Le cristianità nazionali
La religione siriaca, grazie alla posizione geografica della nazione che le dà nome, non è un contesto religioso unitario a causa della labilità dei confini della regione interessata che sono nella parte orientale quelli che ne delimitano il territorio dalla Mesopotamia. Ad occidente invece l’apertura verso apporti culturali esterni è stata
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favorita ad esempio dal mondo greco o per meglio dire ellenistico o ellenizzato. Questa stessa labilità ovviamente nel corso dei secoli ha grandemente favorito scambi culturali anche con le suddette regioni mediterranee, scambi che ovviamente hanno influenzato anche la elaborazione teologica. Questa situazione sincretica impedisce la nascita di una chiesa nazionale, sia per i nestoriani che per i monofisiti, entrambi i gruppi fortemente presenti nel paese. Tuttavia una letteratura teologica e dogmatica siriaca nasce grazie all’apporto delle popolazioni stanziate tra i fiumi Tigri ed Eufrate e costituisce l’elemento di inconfondibile caratterizzazione della chiesa siriaca, in quanto elemento originale nella produzione e costruzione delle proprie opere di fede e della propria chiesa che è comunque ancora non definibile come chiesa “nazionale” per quanto detto.
Si è detto che la chiesa siriaca occidentale ha come religione il monofisismo, che inizialmente, dopo la condanna durante il Concilio di Calcedonia determinò sporadiche persecuzioni da parte dei Cristiani ortodossi. Ma il monofisismo è soltanto la base teologica che consentì la nascita della religione giacobita, ossia siriaca occidentale. L’immagine composita e pluri/culturale della Siria ebbe delle ripercussioni dapprima di vero e proprio scontro militare, nel senso di una guerra civile, tra il giacobismo, cioè un movimento affine al monofisismo e le altre fedi pure presenti nell’area e per i motivi che abbiamo detto. Uno scontro che poi col tempo si addolcì e si ridusse a meri conflitti disciplinari tra i vari esponenti delle molte fedi presenti nel paese. Durante i periodi di invasione da parte dei paesi limitrofi o da parte di potenze esterne alla regione il vero caposaldo e bastione del giacobismo furono i monaci, arroccati nel monastero Mar Mattai presso Mossul, insieme al quale l’altro luogo di culto per i giacobiti è la montagna sacra Tur Abdin nella Turchia sud orientale.
Dopo l’occupazione araba delle Siria e della Persia alla metà del VII secolo, la religione giacobita deve fare innanzitutto i conti con la pressione fiscale imposta alle fedi derivate dal cristianesimo, che viene raddoppiata col passaggio dalla dinastia
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omaiade a quella abbaside, e non risparmia neanche gli arabi convertiti al credo monofisita. A causa dell’entità del prelievo si verificano fenomeni di ripartizione dei tributi in ragione del reddito e della carica ricoperta all’interno della società. Coloro i quali sono preposti a posizioni gerarchiche superiori devono farsi carico di una maggiore entità di tributi. Gli islamici però non sono soltanto degli oppressori dal punto di vista fiscale. Essi spesso operano anche da pacieri quando si verificano contrasti all’interno delle chiese cristiane, cui i musulmani fanno da mediatori. Quanto alle relazioni da parte dei giacobiti con le altre chiese orientali, va detto che progressivamene si trovò modo di applicare un sistema di convivenza sia con i nestoriani, con i copti e con gli armeni, per quanto non manchino occasionali rotture, ad esempio con gli armeni. Verso i latini poi, durante le crociate, i giacobiti svilupparono buone relazioni.
Se il nuovo contesto imponeva, a causa della dominazione araba, l’assunzione dell’arabo come lingua d’uso, va detto anche che si assiste, sulle soglie del secondo millennio alla rinascita della letteratura siriaca che raggiunge i vertici teologici, poetici e spirituali del IV – VII secolo. Questa tendenza si ripresenta tra XI e XII secolo tra personalità di grande rilievo come il patriarca Michele e Gregorio Barebreo. Anche l’organizzazione ecclesiastica è al suo apogeo. Questa fioritura coincide con l’epoca della dominazione mongolica, ma l’adesione dei mongoli all’islam sconvolge la vita di queste comunità anche a causa della persecuzione di Tamerlano nel XIV secolo. Nel XVII secolo la struttura ecclesiastica appare fortemente ridimensionata e la base sociale ristretta e costituita da gente di scarsa cultura. Persecuzioni e ondate migratorie hanno infine particolarmente indebolito la chiesa siriaca giacobita, ma essa continua a restare significativa nell’India del Sud.
Per quanto riguarda la Chiesa siriaca orientale, nota col nome di nestorianesimo, la chiesa di Persia si riannoda al cristianesimo siriaco. Poiché i gruppi che praticano questa religione vivono nel territorio dell’impero persiano, sotto il dominio della dinastia sassanide, sono stati loro assegnati dei territori nei quali praticare la propria
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fede, in cui però sono presenti anche elementi ellenici e semiti. Tuttavia l’adesione al cristianesimo da parte dell’imperatore Costantino, pone il problema del sospetto di connivenza col nemico arabo, o pagano. Tale affermazione contiene un fondo di verità, in quanto tra alterne vicende la chiesa giacobita si rafforzò sotto il dominio dei sassanidi, e impose ben presto la sua autonomia dalle chiese occidentali. E dopo il sinodo di Beth Lapath del 484 aderì definitivamente all’ideologia cristologica nestoriana. Quella che da allora fu la chiesa di Persia continuò, prima della invasione araba che distrusse l’impero sassanide a sviluppare la propria attività missionaria in diverse direzioni e per tutto il tempo in cui durò la fase espansiva della stessa chiesa, cioè su un arco di tempo vastissimo, che dal V arriva fino al XIII secolo, accompagnando tutta la fase espansiva delle entità politiche cui la chiesa stessa di volta in volta faceva riferimento. La predicazione della chiesa giacobita toccò tutti gli angoli del continente asiatico, dall’Arabia alla Manciuria, passando per Afghanistan, Uzbekistan, Siberia, Tibet, Cina e Mongolia.
L’estensione missionaria della chiesa di Persia la condusse a misurarsi con diverse tradizioni religiose, che, come nel caso dell’Islam e del Buddhismo, rappresentarono per essa pericolosi concorrenti. Nel’Asia centrale il confronto si impose con lo sciamanesimo che costituiva la forma religiosa ancestrale delle popolazioni turco – tatare. Per quanto attiene alla penetrazione in Cina, l’imperatore Tai–Tsong concesse ai cristiani di diffondere liberamente la loro religione, fino alla promulgazione di un decreto che vietava il diffondersi delle religioni straniere, decreto collocabile alla metà del IX secolo.
Nel X secolo la leadership culturale è mantenuta a lungo da esponenti nestoriani impegnati in un’opera di trasmissione al mondo arabo dell’eredità filosofica e scientifica del mondo classico. La chiesa di Persia si distingue dalle altre chiese cristiane orientali per l’assenza di immagini sacre ed altre peculiarità.
Con la conversione all’islam dell’impero mongolo che a suo tempo aveva conquistato le regioni persiane, si ebbe una fase di decadenza, accompagnata dalle
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persecuzioni da parte di Turchi, Curdi e ancora Persiani. I pochi resti di quella che fu la chiesa nestoriana si distribuiscono oggi tra Iran, Iraq, Siria e India. I tentativi di riunione, cioè di ricomposizione degli scismi interni sfociarono nel 1830 nella creazione di un patriarcato cattolico.
La cristianità del Caucaso: Armenia e Georgia
Nel panorama delle chiese orientali i cristiani del Caucaso appaiono organizzati in vere e proprie chiese nazionali. Durante le lotte dei grandi imperi per il controllo di questo territorio di confine, situato tra il mar Caspio, il Mar nero, e il Mar d’Azov le chiese di queste regioni si impegnarono per garantire la sopravvivenza dei loro popoli. Nonostante le molte invasioni dei popoli vicini il cristianesimo poté affermarsi tra i popoli di Armenia e Georgia. Non riuscì invece a mantenersi in Azerbaigian orientale, sommersa nel medioevo dalla conquista islamica. Le due chiese hanno spesso come punto di riferimento la chiesa di Gerusalemme.
La chiesa di Armenia.
L’Armenia è stato il primo regno orientale ad abbracciare il cristianesimo con il re Tiridate III, grazie al lavoro missionario di Gregorio l’Illuminatore. Questi si appoggiava sulla sede di Cesarea di Cappadocia, che diverrà nel V secolo, il fulcro della chiesa armena vera e propria, sotto la guida di un primate poi designato anch’egli col titolo di katholikos. Dopo l’invenzione dell’alfabeto armeno da parte del monaco Mesrop, all’inizio del V secolo si ebbero traduzioni dei testi biblici in lingua siriaca o greca con accenti indipendenti e originali fondati sul nuovo linguaggio. Quanto al monachesimo, fin dall’impresa di Mesrop della creazione di un nuovo alfabeto, cominciò a costituirsi un gruppo di monaci – dottori adibiti alla formazione delle gerarchie.
La chiesa armena, rispondendo col silenzio e il disaccordo alle sollecitazioni teologiche che provenivano da altre esperienze comunque cristiane, come il bizantinismo ortodosso o la chiesa caledoniana, optò infine per il monofisismo.
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Durante le missioni per la conquista e la conversione della terra santa gli armeni diedero luogo in Cilicia alla nascita della “Piccola Armenia”, una stazione di posta per coloro che erano diretti in terra santa. La fine dello stato di Cilicia induce a riportare la residenza del katholikos ad Edshmiazin, nel suo luogo storico di origine.
Da questo momento e attraverso i confronti con le varie dominazioni straniere si giunge al 1915-1916 quando il nazionalismo turco li cacciò completamente gli armeni dall’Anatolia orientale.
La chiesa georgiana
La chiesa georgiana, unica fra le chiese cristiane di oriente ad essere rientrata nell’alveo del concilio di Calcedonia ed essersi così ricongiunta con l’ortodossia bizantina, ha condiviso con l’armena la propria fase formativa e le molte vicissitudini che hanno interessato il Caucaso nel corso dei secoli. Nella decisione di abbracciare il cristianesimo la chiesa georgiana è influenzata dagli armeni, con tutto il loro portato di credenze attinte dalla chiesa siriaca occidentale e orientale. L’influsso strettamente armeno si concentra solo sulla parte orientale del Paese mentre in occidente risulta permeato dall’influsso greco–bizantino. Il primo katholikos georgiano è debitore per la sua consacrazione al patriarca di Antiochia, con annessa adesione alle dottrine monofisite. Un secolo più tardi (siamo nel V secolo), pressioni bizantine faranno rientrare la chiesa georgiana nell’ambito della ortodossia caledoniana. In particolare i monaci georgiani contribuiranno grandemente alla diffusione di questa fede, attraverso attestazioni in Siria, sul Sinai, a Costantinopoli, in Anantolia e in Bulgaria, e in particolare sul monte Athos.
Riunificata politicamente fra XI e XIII secolo, la Georgia conosce una grande fioritura letteraria e artistica. Tuttavia l’arrivo dei mongoli rende vana l’unificazione, la quale però verrà ricostituita con la presenza di un vescovo cattolico a Tblisi. La fusione con la Russia ovviamente fu qualcosa di non voluto ma
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imposto, viene introdotto un nuovo katholikos, mentre il russo diviene la lingua liturgica ufficiale.
Cristianesimo africano: le chiese di Nubia, Egitto ed Etiopia
Le tre chiese di Egitto, Nubia ed Etiopia sono state a suo tempo diffuse in un’area che va dal Mediterraneo al Corno d’Africa. La chiesa di Nubia adotta, dopo una serie di divisioni e contrasti interni, la scelta monofisita, conformandosi alla chiesa egiziana. L’Etiopia da parte sua assorbe il credo bizantino ortodosso ma con un fondo giudaico che probabilmente risale all’influsso delle prime comunità giudeo/cristiane. La connotazione in senso nazionale finisce nella chiesa copta per saldarsi con l’identità ecclesiale predisponendo la chiesa in parola ai rapporti con l’invasore arabo. La chiesa egiziana o copta emerge dall’oscurità verso la fine del II secolo con la personalità vigorosa del suo vescovo Demetrio, e degli altri patriarchi alessandrini che gettano le basi e fortificano la fede dei seguaci con la propria predicazione. Grande importanza ha anche il ruolo del monachesimo, modellato sul cenobitismo Pacomiano, e introdotto in Egitto da Atanasio di Alessandria. Nel V secolo il legame tra gerarchia e religiosi è assicurato dall’archimandrita Scenute al quale si deve l’adozione del copto come lingua letteraria. La chiesa copta manifesta anche un’apertura verso l’occidente e le altre culture che ha come centro la sede alessandrina.
La separazione della chiesa copta dalla chiesa imperiale segue dinamiche analoghe a quelle poste in essere dalla chiesa siriaca, ma quando Bisanzio comincia a perseguitare i monofisiti l’Egitto rappresenta un centro di accoglienza di profughi ed esuli che consente una fortificazione, sebbene localizzata, della fede copta. Dopo il 518 tuttavia si assiste ad una frammentazione del credo copto. Con la conquista araba dell’Egitto, la chiesa monofisita gode di una certa libertà, limitatamente all’obbligo del rispetto della legge islamica. Quando poi le restrizioni imposte dagli islamici, in sostanza proibizioni che riguardano la vita civile, diventano intollerabili si hanno episodi di sommossa che il regno della Nubia tende a risolvere sulla base di
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accordi con i musulmani, ovviamente nell’intento di proteggere coloro che praticano la stessa fede. Tuttavia col tempo il credo copto, così come quello della Nubia, viene a perdersi all’interno della cultura islamica. Ciò accade anche per quanto riguarda altri ambiti culturali come la lingua, ad esempio il copto diviene soltanto lingua ecclesiastica. La decadenza della civiltà copta continuerà anche durante il periodo ottomano tra il XVI e il XVIII secolo.
In epoca moderna si assiste alla creazione di un patriarcato copto cattolico che però non suscita alcun seguito, perché la maggior parte della popolazione di religione copta è ancora legata ai vecchi riti. L’ingresso nell’età moderna è caratterizzato da una rivitalizzazione della religione copta, testimoniata da un alto numero di fedeli.
E’ curioso notare come alcuni degli elementi teologici della religione copta si rinvengano alcuni nell’islam, come la prassi dei digiuni o il culto degli angeli; altri al cattolicesimo come la devozione mariana.
La chiesa etiopica è stata la sola ad aver vissuto fino ai nostri giorni entro la cornice di uno stato cristiano. Nel territorio etiopico l’eredità di una primitiva presenza giudaica può essere alla base dell’attuale adesione al cristianesimo, in una posizione geografica che a est vede una prevalenza dell’islam, e a ovest è separata dalle regioni cattoliche dal mare. La scelta monofisita della chiesa etiope deriva probabilmente anch’essa da quell’antico retaggio. Tra il V e VI secolo grazie all’opera dei monaci monofisiti si registra già lo sviluppo di una letteratura nazionale in lingua ge’ez. L’avanzata dell’islam introduce un periodo oscuro nella storia dell’Etiopia. Il legame con la città santa ha consentito i rapporti con altri ambienti cristiani orientali e occidentali. Rafforzato da una concezione sacrale che vorrebbe lo stato etiope abitato da discendenti della regina di Saba e di Salomone, consente di resistere ai periodici attacchi da parte degli islamici ai confini, e consente anche una positiva tendenza allo sviluppo del monachesimo, che presto comincia a rivendicare una maggiore autonomia sia dal controllo politico che ecclesiastico.
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Nel XVI secolo lo stato etiopico è messo in difficoltà da una invasione islamica tanto da spingere il monarca Claudio a chiedere l’aiuto di papa Paolo III (1541). Si verifica così dopo tanti secoli un contatto del regno etiope con l’Europa. Viene avviato un movimento di scambi culturali e fideistici tra Europa ed Etiopia, che è chiamata dai cattolici alla conversione. L’obiettivo sembra raggiunto ma l’ingerenza dei gesuiti diviene insopportabile a causa delle molte critiche rivolte da questi alle consuetudini religiose degli etiopi.
Infine durante l’occupazione fascista dell’Etiopia (1936/1941) si tentò di sradicare la fede copta sostituendo la classe dirigente con membri della gerarchia cattolica. Per la verità anche nel XIX secolo si era tentato un analogo progetto, ma è soltanto dopo la II guerra mondiale che la chiesa copta conquisterà i propri diritti a professare liberamente la propria fede.
La riforma protestante (1517-1580)
Come ogni grande fenomeno storico la Riforma resta un problema storiografico aperto. Le fonti sul problema sono assai numerose, e nondimeno non vi sono risposte univoche su quale ne sia stata la natura, sul rapporto con il protestantesimo storico, sulle interrelazioni tra riforma protestante, riforma cattolica e controriforma, infine sui rapporti tra riforma protestante e mondo moderno. Lutero voleva riformare la chiesa? Non che la volesse cambiare, anzi egli temeva i cambiamenti solo esteriori, che però non toccano l’interiorità, i sentimenti. Nondimeno Lutero voleva risostanziare la chiesa con la parola di Dio. Egli voleva restituire alla chiesa una sostanza evangelica che nei secoli era diventata sempre più evanescente e inconsistente. Tuttavia Lutero non aveva alcuna intenzione scismatica. Si trattava soltanto nella sua visione di evangelizzare la chiesa. La riforma è stata un imponente revival di spirito biblico, un vasto processo di risostanziazione della vita e della fede della cristianità su base biblica nell’ambito della società del ‘500.
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La riforma protestante costituisce un fenomeno unico nel corso della storia cristiana fino ad oggi: nulla di analogo è accaduto nei secoli precedenti e in quelli successivi. Non stupisce perciò che da un lato il potere ecclesiale, cioè facente capo al papa abbia subito anatemizzato la riforma, e poco dopo l’imperatore che all’epoca era Carlo V abbia bandito Lutero da tutti i territori dell’impero (1521). Solo più tardi, con il concilio di Trento la chiesa cattolica avvierà il suo progetto di riforma interna. La riforma protestante, ritenuta incompatibile con il cattolicesimo, fu scomunicata ma non si diede per vinta. Si trattava di una comunità cristiana rinnovata nello spirito del Vangelo ma al tempo stesso collegata alle antiche pratiche della chiesa nascente. La riforma ebbe un respiro internazionale, cioè di rilievo europeo, insomma continentale nonostante si sia affermata prevalentemente nella Europa del nord. Essa però, pur prendendo vita grazie a Lutero, non si limitò a Lutero e alla Germania di allora.
E infatti in Europa continentale vi furono quattro epicentri della riforma che operarono autonomamente ciascuno rispetto agli altri come centri d’elaborazione teologica e iniziativa riformatrice.
- Il primo è Wittenberg dove operò Lutero, sostenuto da un gruppo di amici tra i quali spicca Filippo Melantone. E’ all’università di Wittenberg che Lutero tenne per circa trent’anni, dal 1512, corsi di esegesi biblica insieme ad un forte impegno nella predicazione.
- Il secondo epicentro della riforma fu Zurigo dove operò Ulrico Zwingli, il quale organizzò una sorta di “plebiscito” per chiedere al popolo quale fede intendesse abbracciare. Data la defezione dei cattolici romani alle consultazioni, si affermò la causa della riforma. Nel 1525 venne abolita la messa e introdotto il culto evangelico. Dopo la morte di Zwingli, avvenuta in un campo di battaglia, le redini del movimento furono prese da Enrico Bullinger, che divenne anch’egli uno dei padri del cattolicesimo riformato.
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- Il terzo epicentro fu Strasburgo, con Martin Bucero, che si impegnò nel definire le pratiche dei culti protestanti. Bucero presenta un programma dettagliato di riforme ecclesiastiche, sociali ed economiche sia sulla chiesa, sia sulla società del tempo, riforme che fecero della sua chiesa un culto indipendente per caratteri peculiari, e differenti da quelli che definiscono ancora ad oggi il credo luterano, la chiesa di Zwingli e quella di Calvino. Per inciso va ricordato che Bucero fu costretto a lasciare Strasburgo e a rifugiarsi in Inghilterra, a causa delle persecuzioni subite come eretico.
- Il quarto epicentro fu Ginevra, la cui adesione al culto protestante avvenne solo nel 1535. E fu con Giovanni Calvino che Ginevra divenne il principale centro di diffusione del cristianesimo riformato. Calvino operò a Ginevra fino alla morte quando finalmente la città era divenuta il centro europeo del protestantesimo.
Il secondo tratto saliente della riforma protestante è il suo carattere multiforme. La riforma protestante fu una e molteplice allo stesso tempo. Tuttavia essa è riconducibile ad una sola esperienza di fede: quella del peccatore giustificato per grazia immeritata, immotivata e incondizionata, attraverso la sola fede. La riforma per quanto multiforme ha dato vita ad un unico tipo di cristianesimo sostanzialmente unitario che può essere descritto nel modo seguente: primato della scrittura, centralità della grazia, primato di una chiesa non gerarchica, un’etica individuale e sociale i cui capisaldi sono il primato della coscienza personale interpellata e orientata dalla parola di Dio, la completa separazione della chiesa dallo stato con assenza di commistioni di qualunque genere, e infine la valorizzazione della legge, divina e umana.
Un fatto emblematico della struttura delle chiese protestanti può essere meglio inteso con un esempio: alla Dieta di Augusta convocata nel 1530 dall’imperatore Carlo V, i protestanti rifiutarono non solo la riunificazione con la chiesa di Roma, ma anche quella tra le differenti scelte di fede dei vari movimenti. Al contrario
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presentarono tre confessioni di fede: quella di Lutero, quella di Bucero e quella di Zwingli.
Tuttavia le diversità tanto propagandate portarono ad un certo momento alla scissione e ad un forte contrasto tra Zwingli e Lutero, aprendo una ferita che sarà rimarginata solo nel 1973.
In definitiva la ragione ultima del polimorfismo della chiesa o delle chiese protestanti deriva da un unico fattore che è la lettura e la pratica del messaggio evangelico liberamente e senza l’intermediazione delle gerarchie.
