martedì 19 agosto 2025

Nei post che seguono ho tentato di raccontare, "in pillole", come dicono i "divulgatori", quella che, attraverso la consultazione di una serie di testi di saggistica specificamente dedicati all'argomento, cioè alle vicissitudini del Popolo di Dio, queste ultime intese, sia nel tempo (3000 anni di storia), che nello spazio (raminghi ed esuli sul cuor della Terra). Mi auguro che questa sintesi di elementi storiografici ma anche teologici e divulgativi, possa essere utile a chi voglia cimentarsi con un primo approccio alla Storia del Popolo Ebraico, non solo per una comunque "utile" curiosita, ma anche per il particolare "concetto" che Esso popolo ha del Principio divino e anche come detto per la Sua peculiarissima "storia". 

Ebraismo

84

Innanzitutto una breve analisi del presente.

Sento l’esigenza di rammentare al lettore quella che è la realtà dell’Ebraismo odierno al di fuori dei confini dello Stato di Israele e nella fattispecie dell’Ebraismo considerato in un ambito nazionale interessato da una forte presenza ebraica, quali sono oggi gli Stati Uniti. In questo Paese vivono oggi circa 7.500.000 Ebrei, cioè la metà dei 15.000.000 di ebrei sopravvissuti all’Olocausto. Probabilmente la crescita della popolazione ebraica avvenuta nel Paese ha favorito una maggiore apertura alle tradizioni esterne da parte di alcune comunità, le quali ormai accettano ad esempio la prassi dei matrimoni misti, cioè fra ebrei e non ebrei, matrimoni che ormai hanno raggiunto il 55% del totale. Questa apertura ha dato luogo ovviamente ad una divisione se non frammentazione tra le comunità ebraiche che tale apertura hanno favorito e le comunità ortodosse che sono ancora legate alle tradizioni ancestrali che prescrivono ai fini della validità del vincolo, matrimoni tra persone che appartengano al popolo ebraico dalla nascita, che cioè siano figli o figlie di madre ebrea. Non si può negare poi che all’interno del movimento religioso ebraico i suddetti due atteggiamenti corrispondano a due diverse accezioni del culto ebraico, che può essere considerato in senso etnico o religioso. Nel primo senso l’ebraismo conserva, attraverso la tradizione, l’osservanza delle prescrizioni contenute nella Bibbia, ovviamente considerando i soli Libri che fanno parte del canone ebraico, e quindi esso ebraismo continua a ritenere fondamentale la preservazione dell’unità di popolo, che nel nostro modo di sentire vorrebbe dire “etnia”. Ciò viene reso possibile attraverso matrimoni tra uomini e donne ebrei per nascita, in ottemperanza alle tradizioni, e considerando i matrimoni misti una aberrazione, un atto contrario alla legge mosaica, ed anche un pericolo per la sopravvivenza dell’ebraismo in quanto insieme inderogabile di prescrizioni normative, in ragione del fatto che sempre i matrimoni in parola, cioè i matrimoni misti, vengono contratti da ebrei con persone non di origine ebraica, quanto a discendenza, e quindi ignoranti in fatto di tradizione ebraica e di osservanza delle norme tradizionali, osservanza che è fondamentale affinché si compiano le profezie contenute nei testi sacri, ma anche affinché si conservi un rapporto positivo con Dio. Tuttavia l’aspetto etnico va contemperato con quello religioso, che cioè prescinde dal vincolo di sangue e si fonda invece su una scelta a carattere personale, atteggiamento che contraddistingue, per rimanere alla realtà dell’incremento dei matrimoni misti, sempre gli Stati Uniti, ossia la ben radicata regola che in quel Paese tutti coloro che

85

provengono dall’estero e intendano risiedervi stabilmente, siano tenuti a riconoscere gli USA come la propria unica Nazione, o per meglio dire tutti coloro che entrano nel territorio USA per risiedervi, debbano essere consapevoli che la Nazione ospitante è per loro e deve necessariamente esserlo, una sorta di patria di adozione e che non devono esservi, quanto meno a livello di relazioni esterne, cioè al di fuori dell’ambito domestico, infrazioni alle regole di una sana convivenza anche tra persone di diversa origine, e perfino se per ipotesi le persone in questione provengano da Nazioni situate agli antipodi. Tutti coloro che si stabiliscono in USA devono “desiderare” di essere americani USA, tutto ciò sempre ai fini di una piena integrazione. Ma ovviamente una piena integrazione deve essere fondata sull’abbandono, in parte almeno, degli usi e dei costumi estranei alla realtà USA, e quindi sull’adozione dei costumi o di parte dei costumi del Paese ospitante. Ed ecco in sostanza spiegata la ragione della apertura di molte comunità ebraiche ai matrimoni misti, niente altro che un risultato di politiche accorte di coesione tra genti che in comune spesso non hanno neanche il linguaggio.

Esistono di conseguenza e in virtù di tale realtà politica due volti dell’Ebraismo: il primo che guarda tenacemente al passato ed è più che mai legato alle proprie tradizioni di osservanti delle prescrizioni Divine; e il secondo che guarda al futuro e intende la pratica e l’osservanza dei precetti come un modo per accelerare la venuta del Messia grazie alla invocazione in tal senso del favore divino, per il tramite dell’osservanza delle antiche pratiche, cosicché si adempiano le profezie contenute nelle Scritture. E’ quest’ultimo Ebraismo ad aver favorito la nascita dello Stato di Israele. Noto è il detto attribuito a Theodor Herzl, uno dei fondatori del Sionismo, ossia del movimento favorevole alla nascita dello Stato di Israele, pronunciato durante un discorso pubblico negli ultimi decenni del XIX secolo: “Se lo vuoi con forza non è un sogno”. La storia del Popolo Ebraico e della sua religione è, comunque sia, da sempre una storia di diaspora, cioè di dispersione dell’Ebraismo in tutto il mondo. Non dimentichiamo che lo Stato di Israele è nato proprio con la finalità di dare al popolo di Dio un posto dove risiedere stabilmente, non a caso

86

collocato in quei territori che erano in un tempo lontano già abitati da ebrei; si tratta della Terra Promessa di cui parla il Pentateuco ossia l’odierna Palestina. Ovviamente la creazione dello Stato israeliano è un fatto relativamente recente, in quanto risale al 1948. Nondimeno ci si potrebbe interrogare su quale fosse il tipo di rapporto che gli Ebrei erano soliti intrattenere, e forse continuano ad intrattenere con i popoli che condividevano o condividono il medesimo territorio, Stato di Israele a parte, popoli assai differenti da quello ebraico e anche abbastanza diffidenti nei confronti di una comunità che sosteneva e sostiene di essere l’unico tra i popoli della Terra ad essere stato scelto da Dio per abitare il mondo, l’unico popolo tenuto a rifiutare sistematicamente i rapporti con gli altri popoli ancorché detti popoli condividessero il loro stesso territorio. Sicuramente tali rapporti, stando alle premesse, non potrebbero che essere non positivi. Ed è per queste ragioni che la storia del popolo ebraico è una storia di intolleranza da parte dei popoli e delle Nazioni che ospitavano e ospitano le comunità ebraiche, nei confronti di quelle stesse comunità. Ad esempio il periodo ellenistico fu uno dei più crudeli e difficili per gli Ebrei, e così il “dopo” fino ad arrivare al 1492, quando gli ebrei furono espulsi dalla Spagna e dal Portogallo. A partire da allora, durante l’evo moderno e fino ad oggi tuttavia gli ebrei hanno saputo rispondere con grande forza e intelligenza alle sfide che di volta in volta sono stati chiamati ad affrontare, anche ai nostri giorni, ad esempio questioni come la fecondazione in vitro o i progressi della biologia e quindi l’intera tematica relativa alla bioetica. Tuttavia è un fatto che oggi esistono “tanti” ebraismi, tanti gruppi sociali di religione ebraica che concepiscono il rapporto con Dio in maniere finanche speculari le une alle altre: si pensi agli ebrei sefarditi e askenaziti, suddivisione che risale almeno alla già ricordata espulsione da Spagna e Portogallo. Nel XX secolo poi l’ebraismo ha dovuto confrontarsi con due grandi fenomeni storici: l’Olocausto e la già menzionata nascita dello stato di Israele dopo la guerra. Ora, tutto ciò, come si è tentato di accennare, ha avuto delle conseguenze, come ad esempio la nascita di una contrapposizione tra ebrei americani ed ebrei israeliani, ciò che vorrebbe dire tra

87

liberali e fondamentalisti. Altra differenza tra ebrei americani ed ebrei israeliani è che i primi considerano l’adesione alla religione ebraica un fatto meramente interiore, mentre gli israeliani la considerano una religione nazionale, anzi forse perfino una sorta di sostrato normativo posto a fondamento della realtà statale, ricalcato sulle prescrizioni bibliche e il cui vigore normativo non è andato spegnendosi nei secoli. Insomma la conclusione della presente analisi mi pare possa essere quella secondo cui la religione ebraica “oggi” non è più un insieme di riti e pratiche di culto, ma un insieme di “modi di vivere”, di usi, costumi, tradizioni, ma altresì privi di un riferimento trascendente, e ciò massimamente nello stato di Israele dove la religione è pura forma, in quanto incorporata in una entità statale, la quale ne fa strumento di governo ed è quindi divenuta, se non altro nelle parti narrative e descrittive contenute nei sacri testi, un qualcosa da “ricordare” più che da “osservare” e “praticare”.

Considerazioni sulle vicende bibliche di Israele su base testuale. Valutazione delle fonti bibliche. Cenni al conflitto Israelo/Palestinese.

E’ un dato di fatto che la Bibbia cui fa riferimento l’Ebraismo contiene molti testi in comune con l’Antico Testamento cristiano, ma molti libri raccolti nel canone cristiano non sono inclusi nel canone ebraico. Ricostruire la genesi dei testi biblici accettati dagli ebrei costituisce pertanto un lavoro assai impegnativo, e nondimeno fondamentale per risolvere questioni come la corrispondenza cronologica dei testi in parola e la maggiore o minore esattezza del racconto contenuto in ciascuno di essi. Tuttavia una prima ricostruzione può essere effettuata sulla base di un intervallo di tempo che parte dal III secolo a.C. giungendo al I – II secolo d.C.

Il primo dei problemi da affrontare è però la datazione dei canoni: a partire dal canone ebraico palestinese, il canone samaritano, quest’ultimo comprendente il solo

88

Pentateuco e pochi altri testi, per finire con i vari canoni cristiani, canoni che, tutti, sono ancora oggi privi di una corretta datazione.

Tuttavia, anche sulla base del rinvenimento di testi assai risalenti, i cosiddetti rotoli del Mar Morto, databili fra III secolo a.C. e I secolo d.C., i testi greci dei Settanta e il testo masoretico, cioè “tradizionale” (in cui le vocali ebraiche furono paradossalmente introdotte dagli studiosi “dopo” l’introduzione delle consonanti) consentono in via ipotetica di operare una datazione che va dall’ XI secolo a.C. alla fase post – esilica. Il canone ebraico è ad oggi costituito da tre insiemi di libri: il Pentateuco (la Torah), i Profeti anteriori e i Profeti posteriori, oltre ai Salmi, il Libro del Profeta Daniele, e altri libri minori. Il rapporto tra Yahveh e il suo popolo è caratterizzato, secondo il racconto della Bibbia ebraica, dall’essere un “patto”, in ebraico “berit”, di cui sarebbero contraenti da un lato la Divinità, dall’altro il popolo ebraico, a cominciare dai suoi antenati. La Bibbia non sarebbe altro che la storia di questo patto, che tante volte Israele avrebbe disatteso, suscitando l’ira divina e le conseguenti sciagure a proprio danno, in quanto popolo legato a Dio da un particolare rapporto. Ma il termine “berit” vuol dire anche “promessa”, che in latino ha il significato di “testamento”, da cui la terminologia biblica che ne indica le partizioni.

Per cominciare occorre dire che la narrazione biblica si articola in sei grandi periodi. Il primo è quello che inizia con la creazione del mondo e giunge sino a Giacobbe, cui Dio diede nome Israele, a lui e a tutta la sua discendenza.

Il secondo è relativo alla permanenza di Israele in Egitto, periodo oscuro nella storia del popolo di Dio, che si conclude con l’uscita dal Paese per tramite di Mosè, con la consolidazione dell’alleanza con Yahveh attraverso la consegna da parte di Questi a Mosè sul monte Sinai delle Tavole della Legge, e con l’ingresso, che però Mosè non riuscì a veder compiersi perché venne meno poco prima che il popolo vi entrasse, nella terra “promessa”, cioè la terra di Canaan.

Il terzo periodo è narrato nel libro dell’Esodo, e racconta le vicende relative alla definitiva conquista della Terra di Canaan.

89

Segue il quarto periodo, il quale fa riferimento all’ascesa di David al trono, cui fa seguito quella di Salomone, con la costruzione del Tempio e la divisione del regno, dopo la morte del monarca, in due diversi stati: il settentrionale, con capitale Samaria e il meridionale cioè il territorio di Giuda con capitale Gerusalemme.

Il quinto periodo si colloca tra l’VIII e il VI secolo a.C., quando i suddetti due regni crollano a causa della penetrazione da parte degli Assiri il primo, il secondo da parte dei babilonesi di Nabucodonosor II . Comincia così il periodo dell’esilio babilonese, cioè il quinto periodo della storia di Israele, mentre il sesto e ultimo periodo si ha con la caduta di Babilonia ad opera del re di Persia Ciro (siamo a metà circa del VI secolo a.C.) e coincide col ritorno in Palestina di una parte di coloro che precedentemente erano stati deportati in Babilonia.

Per quanto riguarda la attendibilità storica di ciascuno dei sei periodi considerati, costituisce un dato di fatto che il quarto periodo, cioè il periodo monarchico, insieme ai due successivi sia piuttosto verificabile a livello storiografico. Per quanto invece concerne i tre periodi più antichi, a partire dall’”Età dei Patriarchi” (da Abramo a Giuseppe) fino all’età mosaica, alla colonizzazione del territorio di Canaan, e poi al tempo dei Giudici, esiste una certa concordanza tra gli studiosi nel ritenere questi periodi invenzioni o per meglio dire “finzioni” bibliche. In realtà la funzione di questi libri, che sono in definitiva racconti, cioè opere narrative, è voluta. Si tratta dello stesso movente che induce Omero a scrivere Iliade e Odissea, cioè quello di raccontare in forma allegorica, il rapporto di un popolo con la propria fede. Il rapporto con la divinità presso gli ebrei è essenzialmente giustificazionista: se il popolo patisce è per volere di Dio, se prospera è sempre per volere di Dio. Insomma un giustificazionismo che aiuta il popolo ad attraversare i momenti più duri, sia nel caso di eventi bellici conclusi da una sconfitta a carico di Israele, sia a causa della pratica sempre da parte di Israele di altri culti e altre religioni, sia nel caso del ritorno da parte di Israele ai comportamenti malvagi e alle turpitudini del periodo pre – abramitico, ecc. Si tratta di vicende in cui il Popolo si è lordato di peccati che a Yahveh causano sdegno e che ne suscitano la collera. E’quindi

90

compito delle figure di riferimento della comunità israelitica operare in modo da riconciliare sempre la comunità con Yahveh attraverso offerte sacrificali, riti espiatòri e purificatòri. In ultima istanza dal punto di vista psicologico si potrebbe considerare il testo biblico come un poema che trasuda di un processo “dissociativo” a carattere di mania o psicosi collettiva, di un popolo che si dà delle leggi che poi puntualmente viola, calpesta, oltraggia, per poi attribuire ad una sorta di proiezione ingigantita di sé stesso la colpa delle infrazioni. E se mi è consentito dirlo traspare dal testo anche un senso di vittimismo e di autocommiserazione che fu forse carattere distintivo dei primi gruppi di individui appartenenti al ceppo ebraico, come fu, sempre se mi è consentito dirlo, carattere distintivo di alcune formazioni o gruppi di pastori della Palestina del tempo che fu, tentare di nobilitare, ambiziosamente, le proprie tradizioni inventandosi un Dio che non era solo il “loro Dio”, ma anche e soprattutto l’unico Dio esistente e per di più legato al suo popolo da un patto di alleanza. In realtà l’atteggiamento autopunitivo del popolo di Israele non è altro che una sublimazione del desiderio di potere, cioè del desiderio di credere nella grandezza e onnipotenza del loro Dio anche, paradossalmente, quando quest’ultimo infliggeva al popolo i peggiori castighi. Anziché coltivare l’atteggiamento disincantato nei riguardi della realtà che era peraltro proprio ad altri popoli dell’epoca, come ad esempio i Greci o i Romani, ma anche gli Egizi o i Babilonesi, Israele restava avvinto, in maniera a un tempo feroce e infantile, a un Dio che ne rispecchiava perfettamente il carattere di popolo e che era niente altro che una giustificazione alle proprie nefandezze e alle proprie sventure e una forma di proselitismo nei riguardi di popoli che Israele voleva destinare ad essere proprie colonie, loro, il loro territorio e i loro beni.

Per tornare alla periodizzazione e limitatamente alla parte sulla cui veridicità possiamo fare affidamento, va detto anche a mio parere che le figure storiche che hanno in qualche modo guidato gli ebrei come popolo a partire dal periodo monarchico e poi dopo con gli avvenimenti successivi, fra quelli per i quali è ottenibile un qualche riscontro storiografico o filologico, e parlo di figure storiche

91

come i legislatori, i re, innanzitutto, e poi i profeti, i nazirei, i sacerdoti, i giudici, chiamati di volta in volta e a seconda sempre del preteso volere di Yahveh, a guidare la Nazione, tutti costoro sono ovviamente figure in un modo o nell’altro legate al capriccio di un Dio che utilizza il proprio potere di “far accadere” gli avvenimenti al solo scopo di sondare sempre la fedeltà del popolo a sé medesimo e quindi l’ossequio all’unico Dio “creatore del cielo e della terra”, il Dio di Israele. Se per quanto detto si volesse ricostruire la storia del popolo ebraico considerando la Bibbia niente altro che una fonte storica, peraltro finanche attendibile e priva di contraddizioni o incoerenze, quanto meno sul piano della concordanza sulle datazioni dei testi oltreché ovviamente della veridicità dei fatti narrati, si giungerebbe in un vicolo cieco, in cui peraltro molti studiosi si sono smarriti. La Bibbia così come raccontata nel testo che ho avuto il piacere di leggere per intero al fine della redazione della presente scrittura, è un coacervo di generi letterari, anacronismi, narrazioni incentrate su avvenimenti che farebbero orrore a chiunque abbia un minimo di umanità o quanto meno di senso di commiserazione, non tanto per sé stesso e per le porcherie che legge quanto per via di un giudizio privo di infingimenti o sofismi su un testo che non ha niente di concreto da dire e che si caratterizza, persino nella versione edulcorata della CEI, per una sequela di turpitudini, che se davvero avessero un intento monitorio per i posteri sulla potenza di Dio non dovrebbero neanche essere raccontate con quell’intento perché sono solo e soltanto atti di “barbarie”. Non diversamente si comportavano i seguaci di altre divinità come Baal, Astaroth, Astarte, Belial, cui non facevano altro che dedicare, semplicemente, altari o stele votive, anche se spesso anch’essi commettevano atti di estrema violenza e ferocia, come l’immolazione per scopi votivi finanche dei propri figli e figlie. Perfino in altri contesti e seguendo i dettami di altre religioni, si verificavano atti disumani del tipo appena descritto, ad esempio nella Grecia antica. E tuttavia l’atteggiamento dei Greci nei confronti della morte, penso a Sparta, era non solo più ricco di coraggio, ma altresì se ad esempio la morte coglieva un soldato in guerra, essa era fonte di onore e gloria per il caduto e per la sua famiglia, cosa che

92

non accadeva presso il popolo ebraico, che considerava la morte un disonore e una punizione divina, soprattutto quando gli eserciti di Samaria e Levi erano rudemente battuti e anzi trucidati dalle popolazioni vicine, cioè sempre assiri, babilonesi, i non meglio noti “popoli del mare”, e infine i cocciutissimi Filistei, che diedero le più grandi delusioni in battaglia al Popolo di Dio. Ovviamente i responsabili delle tragedie belliche cui periodicamente gli ebrei erano incorsi, dichiaravano a gran voce che quelle tragedie non potevano essere causate dalla maggiore organizzazione del nemico in battaglia, ma ovviamente dal disfavore divino. Era quindi Yahveh il responsabile e non il suo popolo, come a dire che se il Popolo Eletto avesse beneficiato del favore divino, probabilmente non avrebbe perduto tanti soldati in una guerra che per giunta lo stesso Yahveh, questa volta nelle vesti di “causa ultima”, aveva deliberatamente provocato allo scopo di provare la dedizione del popolo al suo unico Dio, cioè a Lui medesimo. In questo tipo di ragionamento sono presenti alcune distorsioni cognitive che nel caso degli ebrei interessano non un singolo individuo, come nelle ordinarie psicosi, ma un popolo intero che attribuisce ad altri che a sé qualcosa che dipende esclusivamente dalle proprie scelte e dalla propria condotta. Insomma ciò che lo scrivente sta tentando di dire è che di ciascuna azione nei suoi effetti concreti, è buona e sana regola che se ne assuma la responsabilità colui che quella azione ha compiuto. In altri termini quando il Codice Penale, all’art. 575, dispone che l’omicidio è reato, allora per individuare il responsabile del predetto reato è indispensabile che vi sia un rapporto di “causa/effetto” tra reato e “condotta materiale”, cioè che il reato sia conseguenza di un comportamento dell’agente e solo dell’agente e che tra tale comportamento e il fatto concreto della morte di un uomo esista un nesso di causalità. Ora se questo tipo di ragionamento costituisce un ragionamento valido e quindi estensibile ad altri ambiti, ad esempio all’interpretazione della Bibbia, bisogna concludere che il rapporto causativo di un conflitto tra Israele e ad esempio un popolo vicino come i Moabiti, che veda Israele avere la peggio, il predetto rapporto causativo non è tra Israele e il suo Dio, che non ha colpe, ma tra Israele e i Moabiti, rapporto che

93

sottosta all’evento “sconfitta di Israele” come sottosta al concetto che la sconfitta di Israele è opera dei Moabiti e non di Jhavhè. Credo che il ragionamento sia abbastanza chiaro.

Ma tornando per un attimo indietro e lasciando per un attimo da parte il rapporto tra ebrei e Javeh, mi preme considerare in maniera specifica tre aspetti della civiltà ebraica quali emergono dalla lettura della scrittura biblica: il rapporto col cibo; i rapporti tra uomini e donne relativamente al matrimonio e infine il concetto di “purità/impurità” proprio alla civiltà ebraica.

Per quanto riguarda il cibo va detto che il cibo preparato alla maniera ebraica, detto cibo “Kosher”, è un elemento che denota una straordinaria capacità di opinare su ciò che è commestibile e ciò che non lo è. L’opinione è la seguente: esistono cibi che possono essere consumati, ovviamente dopo essere stati depurati e adeguatamente cucinati; e cibi che non sono commestibili, non perché dannosi in senso biologico, ma perché derivati da animali impuri. Per l’ebreo è puro il vitello, è puro l’agnello, non è puro il porco, non sono puri alcuni volatili, ecc. Ma perché questa distinzione tra animali puri e impuri? Esistono due possibili risposte a questa domanda: la prima è il ricordo di ciò che nel libro della Genesi Dio disse a Noè, cioè la prescrizione relativa al tipo di animali da salvare per il ripopolamento della Terra dopo il Diluvio, cioè solo gli animali puri a giudizio insindacabile di Javheh; la seconda spiegazione possibile è che le regole sulla pulizia, preparazione e cottura degli animali puri derivi da un elemento meramente attinente al sostrato di usi e costumi, e quindi consuetudini, di una civiltà, quale è anche, e tra le altre, la civiltà ebraica. Per meglio specificare: una consuetudine è un comportamento ripetuto nel tempo da un gruppo sociale organizzato che, dopo un certo tempo inizia ad elaborare a livello sub – coscienziale , la persuasione che quella pratica, quel comportamento, sia una regola di comportamento a tutti gli effetti e quindi ad essa si abbia il dovere di adeguarsi. Deve essere questa l’origine della alimentazione kosher.

94

Quanto al secondo motivo o esigenza di chiarificazione, sempre sulla base delle scritture bibliche, essa è relativa al rapporto tra uomo e donna per come esso è regolato sulla base di quelle stesse scritture. Va detto innanzitutto che, a differenza che nel culto cattolico, dopo il matrimonio, che viene reso possibile solo a condizione di una cospicua dote portata dalla nubenda e acclusa al patrimonio del marito, ove uno o entrambi gli sposi decidano di porre termine al vincolo, è sufficiente uno scambio di scritti, in maniera meno che formale, nei quali viene dichiarata la volontà consensuale ovvero unilaterale, di sciogliere il vincolo. Non serve altro, tutto ciò in correlazione alla liceità dei rapporti poligamici che non sono per niente fonte di riprovazione in Israele. Mi domando se il concetto ebraico di matrimonio sia accettabile dal punto di vista della morale cristiano – cattolica: ovviamente non lo è. Senza annoiare il lettore con un elenco di ciò che rende più conveniente il matrimonio cattolico perché più “religiosamente” connotato, mi si lasci la possibilità di valutare il concetto di purità – impurità degli ebrei non più questa volta in riferimento agli animali da cibo, ma al singolo individuo, uomo o donna. Gli ebrei conoscono alcune forme o condizioni fisiche che denotano impurità che sono perfettamente sconosciute a noi occidentali. Ad esempio la donna: è impura se puerpera o se ha appena partorito, se ha le mestruazioni, se perde la verginità prima del matrimonio. L’uomo è impuro se ha contribuito al trasporto di una salma presso il luogo di sepoltura, se ha toccato o mangiato animali immondi, se ha appena avuto un rapporto sessuale. Mi pare di capire che il concetto di igiene dell’ebreo sia molto più minuzioso e complicato di quello di noi occidentali, e molto simile a quello dei musulmani. Se posso, vorrei aggiungere un’ultima considerazione: non riesco a capire perché il concetto di pulizia corporea di uomini e animali sia più rilevante per l’ebreo del concetto di moralità nel matrimonio. Ciò che critico è l’eccessiva libertà di costumi in materia sessuale cui non si accompagna un analogo arbitrio in materia di cibo o igiene personale. E francamente non riesco a spiegarmene la ragione se non facendo riferimento a ciò che costituisce usanza frequente tra pastori: la promiscuità. Se è vero che i primi

95

Patriarchi non provavano alcun pentimento nell’avere rapporti sessuali anche con le proprie figlie, allora va da sé che residuo di quelle pratiche sono i comportamenti che a livello sessuale gli ebrei manifestano oggi, cioè comportamenti sessuali molto più liberi di quelli occidentali e sto parlando non di comportamenti non oggetto di legislazione ma di comportamenti regolati in ogni loro aspetto.

Sempre nell’augurio che il lettore mi segua ancora in questo sforzo divulgativo, mi si consenta di illustrare alcuni altri aspetti della civiltà ebraica quali traspaiono dalla Bibbia. Innanzitutto quali sono ad oggi e quali furono in tempi biblici le figure che reggono e regolamentano, anche esercitando il potere di fare come si dice “giustizia”, la vita del popolo? Se penso alla mia epoca, quella in cui vivo, penso ad Israele come ad una grande Democrazia, in cui le questioni religiose sono per così dire un prolungamento delle convinzioni politiche: ci si riferisce alla Bibbia per meglio giustificare scelte politiche che sono strettamente legate ad un conflitto che si trascina dal 1948, anno di fondazione dello Stato di Israele, e che ha ad oggetto questioni di guerra preventiva e di espansione territoriale dovuta non solo alle differenze religiose tra ebrei d’Israele e altri popoli dell’area, ma in definitiva relative alla sistemazione “costituzionale” da attribuire ai popoli che occupano ad oggi la Palestina perché anch’essi Palestinesi da millenni, cioè i musulmani dell’area. Esiste inoltre e non potrebbe essere diversamente, una questione demografica che produce la seguente dinamica: l’aumento della popolazione israeliana dà luogo alla sottrazione da parte degli ebrei di sempre più vasti territori ai musulmani palestinesi, che ovviamente non sono per niente d’accordo con tutto ciò. A livello internazionale, oltre ad alcune risoluzioni ONU esistono dei trattati tra alcuni stati e i musulmani di OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) che riconoscono questa organizzazione come uno Stato a tutti gli effetti. Altri Stati, primo fra tutti Israele, non riconoscono alla OLP la qualifica internazionale di Stato e pertanto la considerano priva del diritto ad avere un territorio, cosa che tutti gli Stati hanno, una personalità internazionale, cosa che tutti gli Stati hanno, un esercito, cosa che tutti gli Stati hanno, e soprattutto il potere di

96

darsi delle regole che non siano quelle che vorrebbe imporre Israele, cioè le leggi ebraiche, ricalcate sui canoni biblici ebrei, ed applicate senza che chi ha un’altra storia di popolo, un altro testo religioso di riferimento, cioè il Corano, e un altro concetto degli aspetti più comuni del vivere quotidiano possa esercitare liberamente le facoltà e i diritti che da tutto ciò derivano quasi come conseguenza “necessaria”.

Ad ogni modo sui rapporti tra Israele e Palestinesi musulmani sino a tempi abbastanza recenti proverò ad essere più esaustivo nel prosieguo dello scritto.

Cenni a elementi teologici e filosofici introdotti nella cultura ebraica prima e dopo il periodo ellenistico

Si è detto che a un certo momento della loro storia, approssimativamente con l’inizio della deportazione in Babilonia, poi sotto la dominazione persiana, e infine con la colonizzazione da parte di Alessandro il Macedone, gli Ebrei si aprirono progressivamente all’influenza, per quanto attiene alla sfera teologica e filosofica, della civiltà innanzitutto persiana, poiché fu Ciro il grande, dopo la distruzione di Babilonia, a concedere che alcuni ebrei, ma soltanto dopo un certo tempo, potessero essere rimpatriati a Gerusalemme. Relativamente alla permanenza presso i persiani, un positivo influsso teologico è presente in Isaia II (VI secolo a.C.) il quale diede prova di conoscere in parte la teologia persiana, la quale teologia postulava l’esistenza di due Dei, uno buono e uno cattivo, ciò che per un ebreo era ovviamente inconcepibile. La reazione a tali nozioni e credenze da parte degli ebrei fu la chiusura nel più rigido monoteismo. Rimaneva però un problema: se Yahveh era il creatore di ogni cosa, allora in che modo spiegare il problema dell’esistenza del male? Non sappiamo se e come Isaia II avesse dato una soluzione al problema.

