il principio intellettuale che chiamiamo

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spirito o intelletto ha un’attività a cui il corpo non partecipa. Non può operare per sé se non ciò che sussiste per sé. Si noti come dal punto di vista teologico il problema è di vitale importanza in quanto se l’anima sussiste per sé si può ipotizzare che sia immortale; se non sussite per sé essa ricade nel mondo della materia e dunque è soggetta alla morte al pari del corpo, cui peraltro dà vita. Il problema fondamentale che San Tommaso si pone rispetto all’anima è dimostrare che essa è capace di susssistere anche indipendentemente dal corpo. Al fine di dimostrare che l’anima abbia una sua sussistenza, un suo essere che, pur legato al corpo non si risolva in esso, Tommaso torna ancora una volta a consultare lo Stagirita. Così: “Bisogna che l’anima intellettiva operi per sé, in quanto dotata di propria attività, senza nulla di comune col corpo. E poiché ogni cosa opera secondo ciò che è in atto, bisogna che l’anima intellettiva abbia un essere autonomo che non dipende dal corpo”. In conclusione: forma e sostanza possono dirsi ambedue a proposito dell’anima in quanto le due parole definiscono aspetti diversi di questa. “Forma” in quanto fonte della vita e quindi datrice di essere, “sostanza” in quanto fonte e sede dell’operazione intellettiva che è tipica della specie umana.

Se è vero che in natura a volte si può trovare un ente privo di potenza ma interamente atto, è altrettanto vero che un ente, cioè qualcosa capace di movimento autonomo, privo di atto ma esclusivamente in potenza non è dato esistere in natura. E da ciò si può concludere che l’atto puro perfetto è solo Dio. Questi non ha determinazioni che lo limitino: è solo atto, puro essere, il solo vero “essere”. Nella gerarchia della Creazione un atto è perfetto quanto più vicino a Dio. Ma fra tutte le creature si avvicinano maggiormente a Dio solo le sostanze spirituali. Queste ultime ovviamente non hanno necessità di un “sostrato di materia prima” poiché sono interamente spirituali, poiché questa è la loro natura. Questa è la natura non solo delle sostanze eteree come gli angeli, ma anche di parte dell’uomo, cioè dell’anima e dell’intelletto. Ma se l’operazione e la cosa intelletta sono entrambe spirituali, come accade nella intellezione/incontro di una sostanza angelica, allora anche il luogo dell’intellezione è spirituale. Così l’intellezione di Dio o “atto primo” è

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possibile solo all’anima, cioè soltanto ad una forma di essere che è puramente atto. Afferma l’Aquinate che tutto ciò che esiste, dunque dopo il Primo Ente, cioè Dio, non possedendo il proprio essere, riceve quest’ultimo per emanazione. E così in una qualsiasi realtà creata, una cosa è la natura della realtà, che partecipa dell’essere; altra cosa la natura dell’essere che viene partecipato dalla realtà e che di quest’ultima, direbbe Sant’Anselmo d’Aosta, è la causa prima e incausata, cioè Dio.

Per tornare alla concezione dell’anima in San Tommaso, quest’ultimo specifica che l’anima è una forma particolare che si differenzia dalle altre in base alla propria sostanzialità. Così: “La forma accidentale si differenzia da quella sostanziale perché quest’ultima fa sì che una realtà sia qualcosa di concreto, mentre la forma accidentale sopravviene in una realtà che già esiste come qualcosa di concreto.” Ancora: “La differenza tra un corpo non dotato di anima e uno animato non deriva infatti, dall’avere l’individuo animato una forma, sotto cui sta quella sostanziale del corpo, ma è dovuta al fatto che l’individuo animato ha una forma più perfetta, che gli consente non solo di sussistere e di essere un corpo, ma anche di vivere; l’altro invece ha una forma più imperfetta, per cui non raggiunge il livello della vita ma solo quello della sostanza corporea”.

Sul problema della materialità o immaterialità del processo del conoscere Tommaso afferma che perché l’uomo sia quello che è deve poter pensare, conoscere, ma affinché questo avvenga è necessario che l’operazione intellettiva, non avvenga nella materia ma solo nell’intelletto, dato che l’operazione fondamentale dell’intelletto consiste nell’apprendere gli universali. Questi ultimi poi, essendo immateriali, non possono essere nella materia del corpo, ma solo nell’intelletto. Pertanto l’operazione propria dell’uomo, cioè il conoscere, non può che essere anch’essa immateriale e svolgersi in un luogo anche esso immateriale quale l’anima. Ma il problema di come collegare l’intelletto ad un individuo determinato rimane. A questo proposito San Tommaso fa riferimento ad una distinzione: quella tra “conoscere in atto” e “conoscere in potenza”. Per Tommaso la facoltà conoscitiva si

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radica nell’anima e concorre a determinarne la qualità, il “che cos’è”. Ancora Tommaso afferma che l’essere dell’anima trascenda la materia corporea e non ne sia totalmente inglobata ma tuttavia in qualche modo sia in contatto con essa.