Il terzo tratto saliente della riforma protestante può essere definito politico, nel senso di politica ecclesiastica. Il maggiore merito in ottica protestante è stato di privare di una parte del suo potere la gerarchia ecclesiastica, il che è un qualcosa che interessa e determina il venir meno del rapporto tra laicità e fede, il quale rapporto nei secoli successivi sfocia nella secolarizzazione, da cui l’affermazione di Weber secondo cui il mondo attuale, nel senso di atteggiamento dinanzi alla realtà, in primo luogo economica, deriva dalla perdita, in alcune aree del mondo, di rilievo dell’etica tradizionale che accompagna lo sviluppo economico. Questo fenomeno trova le proprie origini nel protestantesimo.
E’ nell’alveo del protestantesimo, anche se così diviso e frammentato, che nasce e si consolida un complesso di valori che saranno gli stessi della attuale società occidentale: la separazione tra stato e chiesa; il principio della tolleranza e del pluralismo religioso; la libertà di culto e di pensiero, l’inviolabilità della coscienza e il diritto al dissenso; il principio dell’adesione volontaria ad un determinato credo e in genere i “diritti umani” che saranno poi codificati e universalizzati dai rivoluzionari del 1789.
La moderna civiltà del lavoro, che oggi occupa un posto centrale nella vita di ogni persona, si deve alla matrice protestante, cioè alla sua etica. Il lavoro è stato così rivestito di dignità, diventando il luogo privilegiato del culto reso a Dio e del
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servizio al prossimo. L’etica del lavoro, all’interno del movimento protestante deriva in particolare dai puritani, i quali però sostenevano che è giusto riempire il tempo col lavoro, ma senza che ciò comporti l’anteporre il lavoro ai doveri verso il prossimo. Il lavoro produce ricchezza, ma il puritano è spartano: guadagna molto e consuma poco.
Il termine riforma è peraltro così variegato che bisognerebbe parlare di “riforme” al plurale. Le maggiori chiese riformante in quest’ottica sono: la luterana, la riformata, la calvinista, l’anabattista e l’anglicana.
Lutero e il luteranesimo
Lutero fu per tutta la vita un esegeta della sacra scrittura, un predicatore. La riforma nasce dalla Bibbia. La nascita della riforma coincide con la scoperta o la riscoperta di questa verità evangelica fondamentale: la giustificazione per la sola fede. Quest’ultima è per Lutero la quint’essenza del messaggio cristiano.
Per quanto riguarda la prima delle asserzioni dogmatiche di Lutero, essa riguarda la teologia del croce, la quale nella sua riflessione costituirebbe il fondamento della salvezza, tuttavia il rapporto con la croce di Cristo è un rapporto intimo, che non dipende da fenomeni collettivi ma dalla interiorità dell’individuo.
Altro principio della visione luterana riguarda il rapporto col papa, nei confronti del quale la polemica di Lutero è teologica prima che istituzionale. Il papa non può essere papa legittimamente perché ha usurpato i poteri di Cristo in parte della comunità cristiana, cioè nella cattolica romana. L’avversione di Lutero nei confronti del papa concerne anche l’organizzazione interna della chiesa di Roma, che a quei tempi era gerarchica, patriarcale, autoritaria. La vera chiesa è per Lutero la “libera assemblea dei cuori”. La vera chiesa, dice Lutero, è figlia e discepola della parola. Le grandi novità sono due: la prima è che la chiesa deve poggiare sulla comunità locale; la seconda è la vocazione al sacerdozio universale da parte dei fedeli.
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La polemica con Carlostadio: lo Spirito
Andrea Bodestein detto Carlostadio attuò alcune delle riforme prefigurate dallo stesso Lutero: celebrò la messa in tedesco, distribuì a tutti pane e vino, eliminò le statue pagane dai luoghi di culto. Tutto ciò era qualcosa di eccessivamente radicale anche per Lutero che, avvertito da Melantone, sconfessò l’operato di Carlostadio. Probabilmente l’origine della disputa nasce dall’appartenenza di Carlostadio a un movimento protestante dissimile dal protestantesimo, anche se ad esso analogo.
Muntzer
La guerra dei contadini ispirati da Muntzer e dalle idee protestanti ebbe un tragico esito con la cattura del sovversivo, la tortura e l’inflizione della pena capitale. Questo episodio, verificatosi il 15 maggio del 1525 denotò i limiti della concezione politico – sociale di Lutero. Ma chi era Thomas Muntzer? Anch’egli esercita la rivoluzione dall’alto ma per affidarne la realizzazione ai contadini. Lo scontro tra Lutero, non soddisfatto dalla pratica di Mnuntzer, e lo stesso Muntzer sarà durissimo. La divergenza fondamentale tra i due è che mentre Lutero aspetta l’ultimo giorno, il giorno del giudizio, Muntzer affida ai contadini il compito di realizzare il giudizio di Dio armi alla mano.
Lutero ed Erasmo: la libertà.
In risposta ad uno scritto polemico di Erasmo da Rotterdam, Lutero risponde con lo scritto teologico “Il servo arbitrio”, capovolgimento del titolo dell’opera di Erasmo che aveva per titolo “Il libero arbitrio”. Erasmo lavorava attivamente all’epoca con i papi per screditare Lutero agli occhi della cristianità. Ma anche Erasmo era stato per molto tempo un acerrimo nemico della chiesa e gli si chiedeva di tornare nel seno della vera fede, cosa che egli fece. Erasmo focalizza la sua critica sulla dottrina della grazia.
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Mentre Erasmo esalta il valore della grazia che consente agli uomini di vivere cristianamente, e delle opere di bene come viatico alla salvezza eterna, Lutero replica sostenendo esattamente il contrario. Il libero arbitrio esiste solo nelle faccende quotidiane, ma non per quanto riguarda le cose dello spirito, cioè il rapporto con Dio. La grazia è tutto, mentre il libero arbitrio è nulla. E la salvezza è un dono divino che non dipende dalle opere o dalla volontà del singolo credente, ma esclusivamente dalla Grazia di Dio.
Lutero e Zwingli, la separazione
La controversia tra Lutero e Zwingli sull’Ultima cena e sul significato teologico di quest’ultima, fu assai accesa, tanto più in quanto Zwngli era stato discepolo di Erasmo e ne condivideva le convinzioni in materia di fede. Uniti dalla fede nella sola scrittura sono invece, Lutero e Zwingli, divisi sulla interpretazione dei sacri testi. E’ un fenomeno che si ripeterà anche altre volte e tra altri sapienti e conoscitori delle scritture.
Sostanzialmente il disaccordo in parola si fondava sul modo di intendere la presenza di Cristo, il suo “corpo”. Zwingli sosteneva che l’ostia consacrata è soltanto un simbolo del “corpo di Cristo”, Lutero affermava invece la totale identificazione del pane azzimo consacrato con il Corpo di Cristo, se non altro al momento dell’espletamento del rito sacro. Cioè a dire che Lutero non nega la transustanziazione e tuttavia crede alla presenza salvifica dello spirito nel pane dell’ostia. Zwingli insiste sul fatto simbolico e non concreto del pane dato ai fedeli durante l’eucaristia.
Altra controversia che interessò Lutero è quella con gli anabattisti a proposito del battesimo, che per Lutero non può avvenire in età adulta. Altra controversia ancora è con gli epicurei, cioè quelli che Lutero definisce umanisti laici e che vorrebbero non solo negare il papato ma perfino Dio. C’è la disputa con gli Antinomisti che dichiaravano decaduta per intero la legge del’antico testamento, e i dieci
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comandamenti. C’è infine la disputa con gli ebrei sull’interezza e sul fondamento veritativo delle rispettive fedi. L’attività di Lutero, soprattutto con le opere teologiche continuerà incessantemente durante tutta la sua vita. Gli ultimi anni furono caratterizzati da delusioni e inquietudini.
Nascita e primi sviluppi della chiesa evangelica
La cristianità evangelica nasce nel decennio 1520-1530. A Worms Lutero aveva rifiutato di trattare. Grazie ad un periodo complesso a livello europeo e alle difficoltà dei vari re e imperatori impegnati in guerre logoranti che distoglievano dal problema religioso, Lutero ebbe buon gioco. Anche se scomunicato e bandito riscosse il favore di principi e monarchi, soprattutto in Germania, centro della sua predicazione. Infine si capì che la politica non c’entrava niente con le posizioni di Lutero e che esse posizioni avevano solo carattere religioso.
Cominciarono a delinearsi due fronti confessionali. Il primo fronte, cattolico, si impegnò per arginare la riforma ed era costituito da principi cattolici; il secondo fronte da protestanti. Si giunse infine ad un accordo che dava atto a un semplice principio: cuius regio eius religio, cioè a dire che se il monarca di riferimento non praticava la religione di una parte dei sudditi questi ultimi erano costretti o a cambiare religione o a cambiare nazione. Di fronte alla censura da parte della chiesa di Roma in merito alle pretese dei principi soprattutto tedeschi, questi ultimi risposero “protestando”, cioè in senso etimologico “dichiarando” di considerare inviolabili i diritti della coscienza, e anche il richiamo universale all’apostolato.
La Dieta di Augusta tentò di conciliare gli animi ma non vi riuscì. Si era nel 1530. Alla richiesta avanzata dai protestanti di un unico cristianesimo in Europa, sia pure nella pluralità della confessioni, vi fu una netta chiusura da parte di Roma. Tuttavia negli anni successivi le dispute teologiche continuarono, con diversi dialoghi interconfessionali come quelli svoltisi a Ratisbona nel 1541, che però non ebbero l’esito sperato.
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Il protestantesimo era nato ma non ebbe sin da subito vita facile. Si consolidò sul piano dottrinale ma si indebolì sul piano politico. L’imperatore Carlo V si rese conto che il protestantesimo non poteva più essere fermato né ricondotto nel seno della chiesa di Roma. Il concilio generale si tenne a Trento da papa Paolo III: i protestanti non vi presero parte. La pace di Augusta sancì che l’occidente cristiano era ormai diviso in due confessioni sul piano teologico, la cattolica e la protestante. E inoltre riconobbe il pluralismo confessionale sul continente. Nasceva così l’Europa religiosa moderna.
Zwingli e i riformati. Calvino
La chiesa di Zwingli, derivata nei suoi principi di fondo da quella luterana, si diffuse in Scozia, in Ungheria, nei Paesi bassi, e in Italia. Questa particolare riforma che venne poi considerata per qualche tempo una eresia fu avviata da Zwingli in Zurigo, da dove si diffuse prima, sul territorio svizzero, poi, come si è detto, in altre zone dell’Europa. In Svizzera la riforma si diffuse grazie ai riformatori Farel e Viret. Il secondo epicentro della riforma a parte Zurigo fu la Ginevra di Calvino che anche grazie all’azione dei due collaboratori appena menzionati, dopo un certo tempo divenne la città simbolo del movimento protestante. Calvino non era un ammiratore di Zwingli eppure ad oggi non si può negare che il vero fondatore del movimento calvinista sia stato Zwingli, anziché Calvino.
Zurigo
Tra la chiesa di Zwingli e quella di Lutero vi sono delle differenze notevoli, di temperamento, di esperienze, di formazione culturale. Zwingli è un uomo dotato di cultura politica repubblicana. Lutero viene invece da un ambiente feudale e patriarcale.
Oltre che confederato cioè cittadino svizzero, Zwingli è un umanista affascinato dalla teologia e dalla filosofia classica. Per anni infatti fu un attivo seguace di Erasmo da Rotterdam, ma se ne discostò infine senza però mai rinnegare il suo
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insegnamento. Anche la scoperta dell’Evangelo e la conseguente svolta riformatrice in Zwingli sono diverse da quelle di Lutero. Ma mentre il pensiero di Lutero è chiaro, quello di Zwingli è difficile da sintetizzare; egli non conosce Dio che come essenza di luce e di spirito dopodiché pian piano dal piano teologico e per gradi, Zwingli giunge a conclusioni simili a quelle di Lutero. Zwingli rifletté molto sulla parola di Dio contenuta nel quarto vangelo, secondo cui i fedeli saranno ammaestrati da Dio. Questo passo evangelico contiene in sostanza la sintesi della sua teologia.
Più che Lutero e più che ogni riformatore del XVI secolo Zwingli ha permeato il suo discorso teologico di spirito santo che, a suo parere, tutto pervade e attraversa. Il pane eucaristico non ha alcuna importanza al pari della parola perché soltanto lo spirito è fonte di carità e di salvezza.
Zwingli è stato il più politico tra i riformatori protestanti, poiché alla politica egli informò la sua vita e la sua azione e anche perché ritenne che la politica sia parte del discorso cristiano, in quanto il regno di Dio è una realtà non solo interiore come per Lutero, ma anche esteriore, cioè non solo il cristiano deve praticare e osservare la legge degli uomini ma anche la legge evangelica, quindi praticare, operare per il vangelo, e non soltanto farne un elemento di fede e di riflessione interiore e personale. Il parametro di Zwingli è perciò la sacra scrittura e tutto ciò che da essa esula deve essere obliterato, censurato, negletto. Lo studio della Bibbia deve essere considerato l’anima del corpo ecclesiale e sociale. A Zwingli si deve anche la traduzione della Bibbia in tedesco.
Giovanni Calvino
Il nome di Calvino appare indissolubile dalla sua Ginevra. Conobbe la Riforma e vi aderì dopo gli studi di diritto. Di nazionalità francese, rinuncia ad appartenere al clero ecclesiastico di Roma per seguire il messaggio protestante e fa ciò nonostante il volere del padre. Si narra che prima di compiere quella scelta Calvino abbia
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attraversato una profonda crisi spirituale. Calvino fu un riformatore a ciò vocato in parte dalle circostanze di vita, in parte da scelte individuali, cioè un riformatore non vocato al magistero ecclesiastico romano, che come detto in gioventù aveva rinnegato, ma forse proprio per questo motivo egli divenne comunque riformatore, anche se in maniera polemica nei riguardi della chiesa di Roma. Ma quali sono gli aspetti della riforma calvinista? Innanzitutto il vecchio episcopato viene privato del proprio ordinamento, abolito e sostituito da pastori, col compito di predicare e amministrare i sacramenti; da dottori col compito di formare i pastori; da anziani col compito di vigilare sulla vita della comunità; infine da diaconi, con due diversi compiti: amministrativi per gli uni, di cura dei poveri e dei bisognosi per gli altri.
Calvino introdusse anche il dovere di praticare il vangelo nella vita quotidiana, cosa che suscitò le ire di alcuni fedeli detti “libertini”, che Calvino combatté strenuamente. Il grande progetto di Calvino esposto in molte sue opere di letteratura teologica era di creare un unico movimento evangelista in tutta Europa, un progetto che però non vide mai la luce.
Una delle opere benefiche compiute dalla chiesa calvinista fu la realizzazione di un polo universitario, costituito da tre facoltà: Teologia, Giurisprudenza e Medicina, che avrebbe avuto il compito di formare la classe dirigente del movimento protestante calvinista.
Altro aspetto riguarda i modi con cui i calvinisti di Ginevra trattavano gli oppositori: processandoli ed escludendoli dalla città. Ciò avvenne ad esempio contro Sebastiano Castellione, o contro Girolamo Bolsec. Nel 1545 lo scoppio di una epidemia di peste diede luogo ad una caccia a delle presunte streghe, molte delle quali furono arse vive.
Il processo più noto è però contro Michele Serveto che aveva espresso idee eterodosse sulla trinità ma anche per alcune sue deviazioni dall’ortodossia. Ritenuto colpevole venne giustiziato per arsura sul rogo. Tre secoli e mezzo più tardi, il 27 ottobre 1903 venne innalzato sul luogo dell’esecuzione un monumento espiatorio
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con il quale si volle diffondere il messaggio che l’errore di Calvino nel condannare Serveto era stato l’errore “del suo secolo”.
Per concludere due sono i frutti migliori dell’opera, anche letteraria di Calvino. Il primo è la sua “Istituzione della religione cristiana”, scritto che espone sistematicamente i caratteri della chiesa riformata. Il secondo frutto è un nuovo modello di chiesa che Calvino ha propugnato e per il quale ha predicato e che ha animato nel quadro di una cristianità che all’epoca esigeva, per il bene dei fedeli, una qualche forma di conformazione al mutare dei tempi. Calvino è stato il più europeo di tutti i riformatori, in quanto la sua predicazione interessò molte regioni del continente. Egli ha fatto di Ginevra la patria nobile di tanti cultori della sua fede, tanto che presto la Ginevra di Calvino divenne una seconda patria per coloro che praticavano il tipo di religione praticato da Calvino, e che da lui prese il nome.
Gli anabattisti
Come molti altri nomi con cui si individuano movimenti e personaggi della storia cristiana, gli anabattisti vengono così definiti i senso deteriore, con un implicito riferimento alla loro fede, la quale prescrive ai credenti di farsi battezzare due volte, una prima volta alla nascita; una seconda nell’età adulta. Tuttavia il termine anabattista fu concepito e usato con sarcasmo dai riformatori protestanti, mentre il termine tra gli anabattisti non viene usato, perché tra loro essi sogliono chiamarsi semplicemente “fratelli”.
L’anabattismo è un fenomeno che, nato dalla riforma, presto ruppe con Zwingli e le autorità protestanti di Zurigo su questioni chiave come la legittimazione cristiana al pedobattismo, la partecipazione dei credenti alla politica rivestendo cariche pubbliche, il sistema delle decime, tutti elementi che erano dichiarati dagli anabattisti contrari al vangelo. Fu in particolare sulla questione delle decime che gli anabattisti ruppero le relazioni con Zwingli e coloro che quest’ultimo rappresentava. A Zurigo il movimento fu condannato come eretico a partire dal 1526 con tutto ciò
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che una condanna eresia comportava, cioè carcerazione, messa al bando, confisca dei beni, liquidazione fisica delle persone.
Molti anabattisti provenivano dalla Germania meridionale. A Munster allora capitale della Westfalia, la riforma era stata introdotta nella forma luterana, poi subentrò l’anabattismo. Nel 1534 Munster divenne l’unica città anabattista. Ma qualche tempo dopo la guida della città fu assunta da seguaci di altri credi, che intendevano realizzare il regno di Dio imponendo comunanza dei beni e poligamia.
La città fu alfine vittima di un assedio e capitolò nel giugno 1535 con ecatombe di vittime. Le sorti del’anabattismo vennero risollevate da tale Menno Simons. Ancorando il suo pensiero alla bibbia e centrandolo su Cristo, egli restituì al movimento la consapevolezza dei suoi principi originari. Il biblicismo mennonita si oppone al millenarismo munsterita, ma anche al quietismo luterano, rispetto al quale elabora una regola di vita cristiana qualificata dall’osservanza del vangelo, nella fattispecie il discorso della montagna e una vita comunitaria severa. La chiesa cattolica romana viene rinnegata così come le autorità civili, alle quali non viene riconosciuto alcun potere sulla coscienza degli individui.
L’anabattismo è stato chiamato anche “l’ala sinistra della riforma”, oppure “riforma radicale” per distinguerla dalla “riforma magisteriale”, luterana e zwingliana, attuata con il concorso dell’autorità civile. Riforma e anabattismo si connotano per essere due risposte concomitanti anche se differenti al decadimento della chiesa medievale. Entrambe le fedi considerano come fondamentale il riferimento alla Bibbia, ma con notevoli differenze per quanto riguarda i dogmi e la dottrina.
Il punto del contrasto più evidente è il rifiuto da parte anabattista del corpus christianum cioè delle simbiosi tra corpo sociale e corpo ecclesiastico. Inoltre il battesimo dei bambini viene ritenuto non definitivo dagli anabattisti sempre per la stessa ragione: il rifiuto del corpus christianum, cioè in definitiva della chiesa cattolica romana.
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L’anabattismo predica la “separazione”, dal mondo ma anche dalla chiesa costantiniana protetta dal potere politico, così come ubbidisce sì al magistrato, ma non accetterebbe mai che un membro tre i loro “fratelli” ne assumesse la carica.Il seme anabattista, disperso nel XVI secolo ha portato molto frutto nei secoli successivi.
Una figura di spicco nell’ambito del panorama di derivazione luterana, fu Paracelso. Medico e alchimista, cultore della scienza e della magia, studioso della natura e dell’uomo, teologo e filosofo, Paracelso incarna bene il passaggio dal medioevo all’età moderna. A lui si deve un sistema di pensiero coerente. L’universo è per Paracelso un tutto armonico a struttura trinitaria: trinitario è l’uomo, il mondo e la materia. Ufficialmente Paracelso è rimasto all’interno della chiesa cattolica, ma spiritualmente si è collocato al di fuori di tutte le chiese. Appartiene anche lui a quella variegata “ecclesia dissidentis” che vagava in una Europa che non aveva più posto per essa.
La riforma in Inghilterra
Il 3 novembre 1534 nasce la chiesa anglicana, dopo un braccio di ferro tra monarca inglese e pontefice romano. Tutto si svolse nell’arco di tre anni, durante i quali Enrico VIII riuscì ad ottenere una serie di atti rogitati dalle gerarchie cattoliche, in forza dei quali gli veniva riconosciuto il potere di giurisdizione sulla chiesa del suo paese. Nel 1532 Enrico VIII fece un altro passo avanti nel suo progetto di dominio incontrastato, cioè di sottrarre il governo della chiesa inglese al papa e alla curia romana. Un primo provvedimento istituì l’atto di sottomissione, ossia che ogni pronunciamento del clero inglese avrebbe avuto forza di legge solo se approvato da una commissione nominata dal monarca. Nello stesso anno un altro provvedimento impedì il trasferimento delle annate agricole e delle altre tasse a Roma. Segue un “atto di proibizione”, che nega al papa il diritto di giudicare su questioni attinenti al clero inglese. Ancora: nel 1534 le gerarchie ecclesiali di York e di Canterbury dichiarano che il pontefice romano non ha ricevuto da Dio poteri maggiori di quelli
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che un qualsiasi vescovo straniero nell’ordinare e nel decidere questioni di fede. L’occasione per rivendicare il governo della propria chiesa nazionale fu data a Enrico VIII, quando il suo desiderio di veder annullato il suo primo matrimonio, con Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena, fu disatteso dal pontefice di Roma. Dopo il rifiuto del papa di concedere il divorzio, Enrico VIII si proclamò “capo” della Chiesa del proprio Paese, sempre in virtù di un pretesto: contrarre nuove nozze. In realtà i motivi di un simile gesto sono più profondi e riguardano questioni politiche ed economiche, che grazie alla istituzione di una religione di stato poterono essere risolti. Ad esempio vennero soppressi duemila conventi inglesi e se ne incamerarono i beni a beneficio della Corona.