Sempre per quanto riguarda una chiara analisi dei fondamenti teologici dell’Ebraismo, di eccezionale importanza è il libro di Giobbe. Dall’affermazione di Giobbe secondo cui Dio ricompensa sempre i giusti, il Satan, una sorta di spirito

97

maligno capace di tentare anche Dio, ricava che questa convinzione non è esatta ma che anzi i giusti non avrebbero nessun merito nel ricevere ricompense da Yahveh, perché per essi valeva la mera logica del baratto, con una divinità interessata soltanto all’osservanza delle sue regole, della religiosità con la prosperità. In altre parole il Satan ritiene che l’amore degli uomini verso Dio non sarebbe più tale se essi sperimentassero le peggiori sventure. Poiché Yahveh ritiene vero il contrario, Egli decide di mettere alla prova Giobbe, inviandogli le peggiori piaghe, dalla morte della moglie e dei dieci figli alla perdita della salute fisica e mentale. Ma poiché Giobbe rimane saldo nella propria fede, e nega altresì di aver mai peccato, allora Yaveh gli si mostra in tutta la propria potenza e gli restituisce tutto ciò che precedentemente gli aveva tolto.

Per continuare negli esempi narrativi dotati di un fondamento teologico di cui la tradizione ebraica è costellata, va senz’altro ricordata la corrente di pensiero che nel IV secolo a.C. si formò in Giuda, una corrente teologica persino dotata di testi di riferimento come il “Libro dei Vigilanti” e il “Libro dell’Astronomia”, il primo derivante da un più antico “Libro di Noè”. I postulati di tale teologia furono in primo luogo l’origine preterumana del male insieme alla accettazione del principio dell’immortalità dell’anima. Sull’origine del male si dice nei suddetti testi che il male deriva sì da una trasgressione, ma che tale trasgressione a suo tempo si produsse al di là della sfera umana. Cioè a dire che nella notte della creazione alcuni angeli scesero dal cielo perché invaghitisi di alcune donne, con l’intento di sposarle. Da questa unione, contraria alla legge del cosmo, nacquero i cc.dd. Nephilim, cioè una stirpe di giganti, malvagi e assassini di uomini. Le invocazioni di giustizia da parte degli uomini fecero eco presso Dio, che rinchiuse gli angeli adulteri sotto il deserto di Dudael e uccise i giganti, ma nulla poté contro le loro anime, che continuarono ad abitare la Terra nella forma di spiriti malvagi. Il nesso che emerge dal racconto è quello che sta tra “male”, inteso come cattiva condotta e “impurità”.

98

Altro spunto teologico, che si ritrova nel Libro di Noè, è quello relativo al peccato di Caino, che fu posteriore agli eventi appena narrati, per concludere che il male risale agli inizi dei tempi e che Caino uccise Abele proprio a causa della maligna conseguenza della caduta degli Angeli fornicatori.

Altro mito teologico vorrebbe che all’inizio dei tempi alcuni angeli perversi mutassero l’orbita dei Pianeti che ruotano intorno alla Terra, così da alterarne l’influsso sulle vicende umane, tutto ciò disobbedendo a Dio.

Con la diffusione della credenza nell’immortalità dell’anima si cominciò a interrogarsi sul destino dell’anima dopo la morte e all’elaborazione di scarni racconti di genere teologico come quello secondo cui vi sarebbe dopo la morte una separazione tra le anime dei buoni e quelle dei cattivi.

Dal punto di vista filosofico, il riferimento più rilevante dell’intera scrittura biblica è quello al libro di Qohelet o “Ecclesiaste”. L’autore del libro si interroga in maniera abbastanza primitiva sull’origine della conoscenza, che egli ovviamente riconduce ai sensi e all’intelletto, ma non tenta, diversamente dai Greci, di indagarne i fondamenti e soprattutto manca di chiedersi se ciò che vede o sente esiste davvero o è frutto di una illusione. Tuttavia ammette che sulla base dei soli sensi non può mai aversi una conoscenza assoluta e la morte non è che un’affievolirsi delle capacità sensorie. L’autore del libro in parola ammette anche che esistono cose conoscibili perché visibili, altre inconoscibili perché sottratte ai sensi. Insomma la figura di Qohelet può essere accostata a quelle dei filosofi presocratici, e come questi ultimi egli si pone un gran numero di domande senza però dare risposte adeguate, o almeno adeguate per l’epoca. Ma è un inizio.

Dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Alessandro il Macedone, quest’ultimo concesse agli Ebrei di vivere secondo le proprie tradizioni e i propri costumi. Dopo la morte del Macedone gli Ebrei cominciarono gradualmente a coltivare i costumi greci. Questo periodo, anche in riferimento alla storia ebraica, prende il nome di Ellenismo. Nelle nuove città ci sono il teatro e la palestra, ai

99

giovani si impartisce la cultura più vasta possibile, in ogni centro urbano sorgono le acropoli con i templi in cui adorare gli dèi pagani. I legami originati dalla comunanza di sangue tra gli ebrei lasciano il posto o comunque convivono con i legami imposti in termini di diritti e doveri anche agli ebrei in quanto cittadini della polis, sebbene posti a un grado inferiore a quello dei polìtai, in quanto popolo di stranieri. Dopo i primi contatti con la Grecia ellenistica, si diffuse nel Giudaismo la tendenza a sviluppare gli elementi più razionali e autonomi dello spirito e quindi principalmente tutto ciò che attiene alla riflessione filosofica. Nonostante tutto ciò, l’Ellenismo ebbe anche per gli ebrei degli aspetti negativi e soprattutto una funesta tendenza alla frammentazione del popolo ebraico in più sette o gruppi tra cui vi erano anche divergenze profonde in merito all’interpretazione dei testi sacri: movimenti religiosi come il farisaismo, il rabbinismo, il sadocitismo, il caraitismo e anche il nascente Cristianesimo, che, vale la pena dirlo, fu sempre un movimento di fede primariamente nato per opera di ebrei, furono potenti fattori di frammentazione in riferimento alle convinzioni di fede del Popolo di Dio, e forse anche di sempre più scarsa adesione al culto di Yahveh. Uno dei dati che consentono di capire che davvero qualcosa nell’interno dell’ebraismo era cambiato è ad esempio una relativa apertura nel non considerare la circoncisione una pratica rituale ineludibile, oppure una maggiore apertura sul consenso alla partecipazione dei giovani ebrei alle gare atletiche.

Sempre riguardo alle divisioni interne all’ebraismo, lo storico Giuseppe Flavio attesta che nel I secolo d.C. esistevano tra gli ebrei i seguenti gruppi: farisei, esseni, sadducei e zeloti.

Sempre Giuseppe Flavio ci fornisce informazioni intorno a quel gruppo di fedeli ebraici detti “esseni”, la cui attività può essere collocata nel II secolo a.C. Inizialmente sempre gli esseni si rifugiarono nel deserto di Giuda sulle sponde nord – occidentali del Mar Morto dove iniziarono a condurre vita ascetica. Grazie alla scoperta, negli anni ’40 del secolo scorso, nella località di Qumran, presso il Mar

100

Morto, di circa ottocento testi scritti da esseni, possediamo ad oggi una vasta conoscenza di quel movimento di pensiero e di fede.

Per quanto riguarda il loro pensiero e le loro convinzioni di fede, innanzitutto relativamente al problema del male, gli esseni affermano che il male ovvero l’inclinazione al male è presente in tutti gli uomini in quanto parte della loro natura. Per eliminare il male all’interno dell’individuo occorrono due cose: la fede e una vita di purificazione. Quest’ultima pare essere una anticipazione del rito del battesimo, mentre un’altra prescrizione essenica, imponendo all’uomo che, una volta libero dall’impurità del peccato e del male, commetta nuovamente peccato, si dichiari colpevole per non aver osservato la legge di Dio, gli assicura il perdono divino, è un qualcosa che “in nuce” sembra anticipare il sacramento della penitenza, oggi ancora annoverato tra i sacramenti della Chiesa cattolica.

Per quanto attiene al problema della giusta retribuzione divina delle opere dei giusti, ad esempio Giacobbe, questa questione si pone nella logica dell’assenza di un aldilà, ossia di una realtà che implica un’esistenza dopo la morte. Tutto ciò fin quando gli ebrei entrarono in contatto con dottrine che propugnavano l’esistenza in ogni individuo, di un’anima immortale. Fu allora che essi cominciarono a interrogarsi sul destino ultraterreno dell’anima e quindi sul concetto di ricompensa – salvezza in contrapposizione a castigo – dannazione. Gli esseni risolvono il problema con l’asserire che l’uomo può salvarsi dalla perdizione dell’anima solo attraverso la purificazione e attraverso la liberazione dal male che egli porta in sé dalla nascita.

Sul problema dell’origine del male esisteva all’epoca un disaccordo tra esseni e enochiani. Secondo gli enochiani la impurità da cui deriva il male nel mondo derivò primamente da una caduta angelica, a seguito di un atto di ribellione a Dio.

Gli esseni ritenevano invece che la causa del male fosse in qualche modo riconducibile a Dio stesso, il quale all’inizio dei tempi, o forse prima di tale inizio, creò due Arcangeli, uno buono e uno cattivo, l’uno per amarlo e l’altro per odiarlo. Il primo ebbe il nome di Arcangelo Michele, il secondo ebbe nome Satana, ma è

101

altresì conosciuto come Belial, Beliar, Mastema. Al primo appartengono le anime buone, cioè dei soli esseni; al secondo quelle malvagie.

Quanto all’idea della immortalità dell’anima, gli esseni non ne parlano mai esplicitamente, tuttavia sulla base delle fonti disponibili sappiamo che gli esseni si ritenevano, già allora, cioè in vita, cittadini del Cielo e che vivevano già nel presente in una dimensione nuova. Insomma rigettavano il concetto di morte fisica.

Con riferimento agli elementi teologici che si rinvengono presso gli esseni, se ne ritrovano di analoghi nel già nominato “Libro dei vigilanti”, nel quale è presente, quale spiegazione dell’origine del male, una sorta di contaminazione o corruzione della natura che non dipende però dalle azioni umane ma che si svolge su un piano super – umano. Si è già fatto cenno al racconto relativo agli angeli caduti che si accoppiarono con donne umane e della nascita da tale unione dei Nephilim ossia di quei giganti che successivamente Dio distrusse ma le cui anime avrebbero continuato a vagare sulla Terra.

Con il “Libro dei sogni” viene meglio definita la figura del primo angelo peccatore che può essere accostato al Diavolo del Cattolicesimo. Come già accennato in precedenza l’angelo peccatore è definito anche come “Principe delle tenebre”, il re di un regno in cui Dio invierebbe tutti coloro che Egli non ama. Ancora nel “Libro dei Giubilei” è presente il racconto della caduta degli angeli, e anche i racconto secondo cui dopo il diluvio purificatore una nuova creazione fu posta nelle mani dei sopravvissuti. Gli spiriti dei Nephilim però, ancora vaganti sulla Terra continuavano a tormentare gli uomini, cosicché Noè chiese a Dio di confinarli “nel luogo della condanna infernale”, cosa che Dio non mancò di fare. Tuttavia un messaggero di Satana si recò presso Dio chiedendogli di affidargli un certo numero di angeli caduti, cosicché potesse conservare un certo potere anche nei riguardi del genere umano, ciò che Dio gli concesse. Si costituì così un Regno parallelo a quello umano e a quello Divino. La figura del diavolo, cioè il primo angelo peccatore è descritta in

102

maniera analoga a come concepita dagli esseni, anche se dell’origine di Satana non si dice di più.

Per tornare a parlare del Messia tante volte nominato nella Bibbia, con l’avvento della repubblica sadocita, il messianismo, cioè l’attesa del salvatore del popolo di Israele, entrò in crisi, una crisi che perdurò per circa tre secoli, dal V al III a.C., per quanto riguarda la produzione di opere riferite a quella figura. Tuttavia pian piano la figura del Messia venne concepita come qualcosa che trascende l’umana natura, cioè come un’entità superumana. Ovviamente non se conosceva l’identità, ma le ipotesi erano molte. Da un lato si parlava del ritorno del profeta Elia, dall’altra di Enoch il “giusto”, e ancora della figura di un angelo, il Melchisedec “celeste”. L’ultima figura superumana è non meglio definita che come Figlio dell’Uomo. Il mondo che sarà retto dal Figlio dell’uomo sarà un mondo di Giustizia e di Sapienza, ed Egli avrà una conoscenza assoluta della Legge. Compito eminente di questa figura di Messia sarà compiere il Grande Giudizio, nel quale saranno degni di salvezza i poveri e i sofferenti, mentre i potenti verranno annientati.

Sempre presso gli esseni intorno al I secolo a.C. si consolidò la dottrina della attesa di una duplice figura messianica cioè un sacerdote e un laico e addirittura di una terza figura, una figura di profeta.

Nell’opera “I salmi di Salomone”, sempre risalente al I secolo viene delineata la figura di un liberatore, questa volta non una figura metafisica ma a carattere politico e militare, che libererà Israele dal dominio di Roma. Questo capo sarà discendente di Davide.

Brevi considerazioni sul giudaismo del Secondo Tempio

Oltre agli esseni lo storico Giuseppe Flavio descrive altre due sette ebraiche risalenti al II secolo a.C., i Farisei e i Sadducei. Il pensiero dei Farisei si distingue da quello degli esseni in quanto essi ritenevano che Dio agisse concretamente nella storia, ma anche che l’uomo fosse dotato di scelta. Credevano anche nell’immortalità

103

dell’anima e nella resurrezione. Diversamente i Sadducei non avevano alcuna credenza in merito a ciò che costituiva la dottrina farisaica e politicamente erano favorevoli al dominio di Roma, a differenza dei Farisei.

Per tornare agli esseni, sempre da Giuseppe Flavio sappiamo che al suo tempo il loro numero doveva aggirarsi intorno ai quattromila mentre circa seimila erano i Farisei, e assai inferiore era il numero dei Sadducei.

La distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. segna un momento di grande rilevanza nella storia del popolo giudaico. Verso la fine del I secolo Israele appare diviso in due correnti di fede. Da una parte il cristianesimo, che pian piano si faceva strada nelle coscienze, anche ebraiche, e che indicava a tutti i popoli il Dio cristiano uno e trino come unico vero Dio; dall’altra il Rabbinismo che predicava la continuità dell’Israele storico insieme ai valori collegati all’osservanza della Legge.

Il giudaismo nell’età tardo antica

Nei primi due secoli dell’età successiva alla nascita di Cristo, si compì la consolidazione dell’identità ebraica con l’introduzione di innovazioni che rendono molto simile il giudaismo dell’epoca a quello dei tempi attuali. A tale evoluzione contribuì chiaramente una serie di elementi che fanno parte della storia tardo antica del popolo di Dio. Essi sono in sintesi: la distruzione del Tempio, la scomparsa della liturgia e della casta sacerdotale, la sostituzione della Sacra Scrittura al Tempio come elemento di culto; la nascita dei dottori della legge o rabbini; l’eliminazione della distinzione tra sacro e profano a favore del concetto di santità esteso a tutto il popolo; l’istituzione della sinagoga e la sostituzione delle preghiere ai sacrifici propiziatori; una pressoché completa estraneità alle vicende politiche dei paesi ospitanti.

Carattere fondamentale della età tardo antica fu per l’ebraismo l’affermarsi dell’aspetto normativo sull’aspetto trascendente, cioè a dire una sostituzione delle norme che scandiscono la vita del popolo agli elementi teologici, peraltro già scarsi in origine. Coloro i quali raccolsero e interpretarono l’enorme mole di prescrizioni che si erano andate accumulando nei secoli precedenti furono i maestri delle scuole

104

palestinese e babilonese, cui veniva conferito il titolo di rabbino. L’età tardo antica viene definita Talmudica essendo il Talmud l’opera fondamentale della cultura rabbinica. I rabbini si costituirono come classe dirigente ritenendosi i legittimi prosecutori di istituzioni del passato come la monarchia, i sacerdoti e i profeti, e lo fecero proclamando che la cosa più importante all’interno della vita del popolo ebraico era la Scrittura e quindi non più il Tempio o l’autonomia politica. Essi si proclamarono unici interpreti della Legge. Tra i rabbini e la popolazione comune fu eretta una barriera che i rabbini stessi elevarono a consacrazione del loro ruolo di casta privilegiata, con annesso il privilegio di cui era da considerare destinataria la famiglia che desse in sposa una delle proprie figlie ad un rabbino.

Per quanto attiene ai rapporti con altri popoli e civiltà va detto che all’interno del rabbinismo, lasciando per un attimo da parte la mistica e il messianismo, considerati elementi secondari, si affermarono due tendenze: una tendenza tesa a valorizzare esclusivamente la conoscenza della Legge e quindi del Talmud; e una corrente più propensa a confrontare il giudaismo col pensiero religioso e filosofico di altri popoli. E questo atteggiamento di chiusura/apertura ha sempre, per secoli caratterizzato l’ebraismo rabbinico. Sta di fatto che dall’incontro/scontro con altre culture il giudaismo uscì sempre arricchito e rafforzato, attraverso ovviamente un processo di rielaborazione di tutto ciò che proveniva dall’esterno e un lavoro costante di adeguamento delle conoscenze provenienti dall’esterno alla propria dottrina, cioè sempre quella rabbinica. Tutto ciò ebbe fine a partire dal XVI secolo quando gli Ebrei furono costretti a vivere in un ambito chiuso, il ghetto, situazione che si protrasse fino al XVIII secolo, e che produsse una totale estraneità degli ebrei a movimenti come l’illuminismo e l’emancipazione delle masse. Cionondimeno il modo di vivere degli ebrei, almeno a partire dalla distruzione del Tempio, fu sempre caratterizzato da un movimento diasporico, che li poneva costantemente in contatto con altri popoli, dai quali tuttavia la componente rabbinica minoritaria volle sempre mantenersi lontana.

105

Per quanto riguarda gli eventi storici relativi agli ebrei dell’epoca tardo antica, dopo la distruzione del secondo Tempio nel 70 d.C., la Palestina fu riorganizzata dall’imperatore Tito in provincia romana autonoma. L’imperatore Adriano fondò sulle rovine di Gerusalemme una nuova città, che prese il nome di Colonia Elia Capitolina. Ovviamente prima di fare ciò, represse nel sangue una rivolta ebrea guidata da Bar Kochba e deportò come schiavi gli ebrei sopravvissuti. Fu in quel tempo che probabilmente la regione fino all’ora chiamata Giudea mutò il proprio nome e divenne nota come Palestina. Gli imperatori successivi a Tito considerarono il giudaismo con relativa tolleranza. Il sinedrio, cioè il più alto organo di governo della comunità ebraica fu collocato a Jamnia, e il suo presidente assunse il doppio titolo “principe” e di “patriarca” riconosciuto dai Romani. In quanto patriarca il presidente del sinedrio adottò un comportamento verso il popolo che non aveva niente di diverso da quello di un monarca. Nel 425 l’imperatore Teodosio II abolì il patriarcato e il tributo versato dagli ebrei al fisco imperiale non fu più prerogativa del presidente del sinedrio ma cominciò ad essere prelevato autonomamente da funzionari regi. Dopo una serie di conflitti fra Bizantini e Babilonesi per il controllo sulla regione palestinese, cui parteciparono anche gli ebrei, la Palestina finì sottomessa agli Arabi. Altra comunità ebraica degna di nota accanto alla romana, fu quella babilonese, la quale probabilmente godette di maggiore autonomia rispetto alla comunità romana. Il capo degli ebrei babilonesi era chiamato “esilarca”, in ricordo della deportazione, quindi dell’esilio (da cui il nome) degli ebrei a Babilonia, e di questi ultimi, cioè gli ebrei di Babilonia, gli esilarchi si proclamarono discendenti. L’esilarca era, per le autorità persiane, un funzionario imperiale e godeva del titolo di “re” della regione abitata dagli ebrei sul suolo imperiale. A un certo momento le due comunità ebraiche già dette, cioè la palestinese e la babilonese entrarono in conflitto, al cui termine prevalse l’autorità dei rabbini babilonesi.

Per quanto riguarda l’interpretazione dei sacri testi e la loro codificazione, ne fu compilato un elenco intorno al III – IV secolo. Si trattò di selezionare e amalgamare

106

testi di diversa redazione e provenienza, alcuni composti dai sadducei, altri dai sadociti, altri ancora dai farisei e dagli esseni. Questa opera di selezione e raccolta fu svolta da un gruppo di rabbini che erano riusciti ad imporre la propria autorità. Tuttavia molti libri furono esclusi dal novero della raccolta.

Nella Bibbia ebraica si distinguono tre parti: la Torah, ossia la “legge”; i Neviim o “profeti”, all’interno del cui insieme i profeti anteriori da quelli posteriori, a loro volta distinti in maggiori e minori; i Ketuvim, ossia “scritti”. Fra tutti i libri della Bibbia ebraica i “Salmi” occupavano una posizione particolare perché ritenuti composti da Davide e da Salomone.

I rabbini palestinesi non accettarono la versione alessandrina della Bibbia cioè la versione elaborata dagli ebrei di Alessandria d’Egitto, Bibbia che conteneva un numero maggiore di testi. Tuttavia fu sul testo alessandrino in traduzione greca che venne elaborata, secondo la tradizione, la Bibbia detta dei “Settanta”.

Uno dei motivi che indussero i rabbini palestinesi a rifiutare l’opera dei settanta, fu la reazione al nascente cristianesimo, che fondava la sua predicazione proprio sul testo alessandrino.

La lettura della Bibbia era per gli ebrei una parte fondamentale del servizio liturgico, tuttavia essendo compresa solo da un numero ristretto di fedeli che conoscevano l’ebraico, era seguita da una traduzione in aramaico, lingua maggiormente diffusa tra il popolo. Quando, dopo la fissazione del canone palestinese, il testo biblico divenne immodificabile, chi non avesse gli strumenti culturali per accedere al testo originale, poteva leggere la bibbia in maniera personale e privata secondo il linguaggio conosciuto dal singolo lettore, attraverso traduzioni apposite. Tuttavia nonostante questa limitata libertà nella lettura del testo originale, causata da insufficiente conoscenza dell’ebraico, quando la Bibbia dei settanta fu resa pubblica ciò venne interpretato dai rabbini ortodossi alla stregua dell’episodio del vitello d’oro della Genesi, cioè assai negativamente. Tuttavia da allora in avanti fu elaborato un metodo per rendere l’interpretazione della bibbia del tutto coerente nelle diverse interpretazioni, ossia un metodo chiamato midrash, ossia

107

“ricerca”, ovviamente ricerca applicata alla Legge, cioè alla scrittura biblica. Le regole della midrash furono codificate da tre Maestri: Hillel il Vecchio, Yshmael ben Elisha e Elezier ben Yose ha–Gelili. Le raccolte di testi derivanti dall’applicazione della midrash, dette midrashim, non sono a tutt’oggi di facile datazione, ambientazione, interpretazione e tuttavia contengono informazioni preziose per coloro che al giorno d’oggi si interessano alla vita delle comunità ebraiche del tempo. I midrashim si classificano in due gruppi: i midrashim di commento e di esegesi dei sacri testi; e i midrashim composti negli ambienti sinagogali durante le funzioni sacre.

Per quanto riguarda sempre la codificazione della legge rivelata a Mosè sul Sinai, si ritiene che solo una parte sia stata messa per iscritto e che un’altra parte sia stata conservata e tramandata per via orale. A partire dai primi secoli d.C. i rabbini cominciarono a mettere per iscritto la legge orale, perché non andasse perduta. In particolare fu, tra le tante sette ebraiche dell’epoca, quella dei farisei, a rendere meno rigida la lettera della legge e a diffonderla tra il popolo, suscitando largo consenso e rendendo minoritaria l’interpretazione ortodossa. La raccolta che si impose su tutte tra la fine del II secolo e l’inizio del III fu chiamata Mishnah, parola che in ebraico vuol dire “ripetizione”. Essa conteneva la parte codificata della legge orale, e indicava dettagliatamente le singole regole e la loro applicazione. La Mishnah è scritta in un ebraico differente da quello prettamente biblico, che per questo è chiamato mishnico.

Tra III e VI secolo i rabbini babilonesi e palestinesi si dedicarono allo studio della Mishnah, utilizzando il metodo midrashico, grazie al quale giunsero a comporre un grande commentario detto Ghemarà. Mishnah e Ghemarà costituiscono il Talmud Torah (Studio della legge). Ovviamente le differenze tra ebrei palestinesi e ebrei babilonesi si mantennero, così che si hanno due versioni di Mishnah e Ghemarà, una palestinese e una babilonese, quest’ultima costituente il Talmud Bavli o babilonese, che alla fine si affermò come il Talmud per antonomasia. I materiali, assai compositi, confluiti nel Talmud babilonese sono distinti in base al contenuto in due

108

insiemi: halakàh e haggadà: i primi contengono norme relative al diritto e alla vita pubblica dell’individuo; le seconde contengono regole attinenti alla sfera interiore.

Per quanto riguarda la liturgia e le feste dell’ebraismo di epoca tardo – antica, l’elaborazione delle formule e dei riti ha inizio nel tempo successivo alla caduta del secondo Tempio e costituisce un lungo processo di elaborazione e rielaborazione di quelle formule e di quei riti che si conclude con alterne vicende nel XVI secolo, soprattutto a causa dell’invenzione della stampa che dà veste scritturale alle suddette pratiche e ai suddetti riti. La rielaborazione delle formule e delle liturgie si rese indispensabile a seguito della istituzione della sinagoga, parola che sta per “assemblea” in sostituzione del Tempio come luogo di celebrazione e di culto, emerso a seguito della diaspora cioè dell’allontanamento dal Tempio, ormai distrutto. Scopi della sinagoga erano la liturgia e l’istruzione dei fedeli, sempre ovviamente attraverso la rievocazione dei riferimenti biblici, e attraverso i canti di adorazione e di preghiera rivolti alla Divinità. Le letture bibliche erano parte integrante del rito, così come l’omelia. Lo studio della legge era considerato anch’esso una forma di culto e di preghiera.

Una delle prescrizioni religiose più importanti ma anche tra le più diffuse è il sabato, festività istituita per analogia con il riposo di Yahveh dopo i sei giorni della creazione, cioè a dire che se Dio riposò nel settimo giorno è cosa santa che anche il fedele nel settimo giorno della settimana ebraica si astenga da ogni tipo di attività, a parte lo studio della bibbia e le funzioni sinagogali. Per quanto attiene più nello specifico alle festività, esse vengono celebrate secondo un calendario che non è quello occidentale, sostanzialmente perché gli ebrei contano gli anni a partire dalla creazione, quale descritta e cronologicamente collocata nella scrittura biblica.

Tre sono le festività maggiori: Pasqua, Settimane, Capanne. La Pasqua ha la durata di una settimana secondo il calendario ebraico, ed è riferibile alla commemorazione del lieto evento per gli ebrei della decima piaga inviata da Yahveh ai danni del faraone durante la schiavitù in Egitto, cioè l’uccisione dei primogeniti egiziani, che indusse lo stesso faraone a concedere agli ebrei la liberazione dalla schiavitù. La

109

festa delle “Settimane” ha la durata di 50 giorni dopo la Pasqua, e con essa si commemora la consegna delle tavole della legge a Mosè sul Monte Sinai da Parte di Javeh. Infine la Festa delle capanne è istituita in ricordo delle tende, o capanne in cui dimorarono gli ebrei dopo l’uscita dall’Egitto.

Ogni mattina, durante la festa delle capanne, ha inizio il servizio liturgico, caratterizzato dal suono di un corno di montone che risveglia alla penitenza e alla speranza della redenzione.

Fra le feste minori vanno ricordate la festa di Hannukkah (Inaugurazione) e la festa di Purim, che si celebra per ricordare la liberazione del popolo dalla sottomissione al regime persiano.

L’ebraismo in età medievale

Durante i primi secoli del Medioevo, come già accennato, gli Ebrei subirono la dominazione araba. Com’è noto gli Arabi sono un popolo in qualche modo affine a quello ebraico anche perché da un punto di vista etnografico discendono entrambi da un’unica radice, la radice o ceppo “semita”. Il tempo della dominazione araba fu per gli ebrei un periodo di splendore in tutti gli aspetti della propria identità di popolo.

Vi fu un certo incremento demografico, di ricchezza materiale e anche un arricchimento culturale. Anche dal punto di vista economico gli ebrei passarono da professioni come l’agricoltura e il piccolo artigianato a occupazioni più remunerative come il commercio e la finanza. Gli ebrei smisero di parlare aramaico, linguaggio che risaliva al periodo babilonese e adottarono l’arabo, la lingua internazionale dell’epoca, in cui peraltro furono scritte le opere religiose ebraiche durante il medioevo.

Nel basso medioevo, su tali basi, l’ebraismo si diffuse nei paesi in cui si parlava arabo e quindi in Spagna, Francia, Germania e Italia. Due fenomeni diedero un termine a questo rigoglioso sviluppo della cultura ebraica: da un lato il loro commercio cominciò a declinare quando subì la concorrenza delle repubbliche marinare, mentre le Crociate allontanarono definitivamente gli ebrei dalle attività

110

commerciali. L’unica professione che da quel momento fu loro consentita fu il prestito di denaro su base di pegno, attività che essi praticarono, in assenza d’altro, con l’eccezione di Spagna e Italia, in tutti i territori europei in cui risiedevano. Fu quindi quasi automatico il passaggio delle attività lavorative ebraiche dal prestito di lieve entità alla finanza vera e propria, cioè alla nascente attività bancaria e finanziaria. Ciò li rese, si era nei secoli XII–XIII, invisi alle genti autoctone dei Paesi ospitanti e ne determinò la cacciata innanzitutto dall’Inghilterra, poi un secolo dopo dalla Francia tutta, tranne che dalla Provenza. Voce isolata fu quella del papa che consentì loro di stabilirsi nei suoi possedimenti francesi di Carpentras e Avignone. Nel XV secolo in Germania essi subirono massacri ed espulsioni in massa. Nel 1492 furono espulsi dalla Spagna, nonostante per tanti secoli questo Paese fosse stato dominato dagli arabi, che come detto erano un popolo “affine” a quello ebraico per molte ragioni e per niente ostile alla presenza ebraica.