L’anima peraltro sussiste per sé medesima, cioè la capacità di sussistere in sé e non in altro. Ma gli enti che propriamente sussistono nel mondo sensibile sono naturalmente composti di materia e forma. In un solo caso le cose stanno diversamente, in quello cioè della sostanza uomo, in cui il soggetto della sussistenza non è il composto, il sinolo, ma unicamente la forma che può sussistere di per sé. L’uomo così descritto è dunque il punto di incontro tra mondo della materia e mondo immateriale, il luogo in cui la prima entra in contatto con il secondo e da questo riceve la vitalità e la vita.

Ad un certo punto della propria attività speculativa, sempre relativamente all’anima, Tommaso si interroga sulla questione se l’unione tra anima e corpo abbia bisogno di un intermediario. Il tema principale della riflessione tommasiana su questo punto è infatti la modalità dell’unione dell’anima con il corpo. La conclusione per Tommaso è che l’anima è unita al corpo senza necessità di intermediari. Infatti ogni forma è unita a una materia o soggetto. Ogni cosa infatti è una sola per lo stesso motivo per cui è ente. In quanto invece l’anima è la causa dei movimenti del corpo, essa sola o massimamente una per ogni corpo, ciò impedisce l’esistenza di molte anime cioè di molti intermediari in un solo corpo: è evidente infatti che l’anima muove le altre membra attraverso il cuore e anche che attraverso lo spirito muove il corpo.

Sempre interrogandosi sulla sostanza animica Tommaso giunge alla conclusione che “di un individuo concreto non vi è altra forma sostanziale che l’anima razionale e grazie ad essa l’uomo non soltanto è uomo, ma anche animale, vivo, corpo, sostanza ed ente. Il che si può così argomentare: la forma è impronta di agente nella materia”.

La conclusione di tutta la precedente riflessione di Tommaso è che:

- L’anima esiste come sostanza spirituale.

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- E’ intimamente collegata al corpo.

- Non necessità di intermediari tra essa e il corpo.

In fine alla riflessione tommasiana sui rapporti dell’anima con il corpo si può operare, come da parte di Tommaso, un’ultima distinzione, quella tra tre principi che presiederebbero al rapporto tra l’anima e il corpo. Il primo principio è quello relativo al livello quantitativo, “non attribuito alle forme se non accidentalmente, per cui le forme che richiedono una grande estensione delle parti corporee possono non avere tale estensione e tipo di totalità”.

Un secondo tipo di totalità si rinviene in rapporto alla perfezione dell’essenza, alla cui totalità corrispondono le parti dell’essenza stessa, fisiche, nelle cose composte, la materia e la forma, ovvero logiche, il genere e la differenza.

Il terzo tipo di totalità riguarda per Tommaso la capacità operativa, per cui noi diciamo che è Socrate che mangia e non solo la sua bocca.

Nell’analizzare i tre modi di rapportarsi alla totalità, Tommaso esclude sicuramente il primo, dato che l’anima non ha una estensione materiale ed esclude il terzo perché la capacità operativa dell’anima eccede la capacità del corpo. Pertanto non rimane che la seconda soluzione: “non rimane dunque che la si possa dire tutta intera in ciascuna parte del corpo semplicemente secondo la totalità della sua essenza”.

L’essenza, che ci dice ciò che una cosa è, non può che essere nel corpo secondo una totalità che rimanda alla sua perfezione, riconoscendo che essa eccede le possibilità del corpo e che c’è un “resto”, una parte dell’anima, che trascende il corpo.

Capitolo III. La sostanza

In questo capitolo lo scrivente tenterà di analizzare, sulla scia delle considerazioni di Monsinor Simonetti, necessariamente propedeutiche alla riflessione sull’anima in San Tommaso, quale differenza corra tra i due termini “anima” e “sostanza”, che sono già stati nominati e in parte definiti nel presente lavoro. Poiché oggi il termine

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“sostanza” ha significati molto diversi da quelli usati nella metafisica medievale, o non è usato per nulla, bisogna ricordare che per San Tommaso, come per Aristotele prima di lui, la sostanza è l’oggetto dello studio della metafisica e che esso termine specifica ciò che i latini chiamavano “ens” cioè “essere”. La distinzione tra essere ed “essenza” è la caratteristica propriamente originale del pensiero di Tommaso rispetto a quello di Aristotele. L’Aquinate divide concettualmente la sostanza in “sensibile” e “immateriale”, in questo modo ponendo una distinzione tra “cosa reale” e sua “essenza”. Su queste basi Tommaso conclude che da un lato l’essenza non si identifichi con l’oggetto corporeo cui dà vita e movimento, e che di conseguenza in una sola entità essere ed “essenza” coincidono, cioè in Dio, il quale per parte sua non ha un corpo, ma è essenza allo stato puro, e quindi mancando in Dio un sostrato materiale si può dire che la nozione di sostanza non sia idonea a descriverlo.