Nel 1538, tra le ingiunzioni reali ad opera di Enrico VIII ci fu anche quella che imponeva che in ogni parrocchia vi fosse almeno una copia della Bibbia in lingua inglese.
Nel 1536 d’altra parte si erano avute in Germania le tesi di Wittemberg che influenzarono anche i famosi dieci articoli di fede che costituirono il primo documento di fede e dottrina della chiesa anglicana. Negli anni seguenti furono redatti altri documenti di fede anglicana, ma solo uno tra essi ebbe il placet del monarca, cioè i “39 Articoli della chiesa anglicana”, il più importante documento di quella chiesa fino ai nostri giorni. Sotto il successore di Enrico, re Edoardo VI , la riforma del cristianesimo anglicano, anziché coltivare rapporti costruttivi con la chiesa di Roma assunse toni largamente protestanti. Il tentativo da parte della regina Maria Tudor detta la cattolica e del cardinale Pole di ricondurre al cattolicesimo l’Inghilterra fallì.
Con Elisabetta I l’anglicanesimo divenne chiesa nazionale. La regina ebbe cura di sottolineare la dizione “capo supremo” riferita al monarca con quella di “governatore supremo”, poiché il vero capo della chiesa rimane Cristo. Ormai la chiesa anglicana, che aveva ricevuto legittimazione attraverso una serie di atti legislativi determinò una situazione in cui si poté dire che l’anglicanesimo era
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perfettamente consolidato. Da allora possiamo affermare che spirito cattolico e principi protestanti concorrono a definire la sostanza del movimento anglicano.
La riforma negli altri paesi europei. Suoi sviluppi fino al 1580
Come è nata la riforma nei vari Paesi europei? In Francia è nata in maniera autonoma, anche grazie al vigoroso impulso di Lutero e di Calvino. Nei Paesi bassi le idee luterane attecchirono immediatamente, così come il movimento anabattista. Coloro che in quell’area d’Europa abbracciarono la riforma furono molto perseguitati sia da Carlo V che dal suo successore Filippo II di Spagna. Tutto ciò diede luogo a una guerra che si concluse con la divisione del paese tra protestanti e cattolici: un nord protestante e un sud cattolico.
Nella Germania protestante si costituirono forti minoranze calviniste. La convivenza non fu facile. Anche in Polonia e Lituania la Riforma si diffuse nella sua caratterizzazione luterana; ivi trovò un terreno favorevole tra la nobiltà. In Boemia agli albori della riforma c’erano tre gruppi religiosi: gli utraquisti e i cattolici romani. Il luteranesimo si diffuse soprattutto tra i primi. Nel 1575, anche per far fronte alla controriforma luterani e calvinisti presentarono alla Dieta un confessione di fede comune detta Confessio Bohemica. In Ungheria e Transilvania la riforma si diffuse nella sua forma luterana, favorita da una situazione politica travagliata. In seguito il protestantesimo ungherese da luterano divenne calvinista. La Transilvania invece rimase luterana.
Anche in Austria ci fu una forte penetrazione delle idee della riforma. In Stiria e Carinzia le dottrine riformate si diffusero perentoriamente in tutti gli strati della popolazione. In Tirolo ebbero larga diffusione le dottrine anabattiste. Nel 1578, quando inizia l’opera della controriforma cattolica la maggioranza della popolazione dell’Austria centrale e orientale è protestante.
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In Slovenia e Croazia le idee della Riforma prevalsero grazie all’opera tipografica ed editoriale di Primo Trubar, luterano, al quale fecero da sostegno un gruppo pastori luterani.
In Danimarca in Norvegia e in Islanda la riforma si diffuse senza grossi ostacoli, in quanto la Corona lasciò libertà di predicazione. Ben presto con un distacco ufficiale da Roma il luteranesimo divenne in questi paesi religione nazionale.
In Svezia e Finlandia l’avvento della riforma fu propiziato dal re Gustavo Vasa, e anche qui come in Inghilterra la fede protestate determinò la nascita di un chiesa di stato, svincolata da Roma. La riforma in Scozia fu all’origine duramente contrastata, anche attraverso pene capitali, per circa un ventennio, ma senza risultato. Nel 1557 la nobiltà terriera e la borghesia cittadina strinsero un patto favorevole alla nuova chiesa riformata. La figura di un riformatore, John Knox organizzò il movimento introducendo dei testi di riferimento, ad esempio la “Confessio scotica”, documento che insieme ad altri fu approvato dal Sinodo nazionale del 1560.
La storia della riforma in Spagna coincide con la dispersione di coloro che in essa credevano da parte della S. Inquisizione. La maggioranza dei riformati fuggì all’estero.
In Italia quattro almeno sono i gruppi dissociati dal cattolicesimo: il primo è il clero evangelico cattolico; il secondo è la confessione protestante, luterana o riformata; il terzo è il gruppo degli antitrinitari; il quarto e ultimo gruppo è quello degli anabattisti, assai nutrito soprattutto in Veneto.
Di queste quattro espressioni del protestantesimo in Italia, dopo qualche decennio non rimase alcuna traccia tranne che nei verbali dell’Inquisizione. Un discorso a parte vale per i valdesi, che contribuirono alla diffusione della posizione protestante in Piemonte. Mentre nelle regioni della Calabria e della Puglia le comunità valdesi vennero annientate, esse conservarono la loro presenza come piccola comunità di fedeli in Piemonte, in un angolo dello Stato Sabaudo.
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Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II
Dai movimenti di riforma ecclesiale al concilio di Trento
E’ possibile grazie al lavoro e all’opera di un insigne studioso dei movimenti di riforma, Delio Cantimori, distinguere alcune fasi fondamentali nell’ambito più specificamente italiano, ma che possono essere generalizzate all’intero movimento protestante. In un primo periodo il movimento di riforma, caratterizzato da un clima di grande fluidità e incertezza comincia ad assorbire le tesi luterane, periodo che giunge fino agli anni ’40. Un secondo periodo vede in atto l’Inquisizione e l’apertura del Concilio di Trento, con una azione congiunta che vede compartecipi chiesa e stato. In questo secondo periodo che giunge sino agli anni ’60, è comunque ancora attiva una generazione di riformatori con i quali si tenta di venire ad un accordo da parte ecclesiastica. Nel terzo periodo la riforma vede chiudersi il concilio tridentino, in cui in sostanza il movimento riformista cede a favore di una prospettiva controriformista.
Più nello specifico nella prima delle fasi considerate, i riformatori fanno perno sulla riforma dei costumi individuali per poi estendere gradatamente la riforma a tutta la chiesa di Roma sino a coinvolgere anche il pontefice. A questa linea di rinnovamento si richiama la corrente del primo ‘500 che si è soliti definire come evangelismo, e alla corrente dell’evangelismo possono essere associati ambienti che propongono una imitazione di Cristo attraverso il recupero di una religione personale e intima, priva di atteggiamenti esteriori, caratterizzata da comportamenti semplici e fraterni; e attraverso il ripudio di quelle utilizzazioni a scopi personali del sacro considerate superstizioni.
Le istanze di rinnovamento non rimangono comunque confinate sul piano individuale ma tentano di investire anche l’organizzazione ecclesiastica. La denuncia delle pecche della chiesa di Roma si fonda su una critica articolata innanzitutto nei riguardi del papa, poi nei riguardi dell’ignoranza, della
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mondanizzazione, della corruzione e della superstizione diffuse nel clero e nel popolo. Ma la denuncia oltre che critica era anche propositiva, poiché chiedeva la regolare convocazione del Concilio, ogni cinque anni e più frequentemente dei sinodi conciliari a loro volta da convocare a scadenze anche più brevi. Ciò che l’assemblea chiedeva ancor più specificamente era uno stile più sobrio dei cardinali, di evitare per quanto possibile il cumulo dei benefici ai vescovi, di attuare una predicazione fondata sulla scrittura; sui religiosi, sottometterli al controllo dell’ordinario diocesano.
Occorre ricordare che nel libello “ad Leonem X” era contemplata anche la eventualità di usare la forza contro la deviazioni dalla fede, ad esempio per quanto riguarda la predicazione, la stampa dei libri ecc.
Ma di fronte all’approfondirsi dei problemi si delinea attorno agli anni ’40 una situazione per la quale da un lato si fa più netta l’esigenza di ristabilire la vecchia istituzione ecclesiastica, senza cedere alle pretese eterodosse e soprattutto instaurando tra le gerarchie un propositivo contrasto verso le altre fedi, in primo luogo quella ebraica, contrasto che si sostanziò nella creazione di ghetti, soprattutto a Roma e Venezia. D’altro lato però i riformatori tentano anche di inserire all’interno del corpus dottrinale cattolico anche quelle tendenze del protestantesimo ritenute non incompatibili con le scritture cattoliche e quindi con la fede cattolica. Conunque sia l’atteggiamento da tenere contro i nuovi movimenti è fomite, anche all’interno del cattolicesimo, di atteggiamenti contrastanti, che sono funzionali all’acquisizione da parte di ciascuna fazione di un potere via via maggiore. Ovviamente una volta che queste pretese egemoniche diventano intollerabili si verifica l’intervento della S. Inquisizione che provvede a rimettere le cose a posto. Alla soglia degli anni ’60 il movimento di riforma inizia la terza fase della propria attività: alcuni ambienti propugnano un ritorno alle origini della fede, attraverso un forte richiamo alla tradizione che annunciava una netta sconfitta delle tendenze riformatrici.
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Le deliberazioni tridentine
Quando nel 1520 Lutero vide le sue tesi rigettate e condannate da Roma, si appellò al Concilio, che però all’epoca non si sapeva ancora dove collocare, ma i riformati posero alcune condizioni: un’assemblea comprendente anche i laici, libera da ogni condizionamento papale, ad esempio attraverso la revoca del giuramento di fedeltà dei vescovi al pontefice; un’assemblea cristiana, cioè sottoposta al giudizio ultimo della scrittura; e da celebrarsi i terra tedesca. Paolo III decise in definitiva di collocare il concilio a Trento, città italiana ma sottoposta all’impero. L’assise operò in tre distinti periodi: dal 1545 al 1547; dal 1551 al 1552; dal 1562 al 1563. Complessivamente presero parte all’assemblea conciliare circa trecento religiosi, la maggioranza dei quali era italiana. Il Concilio era peraltro diviso tra i clienti del papa e i sostenitori dell’imperatore. L’assemblea tentò di instaurare una mediazione tra le varie posizioni. Il concilio fu interessato anche da una situazione non facile a livello esterno a causa delle guerre dinastiche, ma anche di critica al suo interno. La prima difficoltà interna era data dal momento in cui il concilio avrebbe dovuto iniziare; poiché da un lato vi erano i sostenitori dell’impero che appoggiavano le tesi protestanti; dall’altra i sostenitori della chiesa che chiedevano la condanna degli errori protestanti.
Su un primo piano anziché fornire una organica esposizione del cattolicesimo, il concilio rispose alle tesi protestanti, anatemizzando le credenze che si contrapponevano al cattolicesimo di Roma. Quanto alla Bibbia tra le tante versioni esistenti il concilio optò per la Vulgata e ritenne autentica soltanto quest’ultima. Sui sacramenti il concilio ne riconobbe sette. Al luterano sacerdozio universale si sostiutì il sacramento dell’ordine che per essere conferito richiedeva la mediazione del presbitero, così come tutti gli altri sacramenti cattolici. Si fissarono le condizioni per la validità del matrimonio, anche per porre fine alla pratica dei matrimoni clandestini. Per quanto riguarda l’eucaristia, la si presentava come sacramento che implicava la “transustanziazione” del pane e del vino, cioè la reale trasformazione
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dei mezzi sacramentali dell’eucaristia nel corpo e nel sangue di Cristo. Sull’estrema unzione e sulla cresima si sottolineava e confermava la loro natura di sacramenti. Vanno infine ricordati i decreti sulla messa, intesa come ritualizzazione del sacrificio di Cristo e sul Purgatorio inteso come luogo spirituale di preparazione delle anime alla felicità eterna, la cui permanenza può essere abbreviata dalle preghiere dei vivi, in particolare proprio con le messe. Vi era poi un atteggiamento favorevole alle immagini sacre le quali avevano le funzione di edurre le masse sui dogmi di fede attraverso l’utilizzo delle sacre rappresentazioni.
Sul piano disciplinare il concilio decretava in primo luogo un rafforzamento delle gerarchie in riferimento al complesso dei poteri che ad esse facevano capo, attraverso gli strumenti della visita pastorale e del sinodo diocesano. La prima che era in sostanza un prelievo di denaro, veniva dichiarata atto esclusivamente pastorale. Per quanto riguarda il sinodo esso era un’assemblea esclusivamente clericale e aveva a capo l’ordinario, cioè il presbitero.
Al contempo ai vescovi si imponevano doveri, primo fra tutti la residenza, poi il divieto di cumulare benefici; una condotta di vita sobria e la predicazione in prima persona della parola di Dio; verificare le attitudini dei chierici a diventare sacerdoti; partecipare ogni tre anni al concilio dei vescovi nella provincia ecclesiastica. Quanto alla formazione delle gerarchie si stabiliva che il sacerdote venisse adeguatamente formato dalla giovane età sul piano spirituale e culturale in una apposita istituzione detta seminario, che lo ospitava gratuitamente o a pagamento su base che al giorno d’oggi definiremmo reddituale. Anche la gerarchia interna degli ordini monacali venne rafforzata, accrescendo il potere di generali e badesse e sottoponendo le case religiose a periodiche visite di un delegato dell’ordine e quelle femminili a regolari visite episcopali, mentre gli enti di clausura erano ancor più severamente controllati.
L’applicazione romana del tridentino
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Nell’ultimo giorno del Concilio i convenuti chiesero all’unanimità che il papa confermasse tutto il lavoro dell’assemblea. Nel 1564 Pio IV emanò una bolla nella quale confermava i risultati raggiunti dal Concilio e riservò alla Curia della Santa Sede il giudizio su di essi e le relative controversie. Gli scritti che derivarono dal Concilio furono i seguenti: un catechismo, il breviario e un messale per le sacre funzioni. Infine nel 1593 una commissione pontificia pubblicò la versione ufficiale della Bibbia, detta Vulgata.
Con Sisto V viene realizzata una sistemazione della curia destinata a durare per secoli. Il collegio cardinalizio perdeva il tradizionale ruolo decisionale che fu invece affidato a congregazioni e sottratto ai concistori. Sei congregazioni si occupavano del dominio temporale della chiesa e nove delle questioni spirituali. Un ruolo particolare ebbe la congregazione conciliare. Due dei compiti di questa commissione erano: in primo luogo che le conclusioni cui si perveniva all’interno dei concili provinciali dovessero essere vagliati dalla congregazione e poi pubblicati previo parere favorevole della stessa; in secondo luogo la Congregazione assunse il compito di vagliare tutti i rapporti che gli addetti portavano a Roma e contenenti resoconti sulle condizioni della chiesa nei propri territori, insieme al potere di sostituirsi ove occorresse alla attività dei presbiteri.
Questo processo di verticalizzazione decisionale cominciò ad interessare tutti gli aspetti della vita post-tridentina.
A livello politico emerge dal concilio il ruolo della Segreteria di Stato, che si avvale di nunzi apostolici, cioè ambasciatori che raccoglievano informazioni politiche rilevanti per la Chiesa presso le Corti europee.
Sul piano dottrinale si afferma la istituzione chiamata Santo Uffizio nel 1542, che va a sostituire la Santa Inquisizione medievale, con maggiori poteri e con caratterizzazione e legittimità internazionali. Ad essa si aggiunge la Congregazione dell’Indice, incaricata di fissare l’elenco dei libri la cui diffusione e la cui lettura
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erano proibite negli stati cattolici. Sua missione sarà tra le altre quella di limitare strettamente l’accesso alla Vulgata da parte dei semplici fedeli.
Il concilio ebbe effetti non trascurabili anche per quanto riguarda l’aspetto degli edifici ecclesiastici, soprattutto con papa Sisto V. Le arti soprattutto pittoriche e architettoniche vengono utilizzate non solo per celebrare la gloria della chiesa sulla terra che è gloria di Dio ma anche per indurre nei fedeli un senso di rispetto e di sottomissione. La città irrisa a suo tempo da Lutero a causa dell’invasione dei Lanzichenecchi ridiventò così il centro del mondo cattolico, attraverso la ripresa dei pellegrinaggi e della celebrazione degli “anni santi”.
Le comunità cristiane che in tutta Europa si trovavano a convivere con gruppi protestanti, invocarono l’aiuto del papa, e soprattutto l’attuazione nei loro paesi delle decisioni del concilio. In molti di questi stati la religione cattolica fu definita religione di stato. Il potere di Roma poteva contare, per fare proseliti tra la popolazione civile, anche sull’appoggio delle autorità pubbliche.
Questo fu l’assetto del potere interno ed esterno di Roma, che perdurò in tutte le comunità cattoliche e che conservò i propri caratteri sino alla convocazione del Vaticano II.
Nell’opera di applicazione dei decreti tridentini si impegnarono alcuni ordinari diocesani, ad esempio C. Borromeo, G. Paleotti a Bologna, B. de Martiribus a Braga. Del resto l’ampia osmosi fra ordinari e ceti aristocratici fu ben vista dalle autorità ecclesiastiche, e a loro volta da coloro che ottenevano in sostanza di poter svolgere le funzioni di ligi burocrati. L’opera di irreggimentazione nel nuovo ordine cui la chiesa era giunta grazie al concilio si tradusse in un attiva predicazione e limitazione delle funzioni sia da parte di forze ostili interne, sia da parte delle masse civili, sia verso i semplici fedeli. In quest’ultima ottica non solo la chiesa si arrogò il diritto di nominare alle funzioni ecclesiastiche, ma anche quello al totale controllo sui beni ad essa affidati e quindi sulle sue istituzioni locali come gli istituti di istruzione, assistenza e beneficienza, e si munì anche di poteri giurisdizionali nei
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confronti delle questioni matrimoniali o sui reati e gli illeciti civili del clero, che lo stato avrebbe altrimenti avocato a sé.
La realizzazione di queste conquiste dipese dalla presenza di una articolata curia organizzata in più uffici che già erano presenti nellla chiesa in epoca precedente la riforma. Venne messo in atto un forte controllo sul clero minore, e da parte di quest’ultimo sulla popolazione.
Con la sottrazione dei sinodi diocesani all’autorità dei chierici e l’attribuzione di tale autorità al vescovo, quest’ultimo fu legittimato a controllare la vita del popolo senza intermediazioni.
Nelle istituzioni come i seminari, destinate alla formazione delle future gerarchie ecclesiali, non si doveva formare solo un clero qualificato in ordine alla dottrina ma ancha dotato del senso di sottomissione e di obbedienza alla gerarchia superiore, che nei seminari effettuava periodici controlli. Questo il modello di parroco creato nei seminari e presente ancora al giorno d’oggi, sicuramente fino agli inizi del Novecento.
Tuttavia in seguito all’introduzione dei primi seminari i più attivi agenti della chiesa furono gli appartenenti a ordini religiosi di recente costituzione: gesuiti, oratoriani, camilliani, i fatebenefratelli , i caracciolini e gli scolopi. Tra questi ordini assume un particolare rilievo la Compagnia di Gesù, il cui fondatore Ignazio di Loyola volle che la Compagnia si caratterizzasse per uno speciale voto al papato, voto d’obbedienza. La struttura interna di quest’ordine presbiterale è particolarmente rigorosa: il padre generale è eletto a vita, i superiori sono da lui nominati, la congregazione generale viene convocata di rado e solo per specifiche e rilevanti motivazioni. Ma ciò che costituisce la caratteristica principale dell’opera è la formazione lunga e accurata, che normalmente consente la dichiarazione dei voti solo dopo 17 anni di noviziato e il conseguimento delle qualifiche universitarie. Una formazione analoga ottiene la classe dirigente laica che si rivolge all’ordine per ricevere una formazione. Nelle “Disputationes” del gesuita R. Bellarmino, poi
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divenuto famoso proprio in virtù di quest’opera e di ciò che nella pratica ne deriva, cioè la legittimazione della Chiesa a ingerirsi in questioni temporali, traspare un atteggiamento che è ancora quello della chiesa al giorno d’oggi.
Anche dal punto di vista femminile nascono nuovi ordini come quello delle “orsoline” che operano attivamente e cristianamente nel “secolo”, ma anche ordini di clausura. Altro esempio di istituzione educativa gestita per le giovani e ai fini della loro educazione è quella delle Figlie della carità, che pronunciano voti annuali e che d si dedicano alla cura dei bisognosi.
Per quanto riguarda le cause di santificazione queste devono essere vagliate da una apposita commissione. Le condizioni e i criteri di valutazione sono dettati dal pontefice Urbano VIII. I criteri sono i seguenti: la purezza della dottrina, possibilmente espressa in opere di letteratura; la fama di santità che circonda la persona da santificare, durante la vita terrena; il compimento di miracoli; l’assenza di un culto indebito prima della venuta meno della persona in questione. Il santo è persona che si caratterizza per la propria virtù; i miracoli sono solo una prova di santità, non la ragione del culto che gli si attribuisce. Altra condizione di santità è la esatta e volontaria aderenza a tutto ciò che costituisce dottrina cattolica approvata dal papa, e quindi l’ortodossia dottrinale. L’ideale eroico della santità non deriva solo dalla difficoltà e lunghezza dei processi di canonizzazione, ma anche dalla scelta intima e consapevole verso quel traguardo, che poi suscita ammirazione tra coloro che fanno parte della comunità dei fedeli. Ma l’ideale eroico della santità non comporta solo l’abbandono del mondo, poiché esso implica anche il trionfo della chiesa, che il potenziale santo deve non solo cercare ma anche perseguire attivamente. Ad esempio con l’indottrinamento delle masse, attraverso la predicazione, l’anelito della fede può a volte dar luogo a forme popolari e folkloriche di religiosità, le quali non vengono disconosciute o almeno non tutte, dalla chiesa, ma anche spesso integrate nell’universo simbolico del cattolicesimo. A volte però queste pratiche e convinzioni saranno oggetto di persecuzione perché non
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conformi al messaggio cristiano, e quindi represse dalla Inquisizione. Tuttavia tutti quelli elencati sono aspetti della fede che fanno riferimento alle gerarchie. La vita del cristiano è molto più semplice. Il fedele deve assistere alla messa domenicale, ricevere i sacramenti, frequentare l’insegnamento religioso. L’espletamento di queste pratiche avviene normalmente in parrocchia, ma anche in chiese, oratori, cappelle private e confraternite. Sono appunto queste ultime, ancorché composte da laici, a forgiare i fedeli anche nell’ambito del secolo e della non partecipazione alla vita parrocchiale. Due su tutte: quella del Santissimo sacramento e quella del Rosario. Queste confraternite o associazioni laicali vanno a intaccare quella che è la autorità della parrocchia, ma sono viste con favore dalla chiesa romana perché contribuiscono a diffonderne il messaggio. Un ultimo esempio è quello delle comunità mariane. Va detto che accanto alle confraternite si diffonde a volte un terreno fertile per la corruttela e gli scambi illeciti di denaro, così come anche il voto di scambio, ma si tratta di fenomeni endemici, senza alcuna ripercussione sulla vita, ispirata al vangelo di queste associazioni. E infatti il culto mariano presiede a istituti di comunanza religiosa come le processioni celebrative, la formalizzazione della cerimonia della via crucis, le “quarant’ore” ecc.
