HINDUISMO
La realtà dell’Hnduismo oggi è una realtà complessa che non riguarda il solo subcontinente indiano, ma anche Asia, Vicino Oriente, le due Americhe, l’Australia, e infine l’Europa. Dietro il generico termine Hinduismo sono compresi anche fedeli che hanno credenze animistiche, politeistiche, panteistiche, monistiche, monoteistiche, che praticano forme tradizionali di culto o le criticano radicalmente, gli aderenti a credenze arcaiche ma anche i seguaci del neo/hinduismo e cioè dei movimenti di riforma in senso moderno nati a partire dal XIX secolo dal contatto con la cultura occidentale. Il termine con cui nel XIX secolo gli inglesi designavano questo complesso di culti e credenze derivava da “hindu”, parola di origine persiana che indica sia il fiume Indo sia, al plurale, le genti che abitano i territori che il fiume attraversa. Il termine aveva acquistato una nuova valenza sotto la dominazione musulmana. Dal momento che durante la dominazione musulmana della parte
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occidentale dell’India, i non musulmani erano tenuti a pagare una tassa, si vennero a creare due categorie di abitanti: i musulmani e gli Hindu, questi ultimi definiti “indigeni non musulmani”. Il moderno induismo, ad indicare l’insieme delle tradizioni religiose presenti su suolo indiano è l’esito di un complesso processo culturale in cui si intrecciano punti divista esterni e prese di consapevolezza autoctone.
Per secoli, prima sotto la dominazione musulmana, poi sotto la dominazione inglese, lo Hinduismo si è dimostrato una realtà religiosa capace di far convivere al proprio interno correnti e scuole religiose profondamente diverse senza che esistesse una chiesa di tutti gli hinduisti, o una unità di credo e di pratiche. Che cosa tenga o abbia tenuto insieme queste correnti così diverse ermergerà nel corso di questa sintesi divulgativa, ad esempio con la constatazione che nell’Hinduismo lo spirituale non si contrappone al reale, dato che la materia è sempre percorsa dal soffio dello spirito, e dato che il mondo della natura e il mondo divino sono legati per il tramite dell’azione sacrificale; infine dato che la morte non è che una cesura temporanea all’interno di una serie di reincarnazioni.
La storia dello Hinduismo è una storia in cui religione e politica sono sempre profondamente intrecciate dal momento che la tradizione hindu ignora la distinzione tra sacro e profano. Nonostante la religione pervada intimamente anche a livello materiale, la cultura indiana o hindu, la Carta costituzionale di cui il Paese indiano si dotò nel 1950 è fondata su un concetto di estrema tolleranza per tutti i culti, le religioni, le credenze e le pratiche sacrali presenti nel Paese, una costituzione se non laica, sicuramente policonfessionale.
Oggi i movimenti neohinduisti hanno cambiato il volto dell’India, poiché sicuramente vanno contro gli insegnamenti tradizionali ma pongono in luce che i cambiamenti nella cultura hindu fanno parte dell’hinduismo tanto quanto la continuità della tradizione.
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Religione e religioni nel mondo indiano
E’ sempre scarsamente proficuo servirsi di un repertorio di categorie nate e cresciute in Occidente per interpretare dati e fenomeni appartenenti ad altri orizzonti culturali, portatori di visioni del mondo assai lontane da quelle che ci sono più familiari. L’individuazione di una sfera religiosa indipendente da altri oggetti di studio, come “scienza”, “diritto”, “storia”, “antropologia” ecc. è avvenuta negli ultimi tre secoli. Ciò vuol dire che essa è cosa abbastanza recente e vuol dire anche che le categorie di cui lo studio delle religioni si serve deve tener conto in riferimento alle grandi culture asiatiche, di un approccio differente rispetto a quello utilizzato ad esempio per quanto riguarda le religioni e i contesti culturali occidentali.
Per limitare il discorso al subcontinente indiano a fianco di religioni come il buddhismo o il Jinismo/jainismo vi sono differenti tendenze religiose, come ad esempio quella del sikhismo dei discepoli del maestro Nanat, i quali nel tempo hanno elaborato una propria teologia e importanti strutture organizzative. Quanto allo sviluppo storico dei fenomeni religiosi che rientrano nel campo, amplissimo, dell’hinduismo, gli indologi individuano una serie di religioni maggioritarie che si sarebbero via via diffuse su suolo indiano. Più precisamente:
- A partire dal 1500/1250 a.C., supposto periodo in cui sarebbe avvenuta l’invasione degli Arya (termine che indica la aristocrazia guerriera) si avrebbe la formazione del vedismo, cioè della “religione” che si riflette nell’iniseme dei testi collettivamente noti come “Sapere” sacro (il veda) che sono i più antichi documenti sopravvissuti di una letteratura indoeuropea. Tale letteratura è presa in considerazione per questo periodo nei soli suoi materiali innologici. Gli inni erano un prezioso patrimonio trasmesso di padre in figlio nei lignaggi dei “bardi”/veggenti, poi conflutio in una serie di raccolte testuali. Tutti questi testi ricevono l’epiteto di “mantra”, cioè “strumento di pensiero/venerazione”, e di Brahman, che in origine designa la potenza impersonale, in essi residente, che ha la funzione di accrescere, attraverso
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queste forme di preghiera le figure divine lodate in statura, vigore ed efficacia. Sappiamo che alcune di loro, come Varuna, Mitra, Indra, i gemelli detti Asvin e Nasatya, sono state venerate più ad occidente, dalla elite che si impose con i suoi carri da battaglia a Nord dell’Assiria, dominando lo stato Hurrita di Mitanni/Maituni (fiorito dal 1550 al 1300 circa a.C.).
- A partire dal 700/600 a.C., insieme alla penetrazione degli Arya nella piana gangetica, il sorgere delle prime città e la costituzione delle prime entità statali nel nord del subcontinente si verificherebbe poi l’avvento del Brahmanesimo. Il Brahamnesimo è la religione delle parti in prosa delle raccolte vediche, culminanti nelle speculazioni mistico/cosmologiche delle Upanisad, una raccolta di testi esoterici. L’indiscusso prestigio goduto in questo periodo dai brahmani, custodi del sapere sacro dei veda, si accompagna l’emergere fianco a fianco delle nozioni di un assoluto impersonale formante la base sempre cangiante dei fenomeni e di un Demiurgo personale responsabile della manifestazione e dell’ordinamento del mondo.
- Nei primi secoli dopo Cristo si asserisce essere venuto in esistenza lo induismo, letteralmente la “religione”. Per comprendere a pieno il contenuto di questa etichetta, occorre fare riferimento alle vicende stroiche posteriori. All’epoca delle invasioni islamiche (X – XI secolo d.C.) e poi del dominio sull’India da parte dei vari dinasti afghani, turchi e timuridi, il termine si riferiva agli indigeni non musulmani intesi come formanti una sorta di unitaria comunità etnico/religiosa che in certi periodi veniva tollerata previo versamento di tasse assai sostanziose. Si deve a questo punto sottolineare che l’induismo è una religione a base etnica. Lo dimostra il fiorire di centri di culto non solo in India ma anche ad esempio in Nepal. L’ammissione a tali culti è riservata ai soli hindu mentre nei sono esclusi ad esempio gli occidentali.
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Il configurarsi della base etnica in questione rappresenta qualcosa di innovativo nella storia plurimillenaria del subcontinente. Prima dell’avvento dell’Islam la discriminazione fondamentale non era fra indiani e non indiani. Si distingueva piuttosto tra i pii assertori della verità dei Veda e i suoi empi negatori, mentre le scuole di questi ultimi opponevano la loro retta dottrina alle eretiche dottrine altrui. Il comune orizzonte cosmologico si limitava a contrapporre la pura e civile terra abitata formata dal subcontinente stesso, alla sua periferia ignota e impura, da dove provenivano i “barbari”. E’ signficativo che la vecchia distinzione puro/civile, impuro/incivile abbia continuato a sovrapporrsi a quella relativamente moderna tra gli hindu e gli appartenenti ad altre etnie e comunità, con i convertiti all’islam e al cristianesimo, che divengono dei fuori casta. In effetti il problema, quando si cerca di attribuire dei contenuti ideologici oltre che etnico/sociali all’etichetta “Hinduismo”, quest contenuti sono identici a quelli della Weltanshauung bramanica antecedente alle invasioni islamiche. Vi sono degli studiosi che considerano questo ultimo induisimo un induismo antico in contrapposizione ad un induismo più recente. Quest’ultimo viene poi suddiviso in induismo medievale e induismo moderno. Si introduce da alcuni per completare il quadro un neohinduismo, cioè la religione formatasi durante la dominazione inglese. Sotto questa denominazione rientrerebbero anche le opzioni sincretistiche o semisincretistiche come quella gandhiana che conoscono una larga diffusione soprattutto a partire dall’indipendenza dell’India. In quest’ultimo periodo viene a collocarsi un induismo contemporaneo in continua trasformazione. Ma oltre ad un generico induismo, gli studiosi più avvertiti sono consapevoli dell’esistenza di alcuni gruppi in sé conclusi e di carattere esoterico, circostanza dalla quale deriva la distinzione tra “induismo popolare” e “induismo smarta”, dall’autorevole corrente vedantica degli smarta, i seguaci dello smrti, la “tradizione”. A seconda del nume protettore della singola comunità di riferimento di distinguono poi:
- il “visnuismo”, la religione del Dio Visnu, talora ulteriormente suddivisa in krsnaismo e ramaismo a seconda della devozione a Krsna o Rama;
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- quella delle cinque notti, i cui esponenti venerano Visnu come “Possessore di maestà” e “Maschio supremo”;
- il proseguimento di tale esperienza da parte del Maestro Ramanuja e dei suoi seguaci, distinti in due scuole insegnanti la dottrina del “non dualismo qualificato/specificato” e assegnanti un importante ruolo di mediatrice nei confronti di Visnu alla Buona fortuna/Propserità personificata;
- l’esperienza, considerata più conforme alla tradizione brahmanica, dei ritualisti vaikhanasa probabile personificazione del pio anacoreta che si nutre scavando radici;
- uno sivaismo, la religione del Dio Siva, a sua volta distinta in:
- pasupatismo, la più antica esperienza di devozione al nume, sopravvissuta in Nepal;
- sivaismo settentrionale, di carattere non dualistico;
- sivaismo meridionale, coincidente con l’indirizzo pluralistico, detto “posizione definitiva degli sivaiti”;
- il già accennato virasaivismo/lingaiatismo;
- il nahtismo, la religione dei seguaci di Goraksa, che si distinguono per portare particolari orecchini che valgono loro l’epiteto di yogin dal lobo fesso;
A queste etichette si aggiunge talora:
- lo sivaismo generale/puranico riflesso nei Purana, testi anonimi nei quali si celebrano le grandi figure divine;
- uno saktismo, la religione della grande Dea adorata nelle vesti di Sakti o “Potenza Universale”, divisa nei due indirizzi del kaulismo ossia dei devoti di Kalì, praticanti la condotta della mano sinistra e dello “srikaulismo” proprio dei devoti della “Signora dell’Amore” detta anche “Bella delle tre città” praticanti la “condotta della mano destra”.
Teologicamente vicino allo sivaismo, lo saktismo si confode volentieri con :
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- il tantrismo ossia la religione dei tantra, i numerosissimi libri anonimi redatti in un sanscrito fitto di termini tecnici abbastanza criptici, ascritti alla rivelazione dell’una o dell’altra figura divina e assimilati agli agama (testi giunti al presente grazie alla trazione) tipici della tradizione brahmanica.
Tali testi fondano non solo la teologia e le pratiche cultuali dei sampradaya che si rifanno alla dea, ma di buona parte di tutti gli altri nonché di impotanti scuole soteriologiche non hindu, prime fra tutte quelle buddhistiche fiorite nella prima maturità del Grande Veicolo, destinate nei primi secoli dopo Cristo a fornire a gran parte delle popolazioni della Asia centrale e dell’Estremo Oriente una loro esotica nuova religione: il termine tantrismo dovrebbe pertanto riferirsi ad un movimento panindiano, in pratica coincidente a partire dal VI/VII secolo d.C. con l’intero orizzonte religioso del subcontinente.
Tutte queste etichette e denominazioni vengono peraltro rifiutate dagli intellettuali indiani di formazione non occidentale e specialmente dai già nominati smarta, i quali non scorgono validi motivi per isolare come a sé stanti quelli che considerano solamente momenti o aspetti di un’unica vicenda spirituale, eterna e atemporale, designata con l’epiteto “Dharma perenne”. Si tratta di un termine di difficile resa nelle lingue non indiane, a causa dei suoi molti significati. Il più pregnante di tali significati è quello che fa riferimento a qualcosa che sostiene, conservandolo e rafforzandolo, il fluire degli eventi della natura, sentito in collegamento con l’osservanza delle norme consuetudinarie che devono reggere i comportamenti degli Arya così assicurando la coesione del cosmo e della società umana. L’Ordine universale, costantemente minacciato dalla negatività della Menzogna, necessita di difesa da parte degli uomini. Da questa verità si passa ad una concezione più antropocentrica basata sui valori della permanenza e della saldezza.
Espressione di questa concezione è già l’epiteto eterno o “perenne” che spesso accompagna il Dharma: non alla norma in sé stessa, che in quanto tale è totalmente sottratta al divenire, ma alla sua messa in pratica nel mondo si riferisce la nozione
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del declino periodico del Dharma che lascia via via posto al suo antonimo, l’Adharma, da intendere come opposto attivamente operante come nefasta potenza di instabilità, innanzitutto sulla compagine sociale indiana, che tende a sovvertire. La categoria in discorso, cioè sempre il Dharma, non è infatti meramente brahmanica, poiché anche i maestri non ortodossi ricorrono ad essa e ne utilizzano le implicazioni di significato: ad esempio la scoperta da parte dell’asceta Gautama del vero e perfetto Dharma, coincidente con la “Bhodi” che fa di lui un “Buddha” è vista come una riscoperta.
Evidentemente il Dharma non è un mero equivalente della norma occidentale: la sua valenza di fine umano ne fa piuttosto un corrispondente delle nozioni di virtù, giustizia o bene. Nel grande poema epico dell’India, il Mahabharata la grande importanza di questi valori morali è resa attraverso vivaci discussioni fittamente intessute di florilegi gnomici, e a volte attraverso personaggi che li rappresentano. Il rispetto del Dharma ha per i credenti indù notevoli vantaggi, ad esempio la reincarnazione in corpi più longevi o in condizioni sociali più elevate.
Il Dharma è riassunto dagli attuali esponenti dell’ortodossia brahmanica in alcuni codici essenziali della visione dell’uomo e della vita la cui accettazione costituisce l’ortodossia:
- l’autorità dei veda e della tradizione che ne dipende, studiandone e ampliandone il messaggio;
- le norme religioso/etico/giuridiche, che formano i codici di condotta della società indiana nel suo complesso, così come degli appartenenti alle società castali o meta/castali;
- la metempsicosi in conformità ai meriti e demeriti dell’azione in primo luogo rituale (il “karman”) che tali codici presuppongono;
- l’esistenza di un principio cosciente individuale vivificatore del corpo che trasmigra dall’eternità ma può ottenere la liberazione tramite l’una o l’altra disciplina spirituale;
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- la dottrina della Realtà ultima fondamento di tutto, raggiunta al momento della liberazione e identificata con l’assoluto e/o con la fugura personale del Dio degli dei, indicato come Signore, operante manifestazione, conservazione e riassorbimento dei nomi e forme di cui l’universo è formato attraverso la sua sakti che fa tutt’uno con la divina potenza di illusione/magia responsabile dell’apparizione dei fenomeni.
A seconda dell’interpretazione rigorista o lassista del Sanatanadharma, dell’adesione a uno o più dei suoi punti fondamentali derivano le differenze tra induisti e anche tra induisti e buddhisti, nonché per quanto riguarda i sick e altre minoranze non atee.