Nell’VIII – IX secolo sorse nell’attuale Iraq un movimento teso a propugnare un ritorno all’interpretazione letterale del testo biblico che, come detto, non costituiva più da qualche secolo il tipo di approccio consueto alle scritture. Coloro i quali propugnavano l’abbandono della tradizione biblica dei Settanta, appartenevano probabilmente alla setta dei Caraiti, e rifiutavano innanzitutto l’introduzione degli insegnamenti orali nel Talmud a scopo conservativo, e in seconda istanza volevano che la Bibbia tornasse ad essere interpretata letteralmente, senza considerare l’avvenuto mutamento dei tempi, e con atteggiamento assai più rigoroso di quello dei rabbini. I Caraiti quindi cominciarono a compilare una serie di codici, primo e più importante dei quali è il “Libro dei precetti”, codici di cui oggi si conserva solo il “Libro delle luci e dei posti di guardia”, che ci è pervenuto per intero. Dopo qualche tempo il Caraitismo entrò in crisi, sia per ragioni di esaurimento della spinta creativa e modificativa della tradizione precedente, sia a causa della violenta resistenza opposta dai seguaci della dottrina Talmudica, i “rabbaniti”. In un tale contesto “rara avis” l’opera dell’ultimo teorico caraita di una qualche importanza: Yehudah Hadassi, nei cui scritti è contenuta una prima partizione dei principi

111

fondamentali del giudaismo: creazione ex nihilo; esistenza di un Creatore; Sua unità e incorporeità; Mosè profeta inviato da Dio; immutabilità della Torah e necessità, anzi obbligo di leggerla nella lingua originale; sacralità del Tempio di Gerusalemme; resurrezione dei morti; giudizio divino post – mortem; futuro avvento del Messia.

Per tornare alla Bibbia si presume che il testo definitivo dei libri che ne fanno parte sia stato scelto tra più versioni differenti in base all’orientamento ideologico degli editori, mentre tutti i testi biblici difformi pian piano sparirono. Per quanto riguarda l’adattamento del linguaggio ebraico alle esigenze dei tempi vennero introdotti nel testo una serie di segni grafici ad esempio per indicare le vocali intervallate ai suoni consonantici. Si tratta tuttavia di accorgimenti che vennero interpolati molto tempo dopo che l’ebraico antico era diventato una lingua morta. Questo complesso apparato filologico si avvaleva anche di interpolazioni sulla base della frequenza dei termini sinonimi e delle varianti grafiche e fonetiche. Esso sistema di conservazione, per quanto possibile, del testo biblico fu realizzato da coloro che presero il nome di Masoreti, ossia “osservanti della tradizione”. La traduzione, tra le molte che utilizzavano questo sistema, che prevalse su tutte fu quella apprestata dai Masoreti tiberiensi, cioè originari della regione attigua all’omonimo lago di Tiberiade. Il testo tradotto dai masoreti nei secoli successivi si impose anche presso i lettori comuni oltre a determinare l’obsolescenza degli altri testi, peraltro redatti in maniera simile quanto al metodo compilativo adottato. Molti secoli dopo con l’invenzione della stampa si impose un testo più recente, detto Bibbia rabbinica, a cura di Daniel Blomberg e pubblicato a Venezia.

Fu a partire dall’VIII secolo dell’era successiva alla nascita di Cristo che si cominciò a ragionare criticamente sui testi biblici, ciò grazie all’influsso della teologia islamica e della cultura greca, cosicché gli elementi teologici contenuti nel testo biblico furono sottoposti ad una indagine razionale più profonda di quella che aveva caratterizzato i primi, seppur timidi tentativi su base archetipica tentati secoli prima. Per condurre questa analisi e questo tentativo speculativo i dotti ebraici

112

fecero riferimento, come a suo tempo faranno anche i Cristiani, a due autorità filosofiche: Platone, per il tramite del movimento neoplatonico e Aristotele. Si formarono due correnti di pensiero: una detta razionalista, un’altra detta antirazionalista, ciascuna con i propri autori di riferimento e le relative opere.

A compiere il tentativo più ardito di dimostrare che la religione ebraica può essere dotata di un fondamento filosofico fu l’ebreo Maimonide, con l’opera intitolata “La guida dei perplessi”. Maimonide trovò il modo di sciogliere la contraddizione tra Fede e Ragione, interpretando la Bibbia in modo allegorico e spiegandola come avrebbe fatto Aristotele, cioè ricorrendo al commento filosofico, e indicando come scopo ultimo dell’uomo non l’osservanza dei precetti ma la conoscenza intellettuale, che dipende però anche dalla capacità di riconoscere la bontà divina in ogni manifestazione della natura. Maimonide fu anche autore di un Catechismo rivolto a tutti coloro che non avevano il tempo o le capacità per dedicarsi alla vita speculativa, fissando in esso catechismo delle regole e dei principi che bisognava osservare sulla base dell’autorevolezza dell’autore, cioè sempre Maimonide. Ovviamente l’opera di Maimonide suscitò discussioni sia fra i dotti che fra i semplici fedeli, ed anche la redazione di opere che su basi questa volta metafisiche, ne confutavano gli assiomi di pensiero. Ad esempio un tale Crescas propose un argomentatissimo ritorno alle origini del rapporto del credente con lo scritto di riferimento, e quindi rigettò in toto tutti gli argomenti filosofici di Maimonide, ad esempio quello che asseriva la primazia della conoscenza intellettuale rispetto all’osservanza dei precetti, i quali ultimi sono invece per Crescas qualcosa di fondamentale e irrinunciabile e che soli pongono il fedele in stato di “grazia” nei confronti della Divinità.

Per quanto riguarda il genere letterario noto come Poesia religiosa, e con specifico riferimento a quella ebraica, questa nasce dalla codificazione delle preghiere e dei riti sacri. Il primo testo unitario e soprattutto, scritto, in proposito, delle preghiere religiose ebraiche fu l’”Ordine del rabbino Amram”, cui seguirono altri testi rituali redatti presso le comunità ebraiche egiziane, e destinati alle comunità francesi,

113

siriache, e anche a quelle tedesche, in Italia per le comunità residenti a Roma e finanche per le comunità residenti nella Grecia bizantina.

La poesia religiosa vera e propria nasce tra gli ebrei allo scopo di arginare un divieto posto dall’imperatore Giustiniano I alla lettura durante le celebrazioni dei testi tradizionali ebraici. Per aggirare tale divieto nacque la pratica di recitare le preghiere e gli insegnamenti in componimenti poetici che si presentavano come inni sacri, cioè religiosi.

Per quanto riguarda gli sviluppi delle discipline giuridiche essi si articolano attorno a quattro insiemi di attività: sistemazione della liturgia, spiegazione del Talmud, codificazione del diritto, soluzione di questioni giuridiche concrete. Relativamente a quest’ultimo punto si affermò il genere dei responsi, cioè le opinioni degli esperti che diventavano legge perché accettate da tutte le comunità. Questa prassi giuridica di risoluzione delle controversie fu accettata anche quando cominciò ad essere praticata dagli ebrei di Francia e Germania. Nell’ambito della letteratura dei responsi forse il più grande autore della fine dell’epoca altomedievale fu Yaaqov ben Meir, che introdusse nel ragionamento giurisprudenziale il metodo dialettico e la disquisizione erudita giungendo ad attribuirsi una tale autorevolezza da porsi in condizione di correggere quelle parti del Talmud che erano secondo la sua incontestabile valutazione, inficiate da errori commessi nella trascrizione.

Il primo compendio di diritto fu compilato da Yishaq Alfasi nell’ XI secolo d.C., opera che venne intitolata “Piccolo Talmud”, e nella quale l’autore operò una selezione tra il materiale giuridico e giurisprudenziale pre – talmudico e quello post – talmudico. Al contrario Maimonide non operò alcuna selezione nel suo “Libro dei precetti”, indicando in tale opera tutti i versetti biblici che contenevano una prescrizione o un precetto. Dieci anni dopo la pubblicazione di questo manuale Maimonide scrisse la sua opera definitiva, e cioè un ampio trattato di grande respiro che intitolò “La ripetizione della legge” o “Seconda legge”, opera nella quale è lo stesso Maimonide a fornire la giusta interpretazione dei passi biblici a contenuto precettivo, omettendo il ricorso alle opinioni dei rabbini.

114

L’ultimo grande codice medievale detto “I quattro ordini” fu compilato da Yaaqov ben Asher, un ebreo di origine tedesca che visse prevalentemente a Toledo, che modificò in parte il codice maimonideo, riducendolo alle disposizioni essenziali, così eliminando quelle non più valide. Questo il contenuto dei quattro ordini: “Il sistema di vita” sul servizio sinagogale, sulle preghiere, sulle feste e sui digiuni; “Maestro di sapienza” su ciò che è permesso e ciò che è vietato; “La pietra dell’aiuto” su matrimonio e divorzio; “Lo scudo del giudizio” incentrato sulla legge, quella civile e quella penale.

Per quanto riguarda la mistica ebraica medievale , cioè quella che in ebraico è detta “cabala”, essa attraversa l’intera storia del popolo ebraico. I primi cabalisti appaiono in Palestina nel I secolo d.C. La cabala si connota come disciplina esoterica che contiene elementi fortemente teologici e a contenuto metafisico, il cui obiettivo è il raggiungimento della pura contemplazione della Divinità attraverso pratiche ascetiche la cui conoscenza è riservata ad un ristretto novero di adepti.

Le prime espressioni documentate delle pratiche cabalistiche risalgono al XII secolo, e provengono in particolare dalla regione francese della Provenza. Tali fonti storiche indicano gli attributi divini col nome di Sefiroth, elementi mistici di collegamento tra la sfera celeste e quella terrestre. Nel XIII secolo, nell’ambito cabalistico si diffusero due tendenze: una speculativa e una pratica. Il maggiore esponente della prima tendenza fu lo spagnolo Abraham Abulafia. Egli afferma che ciò che conduce alla condivisione della vita divina è la meditazione basata sul potere esoterico delle lettere dell’alfabeto ebraico. Un altro spagnolo, il castigliano Mosheh ben Shem Tob, nello stesso periodo storico, scrive il testo esoterico intitolato “Il libro dello splendore”. L’opera è costruita su una conversazione immaginaria tra un gruppo di amici, che parlano di principi filosofici e teologici. Gli elementi essenziali della dottrina che il testo esprime sono una serie di discorsi su quattro argomenti: il Dio della Creazione e il Dio della Rivelazione, l’uomo e infine i suoi rapporti con Dio. Obiettivo del mistico è come sempre la contemplazione.

115

L’altra tendenza della cabala, cioè quella pratica, si sviluppò tra il XII e il XIII secolo in Germania, in particolare nella regione tedesca chiamata Renania. Tale tendenza produsse “Il libro dei devoti”, nel quale viene ritratta una nuova figura di fedele, che si distingue per la sua condotta e non per le sue idee. Per mezzo di un lavorio interiore e dell’affinamento spirituale della propria condotta il devoto si accosta all’altruismo, alla umiltà, alla sopportazione delle offese, al contempo facendo esperienza della divinità. Per questa corrente cabalistica Dio è un essere puramente spirituale, infinito, illimitato e onnipresente. La conoscenza di Dio, pur muovendo da presupposti peculiari, è comunque sempre fondata sulla pratica del culto.

Il giudaismo in età moderna e contemporanea

Secondo la storiografia più accreditata, per gli ebrei il Medioevo si sarebbe protratto fino alla fine del XVIII secolo. Tuttavia riguardo sempre agli ebrei, si ritiene di poter applicare la definizione di Età Moderna anche al periodo di storia compreso tra i già nominati secoli, perché comunque in quel periodo gli Ebrei vissero trasformazioni che ne modificarono la fisionomia di popolo e di religione. L’inizio dell’età moderna coincide per gli ebrei con la espulsione dalla Spagna e dal Portogallo (1492). Le comunità tedesche, francesi e spagnole si estinsero. Le restanti comunità si spostarono nell’Europa orientale, in Polonia e in Lituania. In Italia invece convennero molti dei profughi di altre Nazioni. Ma il grosso dell’emigrazione ebraica si verificò verso i territori dell’Impero turco dove gli Ebrei, a parte l’obbligo di pagare l’imposta ascritta ai non musulmani furono relativamente tollerati e poterono, insieme ad armeni e greci, monopolizzare l’esercizio del commercio. Altre comunità si mossero verso i Balcani, ma soprattutto a Costantinopoli e a Salonicco; quest’ultima per quattro secoli fu una città a maggioranza ebraica. Altri profughi dalla Spagna fondarono colonie a Gerusalemme, Tiberiade, Hebron e Safed.

116

In Italia e nelle regioni dell’Europa Orientale gli ebrei furono costretti a vivere separati dai non ebrei. Il primo ghetto fu istituito a Venezia nel 1516, altri in Polonia e Germania. La comunità del ghetto era amministrata da un piccolo consiglio che si occupava della ordinaria amministrazione, ad esempio dei rapporti fra la comunità del ghetto e il governo del Paese ospite, per quanto concerneva il pagamento delle tasse, ma anche dell’ordinamento interno alla comunità. L’isolamento cui gli ebrei dei ghetti erano assoggettati produsse due risultati: favorì il consolidamento della identità ebraica ma al contempo ne determinò l’isolamento dal resto della società non ebraica, e ciò innanzitutto per ragioni culturali. La situazione dei contatti con l’esterno non è sempre uniforme. Mentre gli ebrei dei Paesi musulmani erano in buoni e promiscui rapporti con gli islamici, gli ebrei polacco – lituani non lasciarono mai che l’elemento slavo, anche esso islamico, contaminasse la loro cultura e la loro vita sociale.

Fenomeno altresì degno di nota è il “marranesimo”, cioè la condizione di coloro che, ebrei, accettavano il battesimo pur restando fedeli nella sfera privata alla religione ebraica. Marrano – parola che in spagnolo vuol dire “maiale” – era la condizione di chi, esteriormente cristiano, godeva per questa stessa sua condizione, di libertà che non erano concesse agli altri ebrei. Ad esempio poteva conseguire titoli accademici, che spesso gli erano utili per instaurare dialoghi con le altre fedi e anche per fare proseliti. I comportamenti dei marrani nei riguardi degli ebrei si possono raggruppare in quattro categorie: la prima comprende coloro che, marrani, vissero dopo la conversione secondo la fede cristiana; la seconda altri che pur essendo battezzati e quindi cristiani in maniera “pubblica”, pure nel privato conservavano usanze ebraiche; la terza comprendeva coloro che erano indecisi circa la fede da seguire; la quarta coloro che pur inseriti nelle comunità cristiane, successivamente fecero ritorno alla confessione ebraica. Fu un marrano olandese, a nome Baruch Spinoza, a iniziare la moderna esegesi biblica, basata su fonti e documenti razionalmente commentati.

117

Quando nel 1553 la Chiesa vietò la lettura del Talmud, gli ebrei compilarono una serie di codici che consentirono loro un costante approccio alle verità di fede. Dopo un certo tempo però i codici divennero difficili da consultare a causa della discordanza nella loro redazione tra le varie sette ebraiche, due su tutte: sefarditi e ashkenaziti. L’intento di ricondurre le scritture ad una qualche uniformità fu compiuto da Yosef Caro che diede alle stampe la sua “Tavola preparatoria”, che ebbe una importanza decisiva nella storia della legislazione ebraica, e in cui vengono magistralmente amalgamati due aspetti della cultura ebraica: il diritto e la mistica. L’opera di Caro non tiene però conto delle deduzioni e delle verità accolte dagli ashkenaziti, a ciò che dovette essere successivamente integrata da autori posteriori.

Lo studio del Talmud fu massicciamente ripreso in Polonia dove venne costantemente commentato in maniera orale, ossia sulla base del confronto tra opinioni in base alla lettera del testo con un metodo particolare e assai raffinato detto “pilpul”.

Per quanto attiene alla mistica essa venne tenuta in vita in un villaggio della Palestina detto Safed, in cui furono elaborati complessi teoremi teologici e iniziatici, su base cabalistica. Per rimanere alla cabala sviluppata a Safed essa si basa sul concetto di “contrazione”, la quale sarebbe stato il primo atto della divinità, che si contrae per far posto al mondo. Nel vuoto così prodottosi Dio creò il primo uomo, Adam Qadmon, il quale era talmente simile alla divinità da emanare dall’intero suo corpo fasci di luce, che il teologo identifica con le Sefirot, ossia le lettere delle parole che Yavhè pronunciò durante la creazione, le quali furono successivamente inserite in vasi, alcuni dei quali però si ruppero, compromettendo il rapporto tra sefirot superiori e sefirot inferiori e così introducendo una compromissione tra mondo superiore e mondo inferiore. La realtà divenne bipolare, cioè un conflitto tra i due principi cosmici del bene e del male. Questo evento interessò anche il novero delle anime create da Dio, alcune buone altre malvagie, che per il fenomeno della rottura dei vasi si mescolarono, cosicché nessuna anima fu più soltanto buona o

118

soltanto cattiva ma ciascuna partecipe di entrambe le nature. Solo alla venuta del messia la situazione di confusione e incoerenza sarà interrotta, attraverso il ripristino dell’ordine cosmico e quindi per riflesso dell’ordine umano. Tuttavia l’uomo può già oggi intercedere presso il futuro messia con le preghiere e con l’osservanza dei precetti. In tutto questo discorso si inserisce la dottrina della trasmigrazione delle anime. Tra queste quelle che hanno osservato i precetti sono esentate dalla trasmigrazione, mentre quelle ancora in preda alla contaminazione del male devono continuare a vivere nuove vite.

Nel XVII secolo si affermò quel movimento sempre a carattere mistico che venne conosciuto come Sabbatianesimo. Esso fu fondato Shabbetay Zevi ed era incentrato sul rifiuto delle prescrizioni bibliche e sulla contravvenzione alle regole della Torah, così come osservate e praticate dalla comunità di appartenenza. Le sue prese di posizione in tal senso, anche a volte molto plateali, fecero sì che egli fosse prima scomunicato e poi reso oggetto di controllo da parte delle autorità, che vedevano in lui un pericolo per l’ordine pubblico. La sua vicenda personale, che include anche un episodio di proclamazione di sé stesso come Messia, e la conversione di molte sétte ebraiche alla sua dottrina, sétte i cui membri, a causa della sua predicazione, partirono per Gerusalemme, si concluse con l’abbandono da parte di Zevi della religione ebraica e con la sua conversione all’islam, nonché con il conferimento da parte delle autorità turche a Zevi del titolo di “membro permanente della Porta” con l’assegnazione di una piccola elargizione periodica in forma di pensione. La teologia sabbatiana nasce dall’esigenza di interpretare gli atteggiamenti stravaganti e paradossali della personalità di Zevi e soprattutto di indagare la ragione della sua apostasia. Tuttavia i veri rappresentanti del giudaismo rabbinico, consapevoli del pericolo costituito dalla rivelazione del suo pensiero, continuarono a combattere con forza il sabbatianesimo e ne censurarono sia i seguaci sia i documenti che ad esso si riferivano. Tuttavia il movimento penetrò soprattutto in Galizia e in Podolia, poi tra i Turchi dei Balcani, in Italia e in Lituania; in seguito anche in Germania, Boemia e Moravia.

119

L’ultima espressione della mistica ebraica è, in ordine cronologico, il Chassidismo. Si tratta di una nuova forma di chassidismo che non ha nulla in comune con il vecchio Chassidismo medievale ashkenazita. La vera novità di questo movimento sta nella trasmissione della via mistica dal singolo alla collettività. Elementi costitutivi del Chassidismo tardo medievale furono: il proselitismo tra i ceti sociali più poveri; il rapporto di venerazione nei confronti di chi comunicava la via mistica da parte di coloro che ne apprendevano i fondamenti; la diffusione del messaggio chassidico tra le persone di scarsa cultura, ciò che ne favorì una maggiore diffusione; l’incentramento dell’insegnamento chassidico attorno ai valori della vita individuale.

La realtà dell’ebraismo contemporaneo

La rivoluzione francese e l’illuminismo posero le comunità ebraiche in contatto con problemi del tutto nuovi. La “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” coinvolse anche gli ebrei, che il nuovo ordine tentò con forza di integrare all’interno della nuova compagine sociale. Tuttavia occorre ricordare che all’epoca dell’illuminismo tra ebrei e resto del mondo, quanto a evoluzione degli usi e dei costumi correvano tre secoli di differenza, cioè che gli ebrei conservavano ancora gli usi e i costumi del tardo medioevo, in sostanza quelli che avevano al momento della cacciata dalla penisola iberica. In riferimento al processo di reintegrazione sociale in atto, alcuni ebrei vi si opposero rigorosamente; altri invece giunsero perfino a guardare alla Francia come a una seconda Patria. Tuttavia tra alterne vicende il periodo successivo alla rivoluzione e il diffondersi dei nazionalismi, con annesso diffuso antisemitismo pose una duplice possibilità: o considerare gli ebrei cittadini della Nazione come tutti gli altri; oppure riconoscerne e favorirne la diversità e la tendenza all’isolamento. La prima soluzione fu adottata in Europa occidentale e centrale. La seconda soluzione fu adottata solo da una parte degli ebrei dell’Europa orientale. Tuttavia finanche la Russia periodicamente non tollerava, per un motivo o per un altro la presenza ebraica, da cui i numerosi pogrom che

120

periodicamente funestavano le comunità ebree. Tuttavia al fine di porre fine alle persecuzioni nacquero nel XIX secolo tre movimenti destinati a incidere sulla storia del giudaismo nel XX secolo: il socialismo, il sionismo, e l’emigrazione verso gli USA. Il socialismo come movimento di stampo internazionalistico e favorevole ad obliterare le differenze tra i popoli non fu visto di buon occhio dagli ebrei, sempre a causa della loro naturale tendenza all’isolamento. Il sionismo, invece, movimento politico che tendeva a propugnare un ritorno degli ebrei in Palestina riscosse maggiore favore, ed è inutile dire che tale movimento portò alla fondazione dello Stato Israeliano nel 1948. Infine l’emigrazione in massa negli Stati Uniti contribuì a gettare le basi di formazione di una notevole popolazione ebraica che è anche oggi in USA molto numerosa e potente. Le reazioni degli ebrei ai cambiamenti politici dovuti al movimento illuminista furono diversi. In Europa occidentale essi reagirono o con l’assimilazione e la modernizzazione oppure sulla base di tre diverse soluzioni: quella ortodossa, quella riformatrice e quella riformata. In Europa orientale l’ostilità ai cambiamenti non fu vinta in quanto lì gli ebrei formavano una comunità numerosa, autosufficiente e soprattutto godevano di una situazione territoriale ad essi conveniente e gradita, cioè territorialmente in grado di favorirne la crescita demografica. Una reale integrazione degli ebrei fu realizzata nel XVIII secolo in Germania, dove si pose in atto, anche grazie a politiche adeguate, la realizzazione di istituzioni, soprattutto culturali che ebbero la finalità di una piena integrazione. Un programma simile fu posto in atto in Austria dall’Imperatore Giuseppe II. Questi tentativi di integrazione ebbero un ottimo risultato e proseguirono per tutto il corso del secolo. Vennero scritti saggi che illustravano la necessità di riforme anche a carattere scolastico, che consentissero non solo agli ebrei di entrare in contatto con gli altri popoli, ma anche a questi ultimi di conoscere meglio la civiltà e la cultura ebraiche. Il rinnovamento interessò due settori dello scibile: la storiografia e la filologia. Un’opera in particolare, quella dello studioso Abraham Geiger tentò di gettare nuova luce sull’evoluzione dell’interpretazione dei testi biblici da parte dei rabbini, che egli concepì appunto in senso evolutivo cioè

121

con un “prima” e necessariamente un “dopo”, suscitando peraltro le ire dei rabbini ortodossi.

Una visione completa della storia ebraica e una sua interpretazione organica si debbono all’opera di Heinrich Gratz, il quale sostenne la teoria, modellata sulla filosofia hegeliana, che la storia del popolo ebraico fosse conoscibile solo con metodo storiografico cioè individuando i modi in cui l’idea di Dio rivela sé stessa e continua ad essere elaborata nel tempo, applicando a questa opzione di metodo la dialettica hegeliana. Graz riconobbe nell’ebraismo due tendenze: una creativa chiamata “la vita del mondo” e l’altra conservatrice e strettamente legata all’insegnamento e al testo talmudico. L’opera di Gratz ebbe un grande successo e fu più volte tradotta e ristampata.

Pian piano a partire dal XIX secolo si affermarono all’interno del giudaismo due tendenze: una ortodossa e legata a filo doppio alla Torah e al Talmud; l’altra tendente ad una piena integrazione degli ebrei con gli altri popoli europei. Uno dei punti di partenza fu la costruzione di un “Tempio rinnovato” da parte di Israel Jacobson a Seesen in Germania, ciò che suscitò ovviamente le ire degli ortodossi, poiché anziché di sinagoga si parlò per la prima volta di Tempio al di fuori di Gerusalemme. A Jacobson si deve inoltre l’introduzione nel cerimoniale dell’uso dell’organo musicale, venendo meno al divieto per gli ebrei di utilizzare strumenti musicali durante le sacre celebrazioni. Altre innovazioni introdotte dal movimento riformatore furono la riformulazione dei precetti in senso ecumenico e non più strettamente legato ai fedeli ebraici e alla loro storia; la reinterpretazione della fede nella venuta del Messia limitatamente al solo ebraismo e la sostituzione di questa idea con quella di un’era messianica che avrebbe interessato tutta l’umanità e non solo gli ebrei. Il rito del Bar Mitzvah fu esteso anche alle giovani che avessero compiuto il tredicesimo anno, e non interessò più i soli maschi di quell’età. Queste novità ed anche altre, che tralascio per esigenze di brevità, misero in discussione tutto il sistema religioso ebraico. La tendenza riformistica nata in Germania si tradusse senza problemi negli USA. Il giudaismo riformatore al momento, distingue

122

tra il giudaismo “profetico”, che esalta la condotta morale e l’atteggiamento “universalistico”; e il giudaismo sacerdotale legato al Tempio e ai suoi riti. La riforma e i riformatori furono inizialmente scettici riguardo al movimento sionista ma a partire dalla metà degli anni ’30 assunsero un atteggiamento meno sfavorevole. Gli USA sono diventati, dopo la riforma, il più importante centro degli ebrei riformati.

A questo punto è necessaria una piccola disamina di ciò che anche oggi è detto giudaismo ortodosso. Esso si basa sulla convinzione che i testi sacri, cioè il Talmud e la Torah contengono, essi soli, la vera parola di Dio. L’ebraismo ortodosso è praticato da una minoranza, e ricalca gli usi e i costumi giudaici presenti in Europa nel XVI e nel XVII secolo. Anche l’aspetto esteriore di questi fedeli ebraici è ispirato a quel periodo. In USA vi è inoltre una forte presenza dei seguaci del già descritto movimento chassidico, tuttavia la maggioranza dei fedeli segue le regole della variante neo-ortodossa, meno rigorosa di quella strettamente ortodossa sia nella liturgia che nelle altre pratiche di culto.

All’interno del movimento riformista, di quello ortodosso e di quello conservatore i confini sono talvolta molto sottili. Sta di fatto che in via definitiva l’adesione da parte degli stessi ebrei alle regole del culto ortodosso, non è mai stata costante né uniforme e lo dimostra la stessa storia raccontata nella Bibbia, in cui a momenti di fervore e di fede si alternano nel popolo di Dio momenti di allontanamento ed abiura.

Considerazioni sulle condizioni di vita degli ebrei in particolare antecedentemente al 1870 e sui loro rapporti con i cristiano-cattolici

Ciò di cui, giunto a questo punto del discorso, vorrei parlare, non è il rapporto degli ebrei con la propria “coscienza collettiva”, personificata e divinizzata in Javheh, ma del rapporto tra gli ebrei e le due altre religioni monoteistiche con cui l’ebraismo ha

123

dovuto, volendo o non volendo, sempre in qualche modo relazionarsi nel corso di qualche migliaio di anni: un confronto che, armi alla mano, continua ancora oggi in alcune zone “calde” del mondo. Sto parlando innanzitutto del Cristianesimo, il quale è definito da alcuni come nato da una “costola” dell’ebraismo, come l’islamismo è da taluni definito una prosecuzione della tradizione prima ebraica e poi cristiana, ovviamente non in senso continuativo ma in senso oppositivo. Insomma gli islamici pretendono che l’ultima Rivelazione di Dio sia contenuta non nella Bibbia o nei Vangeli ma nella loro scrittura di riferimento, cioè il Corano, il libro scritto, sotto la dettatura dell’Arcangelo Gabriele, da Maometto, l’ultimo dei profeti, successivo a Cristo, anche quest’ultimo considerato dai musulmani un profeta, il profeta immediatamente precedente Maometto.

Mi si lasci cominciare un discorso che sia incentrato sulle interrelazioni innanzitutto tra Cristiani ed Ebrei, e su quanto riguarda le ripercussioni di queste Fedi e dei propri dogmi sulla concreta vita quotidiana di coloro che a ciascuna di esse appartengono. E’ mia intenzione porre massimamente in risalto le enormi difficoltà che la convivenza tra le due categorie di fedeli ha comportato nei secoli precedenti il presente, presente in cui, a parte come detto la presenza di alcuni focolai di conflitto, come la Palestina e alcune altre zone del Medio Oriente, la situazione è abbastanza pacifica, anche in virtù della presenza rassicurante dello Stato di Israele, che è fonte di tutela anche internazionale per tutte le comunità ebraiche del mondo.

Quindi e per quanto detto sento l’esigenza di fare un discorso relativo al passato, nell’intento di ricostruire tutto ciò che è avvenuto nel corso dei secoli immediatamente precedenti il presente, prima che agli ebrei fossero concessi in tutti i Paesi del mondo, gli stessi diritti e gli stessi doveri degli altri cittadini, ciò che non vale per il passato. Per costruire il discorso ho scelto di incentrare l’analisi nel secolo XIX dal punto di vista cronologico; negli Stati Vaticani immediatamente prima della presa di Roma, dal punto vista spaziale.