Se in una ipotetica scala distinguiamo ciò che è più distante dal totalmente reale, l’”ens rationis”, che non ha alcuna esistenza nella realtà, e ponendo questo per primo, in senso discendente e in secondo luogo viene l’ente in potenza che può essere condotto alla realtà in un processo del divenire e ai piedi di questa ipotetica scala sta l’ente accidentale che non esiste per sé ma sussiste in altra cosa. Il grado più alto dell’ente è quello della cosa che esiste per sé. La sostanza è prima nella “scala” dell’essere ed è semplicemente ente “per sé”. Dice l’Aquinate: ”Il nome sostanza non significa soltanto essere “di per sé” poiché l’essere, come si è visto non può essere di per sé un genere: sostanza indica appunto l’essenza a cui compete di essere in tale modo, cioè di esistere per sé. Tuttavia questo essere non è la sua essenza medesima”.

La sostanza dunque è ciò che, esistente di per sé, è interessato dagli accidenti, questi ultimi non sussistenti di per sé ma soltanto attributi transeunti della sostanza. Ovviamente se si parla di sostanza per indicare un qualcosa che potrebbe in altro modo essere definito “anima” o principio vitale, la sostanza in questione non è

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direttamente conoscibile ad occhio nudo perché la visione attiene all’ordine della “conoscenza sensibile” mentre l’anima o sostanza fa parte dell’ordine di ciò che è, cioè del dominio dell’essere. In altre parole le cose esistono in sé e per sé prima di esistere per l’uomo.

Se poi si cerca di capire la differenza tra uomo e sostanze meramente spirituali, come gli angeli, ci si rende conto che queste ultime sono prive di essere, in quanto sono costituite soltanto dalla propria essenza, non vi è alcuna composizione di materia e forma, in quanto in esse è presente soltanto la forma. Tuttavia questo esistere privo di materia solo per le forme separate, ovvero gli angeli, è motivato dalla constatazione che nelle sostanze immateriali non vi è alcuna composizione di materia e forma, come invece per l’uomo.

Questa concezione metafisica ha avuto delle conseguenze fondamentali in teologia a proposito della natura di Cristo, che nella versione ufficiale della Chiesa è un unico soggetto dotato di due nature: l’umana e la divina. Dalla controversia nestoriana sulla natura del Cristo nacque l’attenzione su cosa costituisce l’essere di una persona. Secondo l’interpretazione tomista “il fatto di essere una persona e di possedere un’esistenza sussistente si aggiunge all’essenza individuale in modo tale che essa diventi un soggetto che esiste per sé e esercita l’esistenza come sua attività fondamentale”.

L’argomento specifico di San Tommaso nella spiegazione della congiunzione dell’anima sensitiva e intellettiva dell’uomo è molto semplice: “E’ proprio dello stesso uomo che percepisce di capire e di sentire: e il sentire non avviene senza il corpo”. Cioè diremmo noi, senza l’anima sensitiva che governa il corpo.

E, vorrei aggiungere, è per questo che l’anima non può essere vista ictu oculi ma soltanto definita per via indiretta, ad esempio in quanto fonte del movimento. Altra riflessione tommasiana sulla differenza ma anche complementarietà tra anima e corpo è che, sebbene tutte le anime siano uguali quanto agli attributi innati di ciascuna, esse si differenziano solo relativamente al preciso corpo in cui sono

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presenti, il che rende l’unione dell’anima con un determinato corpo, un sinolo inscindibile ed anche un qualche cosa di irripetibile.

Dalla critica fatta dai suoi detrattori alla dottrina di Tommaso sull’anima, secondo cui il concetto di causa formale non esiste nei filosofi precedenti, scaturisce l’affermazione seguente: “Ogni realtà naturale ha la “sostanza”, ossia la forma della parte; e l’essenza, vale a dire la “quiddità”, che è la forma del tutto. La forma è il principio dell’essere e del sussistere; l’essenza il principio del conoscere, dato che con essa si sa cosa sia davvero “la cosa”.”