Papa Urbano VIII introduce la diffusione delle immagini sacre, che a parere del popolo hanno a volte poteri sovrannaturali, ed è per questo motivo che codeste immagini vengono affidate in custodia alle gerarchie, che le utilizza non più come fonte di proselitismo o di propaganda ma come strumento di accesso alla contemplazione del mistero cristiano. Su questa base nascono anche alcuni movimenti che si richiamano a quelle immagini di viva potenza tanto da favorire in molti casi anche dei moti interiori di conversione alla fede cattolica. Sono nati in questo modo e secondo queste dinamiche istituti devozionali come il “bambin Gesù” o quella del Sacro Cuore, quest’ultima destinata ad un grande consenso.
La crisi della controriforma
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L’assetto ecclesiale e sociale che derivò dall’applicazione delle risoluzioni del Concilio di Trento, ebbe ovviamente e nella gran parte effetti positivi sulla vita di una chiesa rinnovata. Ma per alcuni aspetti suscitò delle difficoltà e delle problematiche che costituivano un fenomeno parallelo all’applicazione delle norme conciliari. Ad esempio il clero secolare non sempre attendeva alla cura delle anime come disposto dal concilio; la diffusione massiva di quello regolare ostacolava il totale impegno delle gerarchie nella pastorale e frenava lo sviluppo della vita civile; la moltiplicazione dei benefici ecclesiastici e la conseguente corsa da parte delle famiglie dei notabili ad assicurarne la gestione ai propri membri per ragioni economiche e di prestigio dilatava la mano morta e cioè l’assenza di produttività su alcuni beni appartenenti alla chiesa che venivano conferiti a coloro che ne acquisivano la proprietà grazie a cospicue donazioni; la vita religiosa femminile subiva i condizionamenti dell’ambiente sociale e familiare. Questo stato di cose, che venne anche duramente combattuto da alcuni pontefici, dipendeva da un assetto di interessi ormai consolidato all’interno della chiesa sia laica che clericale. Si era nel XVII secolo, ai cui inizi si determinò la prima crisi della Controriforma. Una crisi che ovviamente si tentò di reprimere inizialmente attraverso la condanna degli atteggiamenti scientifici, ad esempio di un Galileo Galilei, oppure attraverso la dura lotta contro movimenti religiosi non riconosciuti dalla chiesa.
A livello dottrinale il problema più acuto è rappresentato dal giansenismo che, fondato sulla predicazione agostiniana, già seguita da Lutero, ripropone il tema della grazia come fonte di salvezza. Al cattolicesimo contemporaneo che, al di là delle formulazioni tridentine, sembrava far affidamento per la ricerca della salvezza esclusivamente sulle opere, il giansenismo ricordava che in assenza della grazia, che Dio a volte manca di concedere, il singolo individuo può peccare, e non del tutto volontariamente. Questa dottrina invocava una profonda riforma morale della Chiesa cattolica, attraverso la ripulsa del concetto di “probabilismo”, secondo cui ogni azione moralmente retta non lo è in assoluto ma in via di probabilità; e il contrasto al lassismo, dottrina che concepisce l’azione morale anche in presenza di
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una scarsa rettitudine; nonché attraverso il rifiuto di concedere l’assoluzione ai penitenti che non mostrino ravvedimento, attraverso la fissazione di rigide regole per l’accesso all’eucaristia; la condanna dell’attrizione, cioè di un pentimento non spontaneo ma dovuto al timore della pena. Il giansenismo visse nei confronti della chiesa di Roma un rapporto ambivalente: da un lato condannato per le proprie tesi; dall’altro tollerato in quanto movimento in definitiva interno al Cristianesimo. Con la bolla “Unigenitus” il papa individuava tesi eretiche che andavano senz’altro censurate. A chi continuava a praticare in quel senso veniva comminata la scomunica.
La resistenza dei giansenisti si sviluppò in maniera composita: dall’adesione di alcuni al millenarismo; dall’appello ad un nuovo concilio, al movimento che propugnava il ricupero di una supremazia dell’impero sul papato e quindi sulla chiesa. Infine il giansenismo si fuse col gallicanesimo, soprattutto sulla questione della ecclesiologia romano/centrica.
Per la verità il gallicanesimo affondava le sue radici in epoca medievale, quando il sovrano Carlo VII, nel 1438, concesse una certa autonomia dei gallicani dal papato, sostituendo l’autorità di quest’ultimo con quella regia. Due secoli dopo, nel 1682, un’assemblea del clero gallicano approvò un documento, la “Declaratio cleri gallicani” con la quale venivano esposte tesi sintetizzate in quattro articoli: l’indipendenza del re da qualsiasi altra autorità nelle questioni temporali; la superiorità del concilio sul papa; l’inviolabilità dei costumi e delle consuetudini gallicane; la non modificabilità del giudizio del papa in materia dottrinale ad eccezione del consensus ecclesiae.
Intanto si sviluppava la corrente teologica dell’ultramontanismo, caratterizzata dalla rivendicazione della dipendenza della chiesa dalle disposizioni provenienti da Roma. Proprio l’ultramontanismo pose fine al tentativo di elaborare da parte di alcuni cattolici una vita spirituale e devozionale differenziata rispetto ai modelli emergenti dalla Controriforma. Di fronte a questo e ad analoghi fermenti, Roma
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elaborava una sorta di categoria in cui inserire le nuove tendenze che definì “quietismo” sotto la cui denominazione venivano indicate e condannate realtà diverse.
Infine un segno di crisi della Controriforma si può rilevare nell’emergere della critica storica di matrice protestante, cui la chiesa fece fronte con un’ampia pubblicistica in cui le posizioni assunte dalla chiesa nel concilio di Trento venivano fatte risalire a quelle della chiesa delle origini. Le confutazioni ad opera dei protestanti però continuarono sino all’intervento della Inquisizione, che riuscì a invalidare le affermazioni di alcuni movimenti secondo cui, documenti alla mano, molte tradizioni agiografiche andavano riviste perché il santo in questione non lo era davvero. Tuttavia la censura di queste posizioni venne alfine revocata, mentre si riconosceva all’interno della chiesa la possibilità di esercitare un lavoro critico anche sul passato dell’istituzione. Queste critiche troveranno la più alta espressione nel lavoro dei Maurini per l’edizione dei testi patristici . Minor successo ebbe il tentativo di applicare il metodo critico al campo dell’esegesi biblica, che uscì fuori dal cattolicesimo per essere praticata con maggior successo nel mondo protestante, implementando così la crisi della controriforma. Ma forse il più duro colpo alla chiesa post conciliare fu inferto dalla incapacità per i Gesuiti di adeguarsi ai tempi nuovi, i quali gesuiti non seppero fare altro che riaffermare le tesi che nei secoli precedenti ne avevano determinato il successo. Nell’epoca che stava per aprirsi i gesuiti divennero i primi ad essere danneggiati da questo mancato rinnovamento.
E infatti durante il periodo dei lumi la chiesa non poteva che guardare con diffidenza l’allontanamento da essa e dalla sua predicazione da parte delle avanguardie intellettuali, che rivendicavano la legittimità delle scelte individuali da ogni forma di imposizione, sia in materia religiosa sia in materia etica, sia in materia culturale.
A ciò concorsero sia lo sviluppo di un pensiero scientifico e filosofico che rendeva obsoleta la teologia ecclesiastica; sia a livello politico con la rivendicazione da parte
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dei nascenti Stati assoluti di tutte le ricchezze di cui la chiesa poteva avvalersi nei territori dei nascenti stati nazionali. Di fronte a questo quadro la chiesa, bloccata agli assetti concordati in sede conciliare, tentò un avvicinamento alle asserzioni del movimento illuminista, con la creazione di un convergente illuminismo cattolico che ebbe origine in Germania, movimento che però rimase circoscritto, anche se ebbe varie articolazioni e anche se beneficiò della sintesi fattane da L.A. Muratori, e della successiva propaganda che intendeva i nuovi movimenti come suscettibili di essere fatti rientrare nel solco tracciato dalla chiesa di Roma.
I tratti fondamentali del movimento cristiano/illuminista sono i seguenti: la volontà di purificare il culto da quelle pratiche religiose assai diffuse in età barocca e confinanti con la superstizione; una riforma della liturgia, fino allora celebrata in latino, che comportasse l’uso del volgare durante le celebrazioni.
Un altro aspetto del movimento è la tendenza a ripensare l’ecclesiologia verticistica della controriforma, con l’attribuzione, in ogni diocesi accanto ai poteri dei vescovi di maggiori poteri ai parroci.
Altre correnti vorrebbero che nella comunione del collegio dei vescovi col papa sta il supremo potere di governo della chiesa universale. Una posizione estrema è quella del movimento detto “febronianesimo” il quale propugna la convocazione di periodici concili nazionali dei vescovi indipendentemente dal volere del papa, in cui si adottino le misure necessarie di volta in volta per aggiornare la chiesa al mutare dei tempi. Inoltre il movimento dell’illuminismo cattolico produce istanze di mutamento anche nei rapporti con le fasce più disagiate della realtà sociale, cui il movimento auspica vengano concessi gli strumenti materiali per uscire dalla povertà attraverso il lavoro.
A livello politico le gerarchie accedono alla teoria del contratto sociale secondo cui la società non è creazione divina ma nasce da un accordo tra i suoi membri in ordine alla costituzione e alle regole da dare alla stessa società. Un particolare richiamo, nell’ambito di questa congerie di innovazioni va fatto da parte della chiesa alla
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tolleranza religiosa. Quando venne concessa dalle autorità dell’epoca e in particolare dall’imperatore Giuseppe II la patente di tolleranza che concedeva agli acattolici la possibilità di esercitare in privato il loro culto, allora si aprì all’interno della chiesa un dibattito sulla possibilità di rinunciare ai tradizionali strumenti coercitivi per la persuasione dei dissidenti. Dopotutto il riconoscimento della libertà religiosa non contrastava con la dottrina cattolica.
Nel corso del XVIII secolo, pur avendo la chiesa con Benedetto XIV adottato molte delle riforme propugnate dai nuovi movimenti intellettuali, non mancherà di adottare anche misure repressive. Dopo un ventennio di oscillazioni, la chiesa, con l’ascesa al soglio di Pio VI manifesterà un atteggiamento di totale chiusura verso la società moderna, chiusura che resterà fonte della linea ufficiale della chiesa nei confronti della modernità per molto tempo. La tesi a sostegno è la seguente: poiché solo la chiesa può garantire il rispetto delle autorità costituite, spetta ai governi appoggiarla concretamente, secondo le direttive emanate dalla chiesa stessa. L’irrigidimento della Chiesa su queste posizioni si traduce ad esempio nel provvedimento di papa Clemente XIV di soppressione dell’ordine dei Gesuiti o comunque del loro allontanamento dalle gerarchie ecclesiastiche.
Tuttavia cominciava ad emergere l’esigenza di ridisegnare l’assetto complessivo della struttura ecclesiastica, in particolare di quella regolare che doveva essere richiamata all’ordine. Se in Francia il governo borbonico decise di sottoporre beni e persone di chiesa al controllo e al potere dello stato, nei territori retti dagli Asburgo si manifestò il più ampio intento di una riforma della chiesa dall’interno. Le riforme, diceva Giuseppe II in uno scambio di lettere col papa, dovevano essere realizzate dal potere politico, ove non potessero essere operate dalla chiesa stessa. Giuseppe II non si limita alla soppressione di conventi e monasteri e alla riforma in senso moderno delle altre istituzioni ecclesiastiche. Egli tenta di sottoporre la chiesa allo stato, di formare parroci versati oltre che in teologia anche nelle discipline scientifiche, e sul piano del diritto di famiglia lascia aperta una possibilità di
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divorzio. Insomma il monarca intende trasformare la chiesa in una amministrazione pubblica alle dipendenze dello stato. Tuttavia gli eccessivi dissapori che queste intenzioni suscitarono all’interno della chiesa di Roma portarono all’abbandono del progetto. Peraltro tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 l’impegno riformatore dei sovrani illuminati veniva interrotto. A causa delle vicende francesi di qualche anno dopo vi sarebbero state più forti espressioni di esigenze riformiste, ma anche un rinnovato sodalizio tra il potere del trono e quello dell’altare per conservare le rispettive e risalenti posizioni.
L’età rivoluzionaria
Durante il frangente storico noto come “Rivoluzione francese”, l’Assemblea costituente adottò alcune delle misure di razionalizzazione dei rapporti tra chiesa e società civile che si traducono nella progressiva laicizzazione dello stato, mediante la proclamazione della libertà religiosa, il riconoscimento di pieni diritti ad ebrei e protestanti, l’abolizione del valore legale dei voti religiosi. Vi furono interventi economici a carico del clero come la confisca dei beni ecclesiastici e la soppressione delle decime; le spese per il culto sarebbero state a carico della nazione. La riforma incideva anche sul numero di diocesi che dovevano essere una per ogni circoscrizione territoriale, e si legò ad una analoga riforma delle parrocchie, numericamente presenti sulla base di calcoli demografici. La nomina dei vescovi poi era sottratta all’autorità papale e affidata ad un metropolita. Poiché tutto ciò provocò sollevazioni ad opera di ecclesiastici legati a Roma, l’Assemblea costituente chiese a tutto il clero un giuramento di fedeltà ai risultati di riforma raggiunti fino a quel momento. Da parte sua Pio VI condannava duramente ciò che stava avvenendo in Francia come contrario al dettato biblico. Alcuni vescovi tentarono di pervenire ad un accordo dando luogo al movimento detto della “democrazia cristiana”, movimento che però non soddisfece le attese.
Vero frutto della rivoluzione fu l’impianto sul territorio francese di una chiesa costituzionale, rispetto alla quale si delinearono due ordini: uno detto dei
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“costituzionali” e uno detto dei “refrattari”. Quest’ultimo partito fu debellato durante il processo di formazione delle gerarchie costituzionali. L’aprirsi della guerra con le potenze europee vide i refrattari perseguitati come nemici interni, insieme all’adozione di provvedimenti repressivi nei loro confronti. Con l’esecuzione di Luigi XVI si verificano episodi di violenza popolare a Roma insieme ad una serie di sollevazioni in Vandea, una regione interna su suolo francese, che vengono represse nel sangue. Vengono adottate misure come la legalizzazione del divorzio civile per sottolineare la volontà di separazione tra stato e chiesa, misure che suscitano chiaramente l’opposizione del clero costituzionale. A questo atteggiamento da parte delle gerarchie inizialmente favorevoli alla nuova chiesa laica si procede per ritorsione ad una persecuzione anche dei preti costituzionali. Uno dei provvedimenti in questione è la modifica delle festività e degli stessi nomi dei mesi nell’ottica di allontanare i credenti dalla superstizione cattolica.
Questo movimento distruttivo venne fermato da Robespierre, convinto a suo modo che la diffusione della credenza in una entità superiore non altrimenti definita avrebbe potuto favorire il processo di passaggio dal cattolicesimo al nuovo ordine ateo. Ai cattolici veniva comunque riconosciuto un giuramento di subordinazione al potere rivoluzionario.
Il fallimento della normalizzazione napoleonica
Per riuscire a conservare l’ordine pubblico minato dalla rivoluzione si affidò il compito di dirigere un governo autoritario a Napoleone, che trovò un eccellente interlocutore in papa PioVII, fino alla stipulazione del concordato del 1801. Malgrado ciò Napoleone adottò provvedimenti che certamente potevano essere considerati rientrare nell’ottica rivoluzionaria, e si pensi al codice civile, al matrimonio civile, che contemplava la possibilità di divorzio, alla riorganizzazione dell’istruzione, che divenne prevalentemente statale. Tutto ciò fu però reso possibile da alcune concessioni nei riguardi della chiesa: la restaurazione di un culto
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pubblico; la liquidazione dei costituzionali, che o appoggiavano il concordato oppure erano costretti ad abbandonare il ministero; una generosa distribuzione di prebende agli enti religiosi; il ritorno presso il papato del potere esclusivo di nominare i vescovi, che però erano tenuti a prestare un giuramento ulteriore a Napoleone, cioè al governo.
Nonostante queste laute concessioni, obiettivo di Napoleone era però quello di assoggettare definitivamente la chiesa allo stato. In questa linea si muovono gli “Articoli organici del clero”. In essi, oltre a un nuovo catechismo si delineano altri nuovi doveri religiosi come la fedeltà al monarca, il regolare pagamento delle tasse, la prestazione del servizio militare, la menzione dell’imperatore durante la liturgia; l’istituzione della festa di San Napoleone; l’imposizione ai vescovi di interventi a sostegno della politica governativa e la celebrazione delle vittorie militari del monarca nelle loro lettere pastorali. D’altra parte il governo non mancò di riorganizzare anche altri culti oltre quello cattolico e cioè protestanti, ortodossi ebrei, ma purché non rivendicassero istanze di indipendenza dal sovrano.
Il conflitto col papato derivò dal rifiuto di quest’ultimo di fare fronte comune al blocco contro l’Inghilterra il che comportò l’esilio del pontefice Pio VII prima a Savona nel 1809, e poi a Fontainebleau nel 1812. Il papa reagì con una scomunica e con il rifiuto di ordinare il clero di matrice statale. Bonaparte tentò comunque di legare a sé la chiesa e lo fece riunendo a Parigi un concilio della Chiesa imperiale nel 1811, sulla base delle cui risoluzioni la chiesa restava subordinata allo stato in un nuovo cesaropapismo. Il trasferimento degli archivi vaticani a Parigi è emblematico di una chiesa che si vuole sottomessa allo stato, come di una Europa politica a guida francese.
Con la deposizione di Napoleone nel 1814 il papa ritornava a Roma nelle vesti di capo della Chiesa universale e sovrano dello stato pontificio. La parentesi rivoluzionaria sembrò così chiudersi. Ma alcuni risultati dei concordati napoleonici
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non sarebbero caduti: ad esempio all’inizio dell’Ottocento la parrocchia emergeva come il luogo centrale della vita dei fedeli.
L’età della restaurazione che si apriva dopo il Congresso di Vienna (1814 –‘15 ) si pose l’obiettivo di ripristinare una Europa cristiana attraverso la eliminazione di quei provvedimenti assunti in sede rivoluzionaria prima, dittatoriale dopo, che avevano danneggiato l’ecumene cattolico europeo. Il primo punto del nuovo ordine era il ristabilimento dell’alleanza tra il trono e l’altare – propugnata dal potente principe Metternich – che avrebbe dovuto cancellare di comune accordo tutte le conquiste rivoluzionarie.
Il concilio Vaticano I
La prospettiva intransigente in merito alla conservazione dell’ancien regime, aveva già fatto la propria comparsa con papa Gregorio XVI, ma in tempi che non consentivano chiusure senza appello alle nuove dottrine e ai nuovi movimenti ideologici e politici. Quella stessa prospettiva fu però pienamente adottata dal papa successivo, cioè il già ricordato Pio IX. Alcune aperture peraltro, poste in essere all’inizio del suo pontificato vennero ritenute la causa del suo allontanamento, a seguito di un periodo di torbidi, dalla sede pontificia a e all’instaurazione della Repubblica romana. In opposizione alla nascente diffusione delle idee comuniste in tutto il continente, che avrebbero potuto mutare gli assetti sociali consolidati da secoli, il papa cominciò con l’adottare una serie di provvedimenti come quello della proclamazione del dogma della Immacolata Concezione di Maria (1854) e poi la pubblicazione del Sillabo, un elenco di proposizioni che venivano condannate. Ma l’iniziativa di maggior peso adottata dal pontefice fu la promulgazione di un concilio ecumenico, al quale non furono autorizzate a prendere parte le autorità civili, e che doveva essere regolato da una serie di disposizioni che erano già precostituite al fine di limitare al massimo la discrezionalità dei partecipanti nell’adozione delle decisioni. Si trattava di un regolamento che venne successivamente mutato per determinare una maggiore possibilità di dialogo tra i
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partecipanti, che altrimenti non avrebbero potuto fare altro che ratificare le deliberazioni del pontefice. Il concilio si aprì a Roma nel 1869 e fu sin dall’inizio condizionato da due fattori : da un lato la guerra franco prussiana e dall’altro l’occupazione di Roma da parte delle forze italiane. Furono questi i motivi che impedirono al concilio di giungere a termine nel giorno stabilito. Sta di fatto che il concilio elaborò il dogma della infallibilità papale, dogma che fu contestato da una minoranza di prelati che per questo motivo abbandonarono la sede del concilio prima della votazione finale ma che subito dopo furono indotti con le buone maniere a rivedere le proprie posizioni e quindi ad aderire al nuovo dogma.