Va detto innanzitutto che, mentre negli altri Stati europei tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo le idee medievali, anche quelle relative alla religione, mutavano

124

col mutare dei tempi e divenivano più vicine, in termini valoriali a quelle delle società attuali, ciò che fu di beneficio anche agli ebrei. Ma va detto anche che ciò non avvenne negli Stati pontifici, luoghi in cui le idee in materia di fede generalmente diffuse, conobbero un punto di svolta solo grazie all’occupazione francese e che la sconfitta di Napoleone e la conseguente restaurazione dell’”antico regime” ebbero come principale effetto il ripristino della autorità e dei confini di detti Stati. Insieme alle rivoluzioni politiche, come quella napoleonica, le tendenze conservatrici all’interno degli Stati pontifici erano nondimeno minate alle fondamenta dalla crescente e contraddittoria rilevanza della Rivoluzione industriale, a causa degli effetti di quest’ultima sulla vita economica e sociale del Continente. Le nuove idee portate da Napoleone sulle punte delle sue baionette, nonostante la sconfitta militare dell’invasore, non persero vigore nella coscienza dei popoli, e diedero luogo, anche negli Stati Pontifici, a periodiche rivolte popolari, che preannunciavano il futuro ordine laico dell’Europa. Tornato dall’esilio francese, Papa Pio VII non volle cedere e decise di non accogliere in seno alla Chiesa e al suo apparato le nuove idee portate dalla Rivoluzione. Nondimeno l’autorità del papa era stata minacciata fin dalla seconda metà del XVIII secolo, minacce che avevano indotto, nel 1773 Papa Clemente XIV a sciogliere l’ordine dei gesuiti. Il suo successore, Pio VI, fu costretto a concludere i suoi 25 anni di papato al di fuori dei propri territori, cioè in Francia. Nell’ottemperare alle intenzioni dichiarate in apertura alla presente sezione e cioè discorrere in merito ai rapporti tra cristiani ed ebrei, inizierò a partire dall’antisemitismo dei papi, proprio muovendo concettualmente dal papato di Pio VI, la cui figura costituisce un ottimo esempio di papa rigorosamente antisemita. Più tollerante fu Clemente XIV che in sostanza riaprì i ghetti, consentendo agli ebrei di svolgere tutte le attività normalmente svolte da cattolici. Per Pio VI come detto, tutto ciò era intollerabile, tanto che dopo la sua elezione al soglio emanò una bolla, l’”Editto sopra gli ebrei” (1775), in cui con rinnovato vigore ribadiva le scelte in merito agli ebrei compiute dai suoi antecessori, che erano peraltro la maggioranza, a parte alcune eccezioni. Le disposizioni della

125

bolla furono fatte osservare dalla Santa Inquisizione, come avveniva nel ‘500. Pio VI riaffermò con forza che gli Ebrei avrebbero dovuto essere confinati nei ghetti per non infettare la comunità cristiana. Ovviamente con ciò era vietato agli ebrei svolgere qualsiasi attività che non fosse quella di cenciaioli o di rigattieri. Il ghetto di Roma era situato sulle rive del Tevere, in una zona malsana e frequentemente inondata dalle acque del fiume, e i cui cancelli venivano chiusi al calar della notte. Individuare un ebreo era semplicissimo in quanto un provvedimento papale del XVI secolo imponeva di indossare uno speciale distintivo sugli abiti. Agli ebrei era proibito servire nelle case dei cristiani, e anche farsi servire da servitù cristiana. I cristiani e gli ebrei non potevano accedere se non ai rispettivi luoghi sacri, cioè rispettivamente le chiese e le sinagoghe. Agli ebrei era proibito incidere iscrizioni sulle lapidi dei loro defunti, che dovevano restare bianche. Per finire con il ritorno al passato voluto da Pio VI, il ripristino degli usi dei cristiani nei confronti degli ebrei fu coronato dall’obbligo della predica. Periodicamente un sacerdote denunciava come immorale, dinanzi a un pubblico composto da ebrei, la stessa legittimità del culto ebraico. Problemi di stabilità politica nei territori del papato, Pio VI li dovette affrontare quando nel 1796 i soldati francesi, portatori delle idee rivoluzionarie, invasero i territori pontifici. E nel 1798 i francesi per ordine di Napoleone, marciarono su Roma. Subito dopo il papa fu costretto a lasciare la sede vaticana per essere deportato in Francia, dove morì nel 1799. I francesi riaprirono le porte del ghetto e ripristinarono i diritti degli ebrei, conculcati dal defunto papa. Tuttavia quando le truppe provenienti da Napoli ripresero possesso della città, gli ebrei furono costretti a portare l’odiato distintivo giallo. Di nuovo.

Il nuovo papa si diede nome Pio VII e il primo atto di nomina da lui compiuto fu di ordinare cardinale Ercole Consalvi, che divenne anche Segretario di Stato. Consalvi sarebbe divenuto nel corso degli anni, uno dei maggiori statisti d’Europa svolgendo brillantemente il ruolo di segretario di stato vaticano. Tuttavia nei primi anni del XIX secolo Napoleone era tornato in auge e nel 1809 i francesi occuparono Roma costringendo Pio VII all’esilio, ancora una volta ripristinando i diritti degli ebrei dei

126

ghetti, le cui porte tornarono ad essere aperte. Tuttavia ciò si concluse solo cinque anni dopo con la definitiva sconfitta di Napoleone. La successiva riacquisizione in sede di trattativa internazionale, trattativa che si svolse prima a Parigi poi a Vienna, dei territori pontifici parte della Santa Sede si deve all’abilità diplomatica di Consalvi. Ma mentre Consalvi si trovava all’estero, in patria cioè in Santa Sede, si discuteva animatamente sul ripristino degli antichi provvedimenti restrittivi nel confronti degli ebrei. A colloquio con il pontefice Consalvi giudicò qualsiasi tentativo di ritorno al passato come improponibile dati i tempi e data la portata dei recenti avvenimenti. Ma Consalvi non riuscì nell’intento di convincere il papa in tal senso, cosicché ancor prima della chiusura del Congresso di Vienna i cancelli dei ghetti tornavano a chiudersi e fu ripristinata la Santa Inquisizione. Ciò avvenne a Roma ma in altri territori dello Stato Pontificio le cose andarono diversamente. Per proteggere gli abitanti da un ritorno di fiamma delle idee d’antico regime, quei territori furono provvisoriamente affidati agli Austriaci i quali non vedevano di buon occhio la presenza dei ghetti ebraici. E ovviamente nell’atto di restituzione delle Legazioni pontificie alla Santa Sede, e mossi anche dalle pressioni degli ebrei ravennati, gli austriaci posero la condizione che in quelle terre agli ebrei fossero riconosciuti pieni diritti.

Dicevo che Consalvi non riuscì nell’intento di combattere le chiusure del papa alle nuove idee e alle nuove realtà politiche degli Stati d’Europa, tanto che, sempre per le solite ragioni nel 1817 gli ebrei di Ancona lo pregarono di intervenire presso l’arcivescovo della città. La battaglia diplomatica perduta da Consalvi nel 1814–15 si dimostrò esiziale. Fino alla morte il papa continuò a ritenere gli ebrei uccisori di Cristo e ad agire di conseguenza. Se Consalvi fosse riuscito nei propri intenti probabilmente la situazione dei rapporti tra Chiesa ed ebrei nel secolo successivo sarebbe stata molto diversa e forse migliore.

Mi si consenta di accennare alla pratica dei battesimi forzati a carico di ebrei, soprattutto degli ebrei del ghetto, alcuni dei quali periodicamente sceglievano di diventar cattolici, spesse volte sotto la pressione delle autorità ecclesiastiche, altre,

127

più rare, di propria spontanea volontà. Si ricorda in proposito l’episodio di tale Geremia Anticoli di ventiquattro anni, sposato e padre di un bambino. Il giovane intendeva abbracciare la fede cristiana, egli soltanto, ma su pressione delle autorità ecclesiastiche responsabili del catecumenato, egli consentì a che sempre le autorità ecclesiastiche si recassero nel ghetto per prelevare sua moglie e suo figlio. Ciò avvenne con grande difficoltà in quanto gli abitanti del ghetto si ribellarono al magistrato incaricato del prelievo e giunsero anche a minacciare i due fattori del ghetto, cioè i responsabili dell’ordine all’interno del quartiere ebraico. Fu necessario l’invio di tre squadre di uomini legati ai catecumeni per rendere possibile l’uscita dal ghetto degli interessati. Una volta giunti moglie e figlio di Geremia all’interno della casa dei catecumeni, pian piano e con decoro si tentò di convincerli della fondamentale importanza per le loro anime, altrimenti condannate alla dannazione, di ricevere il sacramento battesimale. Alla fine dei quaranta giorni prescritti dalla Regola per tentare la conversione di un ebreo, soltanto il piccolo Lazzaro, cioè il figlio di Geremia, si lasciò convincere, mentre Pazienza, cioè la moglie di Geremia fu riportata nel ghetto insieme al marito, che intanto aveva maturato una disposizione d’animo contraria al battesimo.

Ad ogni modo la casa dei catecumeni aveva più volte e non solo nel caso del piccolo Lazzaro, assistito al “miracolo” della conversione di un ebreo alla vera fede.

La casa dei catecumeni fu fondata da Paolo III nel XVI secolo. Era destinata ad accogliere musulmani ed ebrei, ma la gran parte degli ospiti era di origine ebraica. Un secolo dopo papa Urbano VIII trasferì le sue branche in un’unica sede a Madonna dei Monti. L’edificio esiste ancora oggi. Le tre sezioni comprendevano innanzitutto la casa dei catecumeni, che era aperta ai battezzandi; la seconda sezione ospitava le donne; la terza parte, il Collegio, era il luogo in cui i convertiti ricevevano una educazione religiosa approfondita, e dove venivano preparati coloro che si avviavano al sacerdozio. Che cosa induceva alcuni giudei ad abbandonare il ghetto per chiedere accoglienza nella casa dei catecumeni? Si potrebbe pensare a persone che avessero esigenze spirituali da soddisfare, ma il più delle volte la scelta

128

del catecumenato dipendeva dalla possibilità che essa offriva di sfuggire alla povertà e di godere di maggiori libertà.

Per tornare alle vicende del secolo di allora, si era, non dimentichiamolo, in età immediatamente precedente al Congresso di Vienna, a seguito della sconfitta dei francesi si ebbe la fine delle libertà che questi ultimi garantivano, prima fra tutte quella di uscire dal ghetto, che fu revocata. Si tornò rapidamente ai costumi del passato. Come dicevo, col ritorno del papa a Roma dopo il ritiro delle truppe napoleoniche anche l’attività della casa dei catecumeni riprese. In particolare vi furono due casi che meritano di essere riportati: il primo è quello del battesimo di una bambina ad opera di una cristiana in visita nel ghetto; il secondo quello di un ebreo che, pur battezzato, aveva scelto di tornare all’ebraismo.

Per quanto attiene al primo dei due casi menzionati, cioè quello della bambina ebrea che ricevette il battesimo da parte di una donna cattolica di nome Maddalena, e all’insaputa della madre, il caso fu preso talmente a cuore dal Rettore della casa catecumenale, che sempre il rettore chiese udienza al papa per convenire il da farsi. Cinque anni dopo il fatto, allontanati i francesi, Maddalena si recò nuovamente presso la casa catecumenale per chiedere informazioni in merito alla sorte della bambina, che intanto era stata riportata nel ghetto. Il rettore inviò una squadra di polizia nel ghetto per prelevare la ragazzina, ma gli abitanti rifiutarono di consegnarla. Fu allora che il reggente dei catecumeni si rivolse alla Santa Inquisizione per avere il permesso di far tornare la ragazzina presso la casa catecumenale. L’inquisizione si espresse favorevolmente nei riguardi della richiesta del reggente, e qualche tempo dopo sanzionò pubblicamente la propria decisione.

Altro caso rilevante per il discorso in parola fu quello di tale Salvatore Tivoli, il quale alla età di 24 anni era comparso presso la casa dei catecumeni chiedendo di essere battezzato, cosa che avvenne. Il giovane fu assunto come cuoco dei catecumeni. Dopo circa un anno il giovane scomparve. Solo più tardi si seppe che si era imbarcato per la Turchia e che, abbandonata la fede cristiana viveva ora nel ghetto di Adrianopoli. Dopo qualche tempo il rettore scoprì che il giovane sia era

129

nel frattempo trasferito a Livorno, era sposato e sua moglie era incinta. Quando ne ebbe materialmente la possibilità, il rettore partì alla volta di Livorno per catturare l’apostata e consegnarlo nelle mani dell’Inquisizione. Per far ciò, a seguito di iniziali difficoltà nell’attivare le autorità preposte a tali questioni, il rettore si rivolse al Vaticano. In breve la coppia fu individuata, la donna, di nome Rebecca diede poco dopo alla luce una bambina, mentre del marito si persero le tracce.

La vicenda si risolse con l’intervento delle autorità vaticane in Toscana. La bimba fu battezzata a Livorno e le fu imposto il nome di Fortunata. Il certificato di battesimo la indicava come figlia illegittima perché secondo la dottrina ecclesiastica in merito il matrimonio tra un ebreo, per di più apostata, e un ebrea non era valido.

Questi due casi sono esemplificativi di una prassi, ad esempio quella del battesimo occulto della bambina da parte di Maddalena, che suscitò le preghiere degli ebrei presso il Santo Padre, il quale si pronunciò affermando che il battesimo occulto era vietato ma che una volta formalizzato rimaneva valido. Anche così però si verificavano problemi di una certa rilevanza relativamente alla possibilità di preservare l’unità delle famiglie ebree a uno dei cui membri venisse impartito quel particolare sacramento. In questo tipo di situazioni era compito della Santa Inquisizione stabilire se le modalità del battesimo fossero coerenti con la dottrina e con la prassi. Ad esempio nel caso di Maddalena, questa affermò che la bimba era in cattive condizioni di salute e avrebbe potuto morire, senza che la sua piccola anima potesse essere salvata dal battesimo. In un caso del genere infatti, il battesimo era del tutto ammissibile.

Altro caso fu quello di Perla Bises, quando nel 1814 due ragazzine ebree e due ragazzine cattoliche fecero amicizia e recatesi presso un fonte battesimale una delle due ragazze cristiane battezzò una delle due ragazze ebree. Ciò, date anche le circostanze storiche in cui il fatto avvenne, cioè l’uscita dei francesi dal Vaticano, persuase la famiglia della ragazza ebrea battezzata, a rifugiarsi a Livorno, dove visse indisturbata per tre anni, dopo di che sperando che le acque si fossero calmate la famiglia tornò a Roma. Si era nell’anno 1817. La sorella della ragazza ebrea

130

battezzata, di nome Perla, cominciò a manifestare i segni di una vocazione al battesimo, così un giorno uscì di casa e si recò presso i catecumeni, pregandoli di battezzarla e di accogliere presso di loro anche la sorella, che era già stata battezzata. Adita la Santa Inquisizione e fatte le verifiche del caso, risultò che il battesimo di Perla era valido mentre quello di sua sorella, di nome Sara non lo era perché frutto di un gioco tra bambine. Cosicché Perla rimase tra i catecumeni mentre Sara fu lasciata tornare a casa.

Altro caso peculiare si verificò nel Gran Ducato di Toscana, laddove una levatrice cristiana battezzò segretamente una neonata che poco dopo morì. Dato che il prete locale era stato informato del fatto, volle che la piccola fosse seppellita in terra consacrata, ma a causa delle proteste della potente comunità ebraica di Livorno si verificò un diffuso malcontento sia nella comunità ebraica che in quella cattolica e tra le due comunità relativamente al luogo e alle modalità della sepoltura. Venne adita allo scopo di sedare gli animi, una commissione composta da tre teologi, i quali giunsero alla conclusione che il battesimo era valido. L’indagine durò sei mesi dopo i quali il corpicino della neonata fu traslato in terra consacrata.

Altro caso si verificò nel 1851 quando un anziano ebreo di nome Sabato Pavoncello morì in un ospedale romano. Quando i suoi cari richiesero la restituzione del corpo, appresero che era stato sepolto in terra consacrata. I rappresentanti del ghetto chiesero spiegazioni al cardinale vicario, il quale rispose dicendo che quella mattina era stato accompagnato al capezzale di un ebreo morente, e aveva pregato quest’ultimo di convertirsi al cristianesimo. Poi aveva chiesto al morente, che era ormai incapace di comunicare, che se intendeva essere battezzato avrebbe dovuto chiudere gli occhi e stringere la mano del cardinale in segno di accettazione del battesimo, cosa che Sabato non mancò di fare.

Tuttavia gli episodi appena raccontati sono solo casi particolari perché di regola coloro che accedevano alla casa dei catecumeni erano giovani uomini sposati con moglie e prole al seguito, intenzionati a ricevere il battesimo. Ovviamente il battesimo avrebbero dovuto riceverlo tutti i componenti di ogni singola famiglia, in

131

quanto era cosa nota che le autorità cattoliche non tolleravano che un battezzato condividesse lo stesso tetto con una donna ebrea, la quale quindi avrebbe dovuto ricevere il battesimo insieme al marito e ad una eventuale prole. Nei quattro anni compresi tra il 1814 e il 1818 la polizia entrò nel ghetto ben 22 volte, sempre di notte per trascinare ebrei nella casa dei catecumeni.

Il modo con cui i catecumeni agivano nei confronti delle donne ebree era sostanzialmente fondato sul ricatto. Una volta battezzati i loro figli alle madri veniva detto che se rifiutavano la conversione non li avrebbero più rivisti perché sarebbero rimasti nella casa catecumenale e cresciuti ed educati secondo principi cristiani, ed esse madri sarebbero tornate nel ghetto. Tuttavia alcune donne furono così ostinate che rifiutarono di convertirsi anche a costo di perdere la prole.

Problemi diversi si presentavano quando le donne che entravano nella casa dei catecumeni erano incinte, perché tutto ciò implicava di salvare due anime e non solo una, cosicché alla madre veniva chiesto se intendeva convertirsi e se la risposta era positiva si riteneva battezzato anche il nascituro.

Il settembre del 1823 fu un anno memorabile per la Santa Sede. Pio VII era appena morto. Ma questo evento non occupava come avrebbe dovuto i pensieri del rettore della casa dei catecumeni, che era impegnato con il caso di tale Pellegrino, il quale anelando al battesimo aveva portato con se anche sua moglie, che era incinta, di nome Flaminia. Tuttavia poco tempo dopo Pellegrino dichiarò di voler tornare nel ghetto, tuttavia i catecumeni si opposero fermamente alla volontà di Pellegrino di portare con sé moglie e nascituro, e nondimeno gli fu detto che anche se sua moglie fosse rimasta ebrea il bambino, ove fosse nato, avrebbe dovuto essere battezzato, e lei non avrebbe più potuto tenerlo con sé. Flaminia per tutto il tempo in cui rimase presso i catecumeni, rifiutò costantemente di mangiare cibo che non fosse kosher, e continuamente piangeva e si lamentava di essere tormentata dai religiosi. Fu per questo che la donna venne rimandata nel ghetto. Tuttavia tra i catecumeni e i fattori del ghetto venne raggiunto il seguente accordo. Se il bimbo fosse nato, avrebbe dovuto essere affidato ad una balia cristiana, che se ne sarebbe presa cura. Il giorno

132

successivo la donna ebrea partorì un maschietto, che la levatrice portò subito nella casa dei catecumeni, dove fu battezzato.

Si potrebbero citare molti di questi casi ma il contenuto cambierebbe poco. Il timore che aleggiava nei ghetti negli anni successivi al ritorno del pontefice, a causa delle visite notturne della polizia e del sequestro di donne e bambini, continuò fino a quando esistettero gli stati pontifici.

Nel 1823 avvenne l’ascesa al soglio pontificio di Annibale della Genga. Le discussioni che precedettero la nomina furono molto accese all’interno del Conclave, con due fazioni contrapposte, da un lato gli “zelanti”, cioè coloro che erano più inclini a mantenere nei confronti degli ebrei le restrizioni che Pio VII aveva voluto; dall’altro coloro i quali avrebbero voluto che le “aperture” nei confronti degli ebrei che erano state ottenute dal segretario di stato Consalvi venissero conservate. Non si riusciva a trovare un accordo tra le opposte fazioni in termini di voto, così le preferenze caddero su un candidato condiviso, per l’appunto il Della Genga. Tuttavia il Consalvi poteva contare sulla stima di coloro che erano a capo delle grandi nazioni europee, primo fra tutti il principe Metternich, cancelliere austriaco e il più importante artefice del Congresso di Vienna, evento che aveva portato alla Restaurazione dopo la sconfitta di Napoleone. Metternich si pose in contatto con altri leader europei per favorire l’elezione al soglio dello stesso Consalvi, ma senza esito. Il risultato di complicate trattative in cui intervennero anche i rappresentanti di molte corti europee, fu che al candidato inizialmente scelto per l’ascesa al soglio, cioè il cardinale Antonio Severoli, venne sostituito il Della Genga, appoggiato coattivamente dai voti del Severoli. Il Della Genga assunse il nome di Leone XII, ciò che voleva essere un tributo al Leone XI che secoli addietro aveva conferito agli antenati del Della Genga lo status nobiliare. Grazie a Della Genga, lo Stato Vaticano ritornò alla pratica di costumi sociali molto più spartani di quelli che Pio VII, grazie alle iniziative del segretario di stato Consalvi, aveva consentito. In particolare furono introdotti, in ottemperanza a tale nuovo orientamento pontificio, provvedimenti, in relazione ai costumi e alle usanze

133

popolari, che alienarono al nuovo papa le simpatie del volgo. Leone XII proibì di vendere alcolici nelle taverne, disapprovò la diffusione del valzer definendolo un ballo osceno, fece rimuovere le statue raffiguranti donne nude, e dispose che chiunque per strada si avvicinasse troppo ad una donna nuda potesse essere arrestato. Sta di fatto che le riforme volute da Consalvi furono abbandonate, con grande soddisfazione dei cardinali appartenenti al novero degli “zelanti”, gruppo contrapposto a quello dei riformisti. Riguardo poi ai tentativi di sovversione del nuovo ordinamento degli Stati pontifici, specialmente nel caso di Ravenna, che fu il più eclatante, il nuovo papa inviò sul posto il cardinale Agostino Rivarola, il quale represse la sedizione con centinaia di condanne alla pena capitale per impiccagione.

Per quanto riguarda i ghetti, come detto le aperture inizialmente introdotte con la mediazione del Consalvi divennero lettera morta. Tutti coloro che uscivano dai ghetti erano tenuti a rientrarvi per non uscirne più. Altro principio restrittivo e degradante fu quello delle prediche obbligatorie, istituzione che risaliva a secoli addietro e di cui mi pare di aver già detto. Nondimeno oltre all’adozione di provvedimenti a carattere amministrativo, principalmente in ordine alle limitazioni alla circolazione, nei confronti degli ebrei, l’opposizione del papato agli ebrei del ghetto iniziò a poggiare anche su una base ideologica. Uno dei primi segnali di questa offensiva ideologica fu la pubblicazione, nel 1825, di un lungo trattato sugli ebrei pubblicato sul “Giornale ecclesiastico” di Roma ad opera del domenicano Jabalot. L’opuscolo in parola riproponeva molte delle accuse tradizionalmente mosse agli ebrei, dall’accusa di “deicidio” alla imputazione al popolo ebraico di aver tentato di abbattere la Chiesa cattolica attraverso la riduzione del numero dei cristiani mediante impoverimento, quest’ultimo indotto da pratiche aberranti come l’usura. Nondimeno veniva loro attribuita una orrenda colpa , cioè che fossero soliti lavarsi le mani nel sangue di cristiani all’uopo assassinati, di mettere a fuoco le Chiese, calpestare le ostie consacrate, rapire i bambini cristiani e scannarli, e abusare delle donne consacrate a Dio e delle battezzate e così via. Infine l’opuscolo

134

aggiungeva che ovunque essi vivessero, gli ebrei costituivano uno “Stato nello Stato”.

Un esempio tipico della verificabilità delle accuse mosse agli ebrei da Jabalot nel suo opuscolo era costituito dalla città di Pesaro, nella quale città gli ebrei godevano di una maggiore libertà che negli altri luoghi sottoposti alla dominazione vaticana. Anche a causa delle frequenti lamentele dei cittadini cristiani degli Stati pontifici il papa nel 1825 ordinò che tutti gli ebrei tornassero nei ghetti e che le restrizioni alla loro libertà decise dai papi del passato, fossero ripristinate. Per uscire temporaneamente dal ghetto, gli ebrei erano tenuti a chiedere uno speciale permesso all’autorità ecclesiastica, che dovevano poi esibire sempre alla medesima autorità una volta giunti a destinazione. A quell’epoca solo poche città disponevano di un ghetto: città come Roma, Venezia, Ancona e Ferrara che avevano i ghetti maggiori, mentre altri ghetti minori si trovavano in cittadine come Cento, Lugo, Pesaro, Senigallia e Urbino.

A Roma gli ebrei stilarono una petizione chiedendo clemenza sia al papa sia alla Santa Inquisizione. La petizione portava a conoscenza delle gerarchie ecclesiastiche la situazione in cui gli ebrei si sarebbero trovati se fossero stati costretti a tornare nei ghetti. Poiché gli ebrei esercitavano le proprie attività commerciali al di fuori dei ghetti, e poiché non potevano possedere immobili o esercitare professioni, sarebbero stati ridotti alla fame dal ripristino dell’obbligo di non poter lasciare i ghetti, i quali peraltro erano luoghi inadatti a conservare i loro beni, e ciò ovviamente per mancanza di spazio. Solleciti verso le proteste degli ebrei, alcuni prelati si attivarono in loro favore. L’arcivescovo di Senigallia ad esempio, lamentava che l’assenza degli ebrei dalla fiera cittadina, avrebbe prodotto immani conseguenze in termini economici in quanto gli ebrei, esperti commercianti, conducevano nella città e durante la fiera i propri affari, i quali peraltro erano fonte di ricchezza per tutti coloro che con gli ebrei quegli affari concludevano, primi fra tutti i cristiani. Alcuni cardinali chiedevano anche che fosse ripristinata la possibilità per i cristiani di frequentare abitazioni e famiglie ebraiche, per aiutarle nella cura domestica. Nel

135

1829, dopo la morte di Leone XII, il vescovo di Foligno mandò una lettera piena di rimostranze alla Santa Inquisizione in cui perorava che non venissero allontanate dalla città tre famiglie ebraiche, le quali erano proprietarie in solido di una fabbrica tessile che dava lavoro a molti poveri della città, soprattutto donne. Poiché l’esercizio di attività economiche da parte degli ebrei era assai mal visto dalla Santa Inquisizione, il vescovo si affrettava ad aggiungere che la manifattura in parola era gestita sostanzialmente da cristiani, sebbene col benestare della comunità ebraica. La Santa Inquisizione respinse però le suppliche del vescovo e ordinò l’allontanamento degli ebrei da ogni e qualsivoglia attività economica. Nell’aprile del 1829 ascese al soglio pontificio Pio VIII che tuttavia morì dopo pochi mesi, e che nondimeno ebbe il tempo di disporre misure ancor più coercitive a danno degli ebrei. Nuovo papa fu ordinato Mauro Cappellari, un monaco sessantacinquenne che prese il nome di Gregorio XVI. Dopo due giorni dalla nomina del nuovo papa esplosero disordini a Bologna, da dove il nunzio apostolico fu cacciato e dove in segno di ribellione venne issato il tricolore italiano al posto del vessillo dello stato pontificio. La rivolta si diffuse presto in altre città, e poiché il papa non era in grado di gestire la situazione si rivolse agli austriaci che intervennero ponendo militarmente fine ai torbidi. Ma poco dopo l’allontanamento degli austriaci scoppiarono altri disordini che ancora una volta le truppe austriache furono chiamate a reprimere. Le truppe austriache sarebbero rimaste per sette anni ancora a proteggere lo stato pontificio. Nel 1832 Gregorio XVI emanò una bolla nella quale condannava la libertà di stampa e denunciava come priva di legittimazione la separazione tra Chiesa e Stato, nonché il proposito di concedere a tutti i cittadini uguali diritti a prescindere dalla religione professata.

A causa di una epidemia di colera che colpì l’intera Europa e quindi anche Roma, il papa ordinò che le condizioni del ghetto, ormai divenuto fomite di contagio a causa delle pessime condizioni igieniche, fossero vagliate da un Commissione per la salute pubblica, la quale adottò alcuni provvedimenti come un modesto ampliamento della struttura e la concessione ai grossisti ebrei di uscire dal ghetto per concludere i loro

136

affari. Un incaricato del papa procedette ad una nuova ispezione delle condizioni del ghetto, e ne ricavò le peggiori impressioni. In un’area che poteva ospitare fino a duemila persone, ne vivevano più di tremilacinquecento, cosicché ciò comportava che ad esempio in due camere di una stessa abitazione vivessero tra le otto e le dodici persone e che in tre camere fossero costrette ad abitare sette famiglie.

Una lunga supplica da parte della comunità ebraica raggiunse il papa nel frangente della suddetta epidemia di colera, supplicando il pontefice di adottare provvedimenti riguardo al carnevale e di porre fine alle umiliazioni che, durante quelle celebrazioni avevano ad oggetto gli ebrei, ad esempio l’obbligo di correre nudi per le strade della città. Il papa, sensibile alla richiesta, dispensò gli ebrei dal partecipare al carnevale imponendo però loro di pagare una pesante tassa per le spese inerenti le celebrazioni della ricorrenza.

Tuttavia il perdurare di altri momenti celebrativi e assai umilianti per gli ebrei indusse il popolo di Dio ad inoltrare una ulteriore supplica a papa Gregorio XVI, il quale però questa volta non vi prestò orecchio e dispose il mantenimento delle celebrazioni. Dato che per tutta risposta gli ebrei cominciarono ad adottare di nuovo i comportamenti che le gerarchie ecclesiastiche e in particolare la Santa Inquisizione avevano loro vietato, ad esempio uscire dai ghetti anche di notte, allora il pontefice ripristinò i provvedimenti a suo tempo adottati dal suo predecessore Pio VI, ma questa volta senza il consenso degli ebrei. Tuttavia, in virtù della pressione delle comunità ebraiche in tal senso, vennero introdotti anche provvedimenti meno restrittivi: gli ebrei avrebbero potuto assumere personale cristiano, ma solo di età superiore ai quarant’anni e in caso di donne solo se sposate. Tuttavia i servi non erano autorizzati a passare la notte in casa di ebrei. Quanto alle balie cristiane, esse non potevano allattare figli di ebrei a meno che all’esterno del ghetto. Tuttavia le idee dell’illuminismo avevano permeato anche gli Stati pontifici cosicché a un certo momento si diffuse nei territori della Santa Sede un opuscolo che inveiva non solo contro il papa ma anche contro l’inquisitore di Ancona. Sulla base dell’opuscolo gli ebrei di Ancona e degli altri ghetti presero nuovamente a protestare e contestare

137

l’autorità pontificia, con il pericolo evidente di nuove sollevazioni. Si era addirittura sparsa la voce che gli ebrei avessero adottato l’usanza di scrivere sulle lapidi dei loro morti i nomi di questi ultimi, mentre la chiesa imponeva che le lapidi restassero bianche.