Relativamente al confronto con Aristotele, in Tommaso l’uso del termine “sostanza dell’anima” e “forma” riferito all’anima è differente dall’uso dello stesso termine in Aristotele, in quanto Tommaso, a differenza di Aristotele, attribuisce all’anima la definizione di “forma” e “sostanza”. Tommaso utilizzerà spesso il termine “sostanza” riferito all’anima. Nella sua opera scritta in polemica con Averroè, “Unità dell’intelletto contro gli averroisti”, Tommaso critica la concezione dell’intelletto umano propria di Averroè, il quale sosteneva che l’intelletto umano passivo, che lui chiama materiale perché le sue operazioni entrano in contatto con il mondo sensibile, non può essere una facoltà dell’anima in quanto quest’ultima è solo forma del corpo. L’intelletto quindi per Averroè non giacerebbe nell’ anima ma sarebbe qualcosa da essa anima separata.

Analizzzando le parti dell’anima in ordine alla corruttibilità Tommmaso riconosce che solo l’intelletto ha un genere diverso dalle altre parti dell’anima, per sé stesse corruttibili, così accogliendo in parte ma non nella sua totalità, l’obiezione di Averroè, ma anzi modificando i principi di quella riflessione per renderli adatti a quanto sostiene a proposito dell’anima. Scrive quindi Tommaso:” L’intelletto sembra essere qualcosa di perpetuo, mentre le altre parti dell’anima sono qualcosa di corruttibile. E poiché corruttibile e perpetuo non sembra possano appartenere ad una unica sostanza, pare che solo l’intelletto, tra le parti dell’anima, possa essere separato, conservando una propria corruttibilità non certo dal corpo ma dalle altre

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parti dell’anima, pur non potendo appartenere all’unica sostanza dell’anima, che è, come detto, la forma animica.

Sempre in polemica con Averroè, che come abbiamo detto sostiene la materialità dell’intelletto, Tommaso sostiene che ciò che opera è tutto il composto, a causa della forma poiché, se non vi fosse forma non vi sarebbe movimento, ma neanche la forma è per sé stessa in quanto affinché via sia la vita occorre che la forma si leghi alla materia inerte. Tuttavia c’è un caso particolare: l’anima. Questa è una forma speciale. Si tratta non di una forma comune ma di una forma sostanziale che possiede l’essere per sé stessa e non grazie al composto “materia/forma”. E’ poi una forma particolare perché è il principio dell’essere sostanziale. Così l’anima ha l’essere di per sé ed è in grado di attualizzare il corpo. Andando oltre quanto appena detto diciamo che per Tommaso, come per Aristotele, la forma, come atto della sostanza materiale può assumere due modalità, nettamente distinte: una modalità permanente e fondante, che pone la sostanza entro una determinata specie e una modalità variabile ed effimera e allora si tratta di una forma accidentale. Come già accennato in Tommaso la dottrina aristotelica viene ripresa quasi integralmente ma con alcuni aggiustamenti che fanno dell’opera di Tommaso un qualcosa di originale. In particolare la forma viene definita atto della materia. Questo atto della materia è detto “atto primo”, mentre gli atti secondi sono le operazioni. Ogni carattere è collocato nel proprio genere o nella propria specie dalla forma. Il motivo dunque dell’affermazione che l’anima è una forma speciale, è che l’anima e le sue operazioni nella parte più alta trascendono la corporeità, nel senso che nella parte più alta non hanno più a che fare con la materialità. In altre parole se è vero che nella norma la forma sostanziale dà l’essere in modo assoluto e corrisponde all’atto primo, nell’anima dà luogo anche all’atto secondo che Aristotele riteneva svincolato dalla forma in quanto puro atto materiale del conoscere la realtà secondo i sensi. Ora l’atto secondo, cioè la forma materiale o accidentale appartiene allo stesso dominio sostanziale dell’anima, ciò che non potrebbe avvenire se l’essere fosse soltanto un aggregato di atto e materia, inscindibile grazie alla forma. Questa concezione

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dell’anima come forma speciale, cioè indipendente dal corpo e sussistente anche al di là dell’unione di forma e materia, di atto e potenza, porta però ad un grande interrogativo del sistema tomistico, cioè come può conoscere e pensare un’anima staccata dal corpo a causa della morte di quest’ultimo? Tommaso risolve il problema facendo riferimento alle sostanze angeliche, il cui modo di intendere e di ragionare è simile a quello dell’anima privata del corpo. L’errore degli averroisti è secondo Tommaso quello di ritenere la facoltà dell’“intendere” come connesso ad un principio universale trascendente, mentre l’anima è un princpio immanente, il primo non concepibile al contrario del secondo.

Per tornare alla questione della definizione dell’intelletto passivo ricordiamo che secondo la filosfia aristotelica, esistono nell’anima due forme di intelligenza. Una è quella recettiva che astrae dalla realtà i concetti, l’altra è quella attiva, che astrae le forme intelligibili dalle immagini sensibili prodotte dalla fantasia. Aristotele definisce queste due forme di intelletto l’una “intelletto possibile”, l’altra “intelletto agente”. Tuttavia la facoltà sensoriale è più del corpo che dell’anima. Nell’anima a differenza dell’intelletto non può esservi nulla che non le appartenga. L’intelletto possibile è dunque solo una delle capacità dell’anima razionale, quella che la fa essere in potenza relativamente agli intelligibili. Esiste come detto un’altra capacità, chiamata intelletto agente, che ha un compito specifico, cioè rendere possibile l’operatività del corpo.