La prima costituzione approvata dal concilio, la Dei filius, condannò apertamente alcuni “errori” contemporanei come razionalismo, ateismo, tradizionalismo, fideismo, e asseriva che il contrasto tra fede e ragione era solo apparente e d’altro canto condannò eresie come il protestantesimo, cui attribuiva la responsabilità di tutti i mali “sociali” dell’epoca. Occorreva pertanto ritornare ai costumi cattolici per espungere i nuovi movimenti di pensiero che minavano alla base l’ordine delle cose stabilito da Dio. L’altra costituzione, “Pastor Aeternus” riconosce l’infallibilità papale quando ex cathedra il papa interviene su una questione riguardante la fede o i costumi. Con il dogma della infallibilità il papa affermava un potere così intenso che neanche un nuovo concilio ecumenico avrebbe potuto togliere legittimità alle decisioni adottate in quel modo e su quegli argomenti che erano oggetto di pronunce infallibili “per loro stessa virtù”. Per quanto la curia si affrettasse a proclamare che le decisioni adottate dal papa avvalendosi della infallibilità attenevano soltanto alla sfera ecclesiale e non a quella temporale, era ormai già costume diffuso associare all’esercizio della infallibilità questioni che riguardavano non solo la sfera ecclesiale ma anche la società civile.
Per quanto riguarda la “questione sociale”, che cominciò a profilarsi più chiaramente alla fine del XIX secolo con il passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale, ai responsabili delle gerarchie cominciarono ad apparire
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abbastanza chiaramente le ripercussioni sui comportamenti religiosi da parte delle masse diseredate degli operai di fabbrica, che si contrapponevano ai datori di lavoro e che contestavano non solo le condizioni di lavoro e di abitazione, ma che dietro una deliberata propaganda socialista giungevano a porre in discussione la stessa struttura portante dell’ordine sociale, fenomeno che va sotto il nome di conflitto tra capitale e lavoro. I membri delle gerarchie cattoliche, combattuti tra i movimenti filantropici tesi a garantire un miglioramento graduale del tenore di vita attraverso un miglior trattamento delle masse operaie, e d’altra parte i movimenti socialisti che propagandavano l’abolizione della proprietà privata, scelsero di rispondere attraverso la indicazione alle masse del recupero di un fervore religioso che riattivi le forme tradizionali di carità cristiana, nel quadro di una società dove tutti e ciascuno dovrebbero accettare la condizione di vita che l’imperscrutabile disegno divino ha destinato a ciascuno. In tale ambito di idee si sviluppa una corrente tradizionalista che propone come soluzione alla questione sociale la ricostituzione delle antiche corporazioni medievali, dove guidati da fraterno amore datori di lavoro e lavoratori dovrebbero comporre ogni tipo di conflitto. E’ questa la linea del quotidiano della Santa Sede “Civiltà cattolica”. Resta il fatto, che in qualunque modo si tentasse una ricomposizione alla luce del Cristianesimo dei conflitti di classe, vi era alla base un senso di forte nostalgia per la perduta Societas Christiana. Altri concepirono la corporazione, come concetto, alla stregua di un vero e proprio sindacato di categoria, che avvalendosi dello sciopero potesse adeguatamente resistere alla mercificazione del lavoro e allo sfruttamento degli operai ad opera del sistema capitalistico. Altri teorici di un ritorno al passato si muovono in altra ottica e ritengono che il movimento operaio derivi da una scristianizzazione dei lavoratori, per far fronte alla quale gli ecclesiastici dovrebbero adottare gli stessi stili di vita delle masse proletarie, ciò per riuscire a dialogare con loro da pari a pari.
Con l’enciclica Rerum novarum, papa Leone XIII propone una terza via tra liberalismo e cattolicesimo per risolvere i problemi del mondo industriale. La chiesa si scaglia sia contro l’asserzione dei socialisti contraria alla proprietà privata, sia
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contro i liberali e la “mano invisibile” di impronta smithiana, invocando provvedimenti di sostegno alle classi svantaggiate e un salario minimo individuale, che consenta al lavoratore di sopravvivere. Il papa sollecita poi i cattolici a costituire associazioni confessionali sia nella forma di sindacati che di associazioni di categoria. Ma, al di là di questi propositi il pontefice riaffermava che solo la Chiesa poteva fornire soluzioni adeguate ai problemi sociali contemporanei, e cioè un ritorno delle forme di associazionismo sociale sotto la benevola e unica autorità del papa, che come nel Medioevo avrebbe dovuto essere riconosciuto come unica guida della civiltà.
Il messaggio del papa fu interpretato in due modi: da un lato con la ricostituzione di organismi collettivi che ricordavano le antiche corporazioni; dall’altro, con approccio più moderno vi fu la costituzione di veri e propri sindacati cattolici, che si assumevano in via diretta il compito di tutelare i lavoratori cattolici ai fini della loro emancipazione economica. Per fare ciò ovviamente questi gruppi tentarono la carta della politica, con la nascita in vari paesi di partiti che prendevano spesso la denominazione di democrazia “cristiana” e che chiedevano essenzialmente due cose: suffragio universale e rappresentanza parlamentare di tipo proporzionale. Furono questi i movimenti che chiesero, cosa prima di allora mai accaduta, una maggiore autonomia dalle gerarchie ecclesiastiche. In altri paesi d’Europa, meno legati alle gerarchie vi fu la creazione di movimenti che raccoglievano nelle proprie file sia protestanti che cattolici. Contro queste tendenze si mosse Pio X, in particolare contro il movimento politico guidato da M. Sangnier che aveva rivendicato la propria autonomia dal clero per realizzare il proprio progetto di una rinnovata società cristiana.
Successivamente con l’enciclica “Singulari quidam” (1912) il papa subordinava rigidamente al clero l’associazionismo professionale cattolico. Tuttavia il concreto operare dei sindacati cattolici li portava a condividere le stesse istanze dei sindacati socialisti, e ad agire, specialmente in Francia, in sinergia con essi. Nel 1929 la
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Chiesa prese atto di questa realtà e consentì la partecipazione dei cattolici a più ampie associazioni sindacali, cui partecipassero anche elementi neutri ovvero di matrice socialista.
Tuttavia queste aperture non dovevano far pensare ad una approvazione da parte del pontefice, cioè di un ufficiale riconoscimento del sindacalismo aconfessionale, concetto che viene ribadito nell’enciclica “Quadrigesimo anno” di Pio XI (1931). Sempre nell’enciclica in parola si ribadiscono alcune idee già presenti durante il pontificato di Leone XIII, idee progressiste, che però non cambiavano l’impianto di fondo: solo alla chiesa spettava la regolamentazione degli aspetti economici della vita collettiva. Il papa inoltre riteneva che entrambe le vie di rivendicazione dei propri diritti da parte dei lavoratori avessero la medesima legittimazione: da un lato il corporativismo fascista, dall’altro l’associazionismo operaio, che però dovevano senza eccezione adottare quello che era lo spirito del cristianesimo, poiché solo una società realmente cristiana avrebbe potuto risolvere i problemi, innanzitutto economici della collettività sociale. A questa idea di un primato della chiesa sulla società civile non si daranno eccezioni sino al Concilio Vaticano II.
La politicizzazione della devozione
Lo sforzo della chiesa di contrastare il movimento di secolarizzazione della collettività sociale viene specificato e articolato nelle due encicliche di Leone XIII “Diuturnum” (1881) e “Immortale Dei” (1885). Dopo il Concilio vaticano I la figura del papa viene presentata come quella di un santo vivente, e viene riaffermata la primazia del pontefice sia in ambito ecclesiale che in ambito civile e sociale. Viene contestualmente indetta una raccolta di fondi o donazioni che avrebbero dovuto risarcire il pontefice per la perdita dei territori un tempo ecclesiastici. La convinzione diffusa negli ambienti ecclesiastici è nel senso che solo il riconoscimento da parte dei cattolici della presenza di Cristo e del suo sacrificio avrebbero potuto garantire la pace e la prosperità al mondo di allora. Per incentivare questi assunti viene data libertà di costituire enti che in qualche modo potessero
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difendere la chiesa dai suoi detrattori e insieme diffondere il messaggio del vangelo. E’ il caso della devozione al Sacro Cuore, che risaliva almeno al periodo di Luigi XIV, il quale all’epoca ebbe una rivelazione, che cioè se avesse costruito una cappella in cui rendere omaggio a Cristo e se avesse portato sugli stendardi il simbolo del Sacro cuore avrebbe vinto su tutti i suoi nemici. Luigi XIV però non ascoltò il messaggio, e ciò determinò successivamente la convinzione assai diffusa che la causa della Rivoluzione fosse da attribuire al mancato adempimento della rivelazione a parte del sovrano. La rivoluzione avrebbe continuato a lacerare il Paese, parlo della Francia, a corroderlo e a snaturarlo finché non si fosse pervenuti alla costituzione di uno stato cristiano. Anche la sconfitta della Francia di Napoleone III e la sciagurata comune di Parigi vengono riportate a questa interpretazione. Nasce allora il proposito di realizzare una basilica intitolata al Sacro cuore nella città di Montmartre.
Intanto la rete devozionale dell’Apostolato della preghiera, creata dalla Compagnia di Gesù, organizzazione a carattere internazionale e subito appoggiata dal papato, propugna un ordinamento politico internazionale fondato sulla venerazione del Sacro cuore. Il modello concreto più vicino a queste teorizzazioni sarà quello dell’Ecuador, il cui governo garantisce alla chiesa ogni privilegio e consente solo ai cattolici il godimento dei diritti e della pienezza di quelli civili.
Altra iniziativa è quella di diffondere il messaggio del Sacro cuore all’interno delle famiglie, di ogni singola unità familiare, sul presupposto di subordinare alla chiesa l’intera società. Durante la prima guerra mondiale la devozione al sacro cuore verrà indicata come possibile fonte di successo nell’ambito del conflitto. A più riprese papa Benedetto XV presenta al pubblico riconoscimento un Regno del sacro cuore, cui tutte le nazioni avrebbero dovuto sottomettersi, e che avrebbe avuto come unica autorità quella del papa e delle gerarchie. Con Pio XI e con la sua enciclica “Quas primas” (1925) il papa istituisce per la terza domenica di ottobre la solenne festa di Cristo re della società. In contrapposizione a correnti moderate il movimento che era
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alla base dell’enciclica sunnominata avrebbe affermato la tesi secondo cui il riconoscimento dell’autorità sovrana di Cristo sugli affari temporali costituisse l’unica possibilità di evitare un ancor maggiore processo di secolarizzazione della società. Questo atteggiamento della chiesa continuerà ad essere adottato fino ai primi anni venti in Italia, perché i progressi intanto ottenuti dal movimento socialista erano tali che anche i più fervidi credenti avevano subordinato la propria fede ad una ideologia di conquista politica o sociale.
Nella crisi del mondo contemporaneo
Nel corso del XIX secolo sierra affermata all’interno della chiesa una cultura intransigente che rifiutava in toto la modernità. Nel secolo successivo questo approccio ai problemi della società avrebbe in sostanza dovuto affrontare alcune difficoltà cioè alcuni moti di allontanamento dalle direttive ecclesiastiche. Un primo problema era dato dall’esistenza di un movimento che rivendicava l’istanza di mettere la chiesa al passo coi tempi attraverso la trasmissione della dottrina mediante un approccio individualizzato nei confronti di coloro cui la predicazione ai fini della conversione doveva essere rivolto. I sostenitori del rinnovamento come appena descritto si volsero verso tre grandi tematiche. In primo luogo l’utilizzo del metodo storico – critico nell’interpretazione del vangelo e delle altre scritture. In secondo luogo un superamento della scuola tomista in nome di una filosofia dell’immanenza, che si opponeva al medievalismo imperante. Infine l’individuazione delle linee politico sociali che avrebbero consentito ai cattolici di operare scelte a carattere politico o sociale che fossero indipendenti dalle direttive delle gerarchie. Quello che in sostanza è il modernismo ecclesiastico cattolico, appare tuttavia nelle varie confessioni del cristianesimo. Un movimento assai frastagliato, come d’altra parte è frastagliato il cristianesimo nelle sue varie diramazioni.
Dinanzi a tutto ciò il pontefice Pio X, con l’enciclica “Pascendi” del 1907, condannava duramente il modernismo: sotto il pretesto di rinnovare la chiesa, i
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modernisti volevano diffondere l’agnosticismo e l’immanentismo, di distruggere il carattere sovrannaturale della chiesa, della fede e del dogma. Pertanto l’intervento pontificio favorì lo sviluppo dell’antimodernismo, cioè la linea di pensiero secondo cui il mondo contemporaneo, con i fenomeni di scristianizzazione, secolarizzazione e laicismo, era totalmente in preda al demonio. In tale contesto la chiesa non solo deve essere autosufficiente, ma il tentativo di alcuni cattolici di adeguarla ai tempi moderni rappresenta un tradimento, la partecipazione ad una congiura volta a privare la chiesa del suo potere sul mondo. Tra modernisti e antimodernisti vi fu un certo numero di prelati indecisi sull’adesione all’una o all’altra corrente, ma più ancora che agli antimodernisti le censure del papa si rivolgevano proprio agli indecisi, poiché questi ultimi, pur adottando posizioni formalmente a favore dell’indirizzo papale, tendevano non di meno a limitarne a portata. Per combattere il modernismo il papa ordinò misure restrittive in tutti gli ambiti in cui il cattolicesimo esplicava la propria attività e cioè seminari, diocesi, istituzioni educative ecc. Al fine di rafforzare i controlli contro il modernismo da parte ecclesiale monsignor Benigni fondò addirittura una società segreta, cioè il cosiddetto “Sodalitium pianum”, una organizzazione a carattere internazionale volta a scoprire e denunciare tutti coloro che più o meno pubblicamente appoggiavano il modernismo. Anche per gli aderenti all’organizzazione in parola, discutere anche a livello minimale, le scelte del pontefice equivaleva a porsi in contrasto con le posizioni della Curia e quindi caratterizzarsi essi stessi come modernisti. Con il nuovo papa, cioè Benedetto XV il sodalizio venne sciolto. Si era nel 1921.
L’accordo coi fascismi
Dopo la prima guerra mondiale, come reazione al pericolo comunista, si svilupparono in Europa fermenti e movimenti nazionalistici che in alcuni paesi divennero ben presto regimi totalitari, ascendendo in vari modi alla guida delle rispettive nazioni. Tali movimenti a carattere politico si collocavano su posizioni ideologiche affini a quelle ecclesiastiche e pertanto ricevettero inizialmente
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l’appoggio della chiesa che era dovuto ad alcuni fattori che caratterizzavano i movimenti in parola: la volontà di cancellare i diritti introdotti della rivoluzione francese; organizzazione corporativa del lavoro; una opposizione nei confronti degli ebrei, accusati di complottare per il dominio del mondo, con successiva richiesta di una legislazione antisemita. Vi erano peraltro anche punti di frizione tra questi movimenti e la chiesa: ad esempio il concetto di razza, quello di nazione, la divinizzazione del capo di stato ecc. La chiesa non si limitò a stipulare accordi di mera tolleranza e convivenza con tali regimi, ma li appoggiò apertamente in quanto alcune delle loro posizioni erano condivise dalla chiesa da secoli, ad esempio l’antisemitismo. Inoltre la chiesa intendeva valersi di tali accordi per costituire quella christiana societas che avrebbe avuto tutte, o quasi, le caratteristiche del mondo medievale. Insomma un vigoroso ritorno sulla via della tradizione.
L’accordo col fascismo italiano passò in primo luogo attraverso la sconfessione del partito popolare fondato da Don Sturzo, che per la sua laicità venne ritenuto un ostacolo al dialogo con il nascente stato fascista. I patti Lateranensi furono niente altro che la definitiva codificazione dei rapporti tra chiesa e stato, con vantaggi e concessioni reciproci. Innanzitutto gli accordi in parola ponevano fine alla questione Romana attraverso il riconoscimento della indipendenza della santa sede dallo stato italiano; in secondo luogo prevedevano un risarcimento a favore della chiesa per i danni da questa subiti a causa della forzosa inclusione nello stato unitario nel 1870; infine una serie di libertà in materia matrimoniale, educativa, giurisdizionale ed economica. Nonostante alcune tensioni come sulle leggi razziali e sulla disciplina restrittiva in merito all’Azione cattolica, il consenso della chiesa nei riguardi del fascismo fu costante. Tutto quanto detto finora caratterizzò anche il rapporto tra la chiesa e la dittatura spagnola del generale Francisco Franco. L’orientamento cattolico non mutò neanche quando i militari spagnoli con un colpo di mano insorsero e destituirono il legittimo governo repubblicano, che era in carica grazie alla vittoria elettorale. Franco mirava alla restaurazione di una Spagna tradizionalista e cattolica, in cui l’unità religiosa fosse il cardine della unità politica.
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Questa linea politica ebbe una sanzione durante il 1953 con un concordato tra il regime franchista e la chiesa spagnola.
Per quanto riguarda il regime nazionalsocialista tedesco, sebbene per vie più tortuose si pervenne ad un accordo anche con quest’ultimo, accordo che faceva leva sul gradimento da parte della chiesa di Roma delle connotazioni fortemente anticomuniste di quel regime, e anche antiliberali. Tuttavia il concordato con i tedeschi ebbe vita breve perché venne presto disatteso dalla politica di regime. Su questo evento Pio XI scrisse anche una enciclica in tedesco, nella quale condannava gli aspetti paganeggianti del regime e il suo fanatismo su base razziale. Il proposito di scrivere una ulteriore enciclica non poté essere realizzato a causa della morte del pontefice. Il suo successore, Pio XII dinanzi alla barbarie posta in essere dai nazisti, scelse la via del silenzio ufficiale e della segreta trattativa diplomatica, giustificando ciò con la volontà di non provocare ritorsioni sulla popolazione civile.
Pio XII interpretò gli accadimenti bellici nel senso di una punizione che la società si era auto inflitta allorché aveva abbandonato la strada della fede cattolica, e soprattutto quando aveva rigettato l’autorità del papa come garante dell’ordine universale delle cose. Riguardo strettamente alla politica di guerra il Papa si schierò con gli alleati non appena capì che gli esiti della guerra sarebbero stati loro favorevoli. Ma la sua predisposizione a porsi sotto l’ala protettiva di quelli, derivò anche dalla constatazione che il dopoguerra sarebbe stato caratterizzato da una contrapposizione tra mondo occidentale e mondo comunista. Basti pensare che uno dei primi provvedimenti in merito fu la scomunica da parte della chiesa, di chiunque aderisse al partito comunista italiano che all’epoca si preparava diventare un partito di massa. Il papa tuttavia non riusciva a dimenticare il suo sogno di una rinnovata civiltà cristiana in tutto il mondo e ovviamente operò con tutte le sue forze per l’indebolimento se non per la distruzione del partito comunista, soprattutto quello italiano. L’attività del papa in questo senso si concretò in alcuni provvedimenti come l’istituzione del dogma dell’Assunzione (1950), l’introduzione della festa
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della Madonnna (1954) e infine la nobilitazione dell’appartenenza alle organizzazioni del Sacro Cuore (1958).
Ma oltre che sul piano religioso Pio XII si sforzò di intervenire anche su quello politico e sociale, condannando certe tendenze dell’occidente e certe pecche del capitalismo che non necessitano di essere elencate in questa sede perché ben note a tutti coloro che ne sono interessati, sia direttamente che indirettamente. Il papa ordinò in sostanza a coloro che lo servivano di dar vita ad una forte azione sulla società per orientarla in senso cristiano, con ciò motivando anche l’attività di propaganda dei parroci e di tutti gli altri membri della gerarchia nel senso di fomentare la paura e la riprovazione nei confronti di coloro che avevano o avrebbero voluto aderire al partito comunista italiano. Tuttavia il papa non considerò che i partiti di ispirazione cattolica erano perfettamente inseriti nel contesto politico sia italiano che internazionale, nell’ottica però sempre di un capitalismo marcatamente anticomunista.
Nondimeno fu emblematico un episodio, quello dei “preti operai” che lavorarono in Francia vicino agli operai in senso stretto e ne condivisero per un certo tempo le idee, le rivendicazioni, le istanze di miglioramento delle condizioni di vita ecc. Ma si trattò di un esperimento di breve durata, che terminò nel 1959. D’altra parte la linea internazionale della chiesa, non suscettibile di essere ripudiata, era quella occidentale e capitalistica. Con l’enciclica “Humani generis” il papa si rivolse ad alcuni teologi e studiosi che volevano realizzare il pieno recupero della tradizione biblica e patristica per adeguarla alle tendenze moderne.
La svolta conciliare
L’ascesa al pontificato di A. Roncalli, patriarca di Venezia che prese il nome di Giovanni XXIII, determinò da parte del pontefice l’abbandono di molte delle scelte politiche operate dal suo predecessore. Ma tra tutte la più indicativa fu la convocazione di un Concilio ecumenico. Nella allocuzione “Gaudet mater ecclesia”
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(1962) che apriva il Concilio e redatta dallo stesso pontefice, non si delineava un insieme di scadenze da rispettare, e tuttavia emergevano alcuni orientamenti di fondo che avrebbero potuto portare ad una nuova pentecoste all’interno della chiesa, espressione simboleggiante la coordinazione del lavoro di tutti i membri delle gerarchie cattoliche e non solo italiane. Il programma che il papa si proponeva di realizzare non trovò immediato riscontro nell’assemblea conciliare, ma ad essa parteciparono un numero di padri che, su 2778 oscillava in termini di presenza effettiva tra i 2100 e i 2300 di cui solo il 33% proveniva dall’Europa. Ciò che evidenzia come sin da subito si delineò una forte maggioranza esterna tesa a togliere ai cardinali romano cattolici il predominio all’interno dell’assemblea.
Tra il pontefice e la maggioranza riformatrice del Concilio si creò subito una certa sintonia perché anche il papa nutriva istanze di riforma. Dopo la morte del papa precedente, il “Papa buono” e l’elezione di Montini che prese nome Paolo VI, il nuovo pontefice si impegnò a portare a compimento il concilio e adottò provvedimenti di stimolo e di incitamento nei riguardi delle tendenze riformatrici e a scapito dei conservatori.
All’interno della maggioranza riformatrice emergevano posizioni differenti, ad esempio quella del cardinal Lercaro che propugnava l’impegno per la pace, il sostegno ai poveri, l’abbandono del metodo tomista in ambito teologico. Anche nella minoranza conservatrice vi furono figuere carismatiche, ad esempio un Lefebvre integralista e refrattario ad ogni concessione al modernismo.