Nell’estate del 1843 si ebbe una svolta nella vicenda. Il papa ricevette una lettera dal barone Metternich, nella quale quest’ultimo lamentava la intollerabile continuazione delle restrizioni antiebraiche, la quali peraltro avevano dato luogo a sommovimenti che proprio Metternich aveva represso inviando l’esercito austriaco nei territori pontifici per ben due volte. Per di più la lettera di Metternich era motivata da una protesta avanzata dal finanziere e barone Salomon Rothschild, di Vienna. Il barone ebreo era stato mosso a pietà da una supplica pervenutagli dagli abitanti del ghetto di Ancona, che chiedevano fosse interrotta da parte del pontefice la campagna favorevole alla ghettizzazione, che infine cessò proprio grazie all’indiretto interessamento del barone Rothschild.

Nato a Francoforte come piccola attività finanziaria, l’impero dei Rothschild, fondato sulla finanza, cominciò a prosperare dopo il 1814. Ai Rothschild si deve la fondazione del mercato borsistico, e da ciò un talento nella finanza che li portò a diventare una delle famiglie più ricche e più potenti d’Europa. I rapporti tra Metternich e Salomon Rothschild erano profondi, tanto che Metternich si appoggiava a lui quando occorreva erogare prestiti ad esempio destinati al governo austriaco, come ad altri governi, compreso lo Stato Vaticano.

Gregorio XVI si trovava perciò nell’imbarazzante situazione di essere sostenuto economicamente in ultima istanza, sebbene per il tramite di Metternich, da finanziatori ebrei. Così, nel gennaio 1832, in ottemperanza al desiderio di Metternich che gli Stati pontifici non cadessero, il Vaticano ottenne il prestito, e a suggellare l’intesa vi fu un incontro tra il pontefice e Carl Rotschild che in quell’occasione divenne membro per volontà del papa dell’ordine di San Giorgio.

Una nuova missiva da parte di Metternich fu rivolta al Pontefice nel 1843. In essa Metternich giudicava superate dalla storia certe pratiche di governo, rammentando

138

al Pontefice che sebbene dal punto di vista religioso le convinzioni e i dogmi di fede siano immutabili, nondimeno dal punto di vista politico alcune scelte devono necessariamente tener conto dei tempi presenti. Tempi, continua Metternich, in cui anche gli ebrei avevano perso il loro approccio fanatico alle questioni di fede, cosicché avrebbero potuto ben essere oggetto di maggiore tolleranza senza che per questo si verificassero compromissioni dell’ordine pubblico o della pubblica decenza. Nella sua missiva di risposta, affidata all’ambasciatore austriaco in Italia, il papa faceva presente che le restrizioni nei confronti degli ebrei erano motivate dalla stessa necessità di osservare la cristiana dottrina e per ragioni che attenevano anche alla conservazione dell’ordine pubblico, della pubblica moralità, e dei principi di una sana vita cristiana da parte di tutti coloro che, cristiani, vivevano al di fuori delle mura del ghetto. L’unica concessione fatta a Metternich e alle sue richieste dal pontefice era quella di concedere ai cristiani più anziani di lavorare per gli ebrei, purché lasciassero il ghetto al calar della notte.

Per quanto riguarda gli ebrei di Ancona, ai tempi dello scambio di lettere tra Metternich e il papa, essi rifiutavano di rientrare nei ghetti, dando luogo a sommosse e torbidi, situazione questa che interessava tutti gli stati pontifici in quel preciso momento storico. Il papa intervenne con una serie di missive dirette alle gerarchie di Ancona e di Pesaro e di altre città in cui vi fossero dei ghetti, affermando con forza la necessità, per la vita degli ebrei di quelle città, di non mettere alla prova ulteriormente la bontà del pontefice per non dover subire le conseguenze di una eccessiva insistenza.

Nel frattempo a Roma Gregorio XVI ripristinò le prediche obbligatorie, che se non ascoltate determinavano a carico dell’assente il pagamento di una ammenda. Per non dover soggiacere al peso di fomentare il malcontento ebraico oltremisura, il cardinale vicario stabilì che le prediche non avrebbero avuto luogo nell’intervallo tra la morte di un pontefice e l’elezione del successore e in tutte le domeniche in cui nevica o vi è nevischio per strada, ciò per impedire la turpe abitudine dei cristiani, di lanciare palle di neve agli ebrei.

139

Le accuse di omicidio rituale

Nei primi mesi del 1840 si diffuse in tutta Europa una notizia agghiacciante proveniente da Damasco, Siria. Una sera di qualche mese prima Padre Tommaso, un frate cappuccino avanti negli anni, non aveva più fatto ritorno al monastero e se ne erano perse le tracce. Il giorno 5 di due mesi prima si era recato nel quartiere ebraico e non ne aveva più fatto ritorno. Il mistero della comparsa, scrivevano i giornali, era stato ben presto risolto. Il frate cappuccino era stato invitato nella casa di un ebreo, a nome David Harrari, e lì un gruppo di ebrei gli erano saltati addosso, lo avevano immobilizzato, gli avevano fasciato la bocca cosicché non potesse parlare, lo avevano legato mani e piedi con delle funi, e infine, disteso sopra un tavolaccio, lo avevano scannato allo scopo di dissanguarlo. Una volta morto padre Tommaso, gli ebrei ne avevano bruciato gli indumenti dopo averli tolti al cadavere e, trasferito il corpo in un’altra stanza cominciarono a ridurlo in pezzi minutissimi che raccolsero in un sacco e che gettarono in un condotto di acqua sporca nei pressi del luogo dove era avvenuto lo scempio. Dopodiché versarono il sangue in un recipiente e lo consegnarono ad un rabbino presente sul posto.

Ovviamente appena si seppe della scomparsa del frate le autorità locali di Damasco avviarono una indagine, che presto portò alla cattura di coloro che si sospettava fossero stati gli autori della barbarie. Nel frattempo le autorità avevano trovato il luogo in cui erano stati gettati i resti del frate. I frammenti ossei furono raccolti e custoditi in una scatola di legno.

Per il tramite del segretario di stato per gli affari esteri, la Santa Sede seguiva con interesse la vicenda in base alle notizie provenienti dalla Siria, e pian piano anche grazie all’impegno in tal senso dei funzionari vaticani dislocati a Damasco, il papa conobbe i particolari della vicenda. Ciò che restò fino ad un certo momento oscuro fu il movente del brutale assassinio. La spiegazione venne rinvenuta nella natura delle pratiche religiose degli ebrei, i quali da tempi immemorabili erano ritenuti responsabili di praticare riti religiosi contrari alla legge e moralmente abominevoli. Gli ebrei di Damasco ritenuti responsabili del misfatto furono sospettati di aver

140

commesso anche altri abomini della stessa natura e con le stesse dinamiche, perché, diceva la gente, a volte scomparivano persone, tra giovani, anziani e bambini e di essi si perdevano le tracce.

In quei giorni si diffuse un libro che nei decenni successivi avrebbe avuto largo successo. Nel libro veniva svelata la ragione dei periodici assassinii motivandola con l’esigenza da parte degli ebrei di sangue cristiano in occasione della celebrazione dei loro riti sacri. Il libro era stato scritto da un ebreo convertitosi al cattolicesimo ortodosso e diventato poi monaco, il quale nello scritto rivelava i motivi dell’omicidio rituale: innanzitutto l’odio che gli ebrei nutrono nei confronti dei cristiani li porta a credere che mediante l’assassinio di cristiani essi operano un sacrificio al loro Dio; in secondo luogo hanno bisogno del sangue cristiano per operare la loro magia; in terzo luogo perché, sospettando che Gesù fosse il vero messia, credono di salvarsi aspergendosi con sangue cristiano.

Precisava l’autore del libro che l’odio degli ebrei per i cristiani veniva espresso in molti modi. Ad esempio la vigilia di Natale e in occasione dell’Epifania gli ebrei trascorrono tutta la notte giocando a carte e bestemmiando Cristo, Sua Madre e tutti i Santi. I bambini ebrei imparano presto a odiare i cristiani e a maledirli. Gli ebrei, asseriva il testo, utilizzavano il sangue cristiano in molti modi, ad esempio durante la circoncisione dei bambini gli ebrei ponevano un po’ di sangue cristiano sulla ferita. In questo modo credevano che il bambino si salvasse dalla contaminazione con il sangue di Cristo. Durante il pranzo pasquale poi, opportuno per ogni ebreo era mangiare un pezzetto del pane azzimo contenente una certa quantità di sangue cristiano. Particolarmente pericolosa la celebrazione del rituale detto “Purim” durante il quale è prescritto dalle crudeli leggi ebraiche, di uccidere un cristiano e di berne il sangue, contenuto dentro l’impasto di alcuni pani triangolari. Tuttavia, mentre nella festività rituale di Purim era sufficiente uccidere un cristiano, nella Pasqua l’omicidio da solo non era sufficiente, in quanto in questa ricorrenza essi erano tenuti a tormentare e uccidere un cristiano come fu tormentato e ucciso Cristo.

141

Il Vaticano inviò il manoscritto del monaco moldavo a chi di dovere nel Ducato di Modena che si trovava fuori dai territori pontifici, nella sicurezza che da lì lo scritto si sarebbe diffuso in tutta Europa. Le conseguenze non furono però quelle attese. Molto presto quotidiani austriaci pubblicarono nette smentite sull’episodio del frate ucciso. Innanzitutto, dicevano quei quotidiani, non era affatto certo che padre Tommaso fosse stato assassinato e tanto meno da ebrei. Gli esperti avevano dimostrato che le presunte ossa del frate ritrovate nel condotto non fossero neanche umane. Contemporaneamente cominciarono a circolare in Europa resoconti delle torture inflitte agli ebrei cui si imputava il presunto omicidio, usate per estorcere le confessioni. Ad esempio le abominevoli sevizie cui era stato sottoposto il rabbino accusato di aver partecipato al presunto omicidio rituale del frate. Va detto però che nonostante le torture il rabbino non modificò la sua dichiarazione di non colpevolezza. Anche i governi inglese e austriaco lamentarono la durezza delle torture presso le autorità di Damasco. Ma nel frattempo due degli ebrei accusati erano già morti. Sottoposto alla pressione internazionale, il viceré di Damasco sospese l’impiccagione di dieci tra gli ebrei accusati. Nel frattempo anche gli ebrei di Inghilterra e Francia premevano sul governo di Damasco per ottenere che le autorità competenti ponessero fine al caso.

Intanto negli ambienti ecclesiastici, in particolare presso la Santa Sede si riteneva che l’uccisione di Padre Tommaso fosse stata certamente e fondatamente opera di ebrei. Sennonché la corte austriaca per mezzo del solito Metternich offriva una versione alternativa della morte del frate, versione che egli fece giungere alla conoscenza del Pontefice.

La versione alternativa era la seguente: tre giorni prima della sparizione di Padre Tommaso, il frate era stato visto protagonista di una rude contesa con alcuni musulmani arabi, uno dei quali gli giurò pubblicamente vendetta. Inoltre il giorno precedente la sparizione, il frate era stato visto uscire dalla stessa porta dalla quale solitamente rientrava in convento, e da cui ovviamente era solito uscire e rientrare. Colui il quale, israelita, interrogato dalle autorità, aveva fornito questa versione dei

142

fatti, fu ucciso a bastonate. Si poteva ritenere, spiegava Metternich, che il frate avesse voluto sottrarsi con la fuga alla vendetta del predetto musulmano, rifugiandosi in uno dei conventi situati sui monti del Libano, dove probabilmente si trovava tutt’ora.

La risposta del Pontefice, per mano del cardinale Lambruschini non si fece attendere. La lettera insisteva sul fatto che persone ben informate appartenenti alla gerarchia ecclesiastica e degne di fede, avevano in verità concluso a seguito delle dovute e necessarie verifiche, che l’omicidio di Padre Tommaso era stato opera di coloro che le pubbliche autorità di Damasco avevano considerato responsabili e che peraltro avevano confessato la propria colpevolezza. Anche ammesso come riteneva Metternich, che Padre Tommaso fosse ancora vivo, non poteva assolutamente ammettersi l’ipotesi che egli non avesse avuto conoscenza del fatto di cui veniva considerato vittima. In tal caso infatti, il frate avrebbe sicuramente trovato il modo di comunicare la propria presenza in vita anche se forse prudentemente avrebbe taciuto sull’ubicazione del luogo in cui si trovava. Inoltre una lettera inviata dal console toscano in Alessandria d’Egitto, si poneva la seguente domanda “retorica” a sostegno della tesi della colpevolezza degli ebrei imputati del misfatto. La domanda posta dal console era la seguente: dato che gli ebrei imputati appartenevano alle classi sociali più ricche e stimate di Damasco, quale altro motivo poteva giustificare la tremenda fine del frate per mano loro se non un qualche ancestrale e terribile rito sacrificale? Alla lettera il console accludeva alcuni stralci del Talmud, quelli cioè utilizzati nelle indagini da parte delle autorità di Damasco. Gli estratti del Talmud avevano la funzione di confermarne la natura, più volte e da più parti asserita, di libro satanico o comunque maledetto. Il rapporto con il Talmud da parte delle autorità ecclesiastiche era stato sempre un cattivo rapporto. Ad esempio nel 1242 sempre le autorità ecclesiastiche, condannando le pratiche che il Talmud imponeva ai fedeli ebraici, ne ordinò il rogo di tutte le copie esistenti. Nel 1553 una commissione di sei cardinali dichiarò il Talmud blasfemo e ne ordinò il sequestro e la distruzione. Da quanto detto emerge che, al di là di tutto ciò che il Talmud

143

condensava in merito alla fede ebraica, le autorità religiose cattoliche lo considerassero e continuassero a considerarlo un libro blasfemo e pericoloso che indicava agli uomini il sentiero della malvagità in quanto in esso si rifiutava Cristo, il Messia. Eppure mentre il Talmud contiene alcuni passi in cui si dà adito ad una visione piuttosto miope della realtà della fede, in sostanza impone di accettare, quale caposaldo della religione, i dieci comandamenti e cioè la legge mosaica come dettata da Dio al suo profeta, per l’appunto Mosè.

Intanto il console toscano in Alessandria continuava a tenere aggiornato il Pontefice relativamente all’evoluzione della vicenda del presunto omicidio. Uno dei prigionieri aveva affermato che il rapimento e l’uccisione rituale di Padre Tommaso era stata idea del Rabbino capo di Damasco. Il prigioniero in questione, di nome Moses, poco prima della testimonianza fu riaccompagnato dalle autorità in casa propria perché consegnasse la bottiglia contente il sangue di Padre Tommaso. La moglie di Moses supplicando le autorità affermava che non c’era nessuna bottiglia contenente sangue, e che cessassero le torture su suo marito. Ma le torture contro Moses ripresero, e furono così atroci che l’accusato infine confessò in cambio della libertà.

Intanto le comunità ebraiche europee, in particolare la francese e l’inglese, con l’appoggio dei rispettivi governi, si erano mobilitate ed erano persino state inviate alcune loro rappresentanze a Damasco. Giunti ad Alessandria coloro i quali erano a capo delle legazioni, traendo a pretesto la questione dell’assassinio del frate, dichiararono al Califfo Mehmet Alì che la loro supplica non era diretta a lui, cioè non al viceré ma al sultano dell’Impero ottomano nella contesa per i territori non egiziani. Una condizione di favore da realizzare era la scarcerazione dei prigionieri ebrei, che evidentemente stava a cuore al Sultano ottomano.

Intanto Moses Montefiore, in rappresentanza della delegazione ebraica inglese presso il viceré, tentò, mettendosi in viaggio per Roma, di raggiungere la sede papale e una volta lì convincere il papa a far rimuovere la lapide innalzata a ricordo di Padre Tommaso. Moses dovette attendere una settimana al termine della quale gli

144

fu detto che il papa non lo avrebbe ricevuto. Tre mesi dopo Moses Montefiore ricevette un pacchetto dal nunzio apostolico a Vienna, contenente una copia dell’opuscolo moldavo che ora era nelle mani di un rappresentante della democrazia britannica.

In tale opuscolo veniva fermamente ribadita la versione dei fatti e l’opinione favorevole a ritenere la colpevolezza degli ebrei di Damasco espresse dalla Chiesa cattolica in merito alla vicenda del frate damasceno. Una vicenda che purtroppo avrebbe fatto storia nell’ambito del movimento antisemita internazionale.

La fine di un’era

Quando Gregorio XVI morì, nel 1846, apparve come un reperto dei tempi passati, quando l’assolutismo era dato per scontato e quella divina era considerata la sola autorità. I cardinali riuniti in conclave erano consapevoli che le cose da quel momento sarebbero notevolmente peggiorate per il papato e i suoi dominii temporali, anche a causa di un forte movimento laico e anticlericale che propugnava l’unificazione politica dell’intera penisola, ciò che avrebbe avuto come logico presupposto la caduta del regime della Santa Sede. Occorreva che il conclave scegliesse una personalità più adatta ai tempi presenti, più liberale e quindi in grado di confrontarsi con le nuove realtà politiche. La scelta perciò cadde sul vescovo di Imola, Giovanni Maria Mastai – Ferretti. Non si trattava di una figura particolare o particolarmente abile, non era molto colto, non aveva all’attivo un curriculum particolarmente interessante. Ciò che fece decidere il conclave in suo favore era il modo in cui egli aveva condotto la Chiesa in Romagna, scenario della più dura opposizione al Pontefice. Se avesse condotto su un piano generale, cioè relativamente all’intera Chiesa e ai suoi territori, la stessa condotta nell’amministrazione ecclesiastica tenuta in Romagna, allora tutto sarebbe andato per il meglio, ma l’evidenza stessa delle cose dimostrava che non sarebbe stato così. Il nuovo papa prese il nome di Pio IX, e subito fu messo alla prova il tipo di rapporto che egli avrebbe avuto con le popolazioni e i territori legati alla Santa Sede.

145

Innanzitutto gli ebrei pochi mesi dopo la sua elezione gli inviarono una supplica nella quale chiedevano che le restrizioni subite nel passato fossero cancellate o in qualche modo alleggerite. Inoltre gli ebrei specificavano alcune richieste, come quella di poter lavorare fuori dal ghetto, quella di poter ricevere una istruzione adeguata, dato che nel ghetto non c’erano scuole laiche, e quella di poter esercitare la arti liberali, come la medicina. Inoltre sempre gli ebrei lamentavano di non poter aprire librerie né stamperie e di non poter diventare gioiellieri o argentieri.

Per quanto riguardava poi le esigenze di salute, gli ebrei non potevano farsi ricoverare in un ospedale cattolico, e non c’erano peraltro ospedali nel ghetto, ma anche se avessero avuto accesso ad un ospedale laico non avrebbero potuto farsi assistere da un rabbino come da tradizione, perché ai rabbini era vietato assistere i malati. Nessun ebreo poteva testimoniare in giudizio perché la loro parola non aveva alcun valore a livello giuridico. Particolarmente odiata era poi l’usanza di costringere i fattori del ghetto, cioè coloro che avevano il compito di costituire una autorità a cui far riferimento per ogni questione all’interno del ghetto, a presentarsi, il giorno di sabato precedente il carnevale, dinanzi ad un magistrato e ad un senatore di Roma. Gli ebrei interessati dal provvedimento dovevano in quell’occasione inchinarsi e presentare offerte rituali, mentre la folla li copriva di insulti. Ecco, nella supplica rivolta al nuovo papa gli ebrei chiedevano che questo tipo di imposizioni avessero termine. C’era poi l’antico problema del dover assistere da parte degli ebrei alle prediche obbligatorie, le quali secondo la prospettiva degli ebrei non avevano altro scopo che far ritenere al resto della popolazione che gli ebrei stessi costituissero un popolo immorale, vizioso, che doveva necessariamente essere rieducato alle usanze del consorzio civile, le quali non potevano che essere quelle cristiane. Pio IX concesse dapprima che alcune famiglie potessero spostarsi dal ghetto, nella convinzione che l’atteggiamento da tenere verso gli ebrei da parte delle autorità ecclesiastiche dovesse essere più illuminato e benevolente. Nel febbraio 1847 il pontefice ricevette una lettera da Salomon Rothschild, nella quale si pregava lo stesso pontefice di adottare riforme migliorative della condizione degli ebrei di

146

Roma. Poiché, come già detto, il papato era assoggettato al dovere di restituire a Rothschild un ingente prestito, il pontefice non poté che assentire e per prima cosa si impegnò ad abolire le umiliazioni di cui gli ebrei erano oggetto durante i riti carnevaleschi. In un secondo momento Pio IX eliminò l’obbligatorietà per gli ebrei di assistere alle prediche che periodicamente erano costretti ad ascoltare.

Nel frattempo la comunità del ghetto di Roma aveva preso a socializzare, ma a suo modo, con i cristiani, sempre a causa delle aperture operate dal pontefice. In pratica le riforme avevano sì consentito una maggiore libertà agli ebrei, ma questi ultimi erano divenuti, una volta autorizzati a uscire dai ghetti, una massa umana ingestibile, sia per le autorità ecclesiastiche che per quelle laiche. Ciò diede luogo a molte lettere ricche di rimostranze da parte dei membri della gerarchia pontificia indirizzate al pontefice.

Nel 1848 oltre agli ebrei, anche altre collettività, non ebree, richiedevano con forza ulteriori diritti: vi furono sollevazioni a Palermo che indussero il re di Napoli ad emanare una Carta Costituzionale. A Parigi Luigi Filippo fu deposto. In marzo i rivoluzionari di Vienna mandarono Metternich in esilio. Nell’ambito dello stato Vaticano, e nella speranza di porre un freno ai sommovimenti popolari Pio IX attuò altre concessioni, ma queste a poco valsero per sedare la tempesta. Temendo per la propria incolumità e dopo che il suo primo ministro fu accoltellato a morte nelle vie di Roma, il papa si rifugiò a Gaeta, nel vicino Regno di Napoli. Ben presto Garibaldi e Mazzini entrarono in Roma, che fu proclamata Repubblica. Gli ebrei poterono lasciare il ghetto e ottennero uguali diritti. Tutto ciò ebbe termine con il ritorno delle truppe francesi e austriache inviate a fini restaurativi nel territorio di Roma, e il papa poté rientrare in città. Si era nel 1850. Ovviamente i disordini che avevano fatto seguito ai provvedimenti di tolleranza nei riguardi degli ebrei avevano indotto il papa a ritirare le concessioni precedentemente accordate al popolo di Dio. Per prima cosa gli ebrei furono costretti a rientrare nel ghetto. Tutto ciò però aveva un costo. Il famoso prestito che il Papa aveva a suo tempo ricevuto da Salomon Rothschild per la costruzione di una ferrovia non avrebbe consentito cedimenti o un

147

trattamento di favore da parte del magnate ebreo se gli ebrei fossero stati rimandati e rinchiusi nel ghetto. La condizione posta dai Rothschild ad un trattamento di favore era che il papa disponesse la piena libertà in favore degli ebrei di uscire dal ghetto. Quando il papa si mostrò contrario a tale richiesta i Rothschild revocarono il prestito. Poiché però le finanze del Vaticano avrebbero subìto un duro colpo nell’ipotesi della mancata erogazione del prestito, Pio IX fu costretto ad applicare la misura della apertura dei ghetti e della liberazione degli ebrei. Tuttavia una volta ricevuto il prestito l’editto di apertura dei ghetti non fu emanato. Sempre su sollecitazione dei Rothschild e a causa della pressione del governo austriaco nonché per venire incontro alle istanze degli ebrei dei ghetti, Pio IX cedette ad alcune piccole concessioni come consentire rapporti d’affari tra cattolici ed ebrei. Tuttavia la gran parte dei divieti e delle restrizioni rimasero in vigore. Quando poi il pontefice seppe che in alcune città della Toscana, cioè in territorio ducale, Leopoldo II aveva concesso agli ebrei parità di diritti, ad esempio a Livorno, tentò di dissuadere il duca da ogni concessione. Cosa che presto il duca, convinto dagli anatemi del pontefice, fece senza por tempo in mezzo. Intanto il Regno di Sardegna con capitale Torino conservava in vigore i provvedimenti di recente adottati a favore degli ebrei. A Roma Pio IX ripristinava la Santa Inquisizione, e tutti gli altri provvedimenti emanati dai suoi predecessori. A Bologna il frate Domenicano Pier Gaetano Feletti aveva bandito gli ebrei dalla città. Tuttavia nel 1797 il bando fu revocato per poi essere ripristinato nel 1815 alla vigilia del Congresso di Vienna. Quale misura restrittiva una volta tornato a Roma, Pio IX nominò un commissario speciale per controllare che non vi fossero più sollevazioni a causa del problema ebraico. Tuttavia appreso il rigore delle misure che il papa intendeva adottare a Bologna il commissario si allarmò e consigliò al Sant’Uffizio prudenza e cautela. Infatti cacciare le venti famiglie ebree da Bologna, che vivevano da almeno tre generazioni in quella città, avrebbe potuto indispettire la popolazione non ebrea con la quale quelle famiglie erano da tempo in stabili rapporti di amicizia, convivenza e affari. Padre Feletti aveva perciò accarezzato l’idea di costruire un nuovo ghetto a

148

Bologna cosicché gli ebrei ivi residenti non avrebbero dovuto abbandonare la città. Ma anche questa misura avrebbe potuto ragionevolmente suscitare lo sdegno della popolazione non ebraica per le ragioni anzidette. E allora il commissario chiese che gli ebrei rimanessero dov’erano, ciò al fine di preservare l’ordine pubblico, questa volta in pericolo anche per parte cristiana, ordine pubblico ritenuto dal commissario, in assenza di cause deteriori, “più che soddisfacente”. Nonostante i buoni uffici di Padre Feletti il papa volle far applicare pienamente le precedenti restrizioni, ma non vi riuscì a causa del mutare del clima di sottomissione in aperta ostilità da parte degli ebrei nei loro rapporti con le comunità cristiane.

Nondimeno fu proprio a Bologna che si verificò una vicenda che avrebbe minato alla base la permanenza dello Stato pontificio. La vicenda fu la seguente. Una notte del giugno 1858 la polizia si presentò presso la casa di Momolo e Marianna Mortara. Il capo delle guardie chiese di vedere i suoi bambini, suscitando ovviamente il panico della madre. Sta di fatto che i Mortara gli mostrarono i bambini. Il capo della pattuglia disse che uno dei figli dei Mortara, Edgardo, era stato battezzato e per tanto avrebbe dovuto lasciare la casa e seguire i poliziotti. Padre Feletti alcuni mesi prima aveva appreso la notizia del probabile battesimo di Edgardo ad opera di Anna Morisi che aveva lavorato come domestica presso i Mortara, e che aveva asserito alla presenza dell’inquisitore che anni prima aveva battezzato in segreto il ragazzino. Il caso del bambino dei Mortara rientrava nella normalità dei casi in cui il battezzato era costretto a lasciare la famiglia per entrare nella casa dei catecumeni, cioè all’epoca dei fatti, quella di Roma. Ciò che più colpisce nell’operato di papa Pio IX è che egli si limitava nella propria attività di pontefice ad applicare le norme canoniche, ossia ciò che i dettami religiosi comandavano. Tutto ciò confidando che gli ebrei avessero troppa paura di ribellarsi a questo stato di cose per tentare una reazione collettiva. Invece nel caso di Edgardo vi fu una reazione quale mai nessun pontefice era stato costretto a subire. Il caso del bambino tolto ai genitori divenne di pubblico dominio e dimostrò in maniera più che evidente che lo Stato pontificio costituiva un anacronismo. I giornali continentali

149

ripresero il caso e perfino negli USA si crearono movimenti di opinione che pretendevano la restituzione del bambino alla famiglia d’origine. Anche il governo francese, amico prima di allora, criticò la vicenda. Si mosse persino l’ambasciatore francese, che mise in guardia il segretario di Stato in merito alle possibili ripercussioni del caso a livello nazionale e internazionale, facendo appello a tutte le sue capacità di persuasione. Illustrò al papa il pericolo di fomentare l’odio dell’opinione pubblica mondiale nei suoi confronti e di offendere la sacralità dei legami tra genitori e figli. E infine dato che non c’erano prove dell’avvenuto battesimo, il pontefice avrebbe potuto restituire il ragazzino alla famiglia senza grosse conseguenze a livello di immagine pubblica. Il papa continuava però a temporeggiare affermando che non era disposto a tornare sui propri passi nonostante avesse tutto il mondo contro. Egli appariva dilaniato da un insanabile conflitto interiore. Intanto i genitori del ragazzino avevano raccontato la brutta vicenda del prelievo forzoso del bambino dalla sua casa ai rappresentanti della stampa liberale. Per converso un certo numero di giornali interpretò la vicenda in modo da presentare il piccolo Edgardo come pervaso da una vocazione soprannaturale, come da un fervore spirituale in forza del quale non voleva altro che diventare cristiano. Fu detto dal pontefice in sede confidenziale all’ambasciatore Gramont che il bambino aveva supplicato il papa in un incontro avuto con lui di rimanere nella casa dei catecumeni e di poter diventare cristiano. In quegli stessi giorni il ministro degli esteri francese Walewsky condannò il comportamento del papa, ed aggiunse che diversi governi avevano sollevato rimostranze in merito alla vicenda e a carico del pontefice. Perfino il segretario di Stato Antonelli era favorevole alla restituzione del bambino alla famiglia d’origine. Tutto stava nel convincere il Papa. Ciò avvenne attraverso un telegramma inviato dal governo di Francia per mano del ministro degli esteri francese Walewsky al segretario di stato vaticano Antonelli, il quale capì l’importanza propugnata dal governo francese di una riconciliazione del ragazzino con la propria famiglia. Bisognava trovare il modo di restituire Edgardo ai genitori. Anche dal Regno di Napoli giungevano critiche al papa su come era stata affrontata

150

la vicenda Mortara. Per come la vedeva Gramont il pontefice aveva perduto parte della propria sanità mentale, ciò che può essere causa di pericoli dall’esterno e dall’interno se si traduce in decisioni sbagliate. Il piccolo Mortara non venne restituito alla famiglia ma crebbe nella casa dei catecumeni e divenne in seguito sacerdote. Ma la realizzazione del disposto papale non giovò né ai Mortara né al papa. Dopo quell’episodio e in ragione dei fermenti rivoluzionari di molti che ritenevano lo Stato della Santa Sede un anacronismo, a un anno di distanza le forze del papa furono scacciate da Bologna, e i fautori dell’unità nazionale spazzarono via gran parte degli stati pontifici. Per soprammercato la polizia fece irruzione nel monastero dominicano ivi situato e arrestarono Padre Feletti accusandolo di aver rapito a suo tempo il piccolo dei Mortara. Nel 1861, ai primordi dell’unità nazionale al papa non restavano che Roma e il territorio circostante. Nel frattempo nei suoi ex domini gli inquisitori venivano arrestati nei loro monasteri e gli ebrei liberati dai ghetti. Chiaramente nei domini, invero assai esangui, rimasti in mano al pontefice si continuarono a perpetrare le stesse regole e a mettere in atto gli stessi comportamenti del passato. Tuttavia il Pontefice volle giocare l’ultima carta, cioè utilizzare gli ebrei per i propri fini. Pio IX diede perciò alle stampe l’enciclica “Quanta cura” e il cosiddetto “Sillabo degli errori” opere nelle quali il pontefice ritenevae dichiarava che la Santa Sede fosse preda di un complotto mondiale orchestrato dalle forze del male. Tra gli errori della Chiesa a favore degli ebrei erano menzionati nel Sillabo: la libertà di religione, la separazione tra Stato e Chiesa e il libero insegnamento. Infine il Sillabo respingeva la dottrina secondo cui il papa avrebbe dovuto accettare il progresso, il liberalismo e la modernità. Ciò che però consentì al papa di riprendere terreno fu l’idea di attribuire i mali denunciati nel Sillabo, cioè le istanze di modernità, agli ebrei, che avrebbero avuto intenzione, con tali cose, di distruggere l’unità della Chiesa.