Gli ambienti tradizionalisti sono meno legati alla visione degli smarta che si riconoscono senza problemi nella designazione corrente di hindu, e che sostituiscono questa nozione a quella di Sanatanadharma, con un forte legame etnocentrico e l’insistenza sugli ideali più caratteristici della prassi, come vegetarianesimo, nozze precoci e protezione degli esser viventi, in particolare la vacca considerata da sempre archetipo della purezza e dell’amore materno.
La religione vedica
La nozione di vedismo si fonda esclusivamente su un corpus di testi. Essi costituiscono una preziosissima testimonianza del mondo delle antiche letterature orali indoeuropee e si presentano nella loro forma attuale come il risultato di un processo di elaborazione plurisecolare, che ha avuto il risultato di una stratificazione assai complessa.
I testi: la Rgveda
Tra le raccolte di materiali per lo più in forma poetica in metri diversi che formano la parte più antica della “triplice scienza”, così detta in quanto relativa ai tre veda, la più importante è la “Rgveda – samhita”. Essa è destinata ad essere appresa ed utilizzata dal sacerdote detto “oblatore” che con i suoi accoliti siede a Nord della
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piattaforma sacrificale, rivolto a Oriente, cantillando di volta in volta su tre note le invocazioni rivolte agli dei e disponendo le offerte loro destinate. Si tratta di dati che fanno parte di una raccolta pervenutaci attraverso una sola linea di tradizione orale tra le ventuno che si tramanda esistessero nel passato.
Ci resta qualche traccia di una diversa e più estesa recensione o versione, della perduta branca dei Baskala. Nel suo stato attuale la raccolta comprende 10.462 strofe di lode, formanti 1017 inni, i “sukta”, più udici posteriormente aggiunti, per un totale di 153.836 parole. Questa massa di testi si articola in dieci libri contenenti materiali appartenenti a diverse famiglie, i cui nomi figurano nell’intestazione dei libri, o come dato tradizionale, o per accrescerne l’autorità.
All’interno di ogni libro gli inni sono ordinati a seconda delle figure divine cui si indirizzano con in testa sempre Agni, ipostasi del fuoco sacrificale, seguito da Indra, il capo guerriero, signore del fulmine. L’uniformità è rotta nelle parti ulteriori, evidentemente aggiunte alla raccolta in un momento in cui questa era già strutturata. E’ palese dalla stessa complessità della sua struttura che la samhita ha richiesto per formarsi un non breve lasso di tempo. La lingua delle scritture sembra piuttosto vicina all’antico persiano delle iscrizioni regali achemenidi e dell’avestico. Che almeno una parte degli inni sia riconducibile ad epoca anteriore alla migrazione in India sembra inferibile dalla scarsità di riferimenti alla geografia indiana, alla fauna e alla flora caratteristiche del sucontinente; è invece già indiano l’ambiente di altri inni che presentano allusioni agli attuali Indo e Panjab, mentre i testi in prosa appartengono al periodo della espansione nella piana gangetica (i Brahmana), con un ricco repertorio di notizie su diversi aspetti del rito e la loro eziologia, inclusa la narrazione di miti.
Il samaveda
I materiali rgvedici sono alla base del racconto della Samaveda, destinato al sacerdote, che con i suoi accoliti gira intorno alla piattaforma sacrificale,
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salmeggiando alcuni inni con caratteristiche melodie cariche di potere sacro (i saman divinizzati), talora aiutandosi con una voce esercitata, talora accompagnandosi con uno strumento a corde simile al liuto (la vina). Si tramanda un un elenco di ottomila melodie, ciascuna con il suo nome: la scala (lo yama) impiegata in esse, di sei note pure, più una, la più alta, somiglia alla scala eptagonale discendente utilizzata anche nell’antichità classica.
La raccolta comporta due grandi partizioni:
- la prima serie di strofe in cui è data solo la prima strofa di ciascuno dei 585 inni, considerata la matrice da cui nasce la melodia in cui viene intonato il testo; esso consta di quattro sezioni, le prime tre che prendono nome dagli dèi Agni, Indra e Soma Pavamana, la quarta detta Aranyaka in parte indipendente. Come appendice compaiono i “canti da cantarsi nel villaggio” e i “canti da cantarsi in luogo selvaggio”, ciascun insieme diviso in 17 sezioni; i testi degli inni sono presentati completi, e il modo in cui vanno cantati consiste nel distribuire tra il sacerdote e i suoi accoliti le diverse strofe, dotate di allungamenti, ritornelli ed esclamazioni, in cui ricorrono le sillabe sacre che sono l’essenza stessa dei mantra, tra cui primeggia il c.d. “rombo/mormorio” ossia il suono Om il quale è detto contenere in sé stesso tutti i veda.
- La serie ulteriore di strofe che fornisce i testi di 400 inni di tre strofe divisi in 21 sezioni. Come appendici si hanno, specialmente correlati ai sacrifici: i “canti della comprensione” e i canti “di ciò che va compreso” detti anche il “segreto”.
Una terza partizione, in genere omessa dalle edizioni a stampa, è detta “ serie di strofe dal gran nome”, che consta di 10 strofe. Sempre relativa al sacrificio del Soma è una parte importante del primo grande Brahmana del Samaveda, che prende il nome da Tanda, un maestro legato alla trasmissione dello Yajurveda bianco. Esso consta di 25 sezioni. Una serie di supplementi comprende:
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- Un Brahmana dalle 26 sezioni;
- Il Brahmana meraviglioso;
- Il Brahmana cantore di testi metrici, i cui ultimi otto capitoli formano l’omonima upanisad, una delle più antiche e importanti raccolte dal punto di vista speculativo.
Secondo la tradizione il grande Brahmana del Samaveda prende il nome dal sapiente Jaimini ed è anhe detto “il Brahmana dei musici”.
La sua quarta sezione termina con un componimento carico di suggestivi spunti d’una dottrina che richiama quella platonica della “dotta ignoranza” mentre la quinta ed ultima, che è nota come il Brahman dei veggenti contiene una completa enumerazione di tutte le parti del samaveda e risulta contemporanea della sua definitiva sistematizzazione.
Alquanto posteriori sono altre 13 Upanisad. Importanti testi tecnici si trovano in appendice:
- Un primo testo passa in rivista i diversi usi delle melodie, cominciando da quelli legati all’espiazione/purificazione;
- Un secondo testo contenente l’elenczione delle ripettive divinità;
- Un testo contenente le genealogie dei maestri legati alla trasmissione del veda;
- Alcuni testi sopravvissuti, essi soli, del corpus di kalpasutra del Samaveda.
Lo Yayurveda
Questo Veda è destinato al sacerdote, cui spetta il compito di apprestare l’area e la piattaforma sacrificali, ove si asside con i suoi accoliti principali e secondari, compiendo materialmente diversi atti sacrificali di cui il principale è l’oblazione delle offerte nei diversi fuochi a ciò deputati con l’accompagnamento delle formule prescritte, cantillate su cinque note. Il veda i questione consta di cinque samhita che
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a quanto sembra hanno soppiantato abbastanza presto la versione originale, che raccoglieva ordinatamente tali formule talvolta consistenti di breve o brevissime frasi, a volte di strofe o inni interi. La più vicina alla samhita originaria è probabilmente quella che prende nome dal famoso veggente Vaiasaneya, cui il Sole l’avrebbe rivelata e che ci è pervenuta nelle versioni della “branca” dei Kanva/Kanviya e di quella dei Mahyandina (i “meridionali”) le sole sopravvissute delle quindici antiche. Di queste raccolte la prima, che conta 17 sezioni, pare la più arcaica, mentre la seconda che ha soltanto 14 sezioni, mostra una struttura più accurata e sistematica. Le formule sono raccolte a seconda dei riti in cui vanno impiegate. Nelle due versioni ci è pervenuto il “Bramhan dei cento sentieri” così chiamato per le sue cento partizioni, che segue questa samhita fornendo una impressionante dovizia di dettagli mitici e simbolici. L’ultima sezione di esso costituisce il “grande Ar”. In tutti questi testi Yajnavalkya esercita il ruolo di un vero eroe del sapere brahmanico affrontando e sconfiggendo, in sfide combattute a colpi di enigmi diversi, prestigiosi avversari.
Le altre 17 Upanishad in appendice alla samhita sono tutte recenziori. Nuove upanishad continueranno ad aggiungersi al corpus che ne contiene attualmente circa 200.
La chiara distinzione tra yajus e brahmana, conforme al modello vedico ha fatto qualificare come Yajus bianco questa samhita con i testi in appendice, in opposizione a Yajus nero, formato dalle altre raccolte che pur condividendo con essa una parte dei materiali più antichi, s’allontanano da tale modello, facendo seguire di volta in volta alle formule, i testi del Brahman ad esse connessi. Di tali raccolte la prima per importanza è quella pervenutaci nella versione della “branca” degli “Aukheya/Aukhiya” e in quella dei “Khandika/Khandikiya”, sole sopravvissute tra le 86 antiche. Essa consta di sette libri ed è seguita da altri testi, contenenti formule abbastanza importanti per il loro impiego nel culto in età postvedica. La settima, l’ottava e la nona sezione rivestono un alto interesse
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speculativo. La decima sezione appartiene già in parte al mondo intellettuale visnuita.Vi sono poi altre raccolte dello Yajurveda nero che si presentano più arcaiche e meno estese. Altre 28 Upanishad fanno parte del corpus dello Yajurveda nero.
Lo Atharvaveda
Più tardiva rispetto a quella dei tre Veda finora descritti sembra esserela compilazione del quarto. La Atharvaveda ci è pervenuta nelle versioni di due branche: quella della Saunakiya, la meglio conservata e quella dei Paippalada. La prima consta di 731 inni, conglobanti circa seimila strofe spesso metricamente irregolari, di cui 1200 rgvediche, accompagnate da brevi passi in prosa, detti “periodi” e consta di 20 sezioni convenzionalmente dette “libri”. I primi sette, forse il nucleo più antico della raccolta, ospitano soprattutto una serie di formule, benedizioni e maledizioni per diversi usi. Essi sembrano essere stati ordinati secondo il numero crescente delle strofe dei loro brevi inni, per lo più ascritti all’Atharvan divino.
Il contenuto miscellaneo di questi testi è del massimo interesse per lo studio della vita quotidiana nel mondo vedico e tardo vedico. I testi in parola ci consentono di conoscere rituali che si suol definire magici, non legati ai grandi sacrifici e caratterizzati da un minor formalismo oltre che da un lessico ricco e differenziato.
I libri dal tredicesimo al diciottesimo il cui ordine dipende dalla lunghezza decrescente dei loro inni, vanno talora sotto il nome di un veggente divino e ineriscono a temi specifici.
Si ricollegano all’Atharvaveda le importanti “Upanisad degli asceti dal capo raso”, le “Upanisad delle domande” rivolte a Pippalada dai suoi discepoli, e “Upanisad della rana”, che con un repertorio di citazioni scelte disserta degli stati di coscienza e di veglia, sonno e sonno profondo, più il quarto trascendente che ad essi soggiace. A queste ne vanno aggiunte altre 29 minori ben più recenti.
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Il mondo umano
La società che i materiali vedici riflettono è entro certi limiti ricostruibile pur con gli ovvi problemi inerenti alla datazione dei testi. La società in parola ci appare articolata in unità etnico politiche dette “gentes” a loro volta suddivise in varie “popolazioni”, cui sono preposti dei capipopolo e i cui membri appaiono nel ruolo idealizzato di ricchi allevatori e coltivatori intenti a offrire ai loro ospiti festini innaffiati di idromele o da un più forte liquore, mentre si consumano carni bovine o altro tipo di carni cotte in una caldaia. Non è ignota la cittadella fortificata, talora temibile roccaforte degli autoctoni. Gli inni presentano tutti costoro come ripugnanti esseri inferiori “senza naso” o addirittura “non umani”, cioè letteralmente “non discendenti da Manu”, che non praticano sacrifici e hanno per Dio il pene. Contro di loro Indra guida le schiere dei pii Arya. A differenza degli autoctoni gli Arya vivono per lo più in sparsi villaggi circondati da mura di terra battuta. Le abitazioni, le cui parti lignee sono intagliate ad arte, vengono erette su un suolo consacrato da riti diversi tra cui i più importanti sono l’aratura simbolica a l’insediamento in scavi predisposti delle nove colonne destinate a sostenere la costruzione. La colonna centrale, la più importante, suggerisce la nozione di un pilastro/albero che sorregge il Cielo, misurando lo spazio intermedio che lo divide dalla Terra. Nella dimora, luogo degli affetti e teatro della tranquilla vita d’ogni giorno si accentra tutto ciò che è puro fausto e santo. Pura è la bocca della sposa , la ciotola dove si mangia, la terra battuta del pavimento, la vacca di famigliia con il suo vitellino; puri sono i corpi dei figli, il letto dove si dorme e si ama, le vesti (mantelli e perizomi) tessute con gusto e lavate ogni giorno, il cibo cotto o arrostito. Anche l’ambiente che circonda la casa ha un certo grado di purezza: puri sono la mano dell’artigiano, la merce venduta al mercato, l’elemosina. Puro è il vento che soffia nelle strade e la polvere che solleva, pura la luce del sole e l’ombra degli alberi, la rugiada e l’acqua pulita, attinta al pozzo o al ruscello in quantità sufficiente perché una vacca possa dissetarvisi. Lo spazio dell’abitazione e il suo sfondo, il villaggio, sono qualitativamente distinti dal
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mondo esterno, non umanizzato e temibile, visto come boscaglia incolta, popolata da fiere e mostri notturni, capaci di assumere forme diverse e bramosi di violentare o invasare le donne, facendole abortire se sono incinte: le inquietanti entità ostili da cui i fattucchieri si lasciano invasare, servendo loro di ricettacolo; i terrificanti orchi, ghiotti di prede umane, neri e vellosi, dal grugno animalesco. I mostri giallastri, quelli dal pene canino, gli spiriti che danzano come effeminati riempiendo di suoni sinistri la boscaglia; i “maleodoranti” dal volto rosso; i ventruti che danzano di notte in girotondo attorno al villaggio cantando con voci d’asino; le ombre dal naso appuntito, che si aggirano nude; i piccoli serpenti dalle due bocche, dai quattro occhi, dai cinque piedi privi di dita, che s’attorcono e strisciano e altri personaggi grotteschi senza nome.
Lo aranya è il luogo dove si ritira chi deve purificarsi per non contaminare casa e villaggio, ma anche quello ricercato dagli specialisti del rito per comunicare con i loro discepoli lontani da orecchie indiscrete, rivelando loro segreti altrimenti gelosamente custoditi, e dagli anacoreti nudi dalle lunghe chiome, che si aggirano liberi come il vento e bevono alla stessa coppa di Rudra, il misterioso nume delle selve e dei monti che qualche volta capita di intravedere ai giovani mandriani o alle fanciulle scese per attingere acqua ad un ruscello. Rudra si manifesta come Agni nell’incendio della boscaglia, che corre veloce e terribile, rosso davanti e nero alle spalle, ma anche come una figura sinistra pronta a scatenar le pestilenze con le sue frecce invisibili. L’uomo vedico e ben consapevole della fragilità della sua esistenza mondana. Il tessuto stesso di tale esistenza dipende da uno stat di purezza costante, che i riti assicurano e consolidano, contrastando i numerosi fattori di contaminazione da cui appare minacciato. Tra questi primeggia il contatto con ogni forma di sozzura. Si fa eccezione per il latte materno e per le escrezioni della vacca. Estremamente impuro è il liquido mestruale: non solo la donna deve appartarsi in questo periodo, ma chi entra in contatto con lei è tenuto ad una abluzione completa. Se la donna muore durante le mestruazioni non può essere arsa. Foriero di impurità è anche l’evento della nascita, che contamina la madre, e la casa stessa: solo dopo
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dieci giorni, dopo una prima purificazione, la donna che ha partorito e il marito possono essere toccati da estranei e solo dopo altri venti giorni sono in grado di partecipare ai riti. Impuri sono diversi animali dalle abitudini poco pulite, come i topi, così come i malati cronici e tutti coloro che hanno a che fare con la sozzura e la morte, sia per professione che per stile di vita, ad esempio i macellai o gli spazzini ma anche tanti altri; si può essere impuri a seguito di circostanze occasionali, come chi tocca accidentalmente un cadavere. Chi mangia con costoro o vi entra in contatto deve assoggettarsi a purificazioni graduate in una serie la cui complessità cresce con la complessità del rito.