Ricapitolando i vari passaggi, tutto comincia dalle sensazioni, cioè dalle percezioni sensoriali delle cose. Tutto ciò che è filtrato dalla coscienza viene a collocarsi in quel tipo di facoltà detta “senso comune”. Questa facoltà riunisce in un solo oggetto tutte le svariate percezioni dei sensi esterni. L’oggetto così unificato passa alla facoltà immaginativa che ne produce un’ immagine. In questa immagine è presente l’intelligibile. Il passaggio successivo è quello della prima astrazione, il primo atto dell’intelligenza, chiamata apprensione semplice, con cui l’intelletto astrae un nuovo dato, che non fa più parte dell’esperienza sensibile: è l’essenza stessa delle cose,

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quella che rende unica ciascuna di esse. L’ultimo passaggio è quello che porta dalle idee astratte al vero e proprio concetto. Questo è anche il compito dell’intelletto agente.

Il discorso di Tommaso prosegue sposando la tesi aristotelica, ed egli afferma che le essenze non sussistono di per sé, come invece sosteneva Platone, e risiedono in un mondo ultrasensibile, ma derivano dall’anima che le astrae per via dei passaggi che abbiamo descritto, dallo stesso mondo sensibile.

Un’altra caratteristica dell’essenza dell’anima è che, sebbene essa non faccia necessariamente parte del corpo, tuttavia l’anima per sua essenza ha un rapporto col corpo, in quanto le è essenziale l’essere forma di un corpo. E’ per questo che nella definizione dell’anima si pone il corpo.

Per quanto riguarda più nello specifico il rapporto tra inteletto passivo e intelletto agente, ciò che preme a Tommaso è definire, a questo punto del discorso, gli attributi dell’intelletto agente. L’intelletto agente riceve da quello passivo un’immagine e con una operazione di astrazione trae fuori dall’immagine l’essenza intelligibile. Al di là di questo intelletto – la dimostrazione della cui esistenza è palese in Tommaso ma tralasciabile in questa sede per esigenze di brevità – intelletto puro, perfetto e immobile, identificato con una sostanza separata, sta la concezione di essere “per partecipazione”, nella sua applicazione all’intelletto.

Il fatto che due intelletti si rapportino agli stessi intelligibili in due modi diversi, l’agente come atto e il possibile come potenza esclude la loro coincidenza con la sostanza dell’anima. L’intelletto agente viene identificato con l’intelletto separato o comunque partecipa di esso intelletto.

Il ragionamento di Tommaso è chiaro: il nostro essere è un essere per partecipazione, ma deve esistere una partecipazione anche a livello dell’azione tipica dell’intelletto, il pensare, l’intelligere. L’intelletto, sia come possibile, sia come agente è una partecipazione dell’intelletto divino da cui è separato

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cronologicamente, mentre ontologicamente, essendo forma di un corpo che esercita autonomamente l’atto d’essere, partecipa della natura dell’essere che sussite per sé stesso, cioè Dio.

L’intelletto agente, così pur nella sua partecipazione è parte integrante dell’anima, di ogni singola anima, pertanto è molteplice come sono molteplici le anime. Insieme all’intelletto passivo, l’intelletto agente concorre alla definizione di cosa sia anima. Si dice “concorre” perché è parte, non è tutta l’anima dato che alla definizione di questa concorre anche il corpo.

Per continuare con il nostro commento delle questioni tommasiane va ricordato che Tommaso attribuiva all’essere umano dotato di anima due prerogative: la prima è quella di essere incapace di far coincidere l’essenza, cioè l’anima con l’operatività dell’essere nel mondo sensibile, ma che tale coincidenza opera solo in Dio. Solo nell’essere completamente in atto, si identifica l’essere con l’essenza e questa con l’operare. Negli altri enti l’essere non coincide con l’operare in quanto la realtà è prima conosciuta e poi modificata, secondo la successione di “forma percipiente” e “corpo operativo”. Il problema è dato dal fatto che il pensare e il volere non sono semplici accidenti ma sono connaturati all’anima razionale. Oltre a ciò l’anima conosce gli “accidenti”. Per accidente si intende ciò che non è in sé ma risiede in un'altra cosa che funge da soggetto. Fatta questa premessa occorre dire che per la sostanza “anima” Tommaso parla di qualcosa di intemedio tra la sostanza e l’accidente, vale a dire il predicato sostanziale e quello accidentale, ed è il predicato proprio. Quest’ultimo è simile ad una terza realtà tra sostanza ed accidente, in quanto ha in comune con la sostanza il fatto che è causato dai principi essenziali; ha qualcosa dell’accidente perché è qualcosa in parte estraneo all’anima o essenza.