Tuttavia la perdita degli stati pontifici fu inevitabile, e rese il papa un uomo sempre più amareggiato. Tuttavia in un sussulto di vigore e di malvolenza il papa ricorse alla propria memoria storica nel tentativo di riguadagnare autorevolezza al

151

cristianesimo. E lo fece raccontando la storia di un bambino cristiano di Marostica, un centro nelle vicinanze di Vicenza che, si diceva fosse stato in tenera età aggredito da una folla inferocita di ebrei che lo avrebbero crocifisso ad un albero per poi raccoglierne il sangue. I miracoli iniziarono dopo la sepoltura della salma. Con un decreto del 1867 il papa sancì l’ufficialità del culto di Lorenzo,che avrebbe dovuto essere celebrato la seconda domenica di Pasqua. Due anni dopo questa vicenda uscì in stampa il libro di uno studioso cattolico francese che portò sostanzialmente acqua al mulino del papa, con la trattazione delle solite tematiche antiebraiche. Alla fine del 1869 risale la convocazione del Concilio Vaticano I in cui venne proclamato il dogma dell’infallibilità papale. Nell’agosto del 1870 poi, mentre procedevano i lavori del Concilio l’esercito italiano penetrò in Roma dopo averne abbattuto parte delle mura di cinta, e la proclamò Capitale di una Italia unita. Il papa, sempre pieno di risorse, dichiarò di considerarsi “prigioniero dello Stato Italiano” e rifiutò di uscire dai confini del Vaticano anche senza che l’esercito o le autorità del nuovo stato glielo impedissero. Pio IX così facendo inaugurò una prassi che fu poi imitata dai suoi successori, nessuno dei quali uscì mai dal Vaticano per camminare su suolo italiano. Questa pratica venne meno solo nel 1929 con i Trattati del Laterano stipulati tra Italia e Santa Sede e dei quali si è detto nella Parte seconda del presente scritto. Fu dopo la caduta dello stato pontificio che il pregiudizio contro gli ebrei si rafforzò. Piuttosto tardi il Papa ormai anziano venne a sapere che negli altri stati europei i leader politici erano da sempre appoggiati da eccellenti consiglieri di origine ebraica peraltro perfettamente integrati nelle società di quei Paesi. Negli ultimi anni del suo pontificato Pio IX si esprimeva in un linguaggio violentemente antisemita, chiamando gli ebrei “cani”, “responsabili della morte di Cristo”, “progenie del diavolo” e “sinagoga di Satana”. Tuttavia nonostante le invettive papali ormai gli ebrei erano liberi. Ad essere confinato nei propri “appartamenti” era il papa.

La Chiesa e il sorgere dell’antisemitismo moderno

152

Con il crollo degli Stati pontifici, l’ostilità della Chiesa nei confronti degli ebrei non venne meno. Tuttavia gli strumenti a disposizione della Chiesa per colpire i negatori di Cristo non potevano più essere le restrizioni praticate nei secoli passati, perché ormai gli ebrei avevano ottenuto il diritto ad esercitare le stesse libertà dei cattolici. La lotta contro gli ebrei avrebbe necessariamente dovuto prendere un’altra strada. E la nuova strada consistette nel delegare l’ostilità delle gerarchie cattoliche alla stampa. Dopo iniziali provvedimenti di censura infatti, pian piano e non soltanto negli Stati pontifici si diffusero periodici che erano diretti ad una opinione pubblica capace di leggerli perché alfabetizzata, e che potevano essere redatti a costi ridotti data la diffusione, ormai secolare, della stampa a caratteri mobili. Con la crescita dell’importanza del voto popolare la redazione di periodici era indispensabile a coloro che chiedevano a livello politico il favore del popolo o per meglio dire della pubblica opinione. Sia Pio IX che il suo successore Leone XIII erano ben consapevoli del’importanza della stampa al fine di controllare e indirizzare l’opinione pubblica. Per queste ragioni le pubblicazioni cattoliche erano assai numerose. Negli anni ’70 del XIX secolo in Italia si pubblicavano 130 periodici, 20 dei quali quotidiani. Col tempo il numero aumentò tanto che nel XX secolo l’Italia aveva quasi 500 periodici cattolici tra cui trenta quotidiani. Tra tutte queste pubblicazioni ecclesiastiche aveva il ruolo maggiore il bisettimanale dei Gesuiti intitolato “La civiltà cattolica”. Si trattava ovviamente di uno strumento volto principalmente a danneggiare la comunità ebraica. L’argomento adottato a tal fine era in sostanza il seguente: “vi abbiamo ammonito a chiudere gli ebrei nei ghetti, di impedire loro contatti con i cattolici, ma voi non avete ascoltato, avete concesso a tutti pari diritti. Ora a causa di ciò gli ebrei non hanno freni e i sommovimenti popolari si diffondono. L’unica speranza di normalizzazione è di ripristinare le antiche misure coercitive nei loro confronti”.

A fronte di un comportamento più che tradizionalista nei confronti degli ebrei, il papato condannava in toto tutte le nuove idee introdotte in Italia dopo l’unificazione politica, idee che ovviamente facevano diretto riferimento alla Rivoluzione francese.

153

L’idea di fondo che animava la critica papale contro gli ebrei e contro la modernità era colpevolizzare gli ebrei dei cambiamenti politici in atto in tutta l’Europa. In Vaticano il periodico “Civiltà cattolica” era considerato come contenente la voce stessa del papa. Tre principi presiedevano alla redazione degli articoli: gli articoli dovevano innanzitutto conformarsi alla dottrina ufficiale della Chiesa in materia di fede e morale; in secondo luogo la posizione del giornale doveva coincidere con quella della Chiesa; in terzo luogo bisognava valutare i tempi di pubblicazione degli articoli. La rete dei giornali cattolici presenti nel mondo faceva capo alla pubblicazione citata, cioè “Civiltà cattolica” la quale, anche se a tiratura limitata, esercitava una enorme influenza. Pochi anni prima dell’inizio della pubblicazione di “Civiltà cattolica” un prete tedesco aveva pubblicato un libro antisemita, le cui tesi erano state riprese e pubblicate punto per punto dal giornale del papa, il quale peraltro nei propri articoli non faceva che ripetere che le antiche misure di pubblica sicurezza a carico degli ebrei, avevano favorito la conservazione della pace sociale e quindi dovevano necessariamente essere ripristinate. La lezione era chiara: era necessario introdurre leggi speciali affinché gli ebrei non recassero danno alla società civile, che essi disprezzavano perché non appartenente alla loro progenie. Tutte le accuse mosse nei confronti degli ebrei comparvero fin dal primo numero in ”Civiltà cattolica”, pubblicato a partire dal 1880. Ciò che distingue gli ebrei, scriveva il redattore dell’articolo, dalle altre fedi è nel fatto che insieme ad una religione gli ebrei costituiscono una “etnia”, dedita al solo mercimonio e schiava del denaro e del guadagno.

Ovviamente, sempre a parere del redattore, tale padre Oreglia, gesuita come tutti coloro che scrivevano su “Civiltà cattolica”, gli ebrei erano anche da amare perché anche essi figli di Dio, ma ciò non doveva entrare in contrasto con l’esigenza di fronteggiare il loro odio per il cristianesimo e per i popoli presso i quali essi ebrei dimoravano. Il solo modo per ridurre il fenomeno ebraico alle dovute giuste proporzioni era sempre quello di sottoporre gli ebrei alle restrizioni di un tempo, perché se ciò non fosse stato e, in ottemperanza alle nuove idee circolanti in Italia,

154

come quelle propugnate da periodici patriottici, si fosse optato per una convivenza tra ebrei e cattolici, ciò sarebbe stato come mischiare un branco di lupi ad un gregge di pecore: che fine avrebbero fatto queste ultime? Insomma la Chiesa riproponeva a secoli di distanza gli stessi motivi antisemiti che risalivano a periodi storici antecedenti, come ad esempio quando nel medioevo si accusavano gli ebrei di essere responsabili di cose come pestilenze, epidemie e altri malanni che colpivano la società cristiana. In particolare, scrive padre Oreglia, coloro che tra gli ebrei erano i più pericolosi erano non gli ebrei osservanti ma coloro che erano diventati atei o liberi pensatori. Costoro coltivavano nei riguardi dei cristiani un odio antico che derivava dalla falsa convinzione che i cristiani avessero loro sottratto il dominio del mondo, che secondo le scritture ebraiche sarebbe stato degli ebrei per diritto divino. Tuttavia a queste contumelie si poteva porre un obiezione: “se anche Gesù era di famiglia ebraica, era anch’egli malvagio per natura? E allora la distinzione era da fare tra gli antichi ebrei, fedeli alle scritture e i moderni ebrei che avevano colpevolmente rifiutato Cristo?” Questi ultimi erano gli ebrei autori del Talmud, più volte dato alle fiamme nel corso dei secoli, che attraverso quel testo “maledetto” credevano di poter continuare a osservare la legge di Dio. “Gli ebrei sono soliti isolarsi dagli altri popoli perché si ritengono talmente superiori da non considerare esseri umani ad esempio i Cristiani.”

Tuttavia queste affermazioni pian piano persero valore veritativo. Anche se il Talmud prescriveva l’assoluto isolamento dagli altri popoli, gli ebrei, costituenti una minoranza all’interno degli Stati in cui risiedevano dovettero, in ragione della necessità di convivere con i popoli ospiti, rielaborare quelle prescrizioni, cominciando a ritenere i cristiani non degli idolatri come invece il Talmud prescriveva, ma soltanto come persone della stessa fede allontanatesi dalla retta via. Per questo gli ebrei cominciarono a punire severamente i loro correligionari se costoro trattavano male i cristiani, perché altrimenti le popolazioni tra le quali vivevano li avrebbero allontanati e indotti all’esilio, come già accaduto secoli addietro. Parimenti gli ebrei che ingannavano i cristiani per ragioni di affari erano

155

puniti severamente dalle comunità di appartenenza. A sostegno poi della bontà delle scritture talmudiche gli ebrei portavano i più diversi esempi, come quello che racconta in forma di aneddoto la conversazione tra un rabbino, di nome Hillel e un pagano. Quando il pagano gli chiese di spiegargli la propria religione il rabbino rispose: non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Questa è la Torah. Il resto è commento.

Nonostante ciò l’antisemitismo diventava un fenomeno culturale sempre più difficile da affrontare. Venivano fondati giornali, associazioni e circoli antisemiti. Il fatto che gli ebrei, a partire dalla chiusura dei ghetti, si fossero arricchiti e fossero divenuti influenti suscitò da parte cattolica un vasto risentimento. Gli ebrei insomma avevano cambiato il loro modo di rapportarsi ai contesti sociali di riferimento. Avevano abbandonato l’yddish a favore delle lingue locali, avevano cambiato modo di vestire, adottato nomi diffusi nelle lingue locali, giungendo anche a modificare le loro idee religiose, sempre ai fini di una maggiore integrazione. Tuttavia non volevano assolutamente che i loro figli si convertissero al cristianesimo.

Nel settembre 1882 fu tenuto a Dresda il primo congresso antisemita internazionale, il quale elaborò soluzioni non molto diverse da quelle che la Chiesa cattolica aveva praticato per secoli. Il collegamento tra attacchi agli ebrei e successo dei conservatori ebbe un ruolo sempre maggiore anche tra i cattolici, e anche ovviamente a livello elettorale l’antisemitismo era in grado di far sentire la propria influenza su tutti coloro ai quali da poco era stato concesso il diritto di voto.

Accanto al persistere del problema ebraico vi era poi un altro pericolo per i governi e la situazione economica dell’epoca, cioè il movimento socialista, il quale affondava le proprie radici delle idee della Rivoluzione francese. Il movimento socialista ormai assai diffuso tra le masse aveva organizzato nel 1864 la sua Prima Internazionale. I socialisti raccoglievano il consenso delle masse lavoratrici e le iscrizioni al movimento stavano rapidamente crescendo. Ovviamente le autorità ecclesiastiche vedevano con sfavore il diffondersi del fenomeno, che considerarono

156

sempre fomentato da ebrei, nell’abito di una fantomatica cospirazione ebraica a livello mondiale.

Secondo un altro articolista della “Civiltà cattolica” padre Ballerini, gli ebrei avevano rigettato in toto i tentativi di conversione messi in atto a suo tempo dalla Chiesa e si erano dati l’obiettivo, contenuto nel loro Talmud, di giungere a dominare il mondo. In altri due articoli padre Ballerini afferma che gli ebrei intendevano distruggere le nazioni all’interno delle quali circolavano ormai indisturbati. Gli articoli e gli opuscoli della “Civiltà cattolica” citavano spesso e volentieri i maggiori artefici dell’antisemitismo europeo: Drumont, Stoeker, Lueger.

Da alcuni la soluzione al problema ebraico, l’unica possibile era lo sterminio, ma questo, scrive padre Ballerini, sarebbe stato contrario allo spirito della Chiesa. La migliore soluzione rimaneva la conversione, ma poiché non c’era modo di indurre un ebreo a diventare cristiano, bisognava tornare alle pratiche medievali.

In un altro articolo a firma di padre Rondina quest’ultimo lamentava i latrocinii, le ruberie e finanche gli omicidi commessi dagli ebrei in quegli anni in Europa. Scrive sempre padre Rondina che l’ebreo non lavora, ma traffica sui prodotti del lavoro altrui, e ingrassa con i prodotti delle nazioni che gli danno accoglienza. Il padre accusa anche gli ebrei di dirigere a loro piacimento la finanza e la borsa nonché la politica, con i propri giornali, ad esempio “La stampa”. Tuttavia poiché le gerarchie ecclesiastiche stavano molto attente a non scoprirsi nel propagandare l’antisemitismo che era qualcosa di contrario al messaggio cristiano, nell’articolo ad esempio di padre Rondina il padre si affretta a dare al proprio antisemitismo una valenza soltanto politica, rimproverando agli ebrei di voler schiavizzare i cristiani col denaro.

Quando il movimento antisemita prese maggior forza, anche le gerarchie ecclesiastiche si accodarono all’andazzo, in particolare denunciando come gli ebrei in Germania, pur essendo una minoranza si erano impadroniti delle maggiori attività economiche, politiche e intellettuali. Padre Rondina accusa altresì gli ebrei di aver acquisito un grande potere sia politico che finanziario in Stati come la Polonia,

157

l’Ungheria, l’Austria, la Germania e la Francia, dove essi ebrei avrebbero cominciato a mettere in atto il loro piano di dominio del mondo.

Altro quotidiano molto vicino alle posizioni della Santa Sede era poi l’”Osservatore romano”, che si diffuse negli anni ’90 del XIX secolo e che rifletteva l’opinione della Santa Sede e quindi in definitiva del Pontefice. Nel 1892 il giornale dedicò una serie di articoli alla questione ebraica in cui addirittura si accusava il popolo di Dio di mettere in atto falsi atti persecutori ai propri danni per suscitare consenso presso i popoli che davano loro ospitalità. Si supponeva che anche i pogrom che avvenivano nella Russia zarista fossero organizzati da ebrei. L’articolo si concludeva affermando che il vero antisemitismo è soltanto quello della Chiesa cattolica, temperato e reso benevolo dal ricordo del sacrificio di Gesù.

Verso la fine del XIX secolo poco era cambiato. L’affare Dreyfus accese il fuoco di vibranti proteste in tutta la Francia e l’antisemitismo si diffuse in tutta Europa.

Quando un osservatore esterno fece notare ai redattori dell’“Osservatore” le affermazioni antisemite che esso conteneva, evidentemente contrarie alla dottrina cattolica, il giornale rispose che esistono due tipi di ebraismo: l’uno, il Giudaismo, che va combattuto con ogni mezzo e l’altro, il culto ebraico vero e proprio, esso stesso prima vittima del giudaismo. La chiesa nondimeno possedeva come detto una larga schiera di giornali, a parte l’”Osservatore romano” e la “Civiltà cattolica”, come ad esempio l”Osservatore cattolico” stampato e diffuso a Milano e tra le masse semi/analfabete dell’hinterland attraverso prediche e pubbliche orazioni. Le tematiche che i giornali come questo trattavano contenevano sempre i tratti di un velato anche se edulcorato antisemitismo. Intanto “L’unità cattolica” pubblicava articoli più o meno dello stesso genere, un esempio dei quali è quello riferito alle scritture cattoliche in cui si narra che Pietro, il successore di Cristo aveva avvertito gli ebrei che se volevano essere buoni cristiani avrebbero dovuto rinunciare all’oro, alle astuzie e agli inganni altrimenti sarebbero rimasti sempre ebrei. L’articolo, dopo aver ammonito gli ebrei al retto comportamento e alla retta coscienza, tornava a citare Pietro, affermando che abbracciare il cristianesimo sarebbe stato per le loro

158

anime più importante che il listino di borsa. A volte poi negli articoli dei giornali vaticani si mischiava ebraismo con liberalismo, entrambi condannati come i maggiori mali della società. Altro motivo di scontro tra ebrei e liberali da un lato e cattolici dall’altro fu la questione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Si giunse da parte degli articolisti ecclesiastici addirittura a distinguere tre tipi di ebrei. Il primo tipo comprendeva quelli che osservavano ancora i precetti dell’antico testamento; il secondo era quello di coloro che seguivano il Talmud. Infine c’erano gli ebrei illuminati, che avevano ormai abbandonato la tradizione dei padri. Questi ultimi, a detta degli articolisti dei giornali pontifici, sarebbero coloro che mirano alla conquista del mondo ovvero che di fatto già lo governano.

Altri casi di vampirismo

L’accusa secondo la quale gli ebrei uccidevano i bambini cristiani a scopo rituale è molto antica. Essa cominciò a diffondersi nel XII secolo, quando si diffuse la credenza che gli ebrei di tanto in tanto si dedicassero alla crocifissione di cristiani rapiti allo scopo di perpetuare il ricordo della morte in croce del Cristo. Solo successivamente tale convinzione fu accompagnata dall’accusa, sempre rivolta agli ebrei, di bere il sangue delle vittime.

Nel 1247, in uno dei primi presunti casi del genere, papa Innocenzo IV venne a sapere che alcuni preti, in Germania e in Francia fomentavano l’odio e le violenze contro gli ebrei mediante simili leggende. Reagì con una dura lettera inviata ai popoli di quelle terre ricordando che perfino il Talmud vietava agli ebrei il consumo di sangue. Nel tardo medioevo coloro che, nella Chiesa, con più accanimento sostennero l’esistenza degli omicidi rituali furono i francescani e i domenicani, ai quali non a caso fu riferibile la creazione dell’Inquisizione, previo il benestare del Pontefice. Sulla base della propaganda antiebraica alcuni Paesi come l’Inghilterra giunsero a espellere gli ebrei dalle loro terre, e l’esempio inglese fu seguito successivamente da Francia, Spagna, Portogallo, Regno di Napoli e diversi territori tedeschi. All’inizio del 1475 un noto francescano, recatosi a Trento, predisse

159

durante una predica che una grande sventura si sarebbe verificata in quelle terre. Sta di fatto che un giorno, dopo la partenza del francescano, un bambino cristiano, di nome Simone, non tornò a casa. Pochi giorni più tardi il corpicino senza vita del bambino fu ritrovato da un ebreo tra le acque che scorrevano nella sua cantina. Ovviamente gli uomini della comunità ebraica furono torturati affinché le autorità potessero avere qualcuno da incolpare, e lo stesso capo della comunità ebraica fu torturato fino al punto che, esausto, si attribuì la colpa dell’accaduto, insieme a tutti gli altri membri della comunità ebraica. Le esecuzioni dei presunti assassini cominciarono alla fine di giugno. Nove uomini furono giustiziati ma il capo della comunità fu trattato in maniera ancora più crudele. Gli vennero strappati pezzi di carne prima che potesse raggiungere i membri della sua famiglia sul patibolo ed essere arso vivo insieme a loro. Il giorno seguente altri quattro uomini dovevano essere giustiziati, due dei quali chiesero di essere battezzati, e quindi con atto di clemenza uccisi non per arsura sul rogo ma per taglio della testa. Per fermare l’ondata delle esecuzioni, papa Sisto V, informato di quanto era accaduto, inviò un sovrintendente per verificare che le accuse mosse agli ebrei già giustiziati fossero fondate. L’inviato del papa per prima cosa volle esaminare il corpo del bambino, e chiese perché non fosse stato messo in una bara. Colui che aveva ordinato le esecuzioni, principe Hinderbach rispose che il popolo voleva che il corpo fosse esposto. Sempre l’inviato della Santa Sede chiese di poter parlare con gli ebrei ancora detenuti ma il permesso gli fu negato. Nel frattempo il sovrintendente riportò in uno scritto i risultati delle indagini: la confessione degli ebrei non provava niente perché ottenuta sotto tortura; inoltre il bambino poteva benissimo essere stato ucciso da cristiani e poi collocato in casa di ebrei per allontanare i sospetti. Tuttavia data la forte ostilità dei cattolici di Trento nei confronti delle indagini commissionate dal papa indusse quest’ultimo a richiamare a sé il sovrintendente che dovette tornare a Roma senza aver risolto un mistero che per i trentini era un dato di fatto. Le esecuzioni pertanto continuarono fino all’espulsione degli ebrei superstiti dalla città. Più di un secolo dopo, nel 1588, papa Sisto V proclamò il piccolo Simone santo e

160

martire. Solo nel 1965 la Chiesa, dopo aver concluso i lavori del Concilio Vaticano II, abolì il culto.

Per tornare ai papi del XIX secolo essi diedero una forte svolta alla propaganda antisemita. Tutti i quotidiani cattolici bombardavano la pubblica opinione con notizie di omicidi rituali perpetrati da ebrei. Nel periodo compreso tra il 1887 e il 1891 sulla stampa, anche cattolica, comparvero ampi resoconti di omicidi rituali commessi da ebrei.

Nell’Europa del XIX secolo apparvero numerose testimonianze della brama di sangue umano da parte degli ebrei, in concomitanza con un maggiore interesse per la tematica del vampirismo, che associava alcuni individui che si nutrivano di sangue umano a creature demoniache. Ovviamente il cristianesimo e il suo messaggio relativo al sangue, che faceva riferimento alle parole pronunciate da Gesù durante l’ultima cena, anziché scoraggiare certe pratiche e certe convinzioni, non faceva altro che favorirne la diffusione. La stessa fede nella transustanziazione era idonea a instillare nelle coscienze turpi propositi, soprattutto, si diceva, tra gli ebrei. Tuttavia sebbene l’antico testamento vietasse la pratica di bere sangue, sembrava che gli ebrei facessero capo nelle loro abominevoli condotte, ad un comandamento del Talmud che imponeva la celebrazione di riti fondati sul bere sangue umano. Il XIX secolo è comunque un’epoca in cui sorge una vasta letteratura su individui posseduti dal demonio che succhiano il sangue di poveri malcapitati fino al completo dissanguamento. Uno fra tanti episodi in cui gli ebrei venivano accusati di compiere riti basati sull’omicidio, si verificò in Russia nel 1881 e determinò per reazione una serie di pogrom ai danni degli ebrei colpevoli o riconosciuti tali. Altro pogrom fu suscitato dalla uccisione di un bambino a Kisinev, sempre in Russia, pogrom durante il quale furono uccisi dalla folla impazzita 49 ebrei e molte famiglie cacciate dalle proprie abitazioni.

Una nuova crociata contro gli ebrei fu promossa nel 1870 subito dopo la presa di Roma. Nel 1871 un prete austriaco a nome Rohling pubblicò un libro di commento al Talmud, nel quale accusò gli ebrei di omicidio rituale. La diffusione

161

dell’opuscolo suscitò violente sollevazioni contro gli ebrei in tutto l’Impero Austriaco, finché le lamentele del popolo per tutta quella violenza giunsero all’orecchio del cardinale Shwarzenberg, con la richiesta di fermare la ferocia antisemita del Rohling, il quale per parte sua continuava a fomentare sommosse antisemite. Per tutta risposta il cardinale affermò la giustizia delle idee di Rohling, il quale peraltro, aggiungeva il cardinale, era un riconosciuto esperto del Talmud. Erano anzi gli ebrei a fomentare disordini con le loro invettive contro la Chiesa contenute nei loro giornali. Finanche l’”L’unità cattolica” confermò la voce che gli ebrei compissero, in certe ricorrenze, omicidi rituali. Tutto ciò finché un giornale ebreo non sfidò l’articolista a provare l’accusa, accusa alla quale non avevano creduto neppure i Papi dei primi secoli dell’era cosiddetta volgare. A tale obiezione l’articolista, incapace di rispondere, ritrattò l’accusa. Questo il tenore delle polemiche tra ebrei e cristiani di fine ‘800, e cioè un accusare e un vedersi ritorcere contro l’accusa adducendo prove in contrario, con ampi riferimenti alla colpevolezza degli ebrei in merito a casi di presunti omicidi rituali tra i quali anche quelli citati in questa parte della presente scrittura. Insomma i quotidiani cattolici per il tramite dei loro articolisti, soprattutto tra loro il già noto Padre Oreglia, contenevano tutta una serie di racconti truculenti sulle pratiche rituali ebraiche che riprendevano anche motivi del passato e avvenimenti parimenti sepolti da secoli sempre allo scopo di danneggiare gli ebrei. Addirittura secondo Oreglia gli ebrei di Porto Said, in assenza di pargoli cristiani da scannare e dissanguare avevano rapito a tale scopo un bambino musulmano, e dopo averlo battezzato avevano compiuto il rito sacrificale. Alla fine del XIX secolo l’opera di Oreglia fu continuata da altri collaboratori del giornale gesuita. Negli articoli ad esempio di Padre Rondina, si accusavano gli ebrei di essersi impadroniti di molte banche e quindi di controllare l’economia di molti Paesi, laddove poi il Talmud era denunciato come fonte di ogni male e di ogni perversione. Dalle ulteriori descrizioni dell’omicidio rituale il padre gesuita riprendeva il filo del complotto per il controllo della economia mondiale. Continuando nel “j’accuse” contro gli ebrei Rondina ripeteva la solita litania intrisa

162

di citazioni di fatti di sangue avvenuti secoli prima e mai chiariti. Nelle descrizioni degli omicidi rituali Rondina riportava le parole del prete moldavo autore del libro sul giudaismo di cui ho già parlato in questo scritto. Ovviamente Rondina citava nei minimi dettagli le descrizioni raccapriccianti di ciò che avveniva durante quei riti con una sorta, devo dirlo, di morboso interesse, ad esempio con l’affermazione secondo cui il sangue prelevato ai bambini cristiani veniva reso oggetto di commercio tra le sinagoghe.

Per quanto riguarda l’altro periodico della Santa Sede, cioè “L’osservatore romano”, esso offriva una visione dell’ebreo simile a quella condivisa da Civiltà Cattolica, citata negli articoli appena considerati. Ostinatamente e nonostante l’evidenza del fatto che, si era alla fine dell’’800, gli omicidi rituali da parte di ebrei fossero considerati oramai un residuo della peggiore e più immotivata superstizione, i giornali cattolici continuavano a ripetere le stesse accuse e sempre con i medesimi argomenti a sostegno delle accuse stesse. Uno degli ultimi sussulti di antisemitismo da parte dei giornali vaticani si ebbe col racconto della vicenda localizzata in una città ungherese, dove un piccolo orfano di sette anni era stato trovato con la gola tagliata e privo di sangue. Nel periodo tra marzo e aprile apparvero 44 articoli sull’argomento dei riti sanguinolenti commessi da ebrei. Al continuare di questa ammorbante campagna di stampa antisemita il direttore dell’”Osservatore cattolico”, padre Davide Albertario, ebbe una udienza presso Leone XIII, a seguito della quale giunse al giornale gestito dal gesuita un fiume di lodi, la cui eco si diffuse perfino in Germania dove addirittura stava per essere pubblicata una raccolta di tutto il materiale editoriale prodotto dai periodici cattolici intorno al problema ebraico. In Germania altresì uno dei più influenti deputati del parlamento tedesco aveva tratto spunto dal materiale giornalistico vaticano per alcuni suoi discorsi, e ovviamente non mancò di far pervenire i propri ringraziamenti alla redazione pontificia del giornale. La campagna antisemita trovava terreno fertile anche in Austria, dove un passo tratto da una copia del Talmud venne letto pubblicamente dopo essere stato tradotto. Il passo talmudico prescriveva l’omicidio rituale. Fu poi costituito in quel

163

Paese un gruppo di studio allo scopo di verificare se nel Talmud vi fossero altre simili prescrizioni, tuttavia il gruppo di studio fu presto sciolto dal presidente perché ciò non rientrava nelle prerogative del Parlamento. Intanto in Francia veniva pubblicato un “foglio” titolato “La libre parole” e diretto da un personaggio che sarebbe divenuto successivamente noto per il suo antisemitismo e cioè Eduard Drumont. Ovviamente i preti redattori dei periodici cattolici se ne rallegrarono. Intanto nel 1883 apparve in italiano una traduzione del libro del monaco moldavo tante volte citato dai padri gesuiti nei loro giornali e periodici e nel 1897 in Francia fu dato alle stampe il libro sempre a tema fisso scritto dal padre gesuita francese R.P. Constant. Nel 1896 era già stato pubblicato uno scritto ad opera dei frati cappuccini sardi, a ricordo del povero frate martirizzato dagli ebrei in Siria. Ovviamente lo scritto dei padri cappuccini rendeva ancor più noto e vituperato l’assassinio del francescano. Insomma la cosa era divenuta, a forza di trovate giornalistiche, nota a chiunque avesse aperto e letto un giornale cattolico in quegli anni conclusivi del secolo XIX.