Con la costituzione “Dei verbum” sulla rivelazione si restituiva alla chiesa la centralità della scrittura, e peraltro si accoglieva il metodo storico critico della lettura e della intepretazione dei testi sacri. La costituzione sulla liturgia “Sacrosanctum concilium” concedeva la celebrazione dell’eucaristia in lingua volgare, esprimendo un intento ecumenico che guardava alla modernità con occhio benevolo. La costituzione sulla chiesa “Lumen gentium” ribadiva la strutturazione gerarchica della chiesa cattolica, con a capo il pontefice. Infine la costituzione
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“Gaudium et spes” rimandava alla riflessione di ogni cattolico le scelte personali e quindi anche quella di adesione a organizzazioni politiche insieme ad un riconoscimento delle conquiste della scienza e del metodo galileano.
Oltre alle costituzioni il concilio emanò anche alcuni provvedimenti minori, cioè i decreti, ad esempio il decreto “Unitatis reintegratio” il quale valorizzava le affinità tra i tanti movimenti cristiani presenti nel mondo e quindi anche riguardo alla chiesa cattolica con le altre confessioni. La dichiarazione “Nostra aetate” rigettava in toto l’antisemitismo, forse a causa del senso di colpa per aver a suo tempo appoggiato regimi compromessi con l’Olocausto. Il decreto “Dignitatis humanae” riconosceva la libertà individuale in materia religiosa, affermando che l’uomo non poteva essere obbligato a non credere o a credere ciò che contrasta, in materiale religiosa e coscienziale, con le proprie più intime convinzioni. Infine il decreto “Ad gentes” riconoscendo la relatività cattolica rispetto ad altri culti, preannuncia l’inizio di un dialogo con le altre fedi.
Ma quali sono stati gli effetti del Concilio sui cattolici di altre aree del mondo? In primo luogo si è avuto il rigetto di gran parte delle conclusioni conciliari sia da elementi conservatori che progressisti. I conservatori hanno accettato solo formalmente le idee e le conclusioni cui il Concilio era giunto. Dall’ala conservatrice si staccò poi il movimento che fa capo a Lefebrve, il quale giunse a formulare la tesi che il Vaticano II era un risultato del complotto dei nemici della chiesa per provocarne l’estinzione. Lefebrve ed altri vescovi hanno per parte loro dato vita ad una piccola chiesa che ha raggiunto un cospicuo numero di aderenti in tutto il mondo. Le correnti più innovative, forse influenzate dal marxismo hanno visto nel Concilio il tentativo di integrare la chiesa nell’ottica del capitalismo e di farne un semplice comitato d’affari. Anche queste correnti hanno rifiutato di appoggiare le decisioni conciliari. Le predette correnti, cioè quella riformatrice e quella progressista sono state denominate del “dissenso cattolico”, che però è stato presto emarginato e a volte colpito da sanzioni da parte della curia. Papa Montini
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cioè Paolo VI, contrario agli opposti estremismi tentò per quanto possibile di conciliare gli animi a favore di un intervento dei cattolici nella vita sociale per ricondurre coloro che hanno dimenticato il messaggio evangelico alla vera e cioè alla cristiana condotta di vita.
L’avvento di Giovanni Paolo II, rigidamente anticomunista agì nel senso di determinare una chiusura della chiesa alla modernità e quindi in primo luogo al movimento comunista, a favore della riscoperta delle tradizioni controriformistiche, rivendicando peraltro una maggiore incidenza delle istanze ecclesiastiche sul piano temporale. Dopo il crollo del regime sovietico nel 1989, il nemico da battere diviene quello capitalista. Vengono create strutture di formazione per giovani cristiani nella prospettiva che da essi si possa ricavare la classe dirigente del domani, anche se tali istituti sono spesso tacciati di scarsa moralità e di plagio nei confronti degli aderenti e mi riferisco all’Opus Dei e a Comunione e Liberazione.
Giunti al presente, attivo è sempre il movente della chiesa nell’aiuto sul territorio dei ceti deboli e ovviamente su un piano più generale nella speranza che un giorno tutte le chiese che si dicono cristiane, abbandonati i motivi di disaccordo, ritornino ad essere unite dalla stessa fede e dagli stessi principi.
Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri
Il periodo finale del ‘500 è caratterizzato da una contrapposizione teologica , in seno al movimento protestante, che vede da un lato la tendenza “gnesioluterana” (dal greco “genuino, autentico”) come elaborata da Lutero opposta a quella filippista, più incline a valorizzare la teologia di Filippo Melantone, in particolare per quanto riguarda le sue opere soteriologiche. Se il luteranesimo genuino fa perno sulla Università di Jena, il filippismo è riconducibile all’università di Wittenberg. Il cancelliere di quest’ultima università, Jakob Andreae, nell’opera “Solida declaratio” tenta una conciliazione tra le convinzioni di fondo del luteranesimo e le tesi di
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Melantone. Nel 1580, cinquantesimo anniversario della “Confessione di Augusta”, i testi fondamentali della maggior parte delle chiese, a carattere normativo, vengono raccolti nel cosiddetto “Libro della concordia”, punto di riferimento per il luteranesimo successivo. Se il “Libro” in parola tende ad appianare le dispute tra luterani e filippisti, esso sancisce d’altra parte la impossibilità di una riconciliazione del luteranesimo con il movimento calvinista.
In questa fase l’identità spirituale della Germania luterana è ormai consolidata. La ripresa dell’istruzione catechistica ha determinato nella popolazione l’acquisizione delle conoscenze di base per la lettura del testo biblico nonché una diffusa prassi di preghiera familiare. Il culto domenicale mantiene la sua importanza, così come la Santa Cena. Intorno al 1600 la festività del Natale assume una nuova rilevanza, tuttavia l’enfasi maggiore è posta sulla celebrazione della Passione, in particolare del Venerdì Santo. Quest’ultima festività vede una predicazione più breve e molto spazio è concesso ai racconti evangelici della Passione. Nella Germania del 1580 il grande progetto di Lutero di una chiesa universale, di massa, si può considerare ben avviato, ma in larga parte ancora incompiuto.
La Svizzera riformata, dopo la morte di Calvino è caratterizzata da un possibile accordo con le altre chiese cittadine, attorno all’asse Zurigo – Ginevra. In questo ambito è decisiva l’opera di Heinrich Bullinger il quale prosegue una attiva opera di mediazione, teologica e diplomatica tesa ad evitare che la polverizzazione del movimento calvinista renda impossibile ai riformati preservare la propria identità, sotto la pressione di Roma da una parte e del luteranesimo dall’altra. Questo sforzo viene coronato dalla Seconda Confessione Elvetica, che diverrà il principale testo della chiesa riformata.
A Ginevra il successore di Calvino è Teodoro di Beza. Mentre Calvino era un esegeta della bibbia, Beza si dedica a gettare le basi della futura chiesa riformata. Nel panorama delle città riformate, un posto particolare spetta a Basilea, in quel tempo rifugio di spiriti liberi che difficilmente avrebbero potuto vivere altrove. In
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questi anni l’università di Basilea torna ad essere una delle più prestigiose d’Europa e accoglie centinaia di studenti stranieri. Nel cantone dei Grigioni vi è un clima piuttosto tollerante, e molti italiani sono attivi come pastori. Vi si insediano altresì comunità anabattiste che introducono in quelle regioni della Svizzera i dialetti romanci, che sono alla base dell’attuale quarto linguaggio diffuso delle federazione elvetica, dopo francese, italiano e tedesco.
Nei Paesi Bassi viene favorito un regime di coesistenza tra cattolicesimo e fede evangelica. Fa eccezione la provincia di Gand , dove viene posto in atto il tentativo di costituire una repubblica riformata, con gravi complicazioni politiche che si risolveranno in un nulla di fatto, cioè nella mancata costituzione della provincia.
In Francia Enrico II già nel 1559 decide di liquidare il nascente protestantesimo mediante l’utilizzo della forza, ma le circostanze politiche non sono favorevoli. Alfine il re emana una costituzione che attribuisce ai protestanti quattro città fortificate, La Rochelle, Montauban, Cognac, La Charité, come garanzia della libertà di culto. Tuttavia il risultato di questo provvedimento fu di fatto la creazione di uno stato nello stato, situazione che venne meno, per iniziativa di Caterina de’ Medici, madre di Magherita di Valois, quest’ultima a sua volta promessa in matrimonio a Enrico di Borbone. Caterina era anche reggente a favore dell’altro figlio Carlo IX, principe ed erede al trono. Pochi giorni dopo il matrimonio tra Margherita di Valois ed Enrico di Borbone, cui parteciparono molte rappresentanze protestanti e ugonotte, traendo a pretesto l’attentato contro l’ammiraglio Coligny, leader ugonotto, probabilmente da parte di cattolici, i protestanti minacciarono di passare all’offensiva. Caterina de’ Medici decise allora di premere su Carlo IX per ricevere l’assenso all’assassinio di tutta la collettività ugonotta e protestante presente in quel momento a Parigi. Il massacro si compie nella notte di San Bartolomeo (23 – 24 agosto 1572). Il papa Gregorio XIII si reca allora nella chiesa romana di S. Luigi dei Francesi per ringraziare Dio di aver favorito il duro colpo inferto alle eresie. Enrico di Navarra convertitosi provvisoriamente al cattolicesimo
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decide di ritornare calvinista, trovando però l’opposizione della Lega Santa, fondata dai Guisa, con l’assenso della Spagna e del papa. Enrico non riesce ad avere la meglio nello scontro decisivo con i cattolici che gli impediscono l’ascesa al trono di Francia. Nondimeno nel 1593 abiura la fede protestante e torna cristiano, (“Parigi val bene una messa”). Cinque anni dopo Enrico concede a protestanti e ugonotti l’Editto di Nantes che ne sancisce la libertà di culto. Quattro anni dopo, dopo aver subito diciotto attentati, re Enrico viene assassinato nel 1610.
In Inghilterra Elisabetta Tudor, subentrata a Maria la Sanguinaria rimette in vigore l’Atto di supremazia di Enrico VIII. Dopo al designazione del vescovo di Canterbury nella persona di Matthew Parker, ex professore a Cambridge, nel 1571 vengono pubblicati i “Trentanove articoli”. Nonostante l’anglicanesimo preveda una commistione di alcuni elementi estrapolati dal cattolicesimo e altri dal protestantesimo, ciò non impedì che sotto il regno di Elisabetta i dissidenti fossero duramente perseguitati.
In Italia i movimenti protestanti erano stati progressivamente repressi dall’Inquisizione, alcuni abiurando altri recandosi in altri paesi in cui risiedere. Tuttavia alcune aree di scarsa estensione nell’Italia del nord erano rimaste attive e operanti, comunità protestanti, ad esempio in Valtellina, ma il tentativo di favorire una convivenza pacifica con i cattolici non ebbe l’esito sperato, nonostante l’appoggio della Francia in questo senso. Il nuovo papa Pio V nel 1568 fa rapire il pastore Francesco Cellario e lo fa giustiziare a Roma l’anno successivo, favorendo in tal modo l’estinzione del protestantesimo in Valtellina.
La guerra dei trent’anni
IL XVII secolo si apre sulla base di una serie di sommovimenti, che possono essere considerati dipendere dalla contrapposizione tra la Spagna imperiale e i territori e le Nazioni di religione protestante. La Francia di Enrico IV pur essendo non del tutto ostile al protestantesimo nonostante per motivi politici il re avesse abbracciato come
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detto, la fede cattolica, era schierata sul fronte dell’impero e quindi della Spagna. Il monarca tuttavia nei fatti appoggia, nei Paesi Bassi la lotta di Maurizio di Nassau contro le truppe spagnole nonché l’Unione evangelica, una coalizione protestante in funzione anti imperiale. Nel 1610, mentre si appresta a muovere dichiaratamente guerra alla Spagna cade vittima, come già accennato, di un ennesimo attentato.
Nel 1612 il nuovo imperatore Mattia pone fine alla tolleranza religiosa nei territori dell’impero. Nel 1617 nomina re di Boemia – una regione a forte consistenza hussita – il fratello Ferdinando, il quale scatena una persecuzione antiprotestante. L’atteggiamento di Ferdinando provoca accese reazioni nel mondo protestante. Nel maggio del 1618 due delegati imperiali vengono gettati dalla finestra e uccisi a Praga mentre i cechi nominano re Federico V, elettore del palatinato. Tuttavia la causa ceca viene presa in scarsa considerazione dalle potenze protestanti. Ciò è uno dei motivi per cui durante la battaglia della Montagna Bianca, nelle vicinanze di Praga la vittoria arrida al fronte cattolico. Questa sconfitta è fonte di grossi patimenti per quanto riguarda il fronte protestante ed è caratterizzata da condanne a morte, all’esilio, limitazioni dei diritti a carico dei protestanti. Questi ultimi, nei migliori dei casi vengono posti di fronte all’alternativa tra abiura e espatrio, e ciò favorisce l’espatrio di decine di migliaia di cechi.
Per fornire il loro appoggio alle truppe imperiali gli spagnoli dovevano penetrare attraverso la Valtellina, abitata come sappiamo da una nutrita comunità evangelica. Il tentativo di liquidare queste presenze religiose si compie con successo tra il 18 e il 19 luglio 1620. Nei giorni successivi la strage si allarga a Sondrio, suscitando il giubilo del cardinale Carlo Borromeo. Con ciò il protestantesimo in Valtellina viene definitivamente liquidato e il territorio valtellinese diventa successivamente un protettorato spagnolo (1626).
La guerra dei Trent’anni riprende a seguito di una iniziativa di re Cristiano IV di Danimarca, il quale esce sconfitto dal confronto tra le potenze della Lega cattolica e quelle imperiali. L’imperatore pensa di poter conquistare durevolmente il regno di
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Danimarca, suscitando però l’aiuto di GustavoAdolfo re di Svezia. Il suo esercito, appoggiato da Sassonia e Brandeburgo, colleziona una notevole serie di successi che si chiude con la vittoria di Lutzen presso Lipsia dove nondimeno il monarca trova la morte in battaglia. Dopo un ulteriore intervento della Spagna vi è la sconfitta degli svedesi a Nordlingen che conduce alla pace di Praga (1635). A Gustavo Adolfo considerato un eroe nel mondo protestante verrà intitolata un’organizzazione fondata nel XIX secolo in Germania per sostenere le chiese evangeliche nel mondo: il Gustav Adolf Werk. Nel 1635 Richelieu entra in guerra contro la Spagna e con tale fase francese la guerra dei trent’anni tocca il culmine sia quanto a estensione geografica sia in quanto a livello di violenza. Il nuovo imperatore, Ferdinando III salito al trono nel 1637 e alleato degli spagnoli accetta di iniziare la trattative di pace. La pace di Westfalia del 1648 impegna Francia, impero, principati tedeschi e Svezia, mentre la Spagna si limita a riconoscere l’indipendenza di alcuni territori. Dal punto di vista religioso le decisioni della pace di Augusta vengono confermate ed estese a tutti i territori riformati dell’impero, anziché solo ai luterani. Viene abolito il principio “cuius regio eius religio”. Ormai la coesistenza di stati a prevalenza cattolica e stati a prevalenza protestante in Europa è il risultato di un processo irreversibile, per non dire di “uno stato di fatto”.
Da ultimo la guerra dei trent’anni lascia dietro di sé un’ Europa prostrata: le armate mercenarie hanno seminato devastazioni ed epidemie e le risorse per la continuazione del conflitto prelevate mediante imposte draconiane hanno indebolito economicamente tutti gli stati partecipanti al conflitto. Occorre ricominciare, ma ovviamente su basi totalmente diverse da quelle d’anteguerra.
L’epoca delle ortodossie
Come già ricordato il XVI secolo si chiude con l’adozione del Libro della Concordia da parte dei luterani, mentre la Seconda Confessione Elvetica viene fatta propria da un numero amplissimo di chiese di ispirazione zwingliana e calvinista. Si tratta di opere in fieri cioè non testi definitivi ma aperti ai contributi dei membri
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delle diverse comunità. Nella seconda metà del ‘500 si verificano però contrasti sia tra chiese riformate e altre chiese riformate, cioè in massima parte tra calvinisti e luterani; sia tra queste ultime due confessioni con il cattolicesimo. Tralasciando il rapporto con il cattolicesimo romano, va detto che pian piano le differenze sostanziali tra luterani e calvinisti vennero meno, e questo fenomeno determina una cristallizzazione delle confessioni di fede che vengono ora interpretate dalla varie comunità come dato rivelato nella sua definitiva versione. Alla fine del secolo si è ormai consolidata una tradizione consistente sia a livello dottrinale che confessionale, e che si pone come griglia interpretativa del testo biblico. A questo dato corrisponde una modificazione delle riflessioni teologiche. Nel periodo della riforma la teologia è sostanzialmente esegesi dei testi della bibbia. Tuttavia l’intento sistematico è assente mentre forte è l’esigenza di porre tutta la collettività a conoscenza dei testi sacri. Oltre ai commentari esegetici si pubblicano i “loci”, i quali nella fase iniziale non sono testi dogmatici, ma sono raccolte ragionate di testi biblici. Quando però le confessioni di fede delle due chiese, la luterana e la calvinista su tutte assumono un valore definitivo, il compito principale della teologia diviene la difesa ragionata di propri assunti contro le obiezioni degli avversari. Le questioni dogmatiche assumono perciò una nuova importanza e si manifesta una tendenza alla sistematizzazione, attraverso l’utilizzo della logica aristotelica: nascono le ortodossie luterana e riformata. Le università facenti capo al protestantesimo si diffondono enormemente e parallelamente a un corpo docente che elabora gli strumenti per la formazione di un corpo pastorale in servizio nelle chiese evangeliche. Nei paesi riformati i figli dei pastori possono accedere con profitto ad attività imprenditoriali o professionali assai redditizie.
Il principio scritturale, cioè di riconoscere solo la sacra scrittura come norma in materia dottrinale costituisce da Lutero in poi un tratto distintivo della fede evangelica . L’ispirazione che gli evangelisti ricavano dalle scritture diventa parola vivente di Dio solo grazie all’aiuto dello Spirito Santo, perché senza quest’ultimola scrittura biblica è semplice parola umana. Tant’è che la stessa scrittura, nella sua
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realizzazione materiale è stata inizialmente realizzata sotto il potere dello Spirito Santo, e ciò conferma come sia un testo divinamente ispirato, che cioè indirettamente è opera di Dio.
Nella concezione della riforma del ‘500 la scrittura brilla di luce ricevuta da Dio in forza dello Spirito Santo in quanto testimonia Gesù Cristo. Secondo l’ortodossia la bibbia invece brilla di vita propria poiché lo spirito santo è oggettivato nel testo.
In quest’epoca, dato il ravvicinamento delle due confessioni evangeliche, l’elaborazione teologica, indispensabile a non fare delle scritture un feticcio o un simulacro della divinità, si articola in due dogmi di fondo: da un lato i luterani affermano l’ubiquità della natura di Cristo, umanae divina; i riformati rinnovano la dottrina della predestinazione. La disputa sull’ubiquità affonda le radici nella polemica tra Lutero e Zwingli circa la natura dell’eucaristia. Lutero afferma che nel pane e nel vino Cristo è anche umanamente presente; Zwingli ribatte che Cristo non può essere contenuto nell’ostia perché nei tempi attuali siede alla destra del Padre, perciò Egli è dovunque spiritualmente ma non fisicamente.
Secondo i riformati l’idea della incarnazione che è alla base della teologia luterana rischia di annullare la natura umana di Cristo nella sua divinità e accedendo così improvvidamente alla dottrina monofisita o a quella docetista secondo cui l’umanità di Gesù è solo apparente.
Dietro le sottigliezze si celano istanze conoscitive relative al modo di intendere la presenza di Dio nella storia, da un alto e la sua eterna sede celeste, dall’altro.
L’epopea puritana
La minoranza di ispirazione calvinista (i puritani),costituisce già nell’Inghilterra elisabettiana una componente di rilievo nel panorama religioso. Mentre la chiesa anglicana appoggia politicamente la Casa Regnante, i puritani si caratterizzano come sostenitori dei diritti del parlamento e delle libertà religiose. Durante il regno
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di Giacomo I si comincia a pensare, dati alcuni atteggiamenti del sovrano, ad una vicina conversione di quest’ultimo al cattolicesimo. Poiché questa speranza non trova realizzazione, il partito papista ordisce un complotto per uccidere il monarca che è ricordato come “congiura delle polveri”, che però viene presto scoperto e represso. Anche la parte puritana è insoddisfatta dalla condotta del re, ad esempio per il fatto che il monarca rendesse lecito praticare attività ludiche di domenica, che per i puritani avrebbe dovuto essere un giorno di assoluto riposo.
Carlo I che nel 1625 eredita il trono persegue una politica assolutista che rafforza l’opposizione dei puritani. Suo consigliere in materia religiosa è William Laud, dal 1633 vescovo di Canterbury. I puritani sospettano una riforma cattolica del paese. Contro questo tentativo iniziano i moti che porteranno alla Rivoluzione inglese. Nell’agosto del 1642 si scatena la rivolta contro la monarchia: il parlamento cessa di riconoscere il sovrano e si impegna in una riforma della chiesa di nuovo stampo, detto presbiteriano, convocando un sinodo a Westminster, che elabora la nuova confessione, di ispirazione rigidamente calvinista. I puritani da parte loro temono che il sinodo sostituisca alla chiesa anglicana un’altra chiesa, la presbiteriana ma senza che ciò comporti grossi cambiamenti a parte quelli relativi ai diretti interessati, cioè le frange estreme del Parlamento. I puritani dal 1642 cominciano perciò a lottare per la propria fede, minacciata dalle autorità. Uno di essi, Oliver Cromwell concepisce la lotta contro la monarchia come un dovere religioso. Il 14 giugno 1645, a Naseby, le truppe puritane di Crowell catturano il sovrano dopo averlo sconfitto in battaglia. All’interno del movimento da lui capeggiato Cromwell deve vedersela con due frange estreme, quella dei “livellatori” che invocavano il suffragio universale, la sovranità popolare, e la libertà religiosa; e quella degli Zappatori i quali erano convinti che il peccato originale fosse non ciò che tramandano le scritture, ma l’iniziativa di dichiarare la terra proprietà privata. Cromwell rifiuta l’adesione ad entrambi i movimenti. Quando il re riprende l’iniziativa contro i Puritani Cromwell lo fa giustiziare. Dopo la fine della corona Cromwell dirige il paese in modo sostanzialmente dispotico, ma garantendo la patria
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dagli estremismi e concedendo a tutti libertà religiosa. Come Lord protettore Cromwell instaura un regime borghese e moderatamente conservatore. Incidentalmente va detto che altri movimenti religiosi all’epoca erano i Quaccheri e i Battisti attestati su posizioni neocalviniste.