Capitolo IV

Nella sua lettura di Aristotele Tommaso opera una analisi coerente con i principi dello Stagirita e cerca la comprensione dell’essere umano attraverso il suo

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comportamento, il suo operare. Nel pensiero tomista, che si distanzia sia da Avicenna che da Averroè, esistono due piani dell’essere degli enti creati o di natura: l’essere propriamente detto e l’essenza. L’essenza si compone di forma e materia. La forma ha due funzioni: dà la specie ed è artefice dell’unità con il corpo. E ciò porta alla nozione di anima, che non inerisce alla materia ma è creata e sussistente. Il motivo per cui è necessario che l’anima, come forma, abbia una sua sussistenza autonoma, è da ricercare nel fatto che le forme il cui essere dipende dalla materia non hanno una attvità per sé, il che sarebbe a dire che sono prive di movimento e non operano nella realtà. A differenza di Platone Tommaso afferma che l’anima non è un qualcosa di estraneo al corpo che a un certo punto entra in esso corpo, ma è connaturata al corpo in quanto pricipio del movimento corporeo.

Ne conseguono alcune proposizioni:

- L’anima è ciò per cui il corpo vive.

- L’anima e la vita sono l’essere del vivente.

- L’anima è ciò per cui il corpo ha l’essere/vita in atto.

- L’essere in atto è la forma.

- L’anima è la forma del corpo.

Afferma ulteriormente Tommaso:” L’anima è qualche cosa di concreto capace di sussitere per sé, non nel senso che abbia in sé la specie completa, ma nel senso che essa è, in quanto forma del corpo, la piena determinazione della specie umana”. E ancora: “Si può conoscere il modo di essere dell’anima umana dalla sua attività. In quanto essa ha un’attività che trascende le cose materiali e il suo essere si eleva al di sopra del corpo e non dipende da questo”. In ultimo Tommaso afferma anche: “Le forme degli elementi che sono le più basse e le più vicine alla materia non hanno alcuna operazione che vada al di là delle qualità attive e passive. Al di sopra di queste ci sono le anime umane che somigliano alle sostanze superiori anche nel genere di conoscenza, poiché possono conoscere le realtà materiali attraverso il pensiero”.

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Per quanto poi l’anima sia in parte “materiata” in quanto forma legata alla materia del corpo, Tommaso ci dice che l’anima non si lascia mai abbracciare totalmente dalla materia. Ed è per questo motivo che l’essere “uomo”, composto di corpo e anima è qualcosa di eccezionale, nel contesto del creato. Se è vero che l’anima è atto del corpo e non può esserci in essa materia, tuttavia, a causa della sua eccezionalità, troviamo che essa si lega al corpo. Così è comunque possibile che l’anima sia forma del corpo ma potenza rispetto ad un altro ente, e ciò in quanto essa, insieme al corpo, costituiscono un qualcosa di irripetibile, conservando le stesse caratteristiche. Tommaso afferma anche che, ciò che si corrompe a seguito del decesso non è né la materia né la forma ma il sinolo, cioè il composto. Inoltre essendo l’uomo pensante a volte in atto, altre volte in potenza, vi è la necessità di dedurre che in esso vi sia un principio che gli consente di essere in potenza, cioè dotato della facoltà di conoscere le cose intelligibili della realtà. Questo principio è definitio dall’Aquinate “intelletto possibile”.

Si pone poi la questione se l’”intelletto possibile” sia uguale per tutti o se ogni ogni anima abbia un proprio intelletto possibile. Tommaso risponde alla questione affermando che l’intelletto possibile non può essere unico ma, poiché condivide con il corpo un unico essere sarà unito al corpo, cioè alla materia. Quindi, inerendo singolarmente ad ogni corpo anche l’intelletto possibile sarà molteplice.

Anche l’anima è molteplice, una per ogni essere vivente, e ciò in quanto, afferma Tommaso, pure essendo l’anima completamente atto essa realizza pienamente sé stessa soltanto in unione con il corpo. Non è perciò possibile pensare un’anima concreta ed individua, senza che sia unita insieme a un corpo. E’allora possibile affermare che l’anima è “una in sé stessa” ma molteplice in ragione della relazione con corpi diversi.

Ritornando al binomio già trattato tra intelletto possibile e intelletto “agente”, vale per quest’ultimo quanto già detto, cioè che non è sufficiente il solo intelletto possibile affinché l’anima possa acquisire la conoscenza della realtà. Insieme

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all’intelletto possibile l’anima compie due operazioni sulla realtà: da un lato è in potenza a tutte le specie intelligibili in virtù dell’intelletto possibile; dall’altro l’intelletto agente rende possibile la conoscenza attraverso una operazione simile a quella della forma che tramuta la potenza in atto.