La situazione in Francia

All’epoca della morte di papa Pio IX nel 1878 la gran parte dei cattolici aveva conosciuto un solo papa, cioè sempre Pio IX, il quale aveva governato gli Stati pontifici per 32 anni. Durante il suo pontificato però egli aveva avuto la sfortuna di vedere conquistati all’Italia gran parte dei suoi possedimenti, e quindi la fine del suo potere temporale. Pur avendo introdotto, durante il suo regno, il dogma dell’infallibilità papale, durante il Concilio Vaticano I, aveva concluso la sua esistenza come “prigioniero del Vaticano”. Rispettato dalle gerarchie per la sua intransigenza sul problema ebraico era stato fortemente odiato dai fautori dell’Unità d’Italia. Addirittura dopo la sua morte alcuni anticlericali furono accusati di aver tentato di gettare il cadavere del papa nelle acque del Tevere, tentativo che solo l’intervento della polizia era riuscito ad evitare. Occorre ricordare che, a parte Giovanni Paolo II, Pio IX è stato l’unico papa a ricevere l’onore della beatificazione. Il nuovo papa scelto dal Conclave fu il cardinale Vincenzo

164

Gioacchino Pecci, arcivescovo di Perugia. All’atto dell’elezione egli prese nome Leone XIII. Il nuovo papa era diffidente in tema di novità almeno quanto lo era stato il suo predecessore. Tuttavia egli era consapevole che, considerati i mutamenti avvenuti nel mondo, la Chiesa doveva prendere atto delle conquiste della modernità se voleva ricostituire la propria influenza mondana. Per quanto riguarda i rapporti del nuovo papa con i movimenti antisemiti egli preferì tenersene a distanza, perché se quei movimenti fossero diventati troppo influenti, ed egli li avesse favoriti, probabilmente avrebbe dovuto pagare un prezzo diplomatico troppo alto. Il nuovo segretario di stato, Mariano Rampolla, credeva fermamente nella necessità di ripristinare il potere temporale del papa. Ovviamente anch’egli come i suoi predecessori riteneva che quello ebraico fosse un problema, soprattutto nei Paesi a maggioranza cristiana. Tuttavia ciò che stava accadendo in altri Paesi non accadde in Italia, dove il movimento nazionalista non si legò mai all’antisemitismo. Ben diversa era la situazione in due altri Stati, cioè la Francia e l’Impero Austroungarico. Gli ebrei erano stati espulsi dalla Francia nel 1394, tranne coloro che, ebrei, risiedevano nelle vicinanze di Avignone, e in regioni come la Alsazia e la Lorena. Quando nel 1791 gli ebrei francesi ottennero la cittadinanza, Parigi ne ospitava solo 500.

Dall’epoca della Rivoluzione la Francia era scossa dalla contrapposizione tra coloro che erano favorevoli al vecchio regime e coloro che invece sostenevano le istanze repubblicane. Queste lotte perdurarono almeno fino alla metà del XIX secolo, quando i repubblicani presero il sopravvento. Tuttavia, nonostante la “morte” del potere monarchico in Francia la Chiesa era molto presente, sia con i propri ordini pii, cioè i monaci, sia con il clero che educava i giovani nelle scuole di ogni ordine e grado, sia nelle parrocchie. Ma la chiesa francese doveva affrontare un’altra minaccia, proveniente dall’ascesa al potere di una nuova maggioranza parlamentare che intendeva limitare il potere della Chiesa sulla vita pubblica, in particolare mediante la riconduzione dell’insegnamento scolastico in capo al controllo dello stato anziché dei chierici cattolici. Tuttavia gli ecclesiastici erano molto cauti nei

165

loro rapporti con il governo, ciò in quanto la nomina dei vescovi, con la rivoluzione, era divenuta di competenza statale, cioè del governo. Negli ultimi due decenni del XIX secolo erano presenti in Francia circa 75.000 ebrei i quali facendo leva sulle libertà loro concesse dalla Rivoluzione avevano in breve tempo fatto strada nell’interno dell’apparato statale, ad esempio nella pubblica amministrazione, nell’esercito, ma più che altro nella ambito bancario e dell’alta finanza. Tra i preti maggiormente coinvolti nel movimento antisemita c’erano i piccoli ordini religiosi come ad esempio quello dei Padri assunzionisti. Essi fondarono una rivista, “La croix” che ebbe uno straordinario successo. Quando, il radicamento della rivista tra i lettori divenne sufficientemente rilevante, la rivista stessa divenne quotidiano, e il suo successo tra i fautori dell’antisemitismo ancora maggiore. Grazie alle invettive antisemite prima da parte di padre Picard , superiore dell’ordine, poi da parte di Padre Bailly, direttore del giornale, il quotidiano da essi fondato cominciò a calcare la mano sulle affermazioni antisemite, accusando gli ebrei di essere responsabili non solo della rivoluzione industriale e del capitalismo ma anche del movimento rivoluzionario. A tutto ciò padre Bailly aggiungeva l’accusa secondo cui gli ebrei avrebbero controllato nascostamente anche il movimento massonico. Fatto è che per gli ebrei che cercavano di essere accolti nel consesso civile l’appartenenza alla massoneria era un traguardo molto ambito. Tale fu la pressione della comunità ebraica in tal senso che Adolphe Cremieux, il leader dell’Alleanza Isrealita Universale, divenne capo del rito massonico scozzese in Francia. Per tornare a La croix, gli argomenti del giornale erano i soliti più volte tratti a sostegno di campagne antisemite: assassini rituali, ruberie, prestito di denaro a usura, smania di assumere il potere assoluto in ogni aspetto della vita associata, i legami con la massoneria, i liberali, i rivoluzionari, ecc.

Altra pubblicazione antisemita, sempre ad opera di ecclesiastici cristiani era “La Croix du Nord”, che con i soliti argomenti tentava di screditare gli ebrei presso la pubblica opinione.

166

Per tornare a “La croix” essa divenne col tempo ferocemente antisemita e cominciò a ricoprire di insulti anche il Governo rivoluzionario, accusato dal giornale di aver svenduto la Francia agli ebrei. Questo però fu il colmo, in quanto contrastava con gli interessi del Vaticano che erano diretti nel senso di un dialogo pacifico con il governo francese. Tuttavia l’antisemitismo del giornale non suscitò, sempre però entro limiti ben definiti, eccessive lamentele da parte delle gerarchie superiori. Nel 1899 quando padre Bailly ebbe un incontro col papa, la situazione relativamente alla pubblicazione di “La croix” era mutata, in quanto in quell’incontro il Papa chiese a Bailly di attenuare le polemiche con il Governo francese. Ciò però non voleva dire che il giornale avrebbe dovuto assumere un atteggiamento non antisemita, in quanto le contumelie antisemite tradizionali erano più che bene accette. Ciò che non era bene accetto erano le critiche al governo francese, che avrebbero avuto, se continuate, l’effetto di peggiorare i rapporti tra Santa Sede e lo stesso governo francese. Tuttavia coloro che davvero contribuivano a fomentare l’antisemitismo in Francia erano spesso addirittura nemici della Chiesa. Ad esempio Edouard Drumont che tuttavia, per il suo libro sugli ebrei in Francia aveva ricevuto elogi da parte della stampa cattolica. Una riprova di quanto fosse conosciuto alla chiesa e alle gerarchie il potere degli ebrei fu che quando padre Henri Desportes di Rouen scrisse un opuscolo contro gli ebrei, il suo superiore, l’arcivescovo, gliene vietò la pubblicazione, perché in quanto consapevole del potere degli ebrei non intendeva provocarne una reazione, e nella fattispecie in quanto il prefetto di Rouen era un ebreo e l’arcivescovo temeva di irritarlo. Per tornare al libro di Drumont va detto che il libro in questione criticava finanche il nunzio apostolico in Francia, reo a suo dire di comportarsi secondo le convenienze. L’attacco irritò il nunzio che si rivolse al Segretario di stato pontificio. Quest’ultimo prospettò la possibilità di inserire nell’indice della Santa inquisizione il testo in questione ma paventava anche, se si fosse provveduto in questo modo, il pericolo di indurre una maggiore diffusione di ostilità tra i nemici della Chiesa.

167

Per accennare ad un altro problema che la Chiesa dovette fronteggiare in quegli anni, cioè il movimento socialista, la Chiesa indisse il Congresso dei cristiani democratici, che ebbe la durata di sei giorni. Il congresso era costituito da quattro sezioni separate: una sull’antisemitismo, una sulla massoneria, una sulla costruzione di un movimento sociale cattolico e una sulla questione del cattolicesimo e del repubblicanesimo.

Alla fine della giornata il congresso aveva elaborato alcuni capi saldi, ad esempio: agli ebrei doveva essere negata la cittadinanza francese; gli ebrei dovevano essere esclusi dall’insegnamento nelle scuole pubbliche e dall’accesso al corpo ufficiali. Poco dopo il congresso di Lione, si verificavano in Francia una serie di torbidi che prendevano a motivo l’affare “Dreyfus”, un militare accusato di aver venduto segreti di stato alla Germania, e condannato da una corte marziale a scontare la pena nel durissimo carcere detto l’”Isola del diavolo” un’atollo al largo della Guyana francese. Un anno dopo si scoprì che la grafia del messaggio con cui Dreyfus avrebbe attuato la delazione ai tedeschi era uguale a quella di un maggiore tedesco, Esterhazy. Poteva trattarsi di un complotto contro Dreyfus che era peraltro ebreo. Ma ciò che determinò gli eventi successivi fu che il popolo credette davvero alla colpevolezza del capitano. Vi furono sommovimenti antiebraici e sommosse antisemite al grido: morte a Dreyfus, morte agli ebrei. L’Osservatore romano ebbe parole di lode nei riguardi delle sommosse antiebraiche. Quando nel 1899 fu ordinato un nuovo processo e il capitano ebreo tornò a calcare suolo francese, il papa cominciò a preoccuparsi sempre di più dei toni antigovernativi delle sommosse contro Dreyfus, e delle solite accuse che si muovevano al governo francese, accusato di essersi venduto agli ebrei. E allora per evitare di inimicarsi il governo francese i toni del Vaticano attraverso le sue pubblicazioni divennero più teneri. Citando Innocenzo III, un papa del medioevo, i mezzi di stampa della Chiesa ricordavano che gli ebrei “sono i testimoni della vera fede. Non è lecito al cristiano estirparne la progenie”. Il 19 settembre del 1899 Dreyfus fu scarcerato per aver

168

ottenuto la grazia dal presidente francese. La stampa vaticana abbandonò i commenti sul caso e ritornò a dedicarsi agli omicidi rituali.

La situazione dell’antisemitismo in Austria.

Con la Chiesa francese che, a causa di un governo anticlericale rischiava di perdere molti dei suoi privilegi, papa Leone XIII si impegnò a convincere le autorità civili che la Chiesa cattolica non voleva essere considerata una minaccia per lo Stato repubblicano, il quale peraltro aveva ottimi rapporti con le comunità ebraiche.

In Austria la situazione era differente e qui il Vaticano incoraggiò la formazione di un movimento politico improntato al Cattolicesimo, e bisogna dire che in tutto ciò l’antisemitismo giocò un ruolo non indifferente. Sino al 1848 era presente in Austria un forte movimento antisemita, che proibiva ad esempio agli ebrei di vivere a Vienna ove sprovvisti di uno speciale permesso, tutto ciò nonostante il governo austriaco dipendesse dai prestiti dei banchieri ebrei, primi fra tutti i Rothschild. Non tutti coloro che erano o si dichiaravano antisemiti erano però cattolici. Ad esempio Georg von Schonerer fu il fondatore di un movimento politico contrario sia agli ebrei sia a i cristiani cattolici sia il movimento socialista. Nonostante le accuse da lui mosse in sede parlamentare contro gli ebrei, ciò non gli consentì comunque di creare un partito politico di massa modellato sulle idee antisemite. Fu un altro movimento ad alimentare l’antisemitismo di massa in Austria: il movimento dei cristiano sociali, fondato a Vienna nel 1887. Il suo leader, Karl Lueger pur non essendo del tutto ostile agli ebrei scoprì che inveire contro di essi pubblicamente era molto vantaggioso. Nel primo programma del movimento si chiedeva l’esclusione degli ebrei dall’esercito, dall’amministrazione pubblica, dalla magistratura, dal commercio al dettaglio, dalla medicina e dall’insegnamento a studenti non ebrei. Nel 1885 Lueger fu eletto in parlamento, dove conobbe il principe Luois di Liechtenstein e insieme diedero vita al partito cristiano sociale nel 1891. Il movimento cristiano sociale, dopo le prime rimostranze, fu fortemente appoggiato dal papa, anche perché questi riteneva che l’estensione del suffragio avrebbe richiesto un partito forte e in grado di canalizzare le masse. I sentimenti del papa in

169

proposito emersero due anni più tardi quando il nunzio apostolico in Austria, Galimberti incontrò un vescovo austriaco che gli presentò un importante proprietario terriero ebreo che aveva dato forti contributi alle opere di fede cattolica. Galimberti fu duramente criticato per questa iniziativa dagli ambienti vicini al papa e molti vescovi chiesero l’applicazione al caso di sanzioni disciplinari.

Il papa ovviamente chiese al nunzio di spiegarsi e di giustificare il comportamento tenuto in quella occasione, e il nunzio rispose che si era trattato di un incontro informale la cui rilevanza era stata amplificata ad arte poiché il proprietario del giornale che aveva commentato l’incontro era anch’egli ebreo. Tuttavia il Galimberti non era un malfidato. Alcuni mesi prima ad esempio aveva manifestato alla Santa Sede la propria gioia nel constatare che i cattolici e in particolare i cattolici nazionalisti e antisemiti avevano ottenuto importanti risultati elettorali a Vienna. Per tornare all’episodio oggetto di condanna a carico del nunzio Galimberti, pur nell’ambito di un atteggiamento comprensivo veniva contestato al padre nunzio di essersi fin troppo esposto con un personaggio che poteva ben a ragione essere considerato un nemico del Cattolicesimo. L’attivismo cattolico a favore del movimento cristiano sociale in Austria fu così forte da sovrastare la stessa chiesa cattolica viennese, la quale continuava a ribadire che il movimento cristiano sociale non era un movimento antisemita. Ad esempio nel 1891 Lueger, dinanzi alle proteste del vescovo per l’atteggiamento e i proclami antisemiti del suo partito si rivolse direttamente al papa per averne l’appoggio, scavalcando così il vescovo di Vienna. Sempre nel 1891 il segretario di stato vaticano chiese in una lunga lettera che padre Galimberti chiarisse la vicenda della querelle al vescovo di Vienna, che male interpretando l’incontro di Galimberti con il possidente ebraico, avrebbe poi apertamente ostacolato l’ingresso di tre validi sacerdoti antisemiti in Parlamento, solo perché ritenuti liberali. Inoltre l’arcivescovo era stato accusato anch’egli da Lueger di liberalismo.

La risposta del nunzio cioè Padre Galimberti fu nel senso che si era trattato di un ignobile tentativo di screditare quello che pure doveva essere l’orientamento

170

ufficiale della chiesa cattolica e non solo viennese, cioè un aperto e onesto antisemitismo. Occorreva però, a dire del nunzio, intendersi sui termini. In Austria in quel periodo i termini “antisemitismo” e “liberalismo” avevano dei significati abbastanza particolari. L’antisemitismo di Lueger era certo differente dall’antisemitismo della chiesa cattolica, in quanto non basato su una verità di fede, cioè il cristianesimo ma su teoremi politici e sociali. Inoltre faceva presente il nunzio che in Austria l’antisemitismo si mischiava a questioni etniche, cioè con la lotta all’ebraismo non in quanto religione ma in quanto insieme “etnico”, ed era questo il tipo di politica praticato da Lueger a Vienna. Nel decennio successivo mentre il movimento cristiano sociale di Lueger cresceva, i responsabili delle gerarchie cattoliche austriache continuarono a contestarlo, mentre i cattolici italiani non gli negarono mai il loro appoggio. In questa presa di posizione furono aiutati da un nuovo nunzio apostolico, cioè monsignor Agliardi, che fu autentico sostenitore negli anni della nunziatura, del partito e della figura del politico austriaco.

All’inizio del 1895, tuttavia gli arcivescovi di Vienna e Praga supplicarono il papa di condannare il movimento di Lueger, dato che il suo antisemitismo radicale e violento, sembrava andare ogni giorno di più “fuori controllo”. Non era sostenibile a loro modo di vedere un movimento dal carattere cristiano sociale che incoraggiava i preti ad opporsi ai vescovi, e si batteva contro il conservatorismo dei cattolici che appoggiavano il governo. Da parte loro i membri del movimento cristiano sociale asserirono che essi non avevano con l’antisemitismo radicale nessun tipo di avversione. Una volta riconciliati gli animi il pontefice inviò a Lueger una lettera di encomio. In definitiva ciò che la Chiesa, nella persona dei cardinali della Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari, ebbe modo di apprendere e nonostante le voci in senso contrario di alcuni che, all’interno delle gerarchie, palesavano come un pericolo antisemita, fu che l’antisemitismo dei cristiano sociali non era rivolto contro gli ebrei in quanto tali ma solo contro il loro strapotere economico. Ne risultò che per cementare i rapporti con la Chiesa cattolica i capi del partito cristiano sociale giurarono fedeltà al papa, alla dottrina ecclesiastica e alla

171

gerarchia cristiana presente in Austria. Pochi mesi più tardi il primo ministro austriaco si recò in visita dal nunzio Agliardi, e tentò di ottenere che il Vaticano togliesse il suo appoggio al movimento cristiano sociale. Intanto la situazione a Vienna diveniva sempre più tesa. Pur avendo vinto le elezioni, Lueger non venne nominato sindaco a causa del veto da parte dell’Imperatore. Dal partito conservatore si era poi staccato un movimento che si era denominato partito cattolico popolare. Il barone de Paoli, suo fondatore non voleva irritare senza necessità la Corte imperiale, che si opponeva vivamente a Lueger. Inoltre con un programma che non era affatto antisemita il barone cercava di attirare il favore di quei vescovi che erano indecisi nei riguardi di un possibile sostegno a Lueger. Nondimeno i giornali finanziati dal Vaticano continuavano la loro campagna denigratoria a danno degli ebrei e consideravano l’Austria un Paese in cui gli ebrei si erano procurato un potere immenso sfruttando i cristiani. L’antidoto a una tale situazione era di imporre un “giogo” agli ebrei, e Lueger costituiva una figura che poteva servire a questo scopo.

Negli stessi anni il nunzio apostolico Agliardi dovette occuparsi anche di un’altra questione riguardante gli ebrei. Dalla Galizia, all’epoca territorio facente parte dell’impero Austroungarico si era diffuso un malcontento da parte dei cristiani ivi dimoranti contro gli ebrei del posto, che era sfociato in sollevazioni popolari sempre contro gli ebrei. Il Vaticano venne a sapere che il capo di quel movimento era un prete cattolico, di nome Stanislav Stjalowsky, il quale pare avesse recepito le istanze del movimento socialista e ad esso avesse aderito. Tuttavia le sobillazioni e le istigazioni a carattere sociale del prete in questione, rifletterono gli uomini del vaticano, potevano essere considerate come qualcosa di utile e ciò in quanto quell’uomo poteva con la sua capacità di persuasione suscitare l’antisemitismo in Galizia attraverso false rivendicazioni a carattere socialista. Pochi anni più tardi, questo prete dalla facile eloquenza continuava a sobillare l’ostilità verso gli ebrei con risultati disastrosi, tanto che il governo austriaco chiese al papa di fare qualcosa. Intanto nuovo nunzio papale era stato nominato l’arcivescovo Taliani il quale come primo atto ufficiale si recò a un incontro con il ministro degli esteri austriaco, tale

172

Goluchowsky il quale si era assai lamentato di ciò che stava accadendo in Galizia, al che il nunzio aveva assicurato che tutto ciò non poteva imputarsi alla Chiesa cattolica. Il nunzio inviava poi alla Santa Sede un poscritto secondo cui le vere cause dei torbidi in Galizia erano le tasse, divenute esorbitanti e la pratica dell’usura da parte degli ebrei. Nel mese di giugno del 1896 Taliani inviò un nuovo rapporto alla Santa Sede nel quale informava gli interessati che le rivolte stavano diminuendo in intensità e che le responsabilità di cristiani ed ebrei in quella situazione erano state esagerate. Il nunzio Taliani inviò poi un rapporto in cui descriveva Stojalowsky in termini molto lusinghieri, tanto da registrare le molte manifestazioni di gratitudine espresse dagli ebrei nei confronti del prete. La cattiva fama di Stojalowsky era stata generata ad arte dai socialisti per incolpare il povero prete dei pogrom contro gli ebrei. Ovviamente il prete in questione era antisemita, ma non avrebbe mai torto un capello ad un ebreo, mentre lo fecero i socialisti. Il 24 settembre del 1900 un collaboratore del nunzio apostolico a Vienna scrisse a tale Rampolla, uomo interno alle gerarchie ecclesiastiche, raccontando un incontro con il ministro degli affari esteri austriaco, nel quale quest’ultimo accusava il nunzio apostolico di aver protetto le malefatte del prete galiziano, ciò a cui il nunzio rispose che la Chiesa aveva necessariamente dovuto prendere tempo per ricercare la verità sugli avvenimenti di cui veniva incolpato lo Stojalowsky. In Austria ormai antisemitismo e cattolicesimo facevano un tutt’uno. Un esempio su tutti: quando la Corte suprema austriaca proibì l’uso di fondi pubblici per il restauro delle chiese cattoliche, si ebbero in parlamento interventi molto accesi nelle discussioni che seguirono il provvedimento della corte e ovviamente la pronuncia della corte veniva attribuita alla nefasta influenza ebraica. Sempre un collaboratore di Lueger, Ernst Schneider aveva proposto di imporre una taglia sugli ebrei cioè una ricompensa a chi ne avesse ucciso uno. Fatto era che dopo più di un decennio di appoggio da parte del Vaticano il movimento antisemita stava guadagnando terreno all’interno dell’Impero. Prova ne era che anche in Ungheria erano scoppiate sommosse contro

173

gli ebrei. Nel 1901 il nunzio a Vienna scrisse al cardinale Rampolla sostenendo che le sollevazioni erano dirette esclusivamente contro gli ebrei e le loro macchinazioni.

Etnia

La Chiesa cattolica ha sempre recisamente negato ogni suo coinvolgimento, anche a carattere meramente ideologico tra l’antisemitismo moderno, fondato su elementi antropologici e il proprio antisemitismo, un antisemitismo dagli aspetti esclusivamente religiosi. Gli argomenti a conforto di queste asserzioni si possono raggruppare in tre insiemi che vengono frapposti al moderno antisemitismo, nel senso di affermare una totale estraneità della chiesa a questo tipo di antisemitismo. Il primo argomento in forza del quale la Chiesa non condivise mai l’antisemitismo del XX secolo è che esso è connotato da elementi antropologici in senso peggiorativo cioè che gli ebrei costituirebbero una “etnia” separata e inferiore; il secondo argomento è che la Chiesa ha sempre condannato l’antisemitismo etnico perché esso è in contrato con la missione universale della Chiesa; il terzo argomento esime la Chiesa dall’aver mai partecipato alle manifestazioni dell’antisemitismo moderno. In ogni caso nell’ambito delle ideologie che coltivavano pulsioni antisemite erano compresi i seguenti elementi: la cospirazione universale degli ebrei; il tentativo di conquistare il mondo; gli ebrei sono una setta malvagia che vuole uccidere tutti i cristiani; gli ebrei sono privi di morale; agli ebrei interessano solo i soldi; gli ebrei controllano la stampa e le banche che portano i cristiani alla rovina; sono responsabili del comunismo; gli ebrei praticano omicidi rituali; gli ebrei cercano di distruggere il cristianesimo; gli ebrei sono sempre disposti a vendere il proprio paese al nemico; per proteggere la società occorre che gli ebrei siano segregati e privati dei diritti che fanno capo ai comuni cittadini. Tutte queste elucubrazioni sugli ebrei erano presenti nella Chiesa fin dall’antichità. Ad esempio nella Spagna del XV secolo, dove viveva la più vasta popolazione ebraica d’Europa, nel 1492 fu promulgata una serie di leggi dette “statuti della purezza del sangue”, in forza dei quali chiunque avesse antenati ebrei non poteva occupare posizioni di

174

prestigio nella società spagnola. Anche la chiesa vietò a chi aveva antenati ebrei di partecipare alle funzioni ecclesiastiche e di ricoprire le cariche ecclesiastiche.

Nel XVI secolo lo spagnolo Ignazio di Loyola fondò l’ordine dei gesuiti, e successivamente introdusse una regola per cui coloro che avevano anche solo un ascendente ebraico fino alla quinta generazione precedente non potevano accedere all’ordine. Questa disposizione fu abolita solo nel 1946 dopo essere stata citata da nazisti e fascisti a giustificazione delle loro politiche di intolleranza e segregazione, quando non di vero e proprio sterminio legalizzato.

Un chiaro esempio di come l’antisemitismo fosse assai diffuso alla fine del XIX secolo è la vicenda relativa alla storia di un arcivescovado che fu assunto in una regione ceca da un ecclesiastico di origini ebraiche, a nome padre Kohn. Quando si sparse la voce che Kohn aveva origini ebraiche il popolo si infuriò e si arrivò al punto che le proteste popolari determinarono la rimozione di Kohn dall’incarico.

Per tornare al concetto di etnia e di discriminazione, va detto che soprattutto la definizione di “etnia ebraica” fu sino ad un certo momento un concetto indefinito. Solo in seguito e per gradi venne attribuita agli ebrei una diversità sostanziale, biologica.

Persino coloro che impetravano un miglior rapporto tra cristiani ed ebrei avevano ormai implicitamente assimilato il concetto di etnia ebraica. Ad esempio in un saggio di Padre Henri Gregoire si parla in difesa degli ebrei, e nondimeno esprimendo concetti discriminatori. Ad esempio nel descrivere il “tipico” individuo ebraico nella sua costituzione fisica, Gregoire scrive: “ il viso pallido, il naso a uncino, gli occhi affossati, il mento prominente e i muscoli della bocca molto pronunciati”. E aggiunge: ”molti di loro sembrano invecchiare precocemente ed emanano un cattivo odore”. Nonostante queste sporadiche affermazioni Padre Gregoire continuò per tutta la vita a difendere gli ebrei tanto che quando nel 1831 morì molti ebrei lo piansero. Per quanto riguarda il cattivo odore emanato dagli ebrei, esso finì per dare luogo alle più artificiose dicerie, ad esempio che il corpo dell’ebreo puzzava perché era immondo, e ciò andava a corroborare le convinzioni

175

di coloro che ritenevano gli ebrei una genìa inferiore, convinzioni che l’avvento del Nazismo contribuì a diffondere. Da ciò a concludere che il sangue ariano non doveva esser mischiato col sangue ebraico il passo fu molto breve.

Vale la pena a questo proposito evidenziare come il movimento nazista avesse portato alle estreme conseguenze l’odio per gli ebrei diffuso in nuce anche negli ambienti della Chiesa cattolica. Interessante in tal senso un libro di padre Chabouty in cui si analizzava la costituzione fisica degli ebrei che a dire dell’autore li rendeva immuni alle malattie. Tale affermazione implicava quella secondo cui era ragionevole attribuire agli ebrei la colpa delle tante epidemie che nel corso del medioevo avevano causato la morte di molti cristiani. Nel 1906 un articolo di un giornale francese accusava gli ebrei di controllare persino il movimento massonico, ovviamente riprendendo un cliché già ampiamente sfruttato.

Un caso dell’inizio del XX secolo è assai chiarificatore in merito al tipo di idee che prepararono l’avvento del fenomeno nazista. Durante una seduta del parlamento austriaco del 1901 uno dei sostenitori di Lueger dichiarò che la questione ebraica era una questione di sangue e che egli stesso per battezzare un ebreo non l’avrebbe cosparso d’acqua ma tenuto col capo messo dentro una tinozza per 5 minuti buoni.