Un discorso a parte meritano le trasgressioni a norme di condotta le quali comportano sanzioni in termini di sofferenza da parte delle divinità a ciò preposte, cioè il “Biasimo/Sventura”; il “Miasma”; l’”Angoscia/Ansia”, la “Pecca/Viltà” nascosta. Varuna, il custode dell’ordine cosmico e sociale è pronto a colpire con l’idropisia o altre orribili infermità non soltanto il trasgressore doloso o chi si macchia di incesto, ma anche chi ignora la propria impurità, come il figlio di chi ha commesso un atto di volontaria perfidia.
Accanto alla lotta per la purezza e non pienamente distinto da essa, sta lo sforzo per vivere una vita retta, semplice e per quanto possibile innocua; questo vale soprattutto per i brahmani, il cui ethos è al centro dei valori vedici. La importantissima forza impersonale che essi rappresentano, il Brahman che ricolma gli dèi accrescendoli e intensificandone la reale efficacia, sorregge la terra, corrobora l’ordine cosmico, libera da mali e infermità e rende immortali. Questa forza si esplica in primo luogo nei mantra dei testi vedici, ma anche nel kratu (“la potenza abilità”) facoltà che coniuga l’intelligente progettualità del comportamento e l’ispirzione che coglie con sicuro intuito i rapporti tra le diverse componenti della realtà. Non a caso “brahman” è sinonimo dell’attività sacrificale, che ai brahamani per eccellenza compete. Questa è detta, con eccessiva metafora, “fare il Brahman”. Al centro dell’esistenza sociale e rituale della famiglia del brahmano sta l’area sacra
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del focolare, immagine della terra, dove risiede Agni, in forma di tre fuochi ben distinti: ad Ovest l’Agni ancestrale che il capocasa riceve dal padre, costantemente alimentato e custodito da lui e dalla moglie, eventualmente aiutati dal figlio maggiore; da esso viene attinta la fiamma per accendere di volta in volta l’Agni oblatorio sito ad Est che è deputato a ricevere l’offerta nei vari sacrifici e il terribile Agni “cuocitore della oblazione supplementare di riso, posto a Sud a fronteggiare la morte e le entità mostruose che provengono da quella direzione, consumandole con le sue fiamme. Al fuoco domestico vanno offerte prima del pasto parti di ciò che sarà consumato, trasformandolo così in resto/sputo, alimento che si carica dell’impurità di chi lo assaggia nel caso di semplici esseri umani ma “puro/fausto” quando siano gli dèi o i maestri a ricoprire il ruolo di assaggiatori. Al fuoco si renderà omaggio entrando in casa, gli saranno presentati gli ospiti, gli verrà posto dinnanzi il beato perché lo benedica; saranno le sue fiamme, condotte alla pira funebre, ad ardere i cadaveri dei memebri della famiglia; esso riceve quotidianamente culto, a mezzo dì e alla sera, mediante il sacrificio detto “oblazione ad Agni”, al cospetto di tuta la famiglia, unitamente al Sole e, in età tardovedica, al Sacrificio personificato nel demiurgo Prajapati. E’ il sacrificante in quanto proprietario dell’offerta, a pronunciare la formula di dazione alla divinità tecnicamente nota come rinuncia o abbandono, che costituisce il momento centrale del sacrificio: “Ad Agni questo, non a me”. Competente a tale culto è solo l’uomo sposato, che al momento delle sue nozze è divenuto completo, entrando letteralmente in possesso della sua metà e acquisendo subito dopo il proprio fuoco. Il complesso dei riti nuziali, che comportano la formale identificazione dei coniugi con Cielo e Terra, culmina con l’impegno di Agni nella nuova casa. Colui che ha “insediato Agni” nella sua triplice forma è la vera fgura ideale del mondo vedico, e della tradizione che lo perpetua fino ad oggi, anche se si tratta di una figura ormai in via di sparizione. Sopravvivono su tutto il subcontinente, su una popolazione che si aggira intorno al miliardo di abitanti, solo poche decine di questi personaggi cultori del sacro, cui si guarda con rispettosa ammirazione.
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Nella tipologia assai ricca dei sacrifici, paradigma di quelli che comportano vittime è il cosiddetto “legame dell’animale”, celebrato annualmente o biennalmente con il sacrificio di un animale domestico, generalmente un capro, l’animale meno costoso e più accessibile dei cinque sacrificabili: uomini, bovini, cavalli, capri e pecore. La vittima, consacrata da una triplice circumambulazione rituale in senso orario, recando in mano un tizzone ardente è abbeverata con acqua mista a riso e orzo e accompagnata in processione essendo toccata ritualmente dal celebrante che è a sua volta toccato dal sacrificante; le formule ad essa rivolte presuppongono che sia consenziente; il palo a cui viene legata simboleggia al tempo stesso Rudra e l’ascesa ai mondi celesti. La vittima viene uccisa senza effusione di sangue (per strangolamento), indi lavata dalla moglie del sacrificante, dopo di che viene eseguito lo squartamento secondo regole assai minuziose.
Il sacrificio più importante dell’intera gamma vedica è quello del Soma, tra le cui varianti la più rilevante è quella denominata “lode ad Agni”. Si tratta di una complessa serie di riti obbligatori e facoltativi che richiede una preparazione minuziosa e l’intervento di tutti e sedici gli officianti vedici; si vede messa all’opera l’intera gamma del sapere vedico per conquistare al sacrificante l’immortalità e il luminoso mondo celeste, come egli dichiara: “Io vincerò la morte” e “Dalla menzogna vado alla verità, dall’umano al divino”. La forma più semplice di immortalità è la generazione di una prole virile, in grado di nutrire il genitore una volta defunto e gli avi, dimoranti nel mondo lunare, con offerte di palline di cibo e acqua, rito che si rinnova ad ogni plenilunio.
Altro tipo di sacrificio è quello attraverso cui si persegue una vera e propria rinascita in un corpo immortale cui sono fnalizzate tutte le fasi del sacrificio: colui che offre la “lode di Agni” viene assoggettato innanzitutto, insieme alla moglie, ad una iniziazione/consacrazione che richiede la dimora prolungata in una capanna completamente chiusa, identificata con l’utero; qui rimane con i pugni chiusi avvolto in una pelle di mrga (antilope), che rappresenta la placenta, e al termine del
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periodo trascorre la notte tra le gambe della moglie, ma senza unirsi a lei, che rappresenta sua madre. Al momento di predisporre il nuovo fuoco destinato a ricevere l’offerta, egli soffia sulla fiamma, indi l’aspira mettendo l’immortalità nel suo soffio. Acquistato il Soma per il prezzo di una vacca bruna, in una transazione simbolica, la pianta divina che serve a compiere il rito è condotta al suo seggio e vi riceve culto. Nei giorni successivi possono aver luogo riti addizionali, ma solo se il celebrante ha già almeno un volta celebrato un rito di “lode ad Agni”.
Ma torniamo al sacrificio di lode ad Agni. Dopo il sacrificio di un capro alla coppia Agni e Soma viene il giorno solenne della spremitura che ha luogo cinque volte la mattina, cinque il pomeriggio e due la sera. Il succo divino, spremuto grazie a una mole di pietra e fatto pasare attraverso un filo di lana riscaldato fino a renderlo bollente, scende in goccioline luminose in un recipiente che già contiene dell’acqua consacrata, apportando purezza, fecondità e salute. Dopo essere stato offerto ai diversi membri del “pantheon” vedico, ciò che resta del liquido è bevuto dai brahmani presenti e dal sacrificante divenuto uno di essi durante il rito, anche se fosse di nascita meno illustre. Grazie alla comunione con il Soma, che è il nettare dell’immortalità, tutti sono ormai assimilati alle divinità e partecipano della loro condizione beata. Divenuta sempre più rara la pianta, l’effettiva consumazione del prezioso succo sarà in prosieguo di tempo riservata ai soli brahmani, fino a cadere in desuetudine il rito che la prevede.
A fianco degli specialisti del sacro, il primo posto nella società vedica è riservato ai membri delle famiglie di nobili guerrieri (gli “ksatria”), nel cui seno sono scelti i re, coadiuvati da “capi/orda” e “capi/armata”. Si tratta di mortali/giovani detti “laceratori/lupi”, caratterizzati da capelli lunghi intrecciati e da stendardi a forma di drago, che combattono talora nudi. L’arma per eccellenza del mondo vedico è l’arco, impiegato da guerrieri rivestiti di cotte metalliche che si spostano su leggeri carri da guerra trainati da veloci corsieri e guidati da prestigiosi aurighi. Gli inni che si occupano della benedizione delle armi e dei cavalli ci forniscono in proposito una
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ricchissima nomenclatura e possiamo ricostruire alcuni riti dedicati al combattimento, in cui il fuoco nella sua forma più sinistra è acceso con archi e frecce, o proviene dal rogo funebre di qualcuno ucciso con un solo colpo, mentre si invocano entità terrifiche come la Folgore, i serpenti “dai tre nodi”, e Arbudi, i Dio del tumore e la dea Paura/Diarrea personificata, affinché colpiscano il nemico.
Il re è, a parte i brahmani, il sacrificante per eccellenza. In età tardovedica egli riceve l’investitura con un sacrificio gigantesco ed estremamente costoso detto “generazione del re”, attraverso il periodo di un anno, periodo che si apre combinando una serie di riti, a cominciare dalla “lode ad Agni” e per finire con l’”aspersione”, fastosa cerimonia in cui vengono utilizzati diciassette liquidi, specialmente acque di diversa provenienza, che hanno il potere di rendere il futuro re simile al Dio Varuna, detentore della sovranità, come fase preliminare alla identificazione con le figure più importanti del pantheon. Tra i momenti più significativi sono: quello in cui il monarca, avendo impugnato arco e tre frecce in segno di vittoria nelle quattro direzioni dello spazio, a braccia levate impersona l’axis mundi; quello in cui egli conquista simbolicamente, con calzature in pelle di cinghiale e montato sul suo carro da guerra, una mandria di cento vacche; e quello in cui sconfigge giocando a dadi, il purohita. Quest’ultima impresa serve a dimostrare la propria superiorità sugli stessi brahmani.
Esiste una certa rivalità tra brahmani e ksatrya, fondata sulla legittimazione che entrambe le categorie si contendono, ad acquisire e diffondere il sapere sacro.
Ma torniamo a parlare del re, la cui apoteosi è il sacrificio del cavallo che risale al remoto passato indoeuropeo ed ha paralleli in Iran, Roma, e in Irlanda. Nella versione vedica questo rito sancisce la superiorità di un rajan sui vicini: la vittima designata, cui è stato fatto bere il Soma e che impersona il Sole e lo Ksatra, è lasciata errare per un anno, circondata da una mandria di cento cavalli castrati e scortata da quattro centurie di giovani guerrieri che devono prevenire ogni danno ad essa, impedendo che si bagni in acque impure, che cammini all’indietro o che si
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svirilizzi accoppiandosi con qualche giumenta; hanno anche il compito di evitare che ipotetici nemici umani o superumani se ne impadroniscano; se nessun tentativo del genere ha luogo, il signore delle terre attraversate dall’animale in parola si sottomette implicitamente al re sacrificante. Nel sacrificio vero e proprio, che dura tre giorni e impegna trentasei adhvaryu prendono parte anche le quattro mogli del re. Tutte queste donne d’alta condizione sociale cui si aggiunge una fanciulla vergine compiono nove volte la circumambulazione del cavallo dopo che questo è stato immolato insieme a 600 vittime minori, sfiorandolo con il lembo della veste e mormorando una invocazione a Indra capo delle armate; ciò simboleggia i tre mondi (Terra, Spazio, Cielo), le sei stagioni di cui si compone l’anno indiano e i nove soffi vitali che animano il corpo. A questo punto la popolazione si accoppia simbolicamente con il cavallo, simbolo del potere regale, mentre ha luogo uno scambio di battute oscene tra le quattro mogli del re e la vergine. L’impurità del linguaggio è poi rimossa da tutti recitando un’invocazione al Sole albeggiante in forma di cavallo. Seguono altri riti, tra cui una giostra di enigmi a contenuto cosmologico che impegna gli officianti ed il re e una nuova aspersione o intronizzazione di quest’ultimo seguita dalla recitazione fatta da un cantore del mito di un antico sacrificio umano, officiato da insigni veggenti di cui sono citate cento strofe da inni diversi. La situazione ricorda quella di Abramo e del figlioletto Isacco: il re Hariscandra bramando la nascita di un figlio, ha fatto voto al dio Varuna di sacrificarglielo, purché glielo accordi. Nasce il principe Rohita, Varuna reclama invano la sua vittima; dopo ripetute dilazioni egli colpisce il re spergiuro con l’idropisia. Rohita trova una vittima sostitutiva: il giovane brahmano Sunahsepa, che tuttavia essendo noto autore di inni vedici, ottiene la propria liberazione e la guarigione del re e viene infine adottato da Visvamitra. Il frutto del sacrificio del cavallo è veramente universale: grazie ad esso il sacrificante regale attinge il dominio del mondo, si libera da ogni forma di impurità inclusa quella più terribile, derivante dall’uccisione di un brahmano e, naturalmente vince la morte.
Il mondo divino
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La nozione di Dio si definisce innanzitutto nel mondo dei Veda, in opposizione alla normale condizione umana: a differenza degli uomini gli dèi hanno conseguito l’immortalità, non hanno bisogno di dormire e neanche di battere le palpebre; come i morti essi non gettano ombra, sono invisibili agli occhi mortali; amano ciò che è segreto, indiretto, misterioso, i nomi il cui senso non è immediatamente evidente; anche se sono in grado di esplicare attività antropomorfiche come il cibarsi o l’accoppiarsi, la loro identità sfuma in una pluralità di manifestazioni: hanno in effetti persone/corpi altamente differenziati, uniti o divisi a seconda delle circostanze, collocate in sedi celesti, terrestri e aeree, identificate di volta in volta con elementi del rito, inclusi mantra, metri e melodie nonché con esseri umani peculiari come il sacrificante. Gli dèi sono per eccellenza polimorfi, sono in grado di presentarsi sotto spoglie umane o ferine. A differenza di quanto avviene in alcuni pantheon indoeuropei, le figure divine del mondo vedico presentano sovente una certa imprecisione di contorni e sono facilmente confondibili nell’aspetto esteriore le une con le altre. Ciò è sottolineato dal fatto che, nella prospettiva vedica, nominare un essere divino equivale a crearlo o manifestarlo; il brahman, non solo incita gli dèi ma li genera e li mette in moto; di questo fatto saranno ben consapevoli in età classica gli esponenti della prima esegesi vedica i quali si spingeranno ad affermare che gli dèi esistono soltanto in quanto nominati come destinatari delle offerte nei mantra. Diverse divintà si presentano come la mera personificazione di un epiteto indicante la loro funzione. Ciò è vero anzitutto per i numi minori: è il caso ad esempio del “carpentiere” che lavora i feti umani e animali, che spinge ad azioni positive e vivifica gli esseri con la sua benefica potenza. Costoro sono identificati di volta in volta gli uni con gli altri e tutti con il Sole, che è impersonato da un gruppo di figure spesso non sovrapponibili. L’effetto differenziatore/teopoietico del linguaggio è ben presente ai veggenti e ai teorizzatori del rito.
Tuttavia in molti testi emerge la consapevolezza o convinzione che gli dei siano in defintiva le differenti manifestazioni di un unico principio divino, l’Atman presente
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in ciascuno come l’immortale fondamento vitale degli esseri tutti. Tale consapevolezza ha un indubbio valore salvifico, perché consente a chi ne coglie il senso di scoprirsi uno insieme alla realtà sacra che è una nelle molteplici manifestazioni.