Si pone poi la questione se l’anima sia composta da materia e forma, questione che Tommaso risolve attribuendo all’anima una totale spiritualità. Per dimostrare ciò l’Aquinate introduce il principio della localizzazione, e cioè il principio secondo cui solo ciò che è suscettibile di localizzazione è veramente corporeo e materiale. Ma l’anima ha una capacità di importanza fondamentale. Se infatti consideriamo l’anima nella sua totalità dobbiamo escludere una composizione di materia e forma, infatti se anche l’anima condividesse una natura materiale, anche solo in parte, allora essa non potrebbe dar vita alla materia, cioè al corpo, in quanto essa sarebbe come quest’ultimo soltanto materia e quindi “potenza” anziché essere forma e quindi atto.

Inoltre nelle sostanze composte di materia e di forma, come il corpo umano, noi troviamo tre componenti, vale a dire la materia, la forma e l’essere, il cui principio è la forma. Nulla quindi impedisce che vi sia una forma legata al proprio essere, anche se quest’ultimo è in qualche modo legato alla materia. Insomma Tommaso parla di una essenza materiale cui l’essenza formale dà vita e movimento. E in ciò l’Aquinate paragona l’essere umano alle sostanze angeliche.

E tuttavia Tommaso nega che vi sia un’identità di specie tra angelo e anima. Infatti se l’anima è una sostanza incorporea, per il fatto di essere legata al corpo differisce dalla sostanza angelica in quanto quest’ultima non ha un corpo materiale. Al pari però dell’anima, non visibile ad occhio nudo e quindi definibile soltanto per via di negazione, anche le sostanze angeliche, non visibili, non possono che essere definite attraverso una serie di negazioni.

Pur affermando, per tornare alla definizione e alla operatività dell’anima, che essa si lega al corpo senza intermediari, Tommaso ipotizza però una terza forma o elemento che consenta 

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l’unione dell’anima al corpo e il principio di movimento. Si tratta di un qualcosa che Cartesio identificò con la ghiandola pineale, e che oggi molti competenti identificano con il cervello, considerando quest’ultimo una sorta di “interfaccia” tra l’anima e il corpo. Accedendo alla definizione aristotelica di “natura”, Tommaso usa il termine natura in relazione all’anima, in vari significati: 

- Natura come principio di movimento e quiete.

- Natura come essenza delle cose.

- Se non c’è attività di movimento non c’è natura.

- Natura può venire detta di tutte le sostanze che possono nascere.

- Natura è il principio guida dell’universo.

Per continuare il discorso va detto, mi pare, che Tommaso introduce, sempre nel suo sforzo di definire l’anima, la seguente definizione: “Il corpo è disposto ad essere perfezionato dall’anima mediante l’azione di quest’ultima, che è causa efficiente del corpo”. E’ infatti l’anima ciò che determina le caratteristiche fisiche di un determinato essere corporeo. Ovviamente il concetto di causa “efficiente” è mutuato da Aristotele, ma se è vero che ogni anima ha un corpo, è più giusto porre il problema in questi termini piuttosto che dire che ogni corpo vivente, cioè dotato della facoltà di muoversi autonomamente, ha un’anima. Sulla questione poi, se l’anima sia in tutto il corpo interamente o solo in una o alcune sue parti, l’Aquinate risolve il problema attraverso il concetto di unità o essenza spirituale che non può, per la stessa definizione ad essa data di causa del movimento e quindi della vita di un corpo, trovarsi in una parte soltanto del corpo di cui è “ospite” ma che permea il corpo nella sua totalità. In questo senso Tommaso contesta anche il concetto di anima platonica, in quanto Platone pensava che l’anima sia unita al corpo solo come causa di movimento e non come forma, paragonando la sua presenza nel corpo a quella del marinaio sulla nave. Contro Platone Tommaso afferma: ”Poiché il genere è un predicato