L’omicidio rituale e i papi nel ventesimo secolo

Negli ultimi due decenni dal XIX secolo i papi usarono l’antisemitismo come arma per creare un appoggio politico da parte delle masse popolari alla Chiesa. Quest’ultima era nella posizione di condannare i numerosi pogrom antisemiti che avevano luogo in Europa orientale, ma ne prese le distanze o meglio prese le distanze dalle ragioni che erano alla base di quelle stragi. La campagna cattolica che in quegli anni identificò gli ebrei con l’omicidio rituale rende però l’idea di un antisemitismo diffuso anche in ambienti cattolici e persino tra le gerarchie. Un antisemitismo che veniva utilizzato non in maniera plateale ma dietro le quinte di un clima d’odio nei confronti dell’ebraismo diffuso in tutta Europa. La reazione più energica allo stato di fatto della diffusione sempre più pervasiva dell’antisemitismo provenne dall’Inghilterra dove i prelati cattolici furono accusati di imporre credenze

176

medievali del tutto prive di fondamento. Nel dicembre del 1889 il rabbino capo di Londra Hermann Adler ebbe un colloquio per lettera con il cardinale Henry Manning, arcivescovo di Westminster. Il rabbino gli sottoponeva il caso di un libro antisemita che aveva riscosso simpatie in Vaticano ed esprimeva sconforto per come il capo della Chiesa si era espresso in merito al libro in questione. Un anno dopo il vescovo, che si era ripromesso di indagare sulle affermazioni di Adler presso la Santa Sede, scrisse di nuovo ad Adler per informarlo della risposta ricevuta dal segretario di Stato Vaticano Rampolla. Quest’ultimo aveva recisamente negato che vi fossero state parole d’elogio da parte del papa, anzi aveva affermato che mai il papa avrebbe assunto posizioni simili a quelle descritte nel libro, nei riguardi del popolo ebraico. In realtà la storia che venne alla luce fu che lo stesso Desportes aveva scritto al papa dopo aver ricevuto una comunicazione relativa al libro di recente pubblicazione. Aveva anche inviato due copie del suo libro al papa tramite la segreteria di stato, lamentando che la diffusione del suo libro fosse stata boicottata ad opera di ebrei. Pochi giorni dopo Rampolla, il segretario di stato, scriveva rispondendo a Desportes e partecipandogli la felicità del pontefice nel ricevere le due copie del libro, e la susseguente benedizione in favore dell’autore. L’anno seguente Desportes inviò nuovamente due copie del suo ultimo libro al segretario di stato perché le recapitasse al papa. Non sappiamo quanto di quel libro abbiano letto il segretario di stato o il papa ma il 31 ottobre del 1890 il cardinale Rampolla scrisse di nuovo a Desportes per ringraziarlo dell’invio delle due copie del libro. Intanto in Inghilterra non si tollerò che il papa ricevesse libri sugli omicidi rituali, che gli inglesi erano fermi nel ritenere delle leggende prive di fondamento. Perciò l’arcivescovo di Westminster scrisse, insieme ad altri influenti cattolici di Inghilterra delle lettere al segretario di stato, nelle essi quali chiedevano il ripudio ufficiale di quella accusa nei riguardi degli ebrei. La questione finì nelle mani della Santa Inquisizione, che diede incaricò a monsignor Rafael Merry De Val, che di lì a poco sarebbe succeduto a Rampolla alla segreteria di stato, di occuparsi, in qualità di esperto, della vicenda. Merry de Val fu scelto anche a motivo del fatto che uno

177

dei suoi antenati, ancora bambino era stato vittima di un omicidio rituale. La supplica delle autorità cattoliche inglesi giunse all’orecchio persino delle autorità ecclesiastiche austriache, le quali temevano che il partito cristiano sociale subisse una deriva dichiaratamente antisemita. Intanto le indagini degli inquisitori andavano per le lunghe. Finalmente giunse presso la Santa Sede una serie di comunicazioni e suppliche dall’Inghilterra affinché il Vaticano emettesse una dichiarazione ufficiale nella quale affermasse recisamente che la pratica dell’omicidio rituale non era più che una superstizione. Gli inquisitori però non accolsero la richiesta. Era poi di fatto impensabile che il papa potesse cambiare una linea politica che aveva coltivato durante tutto il suo pontificato. Leone XIII morì nel 1903. Quando il Conclave si riunì per eleggere il nuovo papa il candidato più probabilmente eleggibile era il Rampolla, che però aveva molti detrattori, sia in Austria che in Patria dove veniva accusato di essersi occupato troppo poco di politica interna. Messa da parte la candidatura di Rampolla fu eletto Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia che assunse il nome di Pio X. Così come il suo predecessore, da cui peraltro lo distinguevano la cultura personale, lo stile di vita, le convinzioni e le esperienze, Pio X non aveva alcuna intenzione di mutare l’atteggiamento della Chiesa in merito ai cambiamenti in atto in Europa. In una delle sue encicliche più importanti, “Pascendi”, condannò la filosofia moderna considerandola contraria alla Chiesa, e ridiede pieno risalto ad una istituzione all’epoca quasi dimenticata, cioè all’indice dei libri proibiti.

Tuttavia Pio X anche a causa di amicizie di lunga data nell’ambiente ebraico ebbe un atteggiamento verso gli ebrei molto diverso da quello dei sui predecessori. Ad esempio nel 1905 il papa intervenne presso i vescovi polacchi per far cessare i pogrom che nel frattempo si erano diffusi in quelle terre. Quanto alla politica interna i giornali vaticani furono molto più ben disposti nei riguardi degli ebrei durante il suo pontificato. Ci fu poi l’udienza concessa a Theodor Herzl, il quale era uno dei fautori, se non il principale, di uno stato ebraico in Palestina, e parlò di questa sua idea con il papa, ricevendo però un secco rifiuto riguardo all’appoggio della chiesa a questo progetto. Dopodiché fu Herzl a chiedere al papa se sapesse qualcosa

178

dell’attuale situazione degli ebrei. Il papa da parte sua offrì i propri auguri in merito allo Stato che il rabbino intendeva fondare in Palestina e si disse disposto a battezzare tutti coloro che tra gli ebrei difendevano quel progetto.

Per tornare alla politica strettamente interna Pio X era impegnato in una battaglia contro la modernità, battaglia in cui l’antisemitismo giocava un ruolo fondamentale. Molto chiarificatore in tal senso il rapporto del papa con Umberto Benigni, nato nel 1862 e ordinato prete nella sua città, Perugia all’età di 23 anni e protagonista di una rapida carriera sia nella gerarchia ecclesiastica, sia negli istituti di istruzione cattolici e sia nei giornali facenti capo al Vaticano. Nel 1909 con l’incoraggiamento del papa Benigni fondò una sorta di “servizio segreto” detto “Sodalizio di S. Pio V”, una sorta di servizio informativo circa l’attività di movimenti come i liberali, i socialisti, i modernisti, e ovviamente gli ebrei. Pio X ricoprì di onori Benigni ed ebbe con lui un rapporto di speciale confidenza. Sempre poi per quanto riguarda le dure prese di posizione sugli omicidi rituali, che furono oggetto di una supplica da parte di alti funzionari perché l’omicidio rituale venisse considerato soltanto una leggenda popolare, Pio X mantenne la linea dei suoi predecessori anche nel caso più recente, quello che aveva dato luogo ad un procedimento a carico di Mendel Beilis, celebrato a Kiev nel 1913. Beilis era stato arrestato nel 1911 e accusato dell’omicidio rituale di un ragazzo, e processato per questo. E mentre, si era agli inizi del XX secolo, la linea della stampa ecclesiastica era la stessa di due secoli prima, varie associazioni ebraiche nate in Europa e Nord America si interrogavano su come fosse possibile credere ancora agli assassinii rituali. Come in altre occasioni gli ebrei si rivolsero per il tramite dei loro esponenti più in vista, cioè la famiglia Rothschild al pontefice, appoggiati in ciò dal clero britannico, ma non con le solite maniere, cioè in sede ufficiale. Si limitarono a chiedere di prendere in considerazione da parte degli uffici vaticani a ciò preposti, alcuni documenti emanati dal vaticano in altre occasioni simili a quella in questione, ad esempio alcune deliberazioni giurisdizionali che smentivano la possibilità stessa di omicidi rituali. E di fatto quelle deliberazioni, ad un esame approfondito si rivelarono

179

esistenti. La lettera inviata a suo tempo da Rothschild si trova oggi negli archivi vaticani, insieme con la lettera di accompagnamento del duca di Norfolk. Dopo aver consultato il papa e il Santo Uffizio il cardinale Merry de Val rispose a Rothschild assicurandogli che nei documenti che questi citava a testimonianza risultava che alcuni papi non consideravano la pratica dell’omicidio rituale più che una superstizione. Nondimeno la corte giurisdizionale di Kiev respinse la lettera e non volle considerarla come prova. In conclusione la dichiarazione, accompagnata da documenti e inviata da Merry de Val non fu mai accolta nel processo di Kiev. Tuttavia i presunti colpevoli furono dichiarati innocenti, ciò che suscitò un vivo malcontento presso le comunità russe del cattolicesimo ortodosso. Per quanto riguarda la politica papale in merito ai documenti di cui fin qui si è parlato, non vi fu alcuna dichiarazione in proposito a favore della causa ebraica. Anzi la stampa cattolica continuò a rinfocolare l’odio per gli ebrei. Per tutta risposta il giornale israelitico intitolato “Vessillo israelitico” accusò l’organo vaticano di Firenze “L’Unità cattolica” di condurre una campagna antisemita, cosa che il giornale cattolico si affrettò a smentire, citando le parole stesse del segretario di stato vaticano.

Anche in Francia tuttavia la stampa cattolica continuò a battere sul problema dei fantomatici omicidi rituali, questa volta facendo riferimento al caso di Kiev. Il giornale “L’Universe” riferiva che sarebbe stato addirittura il rabbino capo a estrarre meticolosamente il sangue al giovane assassinato a Kiev. Pochi giorni dopo lo stesso giornale riportava i risultati di una perizia durante il processo di Kiev, che testimoniava non solo la brutalità ma anche la ritualità dell’assassinio. Il 12 novembre, giorno in cui il giornale francese avrebbe dovuto riferire la notizia della assoluzione degli imputati nel processo di Kiev, il giornale criticò le azioni di disturbo messe in atto con le ormai note lettere inviate dal Cardinale Merry De Val, ritenendole quanto meno pretestuose e non dirette a fini veritativi ma soltanto ad ottenere l’assoluzione dei confratelli di Rothschild. Inoltre le note posizioni vaticane sull’omicidio ebraico cioè relativamente alla realtà del fenomeno dovevano essere

180

state quanto meno lette prima della pubblicazione da Merry De Val, che quindi aveva tenuto il piede in due staffe. Sempre il giornale “La Civiltà cattolica” scriveva in quei giorni, che gli ebrei si erano rivolti ai Rothschild, i quali non si capiva da quale punto di vista avessero a cuore la comunità ebraica internazionale, dato che erano semplici banchieri. Per quanto riguarda i documenti a favore della teoria della mistificazione del culto ebraico inviati dal cardinale segretario di stato con l’appoggio dei Rothschild, ciò che il giornale sosteneva era che se ne fosse travisato il senso. Ovviamente il giornale non poteva esprimere la convinzione che si fosse trattato di un verdetto motivato per sé in favore degli ebrei, ma ipotizzava che questi ultimi avessero comprato la sentenza. Il mese successivo sempre “La civiltà cattolica” offriva altre prove sul caso di Kiev, tratteggiando la natura diabolica degli ebrei e la loro abitudine di bere sangue al posto del latte.

L’anno in cui tutto ciò avveniva era il 1914. La data dovrebbe a mio avviso far riflettere.

Sempre nel 1914 moriva Pio X. I cardinali riuniti in conclave, nella consapevolezza di essere vicini al’inizio della Prima guerra mondiale, non persero tempo nel nominare successore del papa defunto, tale Giacomo della Chiesa, arcivescovo di Bologna. La disputa sull’antisemitismo sostenuta con la Francia aveva incrinato i rapporti con quel Paese, ed anche con altri, sempre a causa del fatto che le gerarchie ecclesiastiche continuavano a credere alla esistenza di omicidi rituali commessi da ebrei. Della Chiesa, di origini nobili come la maggior parte dei collaboratori del papa, aveva trascorso lunghi anni presso la segreteria del papa, ed era uomo di notevoli capacità: conosceva il modo di valutare gli sviluppi politici, aveva capacità diplomatiche e il senso della storia. Quando ascese al soglio decise di essere chiamato Benedetto XV. Il nuovo papa aveva capito che il nuovo ordine secolare non poteva più essere sostenuto e che la Chiesa avrebbe dovuto adeguarsi ai tempi nuovi, scendendo a patti con le nuove realtà, cioè movimenti come il socialismo e il sionismo. Benedetto fu capace di introdurre nella Chiesa un nuovo modo di intrattenere rapporti con la comunità ebraica, innanzitutto attraverso la soppressione

181

dei giornali cattolici antisemiti. Benedetto XV ebbe assai a cuore le vicende del conflitto mondiale e cercò una soluzione negoziata tra gli stati ex belligeranti in sede di conferenza di pace. Tuttavia il trattato di Londra che i Paesi usciti dal conflitto stipularono per regolare le risultanze del conflitto in termini di spartizioni territoriali e di influenza politica, conteneva una clausola che escludeva il Vaticano dal partecipare ai negoziati di pace. Uno Stato il cui capo si dichiarava prigioniero dell’Italia da un sessantennio, lui e i suoi predecessori, non aveva alcun diritto di partecipare ai negoziati post bellici, semplicemente perché quella guerra non l’aveva combattuta. I negoziati furono aperti da un cattolico francese, tale Deloncle insieme con un ebreo francese, tale Perquel. Nel maggio successivo, il 1915, i due promotori dei negoziati incontrarono il papa in udienza privata, nel corso della quale il papa annunciò la preparazione di un enciclica a favore degli ebrei, però a condizione che il peso del Vaticano a livello diplomatico si rafforzasse. I negoziati, dopo un periodo di iniziale entusiasmo finirono nel vuoto, tanto più che gli ebrei rifiutarono l’appoggio del papa perché preoccupati da ciò che l’atteggiamento di favore nei riguardi del Vaticano poteva comportare a loro danno. Inoltre non era costume degli ebrei farsi coinvolgere in vicende internazionali, e nondimeno le condizioni poste dal papa ad una eventuale collaborazione con gli ebrei avrebbero reso ostili agli ebrei altri stati d’Europa con cui le comunità ebraiche erano allora in buoni rapporti. Il succo del discorso era che il Vaticano, neanche se si fosse riconciliato con tutti gli ebrei presenti nel mondo, avrebbe potuto essere legittimamente ammesso al tavolo delle trattative. Benché escluso dai negoziati continuò a essere preoccupato per la sorte dei cattolici polacchi dopo la guerra. La Polonia era attualmente divisa tra l’Impero austroungarico e la Prussia, e costituiva il problema più urgente in sede di negoziati di pace. Alla fine della guerra l’Arcivescovo di Varsavia chiese al pontefice di inviare un emissario in Polonia per chiarire la situazione, e in risposta Benedetto XV inviò Achille Ratti, il futuro Pio XI. La Polonia era sin dal XIV secolo fondamentale per gli ebrei che da allora vissero in quel paese facendo da intermediari tra la nobiltà terriera e i contadini. Tuttavia nel XVIII secolo a causa

182

della ostilità della Russia la condizione degli ebrei polacchi cominciò a peggiorare. Tuttavia negli ultimi due decenni del XIX secolo la Polonia continuò ad ospitare ebrei se non altro per salvarli dagli artigli della Russia e dalle restrizioni imposte loro in quel Paese. Il ruolo di mediatori che come detto era stato degli ebrei per secoli, si era sostanziato attraverso il possesso esclusivo degli empori, attraverso il prestito di danaro e attraverso il commercio del bestiame. Tuttavia agli ebrei vanno ascritti anche altri meriti, ad esempio di aver favorito con le loro attività economiche, l’avanzamento e lo sviluppo economico della Polonia.

Lo sviluppo dei movimenti antisemiti e nazionalisti in Polonia cominciò ad diffondersi alla fine dell’‘800. Oltre agli altri va ricordato il movimento capeggiato Dmowski che agiva in Polonia orientale mentre nella parte di Polonia in mano agli austriaci i movimenti antisemiti e nazionalisti erano convinti che gli ebrei ivi presenti costituissero un pericolo. Gli ebrei furono additati, dopo la fine della guerra, quali colpevoli di aver accolto a braccia aperte l’invasore russo. Ciò determinò lo scatenarsi di violenze e repressioni in tutto il territorio della Polonia. Quando nel 1919 cominciò la conferenza di pace a Parigi, il trattato che ne derivò impose che le minoranze ebraiche in Polonia dovevano essere protette dalle periodiche violenze. Quando l’anno successivo la Polonia entrò in conflitto con la Russia rivoluzionaria, e dovette ritirarsi nei propri confini dopo aver conquistato numerose posizioni in territorio russo, la propaganda attribuì la sconfitta ai bolscevichi russi, i quali vennero ritenuti strettamente legati agli ebrei, e che anzi l’ebraismo avesse inventato il bolscevismo. Per esigenze conoscitive della situazione polacca, il papa, dopo i recenti avvenimenti in quel Paese, inviò in missione in Polonia Achille Ratti, il quale sondando il terreno apprese che i polacchi ritenevano gli ebrei un problema.

In una lettera del 1918 Ratti riferiva al cardinal Gasparri i disordini presenti in Polonia e propose un incontro con dei rappresentanti polacchi della comunità ebraica, incontro che si verificò mentre Ratti era in visita a Sandomierz. Per intercessione di Ratti il vescovo locale incontrò una delegazione di ebrei polacchi. Tuttavia pochi giorni dopo la visita di Ratti, ricominciarono i pogrom. Il 25

183

novembre il vescovo di Varsavia ordinò che le violenze sugli ebrei cessassero. Per quanto riguarda il rapporto conclusivo di Ratti questo giunse presso il pontefice nel gennaio 1919, e lungi dal dire bene dei giudei li considerava una minaccia, tuttavia ne descriveva nei dettagli le condizioni in cui versavano in Polonia, che erano delle peggiori.Tuttavia esisteva una classe ebraica di affaristi, usurai e piccoli commercianti, diceva il rapporto, che costituivano la classe dominante in quel Paese. I pogrom venivano giustificati da Ratti con l’opposizione dei polacchi agli ebrei che si ritenevano fautori del bolscevismo. Nel frattempo Ratti ricevette una copia di una dichiarazione preparata da una missione polacca a Vienna. In essa vennero riportati i più turpi crimini ai danni della comunità ebraica, come i saccheggi a danno della popolazione inerme, che in tal modo gli aggressori riducevano alla fame. Questi accadimenti poiché rivolti contro ebrei erano senz’altro manifestazioni di antisemitismo. Immediatamente dopo la cessazione delle violenze un gruppo di ebrei presentò una petizione di denuncia al presidente del Consiglio. Per tutta risposta il Presidente attribuì la causa del pogrom agli ebrei, in quali erano stati visti subito prima dei torbidi, in un teatro locale gridare: “Abbasso la lingua polacca, non vogliamo un governo polacco”. Uno dei consiglieri disse in quell’occasione che quelle violenze erano il frutto di una campagna di provocazione degli ebrei nei confronti della popolazione polacca. Quindi un altro consigliere stavolta ebreo disse che non c’era stato a teatro alcun inno antipolacco e che egli era presente nel momento in cui gli ebrei inneggiavano ad una Polonia libera e unita.

Per quanto riguarda le informazioni che Ratti aveva appreso sul comportamento della locale Chiesa cattolica, egli seppe che essa chiesa era fortemente impegnata nella repressione dei movimenti socialisti, anche per via delle prossime elezioni comunali in cui tra il fronte nazionale e quello socialista liberale i cattolici erano tenuti a scegliere il primo.

Il 21 novembre di quell’anno ebbe luogo un ennesimo pogrom a Lvov durante il quale i cattolici polacchi avevano distrutto tre sinagoghe insieme a molte case di ebrei e diversi luoghi di preghiera dando poi alle fiamme alcuni rotoli di scritture

184

ebraiche, alcuni del quali molto antichi. Il 15 gennaio il rapporto di Ratti era pronto per essere trasmesso alla santa sede, cioè al cardinal Gasparri.

Quando poi le notizie dei pogrom raggiunsero la sede dei negoziati di Pace cioè Versailles, i rappresentanti dei governi riuniti al tavolo delle trattative emanarono un documento in cui imponevano alle autorità polacche di non permettere altri episodi del genere. Ratti peraltro fu richiamato in Vaticano quando cominciarono all’interno della Polonia scontri tra opposte fazioni etniche per la regolazione dei confini delle nuova Polonia unita. La tensione aveva raggiunto il culmine, soprattutto come al solito contro gli ebrei ma anche tra altre etnie presenti nel Paese. Ai primi di giugno Ratti lasciò la Polonia. Fu solo grazie a monsignor Ermenegildo Pellegrinetti, devoto collaboratore di Ratti e rimasto in Polonia dopo la partenza del suo superiore, che si ebbe un resoconto scritto ad uso della Chiesa sulla situazione in Polonia. Il documento che egli preparò constava di 70 pagine e raccoglieva in sintesi tutto il materiale procuratosi da Ratti. Nella relazione di Ratti, parallela a quella del suo collaboratore, un’intera sezione era intitolata a “Gli ebrei”, che però quando fu resa pubblica un settantennio dopo, cioè nel 1990, risultava parafrasata. La novità della relazione, tralasciando leggende come l’ingestione di sangue umano, stava nel tentativo di descrivere le relazioni tra ebrei e russi prima della caduta dello zar, che in sostanza avevano implicato la deportazione di quasi tutti gli ebrei russi in Polonia. Ovviamente questa scelta determinò una serie di scontri tra i polacchi e gli ebrei ivi inviati.

Pellegrinetti notò che mentre i socialisti e i radicali mostravano atteggiamenti filoebraici , i nazionalisti continuavano a ritenere gli ebrei un pericolo, soprattutto attraverso l’accusa di essere gli agenti della cospirazione bolscevica. Intanto Benedetto XV moriva. Il conclave era diviso tra coloro che sostenevano Merry De Val e coloro che sostenevano Gasparri. Tuttavia quest’ultimo, rendendosi conto di avere scarse probabilità di essere eletto dirottò i suoi voti su Achille Ratti, che nel 1922 divenne papa con il nome di Pio XI. L’opinione che il nuovo pontefice avrebbe avuto sugli ebrei nel corso del suo pontificato, è corroborata da un

185

colloquio che egli ebbe con Mussolini nel 1932. Il papa stesso sollevò la questione ebraica, asserendo che se all’epoca il comunismo rappresentava un problema ciò dipendeva dall’avversione del giudaismo nei confronti del cristianesimo. Tuttavia il papa pensava che gli ebrei italiani fossero una eccezione. Ma gli ebrei dell’Europa orientale specie se polacchi costituivano un problema davvero serio. Ne aveva avuto conferma nei tre anni passati in Polonia quando ancora era segretario di stato.

I prodromi dell’Olocausto

Dopo che per tutto il XIX secolo i semi dell’antisemitismo erano stati gettati, dopo la morte di Pio XI, avvenuta nel 1939 si tornò per quanto riguarda la situazione degli ebrei, ad un secolo addietro. Agli ebrei di vaste zone dell’Europa vennero tolti i diritti di cui avevano beneficiato da meno di un secolo prima. La situazione era abbastanza critica. Il ruolo rivestito dal Vaticano nelle politiche di discriminazione che prepararono l’Olocausto si manifestò con maggior vigore nei territori soggetti all’autorità della Chiesa. Il caso dell’Italia è particolare. Fino ad arrivare a Giovanni Paolo II i papi erano stati tutti italiani. E italiane erano le gerarchie cattoliche in maggioranza, ragion per cui il Vaticano aveva un controllo più diretto sugli atteggiamenti popolari. I “Protocolli dei Savi anziani di Sion” vennero presentati dagli autori come un documento appena scoperto in cui erano dettagliatamente descritti i piani di conquista del mondo da parte degli ebrei, un documento che avrebbe anche abbondantemente animato la propaganda antisemita del partito nazista negli anni precedenti l’ascesa al potere di Adolf Hitler. Numerose pubblicazioni negli anni ’20 fecero eco a questo scritto, ed anche ovviamente le gerarchie cattoliche con i loro organi di stampa. La prima edizione dei protocolli fu data alle stampe da monsignor Benigni, che ebbe anche a dichiarare che l’ostilità della Chiesa verso gli ebrei era motivata non da intolleranza verso la loro religione ma dalle degenerazioni in cui gli ebrei incorrevano a causa dell’osservanza del Talmud, ad esempio il proposito di conquistare il potere mondiale.

In Francia il massimo promotore della diffusione dei protocolli fu padre Ernest Jouin, che ne curò la pubblicazione. Il sacerdote fondò anche un movimento politico

186

denominato “Lega franco cattolica”, tutte iniziative rivolte a difendere la Chiesa dallo strapotere ebraico. L’insistenza di Jouin sulla cospirazione giudaica era in perfetta sintonia con il movimento antisemitico in Germania. Dall’Italia Jouin andava ripetendo che i due obiettivi che gli ebrei si erano prefissi erano il dominio del mondo e la distruzione del Cattolicesimo per odio verso Gesù Cristo, ottenendo gli encomi prima di Benedetto XV e poi di Achille Ratti quando quest’ultimo divenne papa, nonché del cardinal Gasparri. Le buone impressioni provocate in Vaticano procurarono a Jouin anche la promozione a protonotario apostolico. Tuttavia va detto che nello stesso frangente in cui l’antisemitismo su base etnica otteneva un notevole consenso, sorsero anche associazioni a difesa degli ebrei come la nota associazione degli “Amici di Israele” il cui scopo era la conversione degli ebrei al cattolicesimo. Tuttavia questa associazione non durò molto, perché, tacciata di diffondere notizie false e di propagandare dottrine eretiche, fu soppressa dal Sant’Uffizio, senza fornire spiegazioni ufficiali. Tuttavia un accenno di chiarimento venne da padre Rosa, responsabile di una rivista cattolica. Padre Rosa distingueva tra antisemitismo esterno al Cristianesimo e antisemitismo cristiano. La dichiarazione del Sant’Uffizio che condannava l’antisemitismo si riferiva ovviamente non all’antisemitismo cristiano ma a quello relativo all’ebraismo che in quegli anni si diffondeva in tutta Europa e tendeva ad assoggettare attraverso il controllo della sfera economica i popoli del continente. Per di più agli ebrei andava addossata la colpa della Rivoluzione russa come secoli addietro quella della Rivoluzione francese, e la recentissima sequela di sommosse in Ungheria. Per quanto poi riguardava l’Austria il corrispondente di un giornale cattolico denunciava come gli ebrei si fossero appropriati delle ricchezze del Paese. Alla fine dell’anno successivo, si era nel 1921, il papa Ratti ricevette dall’Austria notizie ancora più spaventose. Un corrispondente della stampa cattolica fece presente al papa che i giudei a breve e se non fossero stati in qualche modo fermati, avrebbero ridotto l’Austria ad un niente, anche grazie alle sempre più frequenti sommosse messe in atto dai movimenti socialisti controllati sempre dagli ebrei. Negli anni venti e negli

187

anni trenta si può affermare che qualsiasi organizzazione in Austria che si dicesse cattolica era anche antisemita. Ad ogni modo le organizzazioni cattoliche, sempre in virtù della distinzione tra antisemitismo buono e antisemitismo cattivo tennero inizialmente un atteggiamento di sfiducia nei riguardi dei partiti dichiaratamente antisemiti, come il partito nazista. Quindi per quanto riguarda l’atteggiamento della Chiesa nei riguardi del problema ebraico va detto che dopo aver attribuito anche attraverso le proprie pubblicazioni, agli ebrei la responsabilità di fenomeni come capitalismo internazionale, bolscevismo, e socialismo, giungeva alla conclusione che, nonostante ciò il movimento di Adolf Hitler rappresentava una minaccia per la Chiesa, in quanto le gerarchie erano convinte che il nazismo non fosse un movimento cristiano, ma piuttosto pagano. Anche in Polonia la situazione era simile, tuttavia le misure adottate dalla Chiesa per il tramite del cardinale Hlond non erano tali da minacciare gli ebrei polacchi ma solo rivolte a garantire una pacifica convivenza tra cristiani ed ebrei, che era fondata sulla divisione dei due popoli e sulla non commistione tra cattolici ed ebrei. Verso la fine degli anni Trenta un quotidiano polacco affermò che fino a quando agli ebrei fosse stata riconosciuta la parità di diritti il problema ebraico sarebbe rimasto insoluto.

Il Vaticano osservò a distanza l’ascesa di Hitler in Germania con preoccupazione e subito tentò di venire a patti col dittatore, attraverso la firma di un concordato che garantisse la libertà di azione della Chiesa in Germania. Inizialmente i tedeschi furono da subito favorevoli all’accordo ma dopo qualche tempo cominciarono a non rispettarlo. Il papa tentò di imporsi attraverso un’enciclica, in cui denunciò il tradimento tedesco relativo al concordato, ma queste prese di posizione suscitarono la furia dei nazisti. Nonostante la stampa cattolica continuasse a tenere a distanza il movimento nazista, dopo il 1938 e la famigerata “Notte dei cristalli”, e con il governo fascista che varava le sue leggi razziali, la Chiesa fu costretta a tornare alla propaganda antiebraica. Di lì a poco i membri delle gerarchie dovettero interessarsi alla situazione ungherese, in cui esplicitamente gli ebrei conducevano operazioni di propaganda popolare a proprio favore. Tuttavia il problema venne parzialmente

188

risolto attraverso l’impegno di 250.000 membri della Azione cattolica ad escludere gli ebrei dal partecipare ai canali di opinione pubblica, e soprattutto ad impedire loro di svolgervi un ruolo attivo.

Nell’autunno del 1938 il papa rinnovò l’affermazione secondo cui tutti i cattolici sono spiritualmente semiti. La commissione del 1998 sull’Olocausto cita queste parole a memoria della tolleranza che Pio XI ebbe nei riguardi degli ebrei e che non cedette mai all’antisemitismo biologista, contro il quale il papa nutriva un atteggiamento di diffidenza e di condanna. Sempre nel 1938 il papa affidò verbalmente il compito di scrivere un’enciclica sull’antisemitismo a padre John Lafarge, un gesuita americano. Ciò in quanto il papa era rimasto impressionato da un libro pubblicato dal gesuita dal titolo “Interracial justice”. Coadiuvato da altri uomini di Chiesa, il gesuita redasse il documento, inserendovi le solite accuse nei riguardi degli ebrei ma condannando recisamente l’antisemitismo razzista. L’enciclica in parola non venne però mai pubblicata. Quando il testo dell’enciclica, fino ad allora nascosto perché ritenuto rischioso per l’autorevolezza della Chiesa giunse tra le mani di Pio XI quest’ultimo era in punto di morte. Il papa successivo cioè Pio XII non prese in considerazione l’enciclica, per il timore di inficiare i rapporti con la Germania nazista. Il 1938 come detto è anche l’anno in cui il governo fascista di Mussolini emanò le “leggi razziali” contro gli ebrei, che rinnovavano i provvedimenti restrittivi a loro carico adottati in epoche precedenti estendendoli all’Italia intera. Alle leggi razziali seguì lo sterminio degli ebrei europei o di gran parte di essi durante la successiva vicenda bellica. Ovviamente le leggi razziali furono appoggiate dalla Chiesa cattolica, la quale per decenni aveva denunciato il pericolo ebraico sui propri giornali d’opinione, e non solo esse leggi ebbero l’appoggio della Chiesa e delle sue gerarchie ma anche del popolo cristiano. Nondimeno la Chiesa continuava a rifiutare l’approccio antropologico al problema ebraico, insomma l’antropologismo di stampo biologico. Tuttavia il motivo per cui la Chiesa non si espresse contro le leggi razziali è che tali leggi andavano a risolvere un problema che la chiesa stessa aveva sempre denunciato e relativamente al quale

189

le leggi in questione contenevano un principio di soluzione. Un unico punto di disaccordo con le leggi razziali da parte della Chiesa riguardava l’inopportunità di negare i matrimoni misti, cioè tra cristiani ed ebrei. A guerra finita poi alcuni rappresentanti vaticani tentarono di indurre il nuovo governo a modificare le leggi razziali secondo alcune direttrici: i matrimoni misti dovevano essere riconosciuti; gli ebrei battezzati dovevano essere considerati cattolici e non ebrei; i matrimoni tra cattolici di nascita e cattolici nati ebrei dovevano essere considerati validi. Queste istanze non sarebbero state più necessarie dopo la approvazione della Nostra Carta Costituzionale, che notoriamente consente a tutti i cittadini di accedere al matrimonio. E che considera il matrimonio a certe condizioni, alla stregua di un diritto, garantito a tutti i cittadini.

Nessun commento:

Posta un commento