Di qui il ruolo di tentatori assunto dagli dèi nei confronti di chi si sforzi, attraverso l’ascesi e lo studio, di pervenire alla consapevolezza che tra uno e molteplice non esiste differenza. Malgrado i diversi tentativi di organizzazione del pantheon vedico testimoniati dai brahmani, tuttavia, la sua struttura resta abbastanza fluida. Mentre alcuni grandi dèi come Agni, Soma e Indra sono al centro dell’attenzione negli inni di tutte le famiglie di veggenti, altri sebrano oggetto di interesse più settoriale, o perché effettivamente di minor rilievo o perché patrimonio peculiare di certe famiglie soltanto. Così ad esempio Grtsamada e i suoi accordano speciale importanza al “Signore del Brahman”, laddove i Bharadvaja fanno lo stesso con Pusan (“il Nutritore”) e i Vasista con la coppia Mitra e Varuna.
Il contrapporsi e sovrapporsi del ruolo cosmogonico e della regalità di questi ultimi due dèi a quello di Indra può essere segno di una certa concorrenza tra visioni rivali del mito. Mitra e Varuna sono in effetti parte diun antico miraggio indoiranico; essi figurano nel pantheon dell’Iran prezoroastriano, se è lecito vedere nel composto “Mithrahura” il secondo nome, Ahura quale equivalente iranico di un epiteto normalmente applicato a Varuna nei Veda: “Asura”, il cui senso etimologico sembra indicare una connessione con la forza/spirito vitale. Si tratta di un epiteto attribuito in tempi più risalenti ad altre figure divine, tra cui il Sole e lo stesso Indra ma in seguito limitato a una cerchia di dèi primevi spodestati dagli dèi in senso proprio in un conflitto che ricorda, mutatis mutandis quello tra dèi e titani nei miti ellenici. Mentre nell’India tardovedica l’opposizione “Deva – Asura” vede i primi come benefiche entità di luce e i secondi come forza del male, in Iran i termini sono rovesciati: l’unico Ahura Mazda che ci appare è un Varuna ingentilito e spiritualizzato in lotta contro i Daeva, sinistri destinatari di sacrifici impuri.
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Nel’ottica vedica la temibile potenza degli déi non è appannaggio esclusivo di Varuna ma certo costituisce il tratto dominante della sua personalità, assieme alla Maya. Strettamente connesso al cielo notturno e alle acque che diverranno la sua sfera esclusiva di dominio in età postvedica, questo nume inquietante, che gli inni descrivono come ampli/veggente o addirittura “dai mille occhi” si circonda di spie/sorveglianti che invia in Cielo e in Terra affinché controllino la condotta umana. Egli punisce duramente chi ha contravvenuto alla legge cosmica, lo Rta. Varuna intesse la trama di questa legge con la punta della sua lingua e ne è il custode geloso; neppure un battito di palpebre ha luogo senza che egli lo sappia, discerne la via degli uccelli nell’aria, delle barche nell’acqua, né le azioni compiute né quelle non compiute, per quanto segrete, gli sfuggono; quando due siedono in conciliabolo Varuna, come terzo invisibile, è presente. Egli è la morte. Gli inni magnificano la sua sagacia e ingegnosità, lo presentano come il re/vate per eccellenza. Il peccatore cerca di eludere con dichiarazioni di pentimento e di innocenza il suo Intelletto/corruccio che è detto acre e terribile. Ma Varuna è soprattutto il legislatore universale, “dai saldi decreti”: né uomini, né animali, né dèi si sottraggono alle sue norme, nessun uccello può volare abbastanza lontano da evitarne l’applicazione. Le sue norme regolano Luna e Stelle, il fluire delle fiumane, le nubi che rovesciano la pioggia, lo star saldi di Terra e Asterismi. Con Mitra egli è custode dei giuramenti. L’opposizione/complementarità tra Mitra e Varuna è giocata specialmente su quella luce/tenebre: Mitra è l’autore del giorno, Varuna della notte; al primo sono sacrificate vittime bianche, al seondo nere; il primo domina sulla durata della luna chiara, l’altro su quella scura; il primo può essere considerato la forma diurna del secondo. Varuna diviene la sera Agni e si ridesta al mattino come Mitra. La personalità cupa e inflessibile di Varuna, il suo legame con l’oscurità, la morte e l’infermità contrastano col carattere rude e gentile del suo compagno, che ne placa la crudeltà e collabora con zelo assiduo alle attività connesse al buon funzionamento dell’Universo. Varuna presenta un elevato grado di cosmicità: il vento è il suo respiro, il sole è il suo occhio, ma anche il messaggero dalle ali d’oro
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che egli ha inviato e il metro con cui si misura la terra, ritto in piedi nello spazio che la divide dal cielo, spazio che egli e Mitra hanno dilatato.
Il tipo divino di Indra è piuttosto diverso. Indra, è vero, viene lodato come un formidabile combattente su carro, un eroe archetipale strettamente connesso alle potenze impersonali che operano nella sfera bellica. Gli inni alludono alle sue vittorie su molti antagonisti sovrumani. Correlativamente al ruolo del guerriero “magico” Indra riveste aspetti molteplici: quello del cervo, del toro, dell’ariete, dello sciacallo. Il suo appetito sessuale è gigantesco: dotato di mille testicoli e di estesa virilità egli feconda tutte le femmine, umane o animali esercitando una funzione di maschio universale che non ha paragoni nell’orizzonte vedico.
Indra è anzitutto per gli Arya un paterno protettore, che al loro fianco sconfigge in battaglia gli autoctoni. Egli distribuisce ai suoi seguaci fedeli vacche da latte e cavalli a cento e a mille, villaggi, vesti e animali preziosi. Inoltre è un potente guaritore, ad esempio resuscitò i Vaikhanasa, un popolo di combattenti. Questa virtù appare simile a quella che consente a Indra di condurre presso di lui i guerrieri morti in battaglia per essere amati dalle Apsaras, fanciulle che vivono sulle nubi. Questo iter dei defunti, successivo al rogo funerario, nei periodi astrali propizi, evita che essi siano costretti a reincarnarsi.
La vicinanza di Indra agli uomini, la sua benevolenza, la positiva inclinazione morale per quanti gli sono cari sono lontanissime dalla severa imparzialità di Varuna. Tuttavia anche quest’ultimo esercita importanti funzioni cosmiche: rinsalda la terra, tende su di essa il cielo. La vittoria su Vrta tagliato in due ha la funzione di separare per l’appunto Terra e Cielo e a far apparire il Sole. E’ però Indra a porre il latte nelle vacche, a tendere nel cielo il suo arco multicolori, a versare dalle nubi lacerate dal fulmine la pioggia, fecondando la terra come toro che impregni una vacca. Indra è assai spesso associato ad Agni, che è considerato un suo gemello. Con Agni Indra condivide il colore rosso di capelli e barba nonché dei cavalli aggiogati ai loro carri d’oro; entrambi vengono invocati prima della battaglia, e se
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vittoriosi recano a lui i loro sacrifici di devozione. Nel mito Agni presta a Indra valido aiuto nella lotta contro Vrta e arde per lui le 99 cittadelle di Sambara. Il fulmine è una delle manifestazioni di Agni, quella che egli assume tra cielo e terra. Indra intrattiene relazioni non meno importanti con il Soma. Fu lui a scoprire questa pianta divina. In un inno famoso il Dio ne aprrezza gli effetti mirabili se trasformata in bevanda.
Lo induismo
Testi e dottrine
L’impiego della categoria induismo è soggetto a numerose cautele, in quanto essa categoria ricopre un universo estremamente composito e discontinuo. I confini dell’oggetto in discorso sfumano nella considerazione di quella intera serie di culture e società che si sono divise nei milllenni il vasto subcontinente indiano: la storia di queste è spesso tutt’uno con la storia religiosa, ammesso che abbia senso parlare di religione in riferimento all’orizzonte culturale dell’India. La domanda che dobbiamo anzitutto porci è: dove risiede nella visione indiana l’autorità? Manca infatti una Chiesa codificatrice di precetti e verità di fede che convalidi il corpus biblico fissandone il canone e dettandone l’interpretazione; manca un apparato legalista quale è ad esempio quello islamico. La tradizione antichissima dei Veda è stata di volta in volta affidata alla memoria degli dèi in terra, quali sono considerati i brahmani. Costoro rappresentano la prosecuzione di un’ antichissima figura indoeuropea di detentore del sapere sacro rigorosamente orale. Correlativamente alla trasmissione del patrimonio vedico ancestrale, loro retaggio in quanto discendenti dei gotra facenti capo agli antichi veggenti, i brahmani hanno praticato da tempo immemorabile i rituali connessi al Brahman. I brahmani stanno al di sopra dello stesso re: al momento dell’intronizzazione lo presentano al popolo con la formula: “Oh re, ecco il tuo popolo; oh popolo ecco il tuo re!” I brahmani non hanno re e infatti il loro re è di solito il Dio Soma. La figura del brahmano quale essa ci è
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descritta nei trattati e nell’epica contrasta in modo significativo con i quadretti realistici affidati al teatro e alla narrativa. Da una parte troviamo personaggi ieratici, che ad uno stile di vita semplice e puro accompagnano una istintiva mitezza e un profondo rispetto della verità, interamente assorti nelle occupazioni cultuali e culturali; dall’altra sono descritti come esseri vili, altezzosi, ignoranti e superstiziosi, rapaci e voraci. Tipicamente viene loro riservato il ruolo del buffone e del parassita, una maschera comica che sembra ripresa da modelli della Nuova Commedia Attica, introdotti dai greci della Battriana insieme ad altre convenzioni come l’uso del sipario.
Non mancano tracce di polemiche fra brahmani, in base alle quali i brahmani dell’ India nord/occidentale accusano i loro omologhi bengalesi di rilassatezza e li considerano impuri e solo “sedicenti brahmani”. Siffatte tensioni sono una spia della frammentazione della gerarchia induista, priva di un centro e di un capo che ne assicuri l’unità. La normativa di matrice brahmanica sottolinea comunque senza distinzioni di sorta il ruolo prestigioso di questi specialisti del sacro, promulgando un’impressionante serie di trattamenti preferenziali destinati ad onorarli. Il brahmano è il destinatario perfetto del dono, in forma anzitutto di cibo, poi di bestiame bovino, terre e oro. Le terre di proprietà dei brahmani che possono comprendere interi villaggi devono corrispondere gli abituali tributi direttamente ai brahmani i quali vanno esenti da ogni tassazione. In materia penale, i delitti commessi contro di loro vanno sanzionati con pene più severe del normale, mentre quelli di cui essi stessi si macchiano meriteranno un’ammonizione severa a non ripeterli o, nei casi si maggiore gravità, la prigione, il disonorevole marchio a fuoco e l’allontanamento dal regno, conservando però i loro beni intatti. In nesun caso li si può torturare, mutilare e tanto meno giustiziare. Ciò risponde ad un sana prudenza: la pericolosità dei brahamani discende dall’energia accumulata mediante le pratiche ascetiche e rituali (il “tapas”, letteralmente calore) che essi possono convogliare a favore del proprio patrono ma anche contro di esso, così come dal loro dominio della Parola, che in certo senso essi incarnano nell’orizzonte umano. Se contrariato
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il brahmano potrebbe ardere il monarca e tutti i suoi sudditi con le sue temutissime maledizioni. Sono queste le “esternazioni o giuramenti”, che tramite la esatta formulazione delle conseguenze minacciate, impegnano gli dèi e il cosmo stesso a realizzarle, pena il rendere mendace chi per tutta la vita ha rigorosamente affermato l’abitudine alla veridicità. Talvolta la formulazione delle esternazioni e sotto condizione, in modo da lasciare una via di uscita al destinatario, costringendolo in pari tempo ad ottemperare ad un certo modello di condotta. Ciò mette in relazione la pratica in discorso con la solenne enunciazione che caratterizza i voti (i “vrata”, cioè letteralmente decisioni, comandi), altra essenziale manifestazione di volontà con efficacia sacrale, con cui l’enunciatore lega sé stesso piuttosto che altri. La massima considerazione è goduta dai brahmani immigrati nell’India dravidica a partire dai primi secoli d.C. su invito dei dinasti locali, desiderosi sia di rafforzare il carisma del loro potere adottando lo stile vedico settentrionale per i riti legali, sia di procurare officianti di alto prestigio al nascente culto templare da essi attivamente incoraggiato. Considerando impure le regioni a sud dei monti Vindhya, i brahmani famosi interpellati da quei monarchi aderivano malvolentieri a tali sollecitazioni e soltanto la garanzia di un trattamento onorevole aveva ragone delle loro reticenze. Il risultato di ciò è una forte selezione della elite brahmanica importata dalle regioni settentrionali: pochi e veneratissimi, i brahmani che si stanziano nei secoli nel Sud del subcontinente sono in genere ricchi e circondati di mille premure, attivi nella produzione di una copiosa letteratura dotta e devota, tanto in lingua sanscrita quanto in vernacoli locali, di contro ai confratelli poco o affatto abbienti che restano a vegetare in gran numero nella piana gangetica. E’ questo contesto sociale peculiare, che potremmo definire “medioevo indiano”, a partire dal secolo XI quando il Nord vacilla sotto le invasioni musulmane, mentre nell’India meridionale le monarchie locali continuano a sostenere politicamente i brahmani, mettendo atto anche misure restrittive a tal fine, ad esempio il divieto di camminare nella stessa strada dove sta camminando un brahmano, comminato a pena di morte alle persone di basso rango sociale che contravvengano a tali prescrizioni.
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In età anteriore durante i periodi “preclassico” e “classico”, cioè prima e dopo il III e IV secolo d.C., l’impronta culturale data dall’ortodossia vedica conviveva più facilmente con i prodotti di scuole soteriologiche più o meno eterodosse, i cui maestri spesso erano di origine brahmanica. La diade formata dai brahmani da un lato e dagli asceti dall’altro, appare una costante del panorama culturale indiano. L’opposizione dei due elementi della diade è tale che la loro incompatibilità è divenuta proverbiale: in ambiente brahmanico viene usato come esempio scolastico di una contraddizione in termini. Ma la contrapposizione riguarda anche i più recenti asceti che si riconoscono nel culto vedico tradizionale. Tali personaggi condividono in alrga misura il successo goduto dagli operatori tradizionali del sacro, in seno ai quali compiono il più delle volte la loro formazione, ma al contempo rivaleggiano con costoro per le conoscenze segrete di cui si dichiarano detentori, formando un patrimonio spirituale che è ben al di sopra dell’establishment brahmanico. Tali conoscenze risalgono ad una figura tradizionale di Guru che si ricollega alla tradizione ancestrale del patrimonio vedico. Il Guru è un maestro brahmanico che concretamente opera la trasmissione del brahman nella più diffusa accezione del termine, quella consistente nei veda, conferendo il cordone sacrificale al discepolo al momento della iniziazione che conclude il periodo dell’alunnato e mormorando al suo orecchio il mantra, che egli dovrà ripetere continuamente e quotidianamente un alto numero di volte per tutta la vita. E’ questa la seconda nascita che abilita i maschi delle tre sezioni superiori della società indiana al culto quotidiano del fuoco assieme alle loro consorti. Fin dall’età tardovedica a questo ruolo di iniziatore alla vita rituale si sovrappone quello di detentore della Conoscenza salvifica, che impartisce ai discepoli spiritualmente maturi tale sapere alto e segreto, concernente il Brahman in quanto Assoluto. Possedere davvero tale sapere significa compenetrarsi di esso, scoprendo il Brahman nel fondo di sé stessi, anteriore all’individualità empirica ed unico fondamento di questa, così come del resto del cosmo. Fonte di autorità allo stesso modo dei Veda è l’esperienza vissuta dal Maestro che ne riattualizza nei millenni la parola ancestrale. La trasmissione dei
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mantra e delle formule che comunicano tale scoperta del Brahaman si traducono in qualche cosa di simile al rito di iniziazione, ma qui il cordone sacrificale viene simbolicamente arso: l’iniziato diviene un morto vivente, soggetto a severe interdizioni, ad esempio la rigida osservanza della castità che costiusce il proprium dell’asceta non meno che dell’alunno brahmanico. Giova notare che quando accade che un maestro, un Guru, giunge alla consapevolezza del suo essere uno con l’Assoluto tale Guru o maestro non è più un semplice essere umano: dalle sue labbra parla lo stesso mistero ultimo, nei gesti opera con infinita efficacia la Potenza/Energia della Divinità suprema.