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sostanziale, la forma secondo cui la sostanza individuale riceve la predicazione di genere, deve essere sostanziale. Così è necessario che l’anima sensibile sia una “forma sostanziale”, che si mescoli pertanto alla materia di cui il corpo è composto e che lo pervada in ogni sua parte, tutto ciò in forte polemica con Platone che riteneva l’anima una entità distinta dal corpo sebbene in esso contenuta. Per passare ad un’altra questione, Tommaso si interroga ulteriormente sui rapporti tra anima e corpo, giungendo a considerare quest’ultimo finanche un “accidente” dell’anima. Così ad esempio pur essendo l’anima una e uguale alle altre, potrà accadere che essa pervada un corpo stupido oppure intelligente, di salute cagionevole o dotato di robustezza e così via. Insomma il sussistere dell’anima non dipende dalle caratteristiche accidentali del corpo. Nel continuare la disamina delle caratteristiche operative dell’anima, Tommaso è costretto a riconoscere che nell’anima esistono dei “valori” potenziali, che sono mediati dall’intelletto agente e da quello passivo. Il processo intellettivo vede in questo modo una catena per cui dal senso, eccitato dall’oggetto, si risale alla astrazione della forma. E’ quindi proprio dell’anima comprendere l’essenza delle cose attraverso i sensi. Andando oltre nella speculazione, San Tommaso si domanda se l’anima sia immortale e questa domanda presuppone una soluzione al problema della dualità/unità intrinseca della persona umana, composta di anima e corpo e di come allo scioglimento dell’unione l’anima possa persistere. La conclusione cui il filosofo giunge è che possedendo un essere proprio, l’essere dell’anima non può corrompersi proprio in virtù di questo possedere un essere non legato al composto anima/corpo. Ma quale sarà il modo di conoscere dell’anima distaccata dal corpo? La risposta è che la conoscenza dell’anima fuori dal corpo è quella stessa delle sostanze separate: gli angeli. La caducità che interessa il corpo interessa anche gli accidenti, i quali non sono fatti della stessa sostanza animica ma sussistono in virtù di questa. In conclusione Tommaso giunge ad asserire che il principio intellettivo mediante cui

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l’uomo pensa, cioè l’anima attraverso la mediazione dei due intelletti di cui abbiamo parlato, è indispensabile che sia incorruttibile, altrimenti vi sarebbe assenza non solo di movimento negli esseri vitali, ma anche di un movimento razionalmente organizzato e operato. Relativamente ai rapporti tra anima e “sensi”, Tommaso afferma che, benché l’anima sia potenzialmente in grado di conoscere ogni cosa, essa deve comunque fare riferimento nell’atto del conoscere alle immagini filtrate dai due intelletti. Nella ipotetica condizione di separatezza dal corpo, Tommaso afferma che l’anima potrebbe conoscere allo stesso modo delle sostanze angeliche, il cui modo di conoscere la realtà e l’essere ci resta però ignoto. Proseguendo nella sua analisi della capacità conoscitiva dell’angelo e dell’uomo Tommaso afferma:” Circa la conoscenza delle cose singole l’intelletto dell’angelo e quello dell’anima si comportano in modo differente. La capacità intellettuale dell’anima separata non è proporzionata all’universalità delle forme infuse, perché lo è piuttosto alle forme tratte dalle cose, per cui è naturale all’anima essere legata al corpo”. Ciò che ovviamente non vale per le sostanze separate o angeliche, le quali sono più atte dell’anima a conoscere gli “universali”, anziché, come l’anima, i particolari. Si pone allora la questione se l’intelletto angelico possa conoscere i singolari. In proposito Tommaso afferma che è la materia a rendere peculiari, cioè “particolari” le forme nella maniera in cui esse sono saldamente legate. Ed è per lo stesso motivo che le sostanze angeliche avrebbero la facoltà di conoscere le sostanze universali anziché quelle particolari. Altra questione relativa alle sostanze angeliche è se l’angelo conosca insieme le cose materiali e le cose nel Verbo. Dice Tommaso: ”L’operare infatti non è attribuito propriamente alla potenza, ma alla realtà sussistente che opera mediante la potenza, in modo che la stessa potenza dell’intelletto non è operante nell’intendere, ma è piuttosto il principio dell’operazione; ora, come la potenza intellettiva diventa principio di intellezione per la stessa sostanza, così la specie intelligibile diventa il

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principio dell’intellezione per la stessa potenza: per cui come un’unica sostanza può avere diversi atti secondo potenze diverse, come l’anima insieme vuole e intende, così da un’unica potenza intellettiva possono uscire insieme atti diversi, se vengono uniti insieme a specie intelligibili diverse. Tommaso si domanda infine se l’anima sia una creazione di Dio oppure venga dal seme dell’uomo. La conclusione è che soltanto il corpo proviene dalla generazione naturale mentre l’anima è direttamente creata da Dio e infusa nel corpo. Oggi diremmo, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, che dalla mutazione dell’embrione umano, quando quest’ultimo è pronto a riceverla, l’anima viene infusa nell’essere direttamente da Dio. Quando l’embrione, a seguito del proprio sviluppo accrescitivo, raggiunge una piena ricettività, in esso viene infusa da Dio la “anima razionale”, la più perfetta fra le tre tipologie animiche definite da Aristotele, e cioè “anima vegetativa”, “anima sensitiva” e “anima razionale”, la presenza della quale ultima nell’essere umano non esclude la presenza delle prime due.