Morto Cromwell gli subentra il figlio Richard, ma nel giro di dieci anni gli Stuart tornano sul trono, in quella che si svilupperà come monarchia costituzionale e in cui la chiesa anglicana avrà un ruolo dominante.
All’inizio del XVII secolo numerosi puritani inglesi erano fuggiti dalla persecuzione di Giacomo I emigrando in Olanda. Nel 1620 un gruppo di costoro, i celebri “padri pellegrini” si imbarcarono sul “Mayflower”, un veliero che li condusse nell’attuale Massachussets. Prima di sbarcare, ogni potenziale colono avrebbe firmato un patto col quale si impegnava a costruire una società di tipo democratico e solidale. Nel 1630 nasce il Commonwealth del Massachussets, con capitale Boston. Formalmente una colonia britannica, di fatto un centro autonomo dalla madrepatria. Accanto alle chiese di fede puritana nascono le scuole, come quella sorta intorno ad una biblioteca abbandonata da un pastore, che diventerà molto nota secoli dopo: si tratta della attuale università di Harvard. Successivamente nascono altre colonie, come quella di Providence nel 1636, la Pennsylvania nel 1682 con capitale, ancora ad oggi, Filadelfia.
Naturalmente anche nel Commonwealth proto – statunitense non mancano le contraddizioni tra un aspetto fideistico fondato sull’etica e sul lavoro individuale, nel rispetto del prossimo e il fenomeno dello schiavismo che era di fatto, e sempre prima che fosse abolito, un aspetto della secolarizzazione del puritanesimo.
Il protestantesimo in Francia e in Italia
La vita nello stato ugonotto è quella di una consistente minoranza, organizzata in senso presbiteriano e sinodale, anche se non mancano caratteri di congregazionalismo, con un corpo pastorale formato in accademie teologiche che
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dedica le proprie migliori energie alla predicazione dal pulpito, ma che non è sempre in grado di “edificare” realmente la comunità. Resta comunque il fatto che, dopo la revoca dell’editto di Nantes (1685) la maggioranza dei pastori preferisce l’esilio e la condivisione del destino dei propri fedeli piuttosto che aderire alla religione del Re Sole. Il mondo ugonotto è costituito largamente da borghesi professionalmente qualificati e spesso benestanti e produce numerosi intellettuali di grande importanza. La monarchia francese tuttavia non poteva a lungo condividere la presenza ugonotta, cioè la coesistenza tra religione nazionale e religione protestante. Luigi XIV adotta una serie di misure volte a favorire l’integrazione degli ugonotti: non mancano successi, ma la monarchia, non potendo tollerare la presenza di sudditi che negano alla corona una devozione a carattere religioso, giunge ad adottare misure drastiche. Ai protestanti si prospettano tre strade: l’abiura, l’esilio, o l’incarcerazione nelle patrie galere. Le migrazioni degli ugonotti interessano paesi dell’Europa settentrionale come la Germania, l’Olanda, l’Inghilterra e la Danimarca; si forma perfino una comunità francese a Mosca, mentre la Svezia nega ai profughi libertà di culto. In Italia mentre l’Europa è in fermento a causa del problema protestante in tutte le sue diverse diramazioni, in Italia sopravvive la comunità valdese, l’unica rimasta dopo le repressioni della Santa Inquisizione. Nel 1655 Carlo Emanuele II di Savoia scatena una violenta campagna militare con l’intento di risolvere la questione, ma suscita la reazione delle potenze protestanti in Europa. Dopo qualche tempo la revoca dell’Editto di Nantes da luogo a una nuova ondata di repressione da parte dei Savoia, che si conclude quando Vittorio Amedeo II rompe l’alleanza con il Re Sole e si unisce alla lega di Augusta. Nei decenni che seguono la Chiesa riformata viene accuratamente isolata dai Savoia con la creazione di un ghetto “alpino”, da cui la comunità valdese uscirà solo con le patenti di libertà concesse da Carlo Alberto nel 1848.
Il pietismo
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Nel 1675, Jakob Spener, pubblica il libro intitolato “Le postille”. Partendo da una limpida ortodossia luterana, Spener si dedica al ministero pastorale proponendo sei desideri per il rilancio della spiritualità cristiana: diffusione e studio della Bibbia nelle comunità; rilancio del sacerdozio universale; impegno nella pratica delle virtù cristiane; assenza di polemiche nelle discussioni religiose; seria formazione spirituale degli studenti in teologia; rinnovamento della predicazione. Tutto ciò rende Spener uno dei più significativi interpreti delle verità di fede della Riforma.
Le pratiche religiose volute da Spener vengono adottate dai suoi successori, che praticando vita comunitaria, si dedicano a pratiche ascetiche in cui la centralità di Cristo è accentuata; la Cena del Signore viene ricordata attraverso la ripetizione di riti come la lavanda dei piedi; le nozze vengono concepite quasi come pratica sacramentale.
L’esperienza pietista costituisce una chiave di lettura assai importante per interpretare le vicende del cristianesimo protestante dei secoli successivi. In particolare la crisi del modello di cristianità che nel Settecento comincia a manifestarsi ,contribuisce ad accentuare l’esigenza di comunità formate da credenti consapevoli che la loro chiesa sarà sempre in minoranza di fronte al secolo e animati da una forte passione missionaria.
Il metodismo
L’Inghilterra del primo Settecento è caratterizzata da una serie di fenomeni innovativi: dal punto di vista economico si prepara la rivoluzione industriale; la popolazione aumenta e si sposta dalle campagne verso le città, la povertà cresce, la popolazione rimane per la gran parte analfabeta.
In tale contesto la situazione della chiesa anglicana comincia ad assumere tratti caricaturali: clero mondanizzato, aridità spirituale, sterilità della pratica religiosa che comincia a somigliare ad un’abitudine spoglia di significato.
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Il termine metodismo nasce quando gruppi comunitari, indipendentemente dal clero tentano di ricondurre alla perduta fede l’attività delle gerarchie, con una attenzione particolare verso coloro che necessitano di una formazione cristiana di base, che nella situazione dell’epoca costituiva una questione assai impellente. Dopo una esperienza nei territori dei nascenti Stati Uniti i fondatori del metodismo cioè i fratelli Wesley, arricchiti dagli scambi culturali con aderenti ad altri culti protestanti ritornano in Inghilterra. Siamo nel 1739. La predicazione dei Wesley insieme a quella del loro più stretto collaboratore, cioè il Whitefield, riesce a creare attorno a sé una schiera di attivisti anche provenienti dai ceti più umili, creando di questo passo una vera e propria struttura ecclesiastica, organizzata gerarchicamente ma non in maniera eccessivamente rigida, cosicché si assiste all’opera di predicatori non necessariamente usciti dalle università teologiche, ma dotati di una propria spiritualità e di una base di conoscenze religiose. Man mano che il movimento metodista cresce, parimenti crescono anche le ostilità in ambienti anglicani, preoccupati che il movimento dia luogo ad una rivoluzione da parte delle classi minori. La lotta contro Wesley assume a volte toni e modi violenti, come ad esempio nel 1743, quando si verificano episodi di guerriglia urbana ai danni di alcuni seguaci della chiesa.
Nel 1787 le comunità metodiste sono registrate come gruppi religiosi dissidenti, rispetto alla chiesa anglicana, e nel 1795 si compie la formale scissione dalla chiesa di Inghilterra. Nel 1760 era iniziata la missione in America. Attraverso l’opera avventurosa di uomini e donne legati da una solida ispirazione luterana, si raggiungono anche ambienti che per diversi motivi non erano stati coinvolti dal puritanesimo, dando luogo ad un insieme di chiese il cui contributo all’ecumene cristiana sarà sempre incisivo.
Razionalismo e illuminismo
La filosofia del Seicento si pone con forza il problema del fondamento razionale della fede religiosa, già abbondantemente indagato su basi aristoteliche dal
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movimento della scolastica. Tuttavia il problema assume nuova forza polemica con Cartesio e Spinoza. Si pone in dubbio la legittimità della predicazione dei gruppi protestanti, cioè il loro fondamento veritativo. Poiché la riflessione di Cartesio e quella di Spinoza sono conosciute insieme a quelle da essa derivate, passiamo a parlare delle figure del movimento intellettuale e filosofico preponderante nel secolo successivo, cioè l’”Illuminismo”, e con un discorso incentrato sulle figure maggiori del movimento. In primo luogo Voltaire, che concepisce il rapporto con la religione come un fattore di intolleranza e radicalismo fondato su proposizioni indimostrabili e da un forte oscurantismo che tende a frenare l’impulso individuale verso la conoscenza e verso la maturazione intellettuale. Altra voce importante del secolo dei lumi è quella di Rousseau, il quale considera religione “vera” solo la religione naturale cioè la religione fondata sui seguenti principi: esistenza di Dio, libertà dell’uomo e immortalità dell’anima. Rousseau ritiene che l’umanità davvero felice appartiene non all’oggi ma allo “stato di natura” che sarebbe stato compromesso dalla nascita della cosiddetta “civiltà”.
Una adesione alla religione insieme ad un atteggiamento razionalistico sono presenti in Locke. A suo parere il centro della cristianità va individuato nella centralità del concetto di Messia e nella resurrezione del Cristo. Locke sottopone il testo biblico ad una indagine di tipo storico critico che costituisce una importante innovazione nell’approccio all’interpretazione delle scritture.
In Germania la figura di illuminista più caratteristica è quella di Leibniz, che incentra la propria riflessione teologica sul problema del male, che egli attribuisce al disordine e alla confusione dei rapporti umani, una situazione questa non riconducibile al volere di Dio. Gli stimoli leibniziani vengono ripresi da Christian Wolff, che elabora in senso deterministico un sistema che include Dio, il mondo e i loro reciproci rapporti. Il suo razionalismo gli vale l’ostilità dei circoli pietistici di Halle, che vedono in lui un emulo di Spinoza.
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Con Immanuel Kant il “deismo” cioè la credenza in un Dio che dopo aver creato la realtà lascia che questa si sviluppi essa sola, senza che Egli intervenga nell’ordine delle cose, raggiunge l’apice della sua maturità filosofica. Nella “Critica della ragion pura” Kant sviluppa una teoria della conoscenza che non lascia spazio alcuno alla metafisica come forma del sapere teoretico. In Kant la religione si configura come riconoscimento da parte del singolo, dei suoi doveri verso sé stesso e la società, e la cui essenza è sublimata nell’approccio di tipo religioso. Tuttavia il dovere morale è tale per sé stesso e quindi la religione positiva che fa derivare la morale dalla volontà divina non può in alcun modo essere accettata.
La polemica illuminista convive tuttavia nel continente con alcuni movimenti spiritualisti come quello che fa capo allo svedese Immanuel Swedenborg, con il fiorire del movimento dei Rosacroce e delle logge massoniche. Ovviamente se anche Kant si scaglia contro l’irrazionalismo di Swedenborg sono in molti a non scorgere contrasti apparenti tra misticismo e razionalismo, credenze apocalittiche e progresso scientifico.
Per tornare a parlare di gruppi religiosi, un importante movimento riconducibile al nostro secolo è quello dei Pentecostali,che ha come dogma l’intervento dello spirito santo nella vita quotidiana e maggiormente in alcune occasioni in cui si verificano tra i fedeli fenomeni di glossolalia, ossia il potere in capo ai fedeli di ricevere dallo Spirito santo la capacità di parlare lingue sconosciute.
Nella America settentrionale del finire del XVIII secolo oltre al problema della schiavitù che è all’origine della guerra di secessione che si conclude nel 1865, vi è un problema di integrazione dei neri anche dal punto di vista religioso. Dopo tutto il fautore della causa afroamericana più noto era un pastore battista di nome Martin Luther King, assassinato nel 1968 a causa delle proprie iniziative e delle proprie convinzioni e prese di posizione nei riguardi del problema della segregazione o Apartheid.
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L’età del romanticismo e dell’idealismo
Il romanticismo tenta ancora una volta nella storia dei movimenti di fede, di conciliare fede e cultura, Dio e uomo, culto e sentimento. I più insigni rappresentanti di questo movimento sono Herder, Schleiermacher e Schlegel. In particolare il secondo esprime un punto di vista che, sebbene impostato a livello filosofico tende a privilegiare l’aspetto religioso, un aspetto questo che può essere meglio compreso se si paragona il suo pensiero con un altro grande uomo di pensiero del secolo XIX: Hegel. Quest’ultimo elabora un maestoso tentativo di interpretazione della realtà. Per Hegel le categorie religiose sono un’espressione immaginifica del concetto, quindi a quest’ultimo devono essere ricondotte. Hegel concepisce la vicenda di Cristo come un momento dialettico nel divenire dell’Assoluto, cioè di Dio. Al di là delle intenzioni del filosofo, il suo messaggio, comunque declinato con linguaggio cristiano, viene ben presto sottoposto a critica da coloro che poi vennero definiti esponenti della “sinistra hegeliana”.
Non ascrivibile ad una scuola o ad una corrente teologica o filosofica è poi la figura di Kierkegaard. Sul piano della riflessione egli si contrappone a Hegel attraverso una speculazione che, nelle parole dell’autore deve nutrirsi di “briciole” senza tendere alla comprensione di ciò che non può essere mai del tutto compreso, cioè ad esempio i principi regolatori della Realtà.
L’Ottocento in Italia
Alle soglie della unificazione della Penisola sotto l’autorità dei Savoia accade un fenomeno particolare, cioè la diffusione delle idee dei valdesi della Savoia, in merito alle dinamiche che il movimento risorgimentale avrebbe messo in atto per giungere all’unificazione politica dell’Italia. Ad esempio la convinzione che la struttura territoriale della Chiesa cattolica dovesse essere superata si deve ad una sostanziale osmosi tra le idee del cattolicesimo e quelle del cristianesimo riformato.
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L’altra grande interpretazione del Risorgimento da parte protestante vede una istanza di unità muovere dalla casa dei Savoia. La chiesa valdese si orienta in questo senso, con alcuni vantaggi , ad esempio quello che le consente di porsi a livello confessionale con i cattolici, di esercitare liberamente il culto e di avere anche a Roma centri di educazione informati alla loro fede.
A partire dal 1858 molti valdesi spinti da necessità primarie cioè dalla grande povertà in cui era caduto il territorio da essi popolato, si spostano in massa verso l’America del Sud , in Uruguay e nella regione solcata dal Rio de la Plata, dove fondano una trentina di colonie, ancora ad oggi particolarmente legate all’Italia.
Per tornare all’Italia le tre anime dell’evangelismo, quella anticlericale garibaldina, quella riformata e liberale dei valdesi e quella apolitica ed escatologica dei Fratelli d’Italia, non riusciranno a trovare un punto d’accordo anche a causa del fatto che ad esse si aggiungono le missioni metodista e battista. Agli inizi del Novecento si diffonde in Italia anche il movimento pentecostale.
Protestantesimo, questione sociale , movimento operaio.
I problemi posti dalla rivoluzione industriale evidenziano i limiti dell’approccio ecclesiale alla questione sociale. Le opere di carità sono ancora molto importanti ai fini dell’attenuazione delle criticità e della povertà insite in un fenomeno complesso come il nascente conflitto capitale – lavoro. Ciò rende evidente che la questione sociale va risolta, se davvero ve ne è l’intenzione, su base politica. A soccorso del proletariato interviene perciò il movimento socialista, grazie alla propria ideologia di base, cioè il marxismo. Da parte ecclesiastica la necessità di una partecipazione politica che andasse a vantaggio del ceto proletario si traduce in alcuni movimenti politici detti “cristiano sociali”. Il più forte tentativo di conciliare chiesa evangelica e movimento dei lavoratori è costituito dal “socialismo religioso”.
Un cenno va fatto in tale contesto alla figura di Albert Schweitzer, autore dell’opera esegetica intitolata “Storia della ricerca sulla vita di Gesù”, una riflessione a
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carattere teologico che determinerà in Schweitzer un profondo ripensamento delle proprie posizioni, piuttosto scettiche, sulla vita e la figura del Cristo, ripensamento che lo porterà in Africa, dove fondò un lebbrosario dove avrebbe lavorato come medico sino alla morte, dopo aver ricevuto il premio Nobel per la pace. Pur rifiutando gli esiti della opera teologica di Schweitzer, il cristianesimo protestante europeo ne celebra l’impegno etico a carattere senz’altro cristiano.
La chiesa ortodossa
Già dai primi secoli della loro storia, i cristiani si consideravano a tutti gli effetti partecipi della realtà imperiale, indipendentemente dal carattere pagano di quest’ultimo e non di rado vi assunsero precise ed anche elevate responsabilità in sede militare e civile. In questo senso la recezione ufficiale della religione cristiana con Costantino nel 313, non sembra potersi definire un punto di svolta per la chiesa di Cristo. Fu comunque da allora che, in ogni caso, l’episcopato assunse precise responsabilità anche nella vita pubblica attraverso l’istituto della “audientia episcopi”, mentre incombenza dell’imperatore divenne la prònoia cioè la cura nei confronti della Chiesa. Tale prònoia fu alla base anche della peculiare posizione assunta dalle chiese rette dal vescovo della sede imperiale, primo interlocutore ecclesiastico dell’imperatore. Questo atteggiamento dell’impero nei confronti della chiesa trovò uno sviluppo sicuramente maggiore in oriente che non in occidente. Queste affermazioni non traggono perciò e come detto origine dai provvedimenti adottati da Costantino con il suo editto a favore del cristianesimo, ma affondano le radici in episodi di amicizia e collaborazione con l’impero che si collocano in periodi antecedenti anche se con Costantino trovano definitiva legittimazione.
In età giustinianea trattati come “Capita monitoria” di Agapito o il “Dialogo sulla scienza politica” ben mostrano come l’identità imperiale non potesse essere scissa dall’identità cristiana. Quando dunque alla fine del Trecento il patriarca di Costantinopoli Antonio volle affermare che non è possibile per i cristiani rinunciare all’impero e viceversa in quanto tra i due esiste un’intima unione e comunione e non
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è possibile che si dividano tra loro, egli non piegava la religione allo stato ma ripeteva una realtà, cioè che la chiesa era indispensabile per la legittimazione terrena di qualsiasi entità politica e quindi anche di quella imperiale.
Sotto il patrocinio di Costantino a seguito di vari concili ecumenici, le principali eresie del tempo, cui abbiamo già accennato vennero ricondotte nel seno del cristianesimo. Coloro i quali si attennero alle disposizioni dei vari concili poterono, anche durante la dominazione islamica, vivere in pace, e vennero definiti con linguaggio semita “melkiti” cioè “imperiali”. Le loro chiese avrebbero continuato a partecipare a pieno titolo alla vita pubblica in quanto cristiani latini, che con il Cristianesimo latino si erano mantenuti in comunione.
Il monachesimo palestinese, di fede cattolica, prese parte alla discussione di parecchie posizioni eretiche, anche durante il Concilio Lateranense del 649, collaborando alla redazione degli atti conciliari.
Fu in quegli anni che si diffuse la riforma “iconoclasta”, cioè il tentativo di riplasmare la chiesa in maniera da confrontarsi dialetticamente rispetto alla tradizione viva della esperienza ecclesiale. L’opposizione alla venerazione delle immagini sacre si accompagnò a quella per le reliquie dei santi, per l’invocazione della madre di Dio insieme al disprezzo per la vita monastica.
Fu un monaco melkita di San Saba, Giovanni Damasceno a denunciare l’iconoclastia come movimento incompatibile con l’ortodossia calcedoniana.
Il successivo concilio di Hiereia può considerarsi come una sanzione definitiva della riforma iconoclasta, che fu concretamente avviata da Leone III nel 727. Quando poi l’ateniese Ireneo, riuscì nel 787 a ripristinare il culto delle immagini tramite il Concilio Niceno II, questa assemblea non solo precisò la distinzione tra adorazione vera e propria rivolta alla natura divina e venerazione rivolta alle icone, ma collegò, secondo il magistero di Damasceno, la venerazione delle immagini alla economia di
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ciò che è richiesto ai fini della salvazione, anche attraverso la rappresentazione della Incarnazione.
La seconda fase iconoclasta, dal’815 all’843 iniziò quando il patriarca Niceforo rimarcò la distinzione tra archetipo e immagine e quindi la riconducibilità di quest’ultima nella ambito della retta dottrina. Per parte sua Teodoro Studita puntualizzò come nell’immagine sacra non trovasse rappresentazione la natura, ma l’ipostasi, cioè ciò che sta sotto la natura, considerando così che le icone dovessero considerarsi come diretta manifestazione del dogma di Calcedonia.
Questo lungo e travagliato dibattito intorno alle immagini protrattosi in Oriente per più di un secolo, non fu senza risultati. Ne scaturì la fissazione di una serie di regole molto precise per la codificazione del linguaggio iconografico. Ma soprattutto ne derivò una vera e propria dottrina dell’immagine sacra. Quest’ultima è intesa quale puramente finalizzata al catechismo e alla devozione. Tutto ciò traspare ancora oggi da una riflessione sulle cattedrali moscovite o dalle moderne chiese greche affrescate.
Il patriarca Fozio e l’autocoscienza ecclesiale dell’ortodossia
Ancora all’ambiente melkita venne elaborato un dibattito sulle diversità di orientamento sulla riflessione triadologica tra l’ambito ecclesiale latino e quello greco, nonostante il riferimento ai medesimi dogmi. Tutto ciò dipese da una controversia sulla retta interpretazione del Credo quando il monaco sabaita Giovanni denunciò la comunità monastica franca del Monte Oliveto per aver pronunciato in maniera teologicamente inesatta le parole della preghiera, cioè a dire proclamare la successione dello Spirito Santo non solo dal padre ma anche dal figlio. La interpolazione filioquista nella sua illegittimità appare nitidamente còlta dal monaco gerosolimitano che la denunciò. L’enciclica foziana dell’867 avrebbe rappresentato per tutta la cristianità orientale la lucida presa di coscienza della specifica identità assunta dalla chiesa occidentale nei confronti dell’ortodossia e
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dell’ortoprassi greche. Alla dottrina filioquista Fozio avrebbe dedicato un intero trattato, il “Liber de sancti spiritus mystagogia”, rimasto come punto di riferimento per la futura teologia greca. In tale opera i filioquisti latini venivano definiti “filiopatristi”in quanto negatori della distinzione delle ipostasi divine e sostenitori della monade Figlio – Padre .