Un Guru, cui può far capo una serie di successivi Maestri, iniziati ciascuno dal proprio predecessore, può attrarre a sé una comunità di discepoli che si riconosce nei suoi sublimi insegnamenti, che gli rende culto in quanto “Discesa” nel mondo dell’una o dell’altra figura divina, talora identica alla divinità suprema, talora subordinata e insieme coordinata a essa in un rapporto privilegiato.
La smrti
Generiche nozioni e considerazioni relative alla prassi ascetica sono abbastanza diffuse e traggonola propria voce nell’estesissimo corpus anonimo, aggiornato e rimaneggiato nel secoli in cui la tradizione brahmanica ha calato i suoi ideali. Si tratta dei testi della Smrti (lett. “memoria), un termine reso dagli studiosi con “tradizione”, giacché ad essa è affidato il compito di continuare e chiarire la rivelazione vedica chiamata “sruti” (lett. ”audizione”) perché appresa ascoltandola e ripetendola sillaba per sillaba ai piedi del Maestro: fuori dal suo contatto con i Veda la Smrti non ha alcuna legittimazione. E’ la Smrti che traduce in precetti ed esempi chiaramente applicabili il linguaggio arcano e i miti desueti che fanno parte di tale dato, che dona forma ed attributi alle figure divine oggetto dell’adorazione del popolo. Alle fonti della Smrti si richiamano in modo esplicito le comunità dei devoti appartenenti ai sampradaya in cerca di un aggancio con il passato per le loro costruzioni dottrinarie, pur non esitando a manipolarle e integrarle per esigenze
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apologetiche: oggetto di un consenso importante da parte delle comunità dei devoti, il corpus in discorso può essere avvicinato nel suo aspetto “scritturale” in contesto indiano ai poemi omerici ed esiodei nel mondo ellenico, o ai testi biblici in quello cristiano.
Nel continuare la tradizione vedica, nel corso dei secoli ed anche ad oggi, le varie scuole vediche hanno associato una serie di testi che si avvicinano molto alla Smrti in riferimento al loro contenuto, ma che sono in certa misura attenti alle esigenze di un mondo urbano in rapida trasformazione che si contrappone alla immobilità dei villaggi. I nuovi trattati vogliono servire da ispirazione alla legislazione positiva, certo soggetta a continue variazioni rispetto a questi modelli ideali. Il re è al centro della società indiana, e deve attenersi alle rigide regole giuridico/sacrali che essa centralità comporta.
A dispetto delle evidenti differenze di ambiente e di epoca i testi che regolano con le loro prescrizioni anche la condotta dei re fanno parte di un corpus compatto e coerente. Il lavoro di confronto e di armonizzazione condotto su questa letteratura, intrapreso da generazioni di commentatori, è portato a termine in età postclassica da tutta una serie di redattori attraverso la compilazione di un notevole numero di “digesti sul Dharma”, vere enciclopedie giuridico religiose.
La cosmogonia
Da tempo infinito si succedono fasi di manifestazione/emanazione e di latenza/riassorbimento del cosmo. Durante lo stato di latenza tutte le cose sono ridotte allo stato seminale dove dimorano sottratte alla conoscenza. Al cessare del periodo di latenza avrà luogo un nuovo sprigionamento di esse ad opera del Demiurgo che le emetterà a partire dal suo stesso corpo. Egli innanzitutto emana le acque, in cui depone il proprio sperma: grazie a questa unione neasce un uovo d’oro dai mille raggi, entro il quale il demiurgo stesso prende da sé nascita in forma di Brahma. Brahma è dotato di quattro volti che guardano verso i punti cardinali: dalle
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quattro bocche enuncerà i quattro veda. Dopo essere rimasto per un secolo nell’uovo, Brahma lo spezza e ne esce: della parte superiore egli fa il mondo celeste, dell’inferiore quello terreno, mentre in mezzo pone lo spazio che li divide: il trimundio e l’uovo primordiale coincidono, talché l’universo continuerà ad essere chiamato uovo di Brahma. Da Brahma si sviluppano in due serie parallele i sensi e i loro oggetti che a loro volta producono elementi sottili a partire dala cui combinazione si formerà tutto l’edificio cosmico. La sistematizzazione di questo schema cosmologico ha le sue basi nella visione tardovedica, e costituisce territorio comune per diversi indirizzi di pensiero. Ma continuiamo con la descrizione cosmogonica che i testi sacri indiani hanno consolidato.
Dopo aver creato i cieli e la terra, Brahma procede a manifestare gli dèi, i misteriosi esseri primigeni, poi tutti gli altri esseri divini, individuabili sulla base di caratteri specifici. La serie delle realtà divine manifestate dal Brahma/Demiurgo, comprende da un lato Tempo, Asterismi, Pianeti, Fiumane, Oceani, Monti e Terre. In vista della differenziazione degli esseri in dipendenza delle loro azioni il nume provvede a dar vita alle coppie di opposti, ad esempio Dharma e Adharma e ad attribuire a ogni specie vivente attitudini e qualità sue proprie. Per quanto riguarda l’origine dell’umanità, Brahma genera dalle sue diverse membra i quattro gruppi sociali. Egli si scinde altresì in due metà, maschile e femminile, dal cui accoppiamento nasce Viraj che ricorrendo ad un non meglio precisato Tapas, ottiene da quest’ultimo la facoltà di generare con il pensiero lo stesso Manu, il quale accopiandosi con sé stesso produce a sua volta dieci veggenti, detti Prajapati, deputati alla generazione di tutti gli esseri, divini, semidivini, umani e animali. Il gruppo dei Prajapati dà origine ad una serie di antiche figure rappresentative di “principi fondamentali”. Alcuni di questi antichi personaggi rinunciano a partecipare ulteriormente al processo cosmogonico per perseguire la Gnosi liberatrice. Essi sono gli iniziatori della strada che mena a questo fine tramite la rinuncia alle attività mondane. L’antagonismo Rudra/Siva che corrisponde al dualismo distruzione/riassorbimento del cosmo è direttamente opposto al Demiurgo e al suo ruolo realizzatore e attualizzatore del
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cosmo. A volte Siva è richiesto da Brahma di collaborare nel processo cosmogonico, ma declina tale onore, invitando il Demiurgo a farsi da sé degli esseri destinati alla mote e alla sofferenza: per parte sua egli sarebbe disposto soltanto a creare esseri immortali e liberi. Ultimata la manifestazione del mondo, Brahma si riassorbe di nuovo in sé stesso divenendo invisibile ma continuando a controllare lo sviluppo del corpo.
La cosmologia
La serie di entità via via manifestate sembra corrispondere alle 14 emanazioni dagli elementi primigenei: queste formano una scala discendente di mondi/regni. Si comincia con gli otto mondi divini. Essi sono, in ordine discendente:
- Il mondo dello stesso Brahma dove il Dio dimora al vertice del proprio uovo/universo.
- Il mondo delle genti che comprende coloro che ricoprono la carica sacerdotale, cioè i brahmani.
- I capi delle precedenti categorie, la cui forza mantrica è grande.
- Gli immortali.
- Il mondo del potere ascetico, i cui abitanti dominano anche gli elementi sottili e godono di una chiaroveggenza molto vicina all’onniscienza.
- Il mondo della Verità, sublime dimora di esseri immateriali, che permangono fino alla fine del mondo, in diversi stati di coscienza rarefatta corrispondenti a quelli raggiunti da alcune categorie di meditanti.
Il gran mondo del Prajapati i cui divini abitanti si nutrono di meditazione e vivono cento ere cosmiche, è ripartito in cinque cieli.
Il gran mondo d’Indra dove il re degli dèi e le schiere che lo attorniano siedono in gloria circondati dalle bellissime Apsaras e godendo di piaceri raffinati, e anche di quelli del sesso. In questa celeste sede si trovano 5 gruppi di beati: coloro che sono stati “assaggiati dal Fuoco della pira funebre”; “quelli di Yama”, primo re e primo
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morto, figlio del Sole e fratello di Manu; gli “appagati” tra cui secondo il buddhismo dimorano i futuri Buddha; “coloro che attendono al dominio di creazioni mentali proprie” e coloro che attendono le creazioni altrui.
Il mondo dei Padri/Mani che sono gli antenati defunti, ma che si presentano come una particolare categoria di esseri divini e invisibili che si muovono invisibilmente sulla terra.
Il mondo dei Gandharva, una elegante stirpe di geni aerei musici e guerrieri, che si accompagnano alle Apsaras.
I regni degli Yaksa, in origine ninfe silvestri e/o dei Naga, i cobra divini, esseri ricchissimi di tesori.
Il regno dei Raksas, mostri nottivaghi e antropofagi.
Il regno dei Pisaca, anche essi ripresi dalla ricca demonologia vedica, le cui abitudini repellenti li avvicinano ai parassiti animali.
A questi mondi o regni si aggiunge quello umano che coincide con la pura terra abitata dagli Arya; questa è in età più antica tutt’uno con il territorio mediano compreso tra Himalaya e i monti Vindhya dove alligna l’antilope nera.
Nella cosmologia mitica, il cui modello è stato introdotto in Occidente nel VI secolo dall’alessandrino Cosma Indicopleuste, le nozioni geografiche sono pesantemente condizionate dall’immagine simbolica del mondo, secondo cui il subcontinente sarebbe l’ultima propaggine di un più vasto continente del Sud che prende nome da un colossale albero di melarosa dai frutti grandi come elefanti che si erge sopra le pendici meridionali del monte Meru, sito a Nord della catena dell’Himalaya, e che si presenta in forma di immensa piramide rovesciata a base quadrangolare, con il vertice che penetra negli inferi e nei regni sotterranei fino al fondo dell’uovo di Brahma. Attorno alla stella polare che sovrasta l’albero girano gli astri nel loro
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corso e sull’ampio altipiano si erge la dimora terrena di Brahma, circondata dalle città degli Dèi custodi dei punti cardinali e intermedi.
Alla base del monte Meru si stende una immensa massa continentale da cui si dipartono diversi subcontinenti. Tutto attorno è l’oceano salato, circondato da una serie di sette continenti anulari e oceani alternati, fino alla catena esterna dei monti Lokaloka (“del mondo e non mondo”).
Al mondo terrestre appartengono 5 “matrici ferine”:
- Gli animali puri domestici, atti al sacrificio.
- Quelli selvatici, che a volte sono assimilati ad esseri semidivini.
- Gli alati, cioè uccelli o insetti volanti;
- Gli striscianti, rettili o insetti terrestri;
- Gli stazionari, cioè tutti i vegetali, dall’albero secolare al filo d’erba.
Sempre il testo preso a esempio per la redazione della presente sintesi distingue nove classi di creature.
- Primo insieme, livello infimo: vegetali, vermi, insetti, pesci, serpenti, tartarughe; a livello mediano elefanti, cavalli, servi e barbari impuri, leoni, tigri e cinghiali; a livello superiore menestrelli vaganti, paksin, ingannatori abituali, Raksas e Pisaca.
- Secondo insieme, livello infimo: mazzieri, lottatori, pugili, mimi/attori, armigeri, giocatori, ubriaconi; livello mediano: re, nobili guerrieri; professionisti del dibattito; livello superiore: spiriti delle grotte, Gandharva, Yaksa, accoliti degli dèi e Apsaras;
- Terzo insieme, livello infimo: asceti , brahmani, genii su carri aerei, asterismi lunari e Asura; livello mediano: sacrificatori, Veggenti, Dèi; livello superiore: Brahma e Prajapati, il Dharma personificato, il Mahat personificato, la “Natura” immanifesta.
Le età del mondo
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Il periodo in cui il mondo è manifesto e quello in cui esso rientra nello stato di latenza sono il giorno e la notte di Brahma, ciascuno della durta di 1000 yuga (lett. “generazioni”) degli dèi; ognuno di questi consta di quattro sub/yuga che si succedono con durate descrescenti, secondo un modello di decremento della durata della vita e della rettitudine umane in ciascuno di essi che richiama le età esiodee dell’oro, dell’argento del bronzo e del ferro. Le età sub yuga sono:
- L’era perfetta di 4000 anni degli dèi, durante la quale nel mondo regnano il Dharma, la veridicità e il Tapas e nessun bene è ottenuto ingiustamente dai mortali, che vivono ottenendo tutto ciò che desiderano.
- L’era della tripletta, di 3000 anni divini, durante il quale la pratica della virtù cessa di essere spontanea, mentre l’acquisizione del sapere diviene il valore più alto per gli uomini, la cui vita è di tre secoli.
- L’era del “punteggio doppio”, di 2000 anni divini, allorché il sorgere delle passioni comincia a incrinare pericolosamente l’osservanza dei doveri e il sacrificio viene considerato il bene primario dai miseri mortali, ridotti a vivere solo 200 anni.
- L’”era del puntaggio singolo o perdente” di 1000 anni divini, che è l’età presente di spontanea peccaminosità, in cui i beni sono ottenuti tramite furti, frodi o violenze, mentre l’elemosina resta l’unico atto virtuoso e l’umanità, afflitta dai mali, arriva nel caso più felice ad un secolo di vita.
Questi periodi di quattro subyuga vengono preceduti e seguiti da un crepuscolo di altri 1000 anni divini, raggiungendo un totale di 12000. Ciascun anno consta di 360 giorni divini, pari ognuno ad un anno umano. Ne risulta che il giorno di Brahma consta di 4.320.000.000 di anni e lo yuga degli Dèi 4.320.000 di anni mentre l’attuale età del mondo è di 432.000. La periodizzazione della storia umana in ricorrenti cicli di progressivo declino non è un dato reale solo per alcuni indù, ma anzi essa è stata accettata praticamente da tutte le tradizioni indiane, ed elaborata con un’impressionante dovizia di sinistri dettagli per ciò che tocca l’età attuale e il
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futuro sempre più cupo che attende il mondo nei prossimi millenni, attingendo largamente a temi di critica sociale combinati con l’esperienza dolorosa del caos prodotto dalle invasioni straniere che più volte flagellarono il subcontinente. Come conseguenza del decadimento che è proprio della Kali Yuga, memoria e intelligenza degenerano, salute e longevità sono sempre più compromesse: alla fine la vita media si riduce a venticinque anni o meno. Mendicanti e finti asceti sono dappertutto, come cavallette, tentando di procurrsi il loro vitto quotidiano con ogni sorta di espedienti e contribuendo con la predicazione di false dottrine all’immoralità generale. La ricchezza diviene l’unico metro per misurare virtù e nobiltà di ciascuno, la forza è ormai il solo criterio di giustizia. Anche i sedicenti dotti badano soltanto a gratificare ventre e genitali. Le donne di piccola statura raggiungono precocemente la pubertà, partoriscono a sette anni infanti deboli e malaticci, dominano con lussuria i mariti, li odiano e sono adiate da loro. Non vi è più rispetto per gli anziani che vengono uccisi o abbandonati in tarda età. La generale degenerazione coinvolge anche gli aspetti istituzionali della società: i re e i nobili guerrieri sono i primi a scomparire, poi anche i ricchi e generosi vaisya vengono meno e restano soltanto gli impuri sudra, i fuori casta e i barbari, cui si mescolano brahmani degenerati, che fanno commercio dei veda e si improvvisano maestri di dottrine eretiche. Tutti costoro dominano spietatamente le miserabili popolazioni, sottomettendole a tasse sempre più onerose, e opprimono la terra con il fardello dei loro peccati e della loro tirannide, fino a farle invocare l’aiuto di Visnu. E’ questo il momento dell’ultima discesa del nume, destinata a verificarsi sul finire del kali yuga. A tal proposito l’epica indiana predice che nella città di Sambhala un brahmano di nome Kalki/Kalkin, che, a capo di una pia armata di brahmani farà strage di barbari e banditi, ristabilirà la monarchia universale, celebrando il sacrificio vedico di un cavallo, e dopo aver donato la terra ai suoi seguaci, al termine di un regno prospero e felice si ritirerà nella selva a concludere i suoi giorni nella meditazione. Come sembra logico attendersi, diversi re liberatori dell’India da invasori stranieri sono stati identificati con Kalkin.
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In via definitiva i sopravvissuti alla terribile guerra che concude il Kali yuga sono trasformati, la loro mente torpida e opaca di fa intelligente e limpida come cristallo di rocca i loro corpi sono risanati ed essi divengono il seme dell’età futura che vivrà serena e virtuosa nel mondo tornato all’antica armonia. L’”età perfetta”, cioè quella che gli antichi greci chiamavano “età dell’oro”, viene concepita in due modi possibili: o una società gerarchica ideale in cui ciascuno conosce il suo posto e adempie esattamente i doveri fissati dal suo dharma di casta e stadio di vita, o nel modo di un primordiale stato di innocenza dove ogni differenza sociale o individuale è bandita dalla storia e dalla civiltà. Ci troviamo di fronte ad un richiamo al tempo stesso allo stile di vita ascetico e a quello idilliaco del “buon selvaggio”: aggirandosi sereni e senza incombenze di sorta sulle sponde di oceani di vino, latte o succo di canna da zucchero, godendo della visione continua e diretta degli dèi, assai longevi o addirittura immortali, immuni da malattia e vecchiezza, beneficiando di un clima mitissimo, questi abitanti dell’altro mondo si nutrono di frutti cresciuti spontaneamente dalla terra o fanno a meno di qualsiasi cibo e osservano la più rigorosa castità. Essi hanno tutti la stessa veste, o ne fanno a meno e rispondono esattamente ad un unico tipo fisico. L’uniformità si spinge fino a che tutti gli individui sono dello stesso sesso. E’ frequente nelle fonti brahmaniche la descrizione del passaggio da una tale età al duro modo di vivere sociale in dipendenza da una specie di peccato alimentare originale. Secondo un mito narrato nel Canone Pali, degli innocenti esseri primordiali, asessuati, che fluttuano sospesi sulla terra illuminando le tenebre con i loro corpi spirituali, assaggiano la sostanza ctonia fatta di sapore e odore e divengono terreni perdendo la loro luce. Compaiono solo allora il Sole la Luna e gli astri. Un processo di inarrestabile decadenza porta alla istituzione del coito e poi del matrimonio, alla nascita della proprietà terriera, al furto, alla menzogna e alla fondazione della monarchia. Le origini del potere regale vengono ricondotte ad un mitico patto con cui gli uomini, stanchi della anarchia, scelto uno di loro tra i più meritevoli si impegnano a versargli sotto forma di tasse una cospicua quota dei loro redditi e gli riconoscono il monopolio della
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costrizione/punizione, simboleggiata dallo scettro. Il mondo civile dell’India, una volta assoggettato al monarca, diviene il luogo delle differenze individuali, che alimentano la varietà dei comportamenti e ne dipendono a loro volta.
Il Karman e le rinascite
La concezione, largamente diffusa tra gli indoeuropei, del periodico rinnovarsi o rinascere del macrocosmo appare riflettersi in quella realtiva al microcosmo individuale, che vede nelle nuove nascite il ritorno dei defunti. Questa concezione si ritrova in differenti culture, anche molto lontane tra loro nel tempo e nello spazio. Nel quadro indiano tardo vedico è prescritto alla futura madre di cibarsi di una porzione di riso bollito con latte e burro strettamente collegata all’offerta, destinata ai morti deceduti da un anno, del “pinda”, ossia di una passerella sferica fatta con gli stessi ingredienti. Tale offerta, che ha luogo insieme a quella dell’acqua serve a porre in essere per i defunti che non essendo in grado di seguire la via che mena agli dèi sono ridotti a prendere quella che mena ai padri, è una sostanza di fruizione sottile tramite cui essi potranno godere di una serena esistenza nel mondo lunare. Quando, per il venire meno delle offerte tale corpo decada sempre dal mondo lunare, ricadrà sulla terra sotto forma di rugiada, allorché la Luna si svuota nella seconda metà del mese. Qui penetreranno nelle piante e verrano assunti insieme ad esse piante da madri umane o animali che se ne ciberanno, tornando poi a generarli come figli. Questo modello di rinascita che è possibile ricostruire almeno nelle sue linee generali, presuppone una visione del mondo che attribuisce grande importanza alla risicoltura. Pare che in base ai riti descritti si possa prescindere dal ruolo generativo del padre. Se, come sembra, sono le preferenze della madre per cibi puri ad assicurarle una prole eletta, vi è però da considerare anche l’idea che il ciclo delle reincarnazioni non dipende totalmente dai riti messi in atto dalla gestante, in quanto le rinascite dipenderebbero prevalentemente dai comportamenti tenuti dal nascituro nella vita passata. Un esempio di tale concezione è quella espressa da Manu che enucia una nutrita serie di trasgressioni commesse nelle precedenti vite, ciascuna
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con il suo contrappasso in forma di nascite non desiderabili o di difetti congeniti, secondo una logica semiproverbiale. Si possono citare lacune di queste trasgressioni e relative rinascite in altre forme:
- L’uccisore di un brahmano rinasce nell’utero di una cagna, d’una scrofa, d’un’asina, di una cammella, d’una vacca, d’una pecora, d’una cerva, d’una donna della spregevole casta dei candala tra cui si reclutano macellai, carnefici o becchini, o dei selvaggi pukkasa;
- Un brahmano che si macchi di furto d’oro rinasce per mille volte ragno, serpe, lucertola, coccodrillo o pisaca.
- Il ladro di gemme, perle, coralli e simili nescerà nell’utero della moglie di un orefice;
- Il ladro di granaglie rinasce topo, quello di miele tafano, di latte corvo, di carne avvoltoio, d’olio scarafaggio, di frutta e radici scimmia, con lo stesso sesso di quando era essere umano;
- Chi manca ai doveri del proprio stato rinasce come servo di coloro che erano i suoi peggiori nemici nell’ultima esistenza umana;
- Chi insozza con l’adulterio il letto del maestro rinasce per cento volte erba, cespuglio, liana o carnivoro.
Tutto ciò dopo un congruo periodo di supplizi infernali. Uscito dal proprio corpo il morto è preso in consegna dai messi di Yama, figlio del Sole, che ha le funzioni di giudice dei trapassati, e che separa i peccatori, precipitati in un oscuro e terribile mondo infero, dai probi, che assistono ad una serie di visioni paradisiache. Per quanto riguarda sempre i peccatori, essi sono afferrati dai messi del Signore degli inferi, e collocati nel posto che spetta loro a causa delle cattive azioni commesse in vita. Dato che le azioni umane sono per loro natura limitate, le pene che esse meritano hanno durata finita, ancorché estremamente lunga. I dannati infernali stanno al polo opposto dei beati, e sono condannati ad restare per un tempo
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determinato ciascuno in un proprio inferno, la cui collocazione dipende dai peccati commessi in vita considerati nella loro specie e gravità.
Gli aforismi della prima esegesi
Ascritti al veggente Jaimini, si tratta di 2621 aforismi estremamente concisi. In essi il Dharma è ridotto in modelli di comportamento, in primo luogo rituali ma anche attinenti alla vita quotidiana, contenenti comandamenti sia positivi che negativi. Ad esempio la formula “chi brama il mondo celeste sacrifichi”, implicitamente insegna: che esiste un mondo celeste; che esso è attingibile post mortem; che il sacrificio è un mezzo adeguato per tale fine; che v’è un modello di condotta sacrificale suscettibile di essere meso in atto; che tutti questi gesti, parole ecc., benché vengano meno appena pronunciati o eseguiti lasciano comunque delle tracce. Tuttavia la ragione è assolutamente inetta a provare, partendo da dati di fatto, che un certo comportamento vada o non vada osservato, in assenza della parola dei Veda. Pertanto i Veda, unico e solo supporto dell fede sono eterni, come eterno è lo stesso Dharma. In particolare eterni sono: le proposizioni vediche, le parole che le compongono e i fonemi di queste ultime, sottratti nella loro realtà trascendente e perenne alla vicenda del prodursi e del venir meno dei suoni che servono a manifestarle in un certo tempo e luogo; tali proposizioni sono prive di autore umano e dunque esenti dai difetti eventualmente dipendenti da limiti ed errori del parlante. I Veggenti odono nella propria meditazione questi enunciati impersonali e li trasmettono ai loro figli e discepoli, ma non ne sono gli autori.
Eterni sono i referenti delle parole vediche, inclusi i nomi propri di uomini e divinità, ridotti a meri epiteti, ed eterna è la relazione che intercorre tra tali parole e i referenti, la quale non nasce da alcuna convenzione umana, ma viene appresa insieme allo stesso linguaggio sacro durante l’alunnato brahmanico.
Da ultimo eterno è il mondo così come lo conosciamo, perché da sempre e per sempre devono esistere coloro che tramandino i Veda.
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La seconda esegesi
La tradizione di coloro che tramandano i Veda è concepita come seconda tradizione vedica, la quale si fonda su delle opere che contengono 554 o 555 sutra, raggruppati in quattro 4 adhyaya ciascuno suddiviso a sua volta in 4 pada (si tratta di partizioni che si fondano su una struttura estremamente ordinata e a carattere discendente, dal maggiore al minore). Questi componimenti sono dedicati: alla concordanza; alla non contraddzione con le dottrine tradizionali; all’approccio meditativo al Brahman; al frutto della conoscenza del medesimo. Gli argomenti affrontati sono in totale 191, in altrettante sub sezioni comprendenti uno o più aforismi. Il Brahman è definito come “ciò da cui procedono, nascita, permanenza e riassorbimento di questo universo e dei suoi esseri”: si tratta di una realtà cosciente e divina, che manifesta spontaneamente l’universo. La metafora impiegata per tale suo ruolo è il gioco, unica attività umana senza fini estrinseci.
Un primo commento ai veda non ci è pervenuto. Pare fosse stato elaborato da un famoso grammatico, autore di tre centurie di strofe gnomiche e di un trattato sulla proposizione e sulla parola, che consta di 700 strofe divise in tre sezioni, nella prima delle quali egli discetta sul Brahman. Questo è presentato come la parola/linguaggio trascendente, eterno principio di tutto, di cui la Om costituisce l’enunciazione perfetta. E’ tale verbo trascendente che attraverso l’intervento del tempo, si manifesta nel mondo sotto forma di diversi oggetti che servono da referenti della sua dimensione lessicologica. Il Brahman, dice l’autore, è uno e molteplice: l’unità è la sua forma suprema, presente come universale nella serie delle infinite forme particolari in cui si fenomenizza, e che in essa si riassorbono al loro venire meno: tali forme costiuiscono il suo aspetto esteriore, altrettanto reale dell’altro, quello interiore.
Il più antico commento sopravvissuto è quello del cosiddetto “Aquinate d’India”, un brahmano ritenuto il fondatore di 5 grandi centri cenobitici i cui aderenti formano la spina dorsale della tradizione dei portatori dei “dieci nomi”, corrispondenti alle dieci
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branche dell’ordine ascetico correlato a tali centri. Alla figura dell’Aquinate d’India sono attribuiti più di 400 testi tra cui commenti ai sacri testi e alcuni trattati in versi; ma in gran parte si tratta di inni devozionali indirizzati a diverse figure divine, tuttora cantati nelle festività e cari anche a coloro che con non condividono la dottrina in essi contenuta. Questa scuola ritiene che il Brahman è totalmente sottratto a pensiero e linguaggio e non si può predicare di esso: che è o non è; che è uno o molteplice; che è dotato o privo di attributi; che conosce o non conosce; che è creatore o causatore o inattivo; che ha o non ha effetti; che ha o non ha causa; che è piacere o agio/dolore o disagio; che è o non è centrale rispetto alle altre cose; che è vuoto o nulla o non lo è; che è trascendente o immanente.
D’altra parte esistono anche attributi con cui dire “che cosa è”: eterno/permanente; puro, limpido, non mescolato, intero, santo,vero; “Buddha” cioè un qualcosa che è soltanto coscienza ed eterna visione, illuminante di volta in volta gli stati mentali che si susseguono dinanzi al suo sguardo immutabile e sereno di testimone; liberato, sciolto, d’una libertà che si tratta di scoprire più che di attingere.
Solo allorché il Demiurgo, al termine della sua lunghissima vita, entrerà nel Brahman riconoscendo la propria identità con esso, gli abitatori del suo paradiso ne seguiranno il destino, in una apoteosi collettiva che è detta “liberazione graduale” per distinguerla da quella in vita, acquisibile mediante la meditazione, che opera come attività propedeutica al sorgere della conoscenza salvifica, contribuendo a purificare la mente in vista di essa.
Altra scuola tradizionale è quella che si basa su un “Testo autorevole della tradizione”, un breve trattato di 215 strofe ripartite in 4 adhyaya. Si tratta di una riutilizzazione di modelli dialettici tesa a dimostrare l’irrealtà del mondo e dei processi causali che in esso si manifestano.
Più importante è il contributo di un autore di cui restano due trattati: la “Dimostrazione dell’esistenza dello schiudersi”, di incerta definizione e la “Dimostrazione dell’esistenza del Brahman”.
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Altre scuole e altre opere minori vanno considerate come sviluppi di quelle elencate e ne riprendono in vario modo le tematiche.
Ultima delle scuole più rilevanti è quella che ha dato luogo all’asserzione, in contraddizione con le scuole precedenti, che il mondo non è illusorio e la mente e il corpo imprigionano il sé individuale nei loro angusti confini. Solo una attenta combinazione dei riti, conoscenza e meditazione sull’aspetto trascendente del Brahman può affrancarlo da questa condizione anchilosata: alla morte il liberato si dilaterà divenendo onnisciente e onnipotente come il tutto cui ha fatto finalmente ritorno.
Il mahabarata
Altra fonte della smrti (tradizione) sono i testi dell’epica, raccolti nel duplice insieme di Itihasa e Purana che vengono accostati già in età tardo vedica a formare il quinto Veda, patrimonio degli aurighi reali, consistente soprattutto in canti di lode delle gesta degli avi delle diverse famiglie della nobiltà guerriera e che erano recitati in occasioni solenni legate ai riti della regalità. La raccolta di questi materiali prese certamente molti secoli. Il processo era già ininziato fra l’VIII e il VI secolo a.C., quando troviamo la menzione di un testo chiamato Bahrata. La stesura dell’opera è limitata al solo argomento principale, di 24.000 strofi, opposta alla redazione concisa, di 8.500 e diffusa con tutti gli episodi collaterali, 100.000 strofe, divise in cento sezioni o libri raggruppate in 18 libri maggiori. La redazione definitiva di questo gigantesco poema è ascritta all’opera di un Dio, probabilmente Visnù, per l’opera di sistematica revisione dei materiali vedici che gli viene attribuita. Altri testi assai rilevanti nella tradizione hindu sono il Brahamasutra (VI/VII secolo d.C.) e gli Yogasutra. Sta di fatto che l’epica, in quanto forma letteraria risale, in India, ad un remoto passato indoeuropeo, e quindi che sia estremamente antica. Sono notevoli altresì alcune somiglianze con l’epica scandinava, e con la tragedia greca, insieme ai racconti dell’antica Persia. Il principale scritto epico indiano è il Mahabarata, ed è anche il più ricco di episodi, come ad esempio quello della grande guerra, che
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accomuna il testo sacro in parola ai miti ricorrenti in altre civiltà, come accennato poco sopra. Come avviene nei poemi omerici il sostrato narrativo e figurativo è quello di monarchi regnanti in un ricco e raffinato ambiente urbano coincidente con il bacino occidentale del Gange dove si affrontano in un conflitto che oppone popolazioni ben note dell’India intera. Si tratta in realtà di un passato immemorabile proiettato nel quadro indiano familiare degli uditori di età classica e dei secoli immediatamente precedenti e successivi ad essa età.