Lo scontro dottrinale maturato sulla base degli scritti foziani finì dunque per investire globalmente le relazioni tra Greci e Latini all’interno dell’ecumene cristiana, con conseguenze decisive per le successive vicende di queste ultima. Quanto a Fozio il portato della sua opera e il suo contributo alla teologia orientale perdura ancora oggi segnando le relazioni tra chiesa cattolica occidentale e orientale. In questo senso la dissonanza dogmatica enunciata dal monaco melkita Giovanni agli inizi del IX secolo e successivamente analizzata da Fozio, non cessa di interessare le chiese di oriente e d’occidente, stimolando una più adeguata ricerca dei fondamenti della loro unità.
La fine della comunione con l’occidente latino
Se Fozio, nel concilio tenuto a Costantinopoli nel novembre 879 d.C., poté ricomporre la frattura delineatasi tra le sedi dell’antica e della nuova Roma, l’atteggiamento critico che egli aveva suscitato rispettivamente tra greci e latini nei loro reciproci rapporti non tardò a manifestare i suoi frutti. La comunione tra le due sedi cattoliche era già interrotta quando scoppiò la crisi degli anni 1053 – 1054 d.C. La diatriba cominciò nella primavera del 1053, quando a Costantinopoli il patriarca Michele Cerulario, impose la chiusura delle chiese latine presenti in città a causa dei loro usi rituali, in particolare veniva censurato l’uso del pane azimo nelle celebrazioni eucaristiche, ciò in quanto i greci avevano adottato da gran tempo la prassi di usare pane fermentato. Sulla scia di questo evento l’unità della chiesa venne meno in quanto vi furono reciproci provvedimenti di scomunica tra i due vescovi reggitori delle due chiese. In realtà gli eventi di cui parliamo determinarono soltanto una interruzione della comunione tra chiese orientale e occidentale,
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comunione che sarebbe ripresa qualche secolo più tardi. Il fenomeno delle crociate poi avrebbe suscitato qualche decennio più tardi tra Oriente cristiano e Cristianità latina un confronto che investì il loro intero modo di essere società cristiana.
Le crociate iniziarono al fine ufficialmente dichiarato di liberare la Terra Santa dai musulmani cioè dagli infedeli. Per fare ciò l’imperatore costantinopolitano richiese una totale sottomissione da parte dei soldati cristiani provenienti dall’Europa occidentale. Questa sottomissione non fu accettata, soprattutto dai normanni italo – meridionali, mentre la renitenza del Basileus a impiegare proprie truppe nell’impresa lo fece tacciare di tradimento. Fin dai primi passi della missione crociata iniziarono ad echeggiare voci invocanti quella cancellazione dell’impero di Costantinopoli che fu poi perseguita e realizzata dalla spedizione del 1204.
Una parziale prefigurazione di quanto sarebbe accaduto a Costantinopoli nel 1204 si verificò a Cipro negli anni precedenti. L’isola conobbe nel giro di qualche anno il passaggio dalla reggenza greco ortodossa alla reggenza cristiano cattolica, pur concedendo ai rappresentanti della chiesa greco – ortodossa una certa libertà di movimento. Non così avvenne a Costantinopoli, nello stesso lasso di tempo, quando i crociati latini ne presero possesso e la saccheggiarono per tre giorni, distruggendola quasi completamente. Dopo la conquista i crociati diedero vita a un impero latino sul Bosforo. La spedizione dei crociati era stata possibile grazie alla disponibilità di navi veneziane, ciò che determinò la richiesta da parte dei veneziani di inserire nella Chiesa di Santa Sofia un Capitolo latino, ed anche l’elezione da parte loro del nuovo patriarca, tale Tommaso Morosini. L’esempio di Costantinopoli fu ripetuto in altri luoghi oggetto di conquista. Di particolare rilievo il regime ecclesiastico instaurato dai Veneziani a Creta, dove l’aristocrazia cattolica si sostituì al clero greco. Tuttavia una ragguardevole istituzione greca a carattere religioso fu il monastero di Santa Caterina a Candia, che divenne un punto di riferimento per i fedeli e i preti di rito e tradizione ortodossa.
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Nel complesso le azioni dei conquistatori e le ratifiche pontificie al loro operato offrirono la dimostrazione di come chiesa latina e chiesa greca non fossero più ormai espressione di un unico insieme eccesiale, ma due chiese distinte, ciascuna con i propri ordinamenti istituzionali e canonici, che venivano percepiti come incompatibili.
Col X secolo un nuovo grande centro spirituale venne imponendosi all’attenzione delle chiese: la penisola athonita. Con la fondazione della grande Lavra da parte del monaco santo Atanasio nel 963 iniziò quella esperienza religiosa che si sarebbe svolta in una propaggine della Calcidica, per la precisione sulla Santa Montagna cui l’intera comunità ortodossa avrebbe guardato nel corso dei secoli con venerazione.
Sotto l’impero latino la Santa Montagna, affidata al vescovo di Sebaste, avrebbe dovuto subire delle spoliazioni, tanto che Innocenzo terzo pose il monastero sotto la protezione della Sede Apostolica, confermando tutti i privilegi di cui il monastero aveva goduto in passato grazie alla devozione degli imperatori. Dopo un secolo, Andronico II con un chrysobollo, nel 1312 sottopose tutte le comunità athonite all’autorità del patriarca imperiale: è il regime tutt’oggi in vigore.
Attualmente i grandi monasteri si assommano a venti, con molteplici filiazioni: monasteri dipendenti; insediamenti monastici costituiti da piccole residenze comunitarie guidate da un padre spirituale; complessi di dimensioni minori; residenze di singoli monaci; veri e propri romitori. Tra l’undicesimo e il XIII secolo si ebbe una diffusione assi cospicua di monasteri di rito greco – ortodosso. All’interno della comunione ortodossa il comune legame con la Santa Montagna ha reso quest’ultima luogo di incontro e di scambio culturale di eccezionale rilievo anche durante la dominazione turca che peraltro non venne meno sino alla fine del primo conflitto mondiale.
Un secolo prima dell’inizio della occupazione musulmana sorse un dibattito che pose la sede athonita al centro dell’attenzione della chiesa. La questione fu avviata da un monaco italo – greco di Calabria, cioè Barlaam il quale cominciò una attività
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di predicazione contro i Latini. La sua opera di predicazione trovò alcuni oppositori come Gregorio Palamàs. Il dibattito giunse presto ad interessare l’esperienza del monachesimo contemplativo, detto “esicastico”, la cui tradizione era già ben radicata sulla Santa Montagna. La confutazione della opposizione di Barlaam alle regole ascetiche praticate dai monaci della Santa Montagna fu posta in essere da Gregorio Palamàs nelle sue “Triadi per la difesa dei santi esicasti”, le quali offrirono alla vita ecclesiale in oriente il supporto teologico cui essa poté ricorrere nei difficili tempi della dominazione ottomana. Uno dei contributi derivati dal monachesimo athonita fu quello dato da Gregorio di Nissa il quale elaborò delle proposizioni in cui affermava ad esempio che la trascendenza divina è irriducibile alla conoscenza umana. Tuttavia l’Inattingibile a volte si manifesta alla natura umana attraverso fenomeni di manifestazione di energie increate. Anche altri teologi e mistici sulla scia dei monaci della Santa Montagna elaborarono proprie concezioni teologiche, tuttavia a volte tali contributi speculativi erano poco attendibili e denotavano scarsa cultura teologica e con le loro inesattezze favorivano le confutazioni da parte di monaci avversi agli athoniti. In quest’ottica il contributo di Palamàs fu ancora una volta decisivo.
Il dibattito tra Palamàs e Baarlam non rimase circoscritto agli ambienti monastici, ma si inserì in lotte di potere tra occidentalisti e orientalisti. Infine il dibattito tra i due teologi del monachesimo vide prevalere la posizione di Palamàs, ma quest’ultimo, similmente al suo avversario fu imprigionato e scomunicato.
Intano nel 1347 fu convocato a Costantinopoli un concilio, filo/esicasta che depose il patriarca. In quello stesso anno Palamàs fu riabilitato e ottenne una cattedra a Tessalonica, che poté però occupare solo dal 1350 dopo la fine dell’occupazione zelota. Dopo la morte Palamàs fu canonizzato. Le chiese di tradizione bizantina ne avrebbero raccolto il messaggio, attraverso la riflessione sulle sue opere, che sarebbero assurte a sintesi di dottrina e spiritualità nell’esperienza religiosa delle chiese orientali fino ai giorni nostri.
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Costantinopoli tra Latinismo e Turcocrazia
Lo scisma tra chiesa cattolica occidentale e chiesa ortodossa di rito greco, che si era prodotto sulla sostanza teologica di un passo della preghiera del Credo, comune a entrambe le chiese, ma inteso diversamente da oriente a occidente era derivato essenzialmente da un elemento liturgico. Durante la lettura o la recitazione del “Credo” si giunge al passo che definisce lo Spirito Santo come procedente dal Padre e non anche dal Figlio, come ritenevano gli orientali, mentre gli occidentali lo ritenevano procedente dal Padre “e” dal Figlio.
Al di là però delle differenze e delle contestazioni reciproche, quando nel 1261 il basilèus di Costantinopoli tornò in sede, chiese l’aiuto dell’Occidente per far fronte ad una serie di minacce che provenivano dai territori e dai popoli confinanti con il suo impero. L’imperatore convocò perciò un concilio a Costantinopoli con intenti unionistici, che però, a partire dai patriarchi orientali si pronunciò per la impossibilità di qualsiasi accordo con Roma e con i Latini.
Col 1361, dopo un secolo caratterizzato dalla sostanziale inconcludenza dei propositi unitari tra i due imperi, l’orientale e l’occidentale, gli Ottomani si insediavano in Europa, e conquistavano progressivamente Balcania e Bulgaria.
Occorreva, anche per far fronte comune contro il pericolo turco, una riconciliazione tra la chiesa cristiana occidentale e quella orientale. Per fare ciò venne convocato un concilio a Ferrara la cui prima seduta si tenne il 9 aprile 1438. Un’anno dopo veniva emanata una bolla, la “Laentur coeli”, approvata da tutte le parti in causa. Quanto al motivo primigenio della contesa cioè il “filioque” presente nel Credo e la sua interpretazione in un senso o nell’altro come già accennato più sopra, la chiesa latina risolse il problema modificando la formula da “filioque” a “per filium”. Analogamente il concetto teologico di Purgatorio non fu imposto ai Greci che non avevano idea di cosa fosse, ma si convenne sul dovere di intercessione per i morti.
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Quanto agli azimi si concordò in merito alla equipollenza di questi al pane lievitato, obliterando le differenze.
Nel 1452, nonostante una maggiore coesione tra le due chiese, i turchi di Maometto II assediavano Costantinopoli, conquistando in breve la città e pronunciando nella cattedrale di Santa Sofia il nome di Allah. Con quell’atto iniziava anche per la nuova Roma la turcocrazia, cioè il dominio musulmano. Costantinopoli era caduta e così avevano perduto valore anche gli accordi raggiunti in sede conciliare.
La conquista islamica non determinò spargimenti di sangue o provvedimenti restrittivi. Il basilèus rimaneva tale, e tale l’ordinamento, innanzitutto religioso della città. Finalmente si poté affermare che le terre ortodosse erano state riunite, sebbene sotto il simbolo della mezzaluna anziché sotto quello della croce.
Le missioni cattoliche
Il termine “missioni” caratterizza l’espansione del Cristianesimo al di fuori dell’Europa solo in tempi recenti. L’antichità cristiana impiega il termine missio per indicare l’osservanza della volontà del Cristo da parte della comunità, volontà intesa come affidamento agli apostoli e poi a tutti gli altri appartenenti alla religione cristiano – cattolica, di diffondere il messaggio dei vangeli, ossia ciò che è conosciuto come “buona novella”, tra coloro che non avessero conoscenza di Cristo, né del Vangelo. Con il Concilio Vaticano II si è aperta un’epoca nuova, simile però a quella in cui vissero i primi cristiani, che si è designata come “post-missioanria”. Tuttavia occorre parlare delle origini delle missioni e quindi del concetto di ”apostolato”. Fu Paolo ad dare inizio alla colonizzazione cristiano – centrica dei territori confinanti con la Galilea, come stabilito nel primo concilio cristiano, quello di Gerusalemme tenutosi nel ‘48/’49 d.C.. Grazie all’opera dei missionari, nel giro di un secolo, la fulminea diffusione del Cristianesimo, impressionò perfino i funzionari imperiali. Questa progressione si è sviluppata a poco a poco, a partire dalle classi più umili della società. I capi dei predicatori cristiani si riunivano spesso
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in concilio e persino in assemblee ecumeniche ma sempre riconoscendo il primato del vescovo di Roma. Con la conversione di Costantino la chiesa cattolica modella il proprio diritto, la propria liturgia, il proprio patrimonio letterario su quelle della istituzione romana.
Ma di fronte agli invasori germanici l’obiettivo non fu quello di adeguare sé stessi alle credenze barbare ma di convertire i barbari al cristianesimo, compito che fu primariamente esercitato dalle comunità monastiche, tra le quali si ebbe anche la nomina di un papa, Gregorio Magno, il quale trattò con i Longobardi e inviò il monaco Agostino oltre Manica per convertire gli Angli.
La chiesa imponeva il diritto romano ai Celti e ai Germani, ma allo stesso tempo svolgeva opera di evangelizzazione nelle lingue volgari. Nel X secolo i due frati Cirillo e Metodio inviati dall’imperatore di Bisanzio presso i Bulgari per evangelizzare i popoli slavi, crearono una lingua, il paleo slavo utilizzando un alfabeto che poi sarebbe diventato il cirillico e il cui uso nella liturgia fu successivamente accolto anche dai papi. Per combattere l’opposizione islamica e germanica alla dottrina cristiana alcuni papi pensarono bene di indire delle missioni armate, le Crociate, per riconquistare i luoghi santi della Palestina, favorendo anche in questo modo un’ atteggiamento di favore da parte dei regnanti Carolingi verso la Santa Sede. In tale contesto va sottolineato come nel momento più duro della lotta tra le due fedi, quella cristiana e quella islamica, si instaurasse un dialogo culturale tra un Federico II e un san Francesco.
L’impero ottomano conquistatore di Bisanzio nel 1453 avrebbe poi sbarrato la strada all’espansione cristiana nel Medioevo. La vittoria della flotta genovese sui turchi a Lepanto nel 1571 d.C. avrebbe confermato questa situazione di immobilità; e per i due secoli successivi l’area dominata dai musulmani avrebbe mantenuto l’ostilità verso il cristianesimo.
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La scoperta del nuovo mondo : le missioni organizzate dal XVI alla prima parte del XX secolo
Quando nel 1492 venne scoperto il continente americano, si comprese subito che la gente che vi abitava non aveva ma conosciuto la Rivelazione. Da ciò nasce uno slancio missionario che si concreta nella bolla di papa Alessandro VI, “Inter caetera”, che ripartiva i compiti inerenti alla cristianizzazione agli Stati di Spagna e Portogallo, conferendo loro poteri decisionali in ordine alla coordinazione e al sostegno economico alle missioni. Al diritto autoattribuitosi da parte della cristianità europea di evangelizzare quelle regioni si accompagnò l’intento di non ridurre gli autoctoni a schiavi ma a rispettarne la dignità personale.
La popolazione indiana fu perciò raggruppata in comunità parrocchiali, dette “reducciones”, ma niente altro a causa della tendenza accentratrice della Monarchia Castigliana. Dopo il Concilio di Trento i papi, da PioV a Gregorio XV si attivarono per ottenere il controllo della evangelizzazione. Le grandi congregazioni o compagnie di ecclesiastici avrebbero ricevuto la “commissione” di evangelizzare determinati territori e insieme ai vescovi nominati da Madrid o da Lisbona vi sarebbero sorti Stati dipendenti dalla chiesa di Roma.
Tappe geografiche
Le tappe della colonizzazione cristiana cominciano con le Indie Occidentali e Orientali, mentre in Africa nasce un effimero impero del Congo. Oltre Atlantico le chiese latinoamericane del sud si estendevano sin dalla California alla Florida, mentre si determinò nel Nord del Continente la marcia colonizzatrice dei gesuiti verso i Grandi Laghi insieme alla cristianizzazone degli eschimesi nel grande Nord canadese. Domenicani spagnoli a est del Capo di Buona speranza sulla rotta tracciata dai Portoghesi, dal Mozambico a Goa Malacca e Macao, fino alle Filippine; gesuiti in India e in Cina; i francesi in Siam e Vietnam fondarono comunità che sarebbero arrivate siano ai giorni nostri. Dopo la soppressione del
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dell’Ordine dei Gesuiti, l’espansione insieme a quella protestante riprese e interessò allo stesso modo Oceania, Cina e Giappone. Infine iniziava la penetrazione in Africa in condizioni assai precarie. Nelle missioni erano inizialmente presenti solo portoghesi e spagnoli, cui la scarsità delle risorse ai fini della colonizzazione determinò il loro placet all’insediamento nelle colonie di comunità francesi, cui si aggiunsero nel tempo Italiani, Tedeschi e Irlandesi.
La situazione di convivenza forzata che si determinò nelle colonie tra i rappresentanti dei Paesi appena citati determinarono contrasti che isolarono ciascuna comunità riferibile ad un ordinamento nazionale dalle altre. In tutto ciò la chiesa inviò direttive dettagliate per una romanizzazione della colonizzazione. Fu questo un provvedimento che i detrattori dell’allora papa associarono ad un un intento imperialista da parte della chiesa, e di sue commistioni con il movimento coloniale e con il modo in cui tale movimento instaurava rapporti con gli autoctoni, rapporti cioè da “padrone a schiavo”. In realtà l’unica intenzione della chiesa di Roma e dei suoi missionari era quella di diffondere il vangelo, e ciò comportò una necessaria sudditanza ai coloni provenienti da altri paesi europei.
Anche per quanto riguarda la Cina i missionari riuscirono solo in parte nella loro opera di conversione anche perché, si era nel 1939, essi giunsero troppo tardi per evitare la situazione di disordine in quel paese, situazione che preludeva all’instaurazione del coumunismo. Il riconoscimento da parte della chiesa della propria incapacità di agire di fronte a situazioni come quella cinese, convinse i papi successivi al primo conflitto mondiale, a convalidare il riconoscimento delle civiltà come un fatto acclarato negli ambienti cristiani più avanzati.
Con l’ascesa al soglio pontificio di papa Pio XI, quest’ultimo ordinò di edificare nei territori in cui la chiesa era presente con le proprie gerarchie una serie di edifici ecclesiastici e di istituire un clero locale, cioè ricavato dalla predicazione agli autoctoni e dalla conversione degli stessi al cristianesimo. Nel 1957 avrebbe chiesto al clero secolare di tutte le diocesi, anche quelle oltre atlantico di dare aiuto a quelle
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sprovviste di clero. Per conciliare il messaggio evangelico, che al tempo delle prime comunità cristiane non poteva essere rivolto a persone che abitavano oltre oceano, con la situazione attuale, Henrì de Lubac definì il movimento cattolico come “divinamente unificato e umanamente differenziato”
Dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965): dalle missioni delle chiese alla missione della Chiesa
Le grandi dichiarazioni del Concilio Vaticano II rivalutano il concetto di missione in quanto un intento missionario è ravvisabile anche nella figura di Cristo inviato sulla terra dal Padre proprio per operare un atto di carità universale quale il sacrificio supremo, cioè la morte di Croce, sotto l’impulso dello Spirito Santo. Due dichiarazioni votate poco prima della chiusura del consesso precisavano che la libertà religiosa si fonda sulla dignità dell’uomo ed esclude ogni proselitismo, ed essa libertà si fonda anche sul dialogo, sia con le confessioni interne al Cristianesimo sia con le altre grandi religioni del mondo. Per la prima volta con papa Pacelli si ebbe la visita di un papa in Paesi stranieri. Prima nei luoghi santi e poi in India, per seguire il congresso eucaristico di Bombay, e per finire con la visita alla sede delle Nazioni Unite a New York.
Con Giovanni Paolo II si verifica un ampliamento dei viaggi apostolici. Due giorni dopo la sua visita all’Unesco del 1980, il papa costituì il Consiglio Pontificio per la cultura. I viaggi di Giovanni Paolo II sono altresì l’occasione per mantenere aperto il dialogo ecumenico col Consiglio Mondiale delle Chiese a Ginevra. Attraverso il dialogo interreligioso il papa ha allargato la stessa prospettiva ecumenica attraverso contatti con: Ebrei, Dalai Lama, Corea del sud.
Questo avanzare del dialogo interreligioso deve essere messa in rapporto con la diaspora dell’ordine monastico. Questo monachesimo, questo eremitaggio missionario, preferisce occultarsi in profondità in quelle società che necessitano l’aiuto dei consacrati a Dio per operare dall’interno a per gradi una progressiva
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evangelizzazione. Si tratta di un movimento ancora oggi presente in molti paesi, e tutto ciò grazie all’utilità del lavoro svolto.
Relativamente alle missioni di matrice protestante, si parte dal Seicento, quando l’Olanda divenne la maggiore potenza marittima del mondo. Colonizzò dal punto di vista commerciale molti paesi delle Americhe, come il Brasile, e anche molte regioni in Africa e in Asia. Non è dunque un caso che l’Olanda sia stata tra i primi paesi le cui chiese si siano poste il problema delle missioni protestanti, anzitutto con le due Compagnie, delle Indie orientali e delle Indie occidentali, che diedero avvio alla riflessione teologica secondo cui la missione non è compito dei governi ma è compito delle Chiese. Tuttavia la coesistenza di un movimento coloniale che considerava ad esempio le Americhe un luogo di conquista e di affari insieme al compito da parte dei missionari presenti in quei luoghi di evangelizzare gli autoctoni, erano palesemente due elementi che rappresentavano una contraddizione in termini. Tuttavia l’attività missionaria portata avanti da teologi protestanti non diede scarsi risultati. Soltanto, essa attività dipendeva economicamente dalla Compagnia delle Indie e quando questa decise che gli affari maggiori con le comunità indigene delle aree colonizzate erano stati conclusi, allora si concluse anche la missione protestante in quei paesi.