L’ingentissima massa di varianti e integrazioni al Mahabharata ne fa una gigantesca enciclopedia del sapere sacro e profano del mondo indiano, fissato nella forma che era venuto assumendo tra il V secolo a.C. e il V sec. d.C.Tuttavia il vero tema dell’opera è ben individuabile: esso è costituito dalla riflessione sul complesso delle norme che devono guidare il comportamento regale, insieme ai principi etici cui tale comportamento deve essere ispirato. I re sono chiamati ad accumulare ricchezze, e a conservarle con zelo implacabile e ad ampliarle anzi, attraverso la pratica della guerra. Tutto ciò finché un re dei re si impadronirà dell’intera terra civilizzata, corrispondente al subcontinente indiano, facendo cessare la lotta di tutti contro tutti. Tuttavia chi cerca il potere per il potere è spregevole e merita di essere soppresso, come empio e uccisore di brahamani, mentre chi si conforma al più alto ideale morale è degno di ogni lode. Il re è dunque tenuto ad una condotta virtuosa, che deve concretarsi specialmente nella generosità verso i brahmani: la armonia tra costoro e la nobiltà guerriera è necessaria al successo di ogni impresa regale, particolarmente nella lotta contro i nemici. Tuttavia corrono alcune differenze tra le due categorie: mentre la nobiltà guerriera si indigna di fronte al male, desidera la gloria e il valore guerriero come imperativi assoluti, dal loro canto i brahamani conducono una vita mite e pura, che si ispira agli deali più elevati, quali:
- La compassione.
- L’innocenza.
- La fedeltà alla verità.
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- L’umiltà.
- La pazienza.
Nel Mahabharata un grande re, dal nome Yudhisthira, incarna perfettamente i valori brahmanici, e continua a praticarli anche dopo varie disavventure, che sono assai minutamente descritte nell’opera di cui si parla. Yudhisthira sarà infine costretto dalle circostanze a tradire la fiducia del suo anziano maestro Drona, comunicandogli la falsa notizia che il figlio prediletto dell’anziano maestro fosse morto, ciò che determina conseguenze tali sulla personalità di Drona che quest’ultimo si lascia uccidere in battaglia senza opporre resistenza. E’ per tali motivi che Yudhisthira non riuscirà a vivere fino in fondo il ruolo assegnatogli fin dalla sua nascita, cioè la condizione regale, e solo gli sforzi congiunti dei fratelli e di Krsna riusciranno con fatica a dissuaderlo dall’eludere i suoi obblighi regali e dal ritirarsi in un eremo silvestre.
Il punto più alto del Mahabharata è sicuramente costituito dalla Bhagavadgita, definita, per il prestigio incomparabile di cui gode in ogni età, il “Vangelo dell’India”, insieme con le Upanishad e il Brahmasutra. Oltre ai testi canonici cioè largamente accettati di queste opere ci restano tracce di redazioni anteriori. La Divinità suprema del Mahabharata e della Bhagavadgita, quale indicata dalle due opere in parola, coincide col Brahman il quale a sua volta è considerato il creatore di tutto ciò che esiste: il Sole tra i luminari celesti, la luna tra gli asterismi; i Veda; Indra tra gli dèi, insieme a Visnù, Siva, Agni, Brhaspati, Bhrgu; la coscienza/ragione; il monte Meru tra le vette; l’Oceano tra le distese d’acqua; la sillaba Om tra i mantra; la ripetizione dei nomi divini durante i sacrifici; il leone tra le fiere; il Gange tra i fiumi; il lancio dei dadi tra i giocatori, il coraggio tra i prodi, il silenzio tra i segreti. L’assoluta imparzialità di questo principio universale nei confronti delle vicende dei singoli viene ad incrinarsi, allorché il Brahman può essere attinto dal singolo fedele, e mediante sacrifici propiziatori instaurare con esso un rapporto privilegiato. Se le buone azioni compiute vengono offerte in oblazione
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al principio divino, il fedele è in grado in tale modo di far cessare il ciclo delle rinascite.
Accanto a questo insieme di materiali mistici e profondamente religiosi è evidente l’apporto di una antica scuola visnuita, scuola detta anche, soprattutto dai suoi detrattori, dei “Satvata”. Il nome sotto il quale essa è più nota è quello di Pancaratra, cioè “del periodo di cinque notti”, durante le quali cinque autorità con i loro insegnamenti fondano il sapere sacro della sua tradizione: la notte di Indra, quella dei Veggenti, quella di Siva, quella di Brahma e quella di Brhaspati. Questa tradizione ha prodotto un imponente corpus di letteratura in sanscrito comprendente 225 testi sacri. Tra questi si distinguono quelli di origine divina, quelli enunciati dai veggenti vedici e quelli riconosciuti opera umana; ciascuno si divide in quattro sezioni rispettivamente finalizzate ad esporre la conoscenza, l’azione cultuale, lo Yoga e le regole di condotta: tale quadripartizione è caratteristica di tutta la scuola tantrica. Le dottrine più caratteristiche si accentrano nella figura di Visnu, concepito insieme a Krsna, come unico signore di tutto. La tinta della pelle del Dio è blu notte; a sinistra del petto di Visnu è presente un neo cruciforme da cui esce un ciuffo di pelo dorato che simboleggia la “Natura” primordiale; al centro del petto è posta la “gemma dell’Oceano” di latte, nettare di immortalità; le quattro mani recano altrettante armi che, personificati, sono altrettanti esseri divini cui spetta in proprio un culto. Più astrattamente il Dio è contraddistinto da sei aspetti o attributi preminenti:
- La conoscenza.
- La potenza.
- La signoria.
- La forza vigore.
- La virilità.
- La gloria.
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E’ a partire da questi elementi che verrà costituendosi nei secoli l’imponentissimo corpus mitologico indiano, cui ogni generazione ha apportato un proprio contributo innovatore. Da notare che anche gli dèi, sebbene tanto potenti quanto il loro aspetto potrebbe far supporre, muoiono e secondo una concezione diffusa tra i buddhisti e i jainisti, non sono sostituiti nella loro carica da altri dèi.
Una rivisitazione del Mahabharata è lo Harivamsa, una rivisitazione del testo visnuita, cioè sempre il Mahabharata, un’opera di circa 16.000 strofe ripartite in tre grandi libri.
Più antico, almeno nel suo nucleo essenziale, sembra essere il famoso Ramayana. In 24.000 strofe il poema sviluppa le peripezie del principe Rama. Figlio prediletto del re Dasaratha, Rama è costretto a recarsi in esilio silvestre a causa della matrigna Kaikeyi, la giovane seconda moglie del padre. Quest’ultimo morirà di dolore a causa della lontananza del suo successore designato. Nei suoi vagabondaggi nelle terre del Sud, Rama si imbatte in un meraviglioso cervo dalle corna d’oro, ed è allora che la amatissima sposa Sita gli viene rapita dal terribile Ravana, un mostro dalle dieci teste, che la condurrà nell’isola di Ceylon e lì la terrà prigioniera, fin quando Rama non organizzerà un potente esercito che libererà Sita e distruggerà il mostro dalle dieci teste.
Il poema, Ramayana, tratta essenzialmente del mondo umano, e in confronto alla vastissima tela del Mahabharata, la trama del Ramayana appare relativamente semplice e compatta. Una volta compiuta la propria missione di liberazione di Sita, e dopo averne accertato la castità mediante un’ordalia, Rama abbandona con i suoi sudditi il proprio corpo e ascende al Cielo, conducendo i propri seguaci ad essere partecipi della sua apoteosi.
Per quanto riguarda le altre fonti della letteratura religiosa indiana, un consistente peso hanno i Purana. Si tratta di una letteratura anonima originariamente orale, le cui parti o frammenti vengono recitate in occasione di solennità o festività familiari. Grandissimo peso hanno nella redazione di questi testi anche le tradizioni locali
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relative ai diversi santuari e luoghi sacri. I tentativi di stabilire un canone per i Purana, sono spesso caduti nel vuoto a causa della estrema varietà ed entità del materiale. Una rudimentale partizione delle tematiche e dei contenuti dei purana, è la seguente:
- La cosmogonia.
- Il rinnovarsi del processo cosmogonico.
- Le stirpi o “genealogie”.
- I 14 intervalli dei Manu, che dividono i diluvi periodicamente ricorrenti.
- Le gesta delle dinastie.
In una diversa direzione procede il tentativo di fornire un canone tassativo dei “Grandi Purana”, comprendente 18 titoli, per un totale di quasi mezzo milione di strofe. Sta comunque di fatto che la tradizione o per meglio dire “le” tradizioni dei Purana sono molteplici, anzi quasi infinite. Ed è per questo motivo che tentare di classificare l’immenso patrimonio “Puranico” è un’impresa quasi impossibile ed quindi inutile che si proceda nello scritto in parola alla trattazione di tutti i tentativi di ordinamento e catalogazione, quando non di classificazione filologica, dei testi della tradizione.
L’Hinduismo come prassi religiosa
E’ cosa nota anche ai non hindu che la società indiana è organizzata sulla base del sistema delle caste. La casta è un gruppo sociale chiuso al quale si appartiene quasi esclusivamente per nascita, che comprende più famiglie ed è spesso correlato ad una occupazione, pratica l’endogamia e il comportamento dei suoi membri è condizionato da precise norme igieniche e di commensalità. Il sistema hindu delle caste, strutturato almeno apparentemente sulla base di una gerarchia costruita sulla base della purezza rituale, è venuto formandosi nell’arco di molti secoli attorno a due concetti espressi dalle parole “varna” e “jati”. La parola varna significa “colore”, poiché ogni casta ha un proprio colore identificativo: i brahmana adottano
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il bianco; gli “ksatrya” ossia i principi guerrieri e i nobili di altro rango militare adottano il rosso; infine i “vaisya”, cioè i comuni indiani adottano il giallo.
La parola “jati” significa “nascita”, sulla cui base si determina la appartenenza ad una casta piuttosto che a un’altra. E’ chiaro che tutte le caste sono caratterizzate da un rigido senso di conformazione personale a quelli che sono i doveri e le prerogative della casta di appartenenza. Anche i brahmani non compiendo i sacrifici nei modi e nelle maniere dovute secondo i testi e la prassi, possono essere assimilati ai sudra, cioè decadere dal proprio rango. E ciò vale per tutte le caste. L’appartenenza ad una casta tuttavia non si fonda su una occupazione o un mestiere specifici, ma sulla ottemperanza “spirituale” ai propri doveri parimenti spirituali.
Le ricerche relative a tali tematiche, per quanto ampie e variegate, hanno portato a due differenti conclusioni: quella che ha visto la casta come lo specchio di una situazione di diseguaglianza sostanziale e quella che l’ha intravista come costruzione culturale. La seconda interpretazione del fenomeno castale implica la sintonia di ogni casta con ciò che gli hindu definiscono “Dharma”, ossia la norma cosmica che rende ogni cosa ciò che essa è e che gli hindu ritengono sia anche alla base del sistema castale. Connesso alla struttura castale è il concetto di “separazione”, cioè il concetto e la prassi secondo cui non bisogna “mescolare i varna”, cioè le caste.
Occorre ancora aggiungere che i primi tre varna, costituiscono al loro interno altri jati ossia forme di nascita inferiore, il che sarebbe a dire delle sottocaste. Il quadro non sarebbe completo se non facessimo un riferimento ad un’ultima componente della società hindu, ossia a coloro che sin dalle origini erano esterni alla società hindu e dall’altro coloro che ne sono stati banditi, sia per nascita sia per aver mancato ai propri doveri di appartenenti ad una casta ben determinata. Tutti costoro sono considerati “avarna” cioè privi di un colore. Si tratta delle popolazioni tribali e dei cosiddetti “intoccabili”, che si fanno carico delle attività e dei mestieri più
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impuri. Tuttavia contrariamente a quanto si potrebbe pensare, anche costoro hanno una propria organizazione di casta, proprie regole e propri “sacerdoti”.
Si può concludere dicendo che ogni hindu appartiene ad una determinata casta secondo alcuni criteri:
- Lo stato sociale acquisito per nascita.
- La famiglia o lignaggio.
- La discendenza da un antenato comune.
- L’appartenenza a un gruppo di persone che svolgono la medesima attività.
- Il colore che denota agli occhi del mondo l’appartenenza castale.
La dottrina dei “varna” è completata con quella degli “asrama” ovvero degli “stadi di vita”, che nella tradizione hindu sono quattro, e sono accompagnati da una serie di norme che dettano i comportamenti più conformi ad ognuno dei quattro stadi. L’ingresso nel primo stadio avveniva con la cerimonia di iniziazione. Durante questo primo stadio, il giovane viveva come studente e religioso nella casa di un maestro, da cui apprendeva i testi sacri della rivelazione, imparando l’obbedienza, il rispetto e il controllo delle emozioni e dei sentimenti praticando la castità. Particolari restrizioni, soprattutto per quanto inerente al cibo e al giaciglio, caratterizzavano gli inizi dello studentato religioso, che continuava con l’iniziazione ai sacrifici, alla elemosina e alla preghiera.
Un secondo rito di passaggio, il matrimonio, determinava l’ingresso nel successivo stadio di vita; il giovane tornava presso la famiglia e assumeva il ruolo di marito e padre. Al pari di un sovrano ma con più limitate prerogative, l’uomo sposato doveva garantire all’interno della prorpia dimora il rispetto del Dharma, cioè dell’ordine cosmico.
Il terzo stadio, in cui l’uomo, dopo aver visto i figli crescere e diventare adulti e dopo aver adempiuto ai doveri di padre e di marito, decideva di ritirarsi ai margini del villaggio o in qualche eremitaggio nella foresta, dedicandosi alla nonviolenza,
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alla meditazione e alla ricerca interiore, così da realizzare un graduale distacco dalle cose terrene.
Secondo le regole fissate nei sacri testi l’uomo si preparava all’ingresso nel quarto stadio della propria esistenza, quello della completa rinuncia, che egli trascorreva in solitudine quale asceta errabondo, privo di ogni possesso, nutrendosi soltanto dei frutti dell’elemosina e con la mente tutta intenta al suo fine ultraterreno. Prima di entrare in questo stadio di vita totalmente proteso alla liberazione, il vegliardo doveva però espletare alcune incombenze: egli doveva offrire tutto quanto possedeva a i brahmani e ai poveri; doveva poi tagliarsi le unghie e radersi i capelli e la barba e uscire di casa per vivere senza casa. Dopo tutta una serie di esercizi di purificazione e digiuni, doveva tentare di conseguire per mezzo di tutta una serie di comportamenti, atteggiamenti e attraverso gli esercizi spirituali dello yoga, la serenità spirituale, e in tal modo ottenere il sereno abbandono delle proprie spoglie mortali. In origine questi quattro stadi dell’esistenza, potevano ridursi a tre, senza che per l’iniziato vi fosse l’obbligo del matrimonio e di condurre vita familiare.
Un cenno merita anche la dottrina dei quattro fini dell’uomo. I primi tre fini sono il “piacere”, la “ricchezza” e la “morale”. Il quarto fine, che li ricomprende tutti è nell’osservanza del Dharma, cioè dell’ordine cosmico nell’attingere a quei piaceri e a quelle regole che devono essere gli uni goduti, le seconde rispettate, in ottemperanza al Dharma, cioè in maniera “ordinata” a un fine ultimo, cioè quello della liberazione. Se non si voglia attribuire, all’osservanza e al rispetto del Dharma, i caratteri di un fine, allora si potrebbe affermare che il quarto fine dell’uomo è la libertà assoluta, che però non può prescindere da una stretta osservanza delle prescrizioni in cui l’ordine cosmico trova la sua esplicazione.
La norma religiosa particolare
Due sono gli aspetti fondamentali del Dharma Indù. Il primo di essi è detto comune, e comprende l’astensione da ogni forma di violenza e la veracità, con l’aggiunta
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dell’elemosina. Il secondo aspetto è più specifico in quanto è uno per ogni casta. Al di là quindi di uno schema generale ci sono impegni ben definiti da rispettare che si differenziano a seconda della appartenenza ad un determinato “varna” o casta sociale. Sembra quindi ovvio che mentre esiste un solo Dharma sul piano universale, nella sfera individuale di ciascuno ne esistono molti. Tuttavia nel caso in cui un dubbio sorga dal contrasto tra norma universale e norma particolare, è sconsigliabile far ricorso alla coscienza individuale, in quanto quest’ultima deve adeguarsi alle regole che informano la condotta sociale della casta di appartenenza.
Per tornare a sviluppare un discorso che più sopra ho accennato, per quanto riguarda i riti che accompagnano la vita del singolo individuo, credo necessiti un approfondimento in merito a due dei riti suddetti e cioè l’iniziazione e il matrimonio. Va precisato che il nome di questi riti in lingua indù è “samskara”, parola che ha un significato simile a quello del nostro “sacramento”. Alcune componenti rituali sono presenti in tutti i samskara, che però per il resto sono assai numerosi e soprattutto differenti gli uni dagli altri. Con l’espletazione dei riti relativi alla nascita, ai primi anni di vita, allo studio dei sacri testi, si poteva conseguire il fine del matrimonio, anche esso, in quanto rito sacro, innervato di procedimenti di purificazione precedenti e successivi alla celebrazione. La preparazione al matrimonio seguiva la fine dell’apprendistato dei testi sacri da parte del giovane che sceglieva di unirsi in matrimonio, cioè di iniziare a partecipare alla vita secolare. Prima però di fare tale “passo” il giovane doveva onorevolmente congedarsi dal proprio maestro, nella consapevolezza di avere acquisito quella serie di conoscenze che sono necessarie ad accedere ai riti di passaggio successivi, come per l’appunto il matrimonio. La cerimonia con cui si passa dall’apprendistato iniziatico al matrimonio è ormai caduta in disuso, ma lo stesso non si può duire del matrimonio. Il matrimonio consente all’uomo comune di raggiungere alcuni importanti scopi esistenziali: il primo è quello di accedere alla celebrazione dei riti appresi nel samskara precedente; e il secondo, quello di procurargli una discendenza capace di fargli occupare un posto fra gli antenati. L’età adatta al matrimonio, il cui samskara
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prescriveva peraltro alcuni divieti funzionali a conferirgli validità (ad esempio era vietato il matrimonio tra consanguinei), detta età variò nel corso delle epoche, ma in tempi recenziori, anche se si ammise che un uomo potesse rimanere celibe per tutta la vita, per quanto riguarda la situazione femminile si andò sempre più abbassando l’età in cui una donna poteva prendere marito, finché una legge del 1938 introdotta dagli occupanti inglesi, non fissò l’età minima per il matrimonio delle fanciulle a 14 anni. Occorre anche dire che il matrimonio, ancora ad oggi, è spesso combinato dalle famiglie, e che secondo i testi sacri esistono otto forme di matrimonio, delle quali solo le prime quattro sarebbero però conformi al Dharma, mentre le rimanenti sarebbero da considerare del tutto illegittime. Il matrimonio non era un tempo, e non lo è oggi, in India, una singola cerimonia, bensì un complesso insieme di atti rituali che può svolgersi nell’arco di più giorni e che conserva i caratteri dell’antico rito vedico. La successione di tali atti rituali è la seguente: lo sposo invia dei messaggeri alla casa del padre della nubenda per chiederla in sposa; se il padre approva, il matrimonio viene stabilito con una promessa e si procede a fissare una data per la celebrazione delle nozze. Giunto il giorno delle nozze i due sposi eseguono, ciascuno nella propria casa, il bagno rituale con acqua profumata, recitando versi vedici che inneggiano alla prossimità della loro unione. Lo sposo si reca poi, accompagnato da un corteo, presso la casa della sposa. Seguono complessi atti rituali da parte dello sposo e del padre della sposa, che una volta compiuti sanciscono l’avvenuta instaurazione del vincolo matrimoniale. Seguono altri atti rituali, dopo la cui celebrazione gli sposi raggiungono l’abitazione dello sposo, dove vengono espletati ulteriori atti rituali. Oltre ai due samskara sopra descritti e su cui ho voluto porre l’accento, vi è però un ultimo samskara da descrivere, ossia quello costituito dai riti funebri. A tal proposito occorre dire che gli Indù non praticano di regola l’inumazione dei corpi dei defunti, i quali invece vengono arsi su una pira funeraria. Il samskara rappresentato dalle celebrazioni funarie comportava, come d’altra parte gli altri samskara, una serie di riti di purificazione, eseguiti prima e dopo la cremazione, anche a distanza di settimane dalla arsione del cadavere sulla
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pira, relativamente alla quale in tempi risalenti vi era la pratica di gettare la moglie ancora in vita, del defunto sulla stessa pira funeraria mentre ancora ardeva il fuoco, uso che nel tempo è venuto progressivamente a mancare.
Altri riti quotidiani
La giornata di un fedele Indù venne suddivisa in più parti fin dall’età antica al fine di attribuire ad ogni momento un significato rituale. Si cominciò col separare la parte scura, cioè la notte, da quella chiara, ossia il giorno. Il girono venne poi diviso in due parti, prima e dopo il mezzogiorno o in tre (mattino, mezzogiorno e sera), oppure anche in cinque (alba, mattino, mezzogiorno, pomeriggio e sera). Infine l’intero periodo delle 24 ore fu diviso in trenta unità di misura dette “muhurta”. Ogni muhurta comprendeva due “nadi” di 24 minuti ciascuna. Per gli indiani era ovviamente e per adempiere i riti che scandivano la giornata, le settimane, i mesi e gli anni, necessario disporre di un calendario, nella fattispecie un calendario lunare molto complesso. Sulla base dei dati ricavati dalla consultazione del calendario, che come detto era basato sulle fasi lunari, si poteva ottenere un responso, propizio o meno, sui riti da compiere, ovviamente escludendo i riti quotidiani, che in quanto tali erano sempre uguali a sé stessi.
Quello che ad oggi è il più importante rito sacro indù è detto “puja”, cioè il rito di adorazione espletato senza far ricorso al fuoco sacro, che viene compiuto sia nelle case sia nei templi. Addirittura sarebbe al giorno d’oggi sufficiente una semplice visita al tempio, anche se alcune delle caste più alte tentano di preservare la tradizione.
In ossequio ad un detto “tantrico” assume grande importanza il rito del “nyasa” che produrrebbe nell’adorante della divinità una trasfigurazione in un corpo divino, compiuti chiaramante i necessari gesti rituali, e che si concluderebbe con un rituale di congedo dal simulacro del Dio o della Dea. Molto importante è l’abbigliamento di chi si accinge a celebrare un rito: dovrà celebrarlo a piedi nudi e torso nudo, con
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la parte inferiore del corpo avvolta nel tradizionale abito maschile degli indù, con sulla fronte il colore rappresentativo della propria appartenenza religiosa. Questa importanza dell’abbigliamento vale ancor più per quanto attiene all’accesso al tempio. La terminologia con cui si indica il tempio è molto varia e ricca: esso è detto anzitutto “vimana” cioè “misura” e riguarda nello specifico solo la parte centrale del tempio; altro nome del tempio è “prasada”, cioè “residenza”, ovviamente del Dio. Il tempio è la riproduzione dell’Universo, che è suddiviso in una parte “grossolana”, in una “sottile” e una “trascendente”, ciò che è rispecchiato rigorosamente nella strutta luogo sacro. Ovviamente esistono molte varianti a questo modello di base, anche a causa della evoluzione spirituale del culto nelle epoche storiche successive. Tuttavia le molteplici forme dell’architettura sacra hindu , pur essendosi differenziate nel tempo e nello spazio, fanno riferimento a due stili fondamentali: quello “settentrionale” e quello “meridionale”, una differenza che richiama per analogia il confronto, in ambito occidentale, fra arte gotica e arte romanica. Oltre a ciò nell’India meridionale la pianta del tempio si sviluppa sempre di più fino a formare vere e proprie città/tempio, che possono arrivare anche a suddividere lo spazio interno in diverse cinte murarie, che possono arrivare fino a sette.
La dedica di un tempio è un atto di grande pietà religiosa. La persona che intende consacrare un tempio, si avvale della consulenza di un architetto e del proprio brahmano di riferimento, cioè del proprio guru. Il luogo deve avere un passato di sacralità, cioè aver ospitato sacrifici e atti propiziatori; deve trovarsi vicino alle acque di un fiume o del mare. Tutto il resto consiste, oltre alla realizzazione fattuale del luogo di culto, in una serie di adempimenti spirituali e propiziatori senza i quali il tempio non potrebbe rivestire l’aura di sacralità che colui il quale da principio ne iniziò la costruzione aveva intenzione che il luogo avesse.
Per quanto riguarda, all’interno del tempio, l’immagine sacra, essa non è soltanto strumento di venerazione e adorazione, ma anche supporto per la meditazione, non
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diversamente da quanto accade per i mantra. Ogni immagine deve corrispondere a specifiche regole iconometriche e deve essere conforme alle descrizioni contenute nei testi, che ovviamente variano da regione a regione. L’unità costruttiva di base è l’”angula” la cui misura varia in ragione della distinzione tra cinque tipi umani, cosicché il simulacro può avere delle dimensioni che vanno da un minimo di 96 a un massimo di 108 angula. Costruita la statua occorre procedere alla sua installazione e consacrazione. Il passaggio successivo consiste nella rituale infusione nella statua della presenza divina, o per meglio dire, nella acquisizione di conoscenza che in quella “specifica” rappresentazione risiede la “divinità”. Una volta consacrata, la statua della divinità riceve i primi atti di culto, e successivamente viene collocata in un padiglione dove si svolgono altri riti propiziatori, dopodiché viene portata in processione intorno al tempio, e infine ricollocata nel sacello. Le immagini installate in modo fisso in un tempio sono dette “immobili”, mentre quelle che possono essere portate all’esterno del sacello, si dicono “mobili”.
Una tipologia di culto assai particolare prende il nome di “linga” ossia propriamente “segno” del sesso maschile. Esso culto è presente in India fin dal III millennio a.C., ed è nel tempo divenuto segno di Siva, per eccellenza. I linga possono essere mobili o immobili, differenza che risiede nella loro traportabilità, che è tale per i primi ma non per i secondi. Per il devoto del linga, appartenente alla casta dei saiva, esso è l’intera realtà, e nonostante la molteplicità dei linga esistenti o concepibili, essi rappresentano tutti un’unica divinità: Siva.
Il culto nei templi
Il culto che viene celebrato da oltre un millennio nei templi hindù è quasi esclusivamente agamico e tantrico ed ha come suo centro quella che viene chiamata “nitya”, cioè l’insieme degli atti di culto ordinari. La giornata di un fedele è, come abbiamo detto, rigorosamente scandita già ad un livello meramente privatistico, che cioè non presuppone l’utilizzo pubblico del tempio, ove tutti possono compiere atti rituali. Relativamente al culto all’interno dell’edificio sacro sono previste altre
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partizioni, che qui possiamo tralasciare, anche perché i vari rituali dinanzi al simulacro della divinità sono differenti da luogo a luogo. Va comunque detto che una componente importante delle cerimonie di adorazione, specialmente nelle maggiori solennità, è la musica. Il gusto per la sonorità nelle cerimonie religiose si manifesta in molti modi, ora coinvolgendo l’officiante, ma più frequentemente chiamando a raccolta i fedeli, cui si richiede uno speciale raccoglimento che deve suscitare nello stato d’animo del fedele “innocenza”, “controllo dei sensi”, “pace”, “compassione”, “conoscenza”, “ascesi”, “veracità” e “amore”. Oltre ai riti di adorazione ordinari si celebrano nei templi cerimonie occasionali, e cerimonie “straordinarie” patrocinate da qualche fedele particolarmente devoto.
Per quanto riguarda la realtà del sacro all’esterno del tempio, occorre parlare dei luoghi sacri di pellegrinaggio, che sono ovviamente parte della tradizionale letteratura sacra, in quanto in essa consacrati come tali. Va però ricordato che i “tirta”, etimologicamente intesi come guadi, per raggiungere la meta spirituale ultima, non sono solo luoghi geografici, ma subiscono una suddistinzione in “mobili”, “spirituali” e “terrestri”, di cui solo questi ultimi sono veri e propri luoghi santi. I singoli “tirta”, che sono diverse migliaia sono organizzati in complessi sacri chiamati “ksetra”. All’interno di uno sketra i singoli tirta sono collegati tra loro da un itinerario che ogni pellegrino compie con devozione per accedere infine al sanctum che è la vera meta finale del pellegrinaggio. Ovviamente l’accesso al pellegrinaggio doveva essere prededuto da una serie di riti propiziatori e purificatòri, come in tutti gli atti e le questioni sacre indù.
Un tipo particolare di pellegrinaggio è quello che si svolge in occasione delle grandi feste religiose che si svolgono secondo un ciclo di dodici anni con la partecipazione di folle di asceti mendicanti appartenenti a diverse congregazioni. La principale di esse rappresenta una tradizione molto antica, ed appartiene al novero delle fiere religiose dette “kumbhamela”, e si tiene periodicamente a Prayaga. La parola “mela” significa “riunione” o “compagnia”. Ancora oggi in tutti i maggiori
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santuari dell’India si celebra ogni anno la festa del tempio, in cui viene organizzata una processione del simulacro della divinità appositamente prelevato dal sacello su un grande carro che riproduce le fattezze del cosmo. In altri casi il simulacro viene trasportato a dorso di elefante, come avviene ad esempio in una festa della locale rappresentazione di Siva a Trichur, nel Kerala. Ci sono altresì feste che celebrano il giorno natale di alcune divinità; altre i giorni di inizio delle “presunte” quattro ere cosmiche.
Due solennità molto importanti si celebrano poi in autunno in onore di due “volti” di un’unica divinità femminile, che prendono i nomi di Durga e Laksmi. La prima solennità è una novena di notti in onore della Dea, la cui immagine viene appositamente ricostruita, e che dopo aver ricevuto il saluto dei fedeli viene abbandonata nelle acque di un fiume. L’altra solennità fin da tempi risalenti si celebra a favore della stessa divinità, anche se con rituali e rappresentazioni diverse. Si tratta della festività di adorazione della dea Ganga, in ricordo della discesa del Fiume Gange sullla Terra con l’aiuto di Siva.
Assai popolare è poi la festa di Divali che deve il suo nome al fatto che lunghe file di lucerne vengono esposte sulle terrazze e davanti alle soglie delle case e inoltre affidate alla corrente dei fiumi in memoria del ritorno trionfale di Rama nella sua capitale Ayodhya.
Un ultimo cenno alla “festa di Holi” che si celebra in tutta l’India nel giorno di luna piena del mese di Phalguna, mese col quale si conclude l’anno secondo il calendario tradizionale. Il fuoco è presente nella simbologia della manifestazione attraverso l’accensione di molti falò. Per il resto la cerimonia è simile ad un allegro carnevale in cui i fedeli sono soliti spruzzarsi addosso acqua colorata fra un risuonare di tamburi.
Il neo-hinduismo
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Nel corso della storia la tradizione religiosa indiana, innanzitutto quella brahmanica, dovette scontrarsi con un certo numero di fattori esterni che tendevano a imporre modelli culturali diversi, ma seppe inizialmente resistere con grande tenacia e successo. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’incontro con la cultura di matrice “occidentale”, in cui elementi della cultura ebraico/cristiana si erano innestati su un sostrato derivato dalla civiltà greco/romana. Tuttavia risalendo indietro nel tempo avvisaglie di questo tipo di incontri tra la tradizione indù e altre culture si erano verificati periodicamente, non solo ad opera di Alessandro il Grande, ma anche con l’arrivo di monaci cristiani sulle coste dell’India meridionale fin dal I sec. dopo Cristo. Una comunità cristiana esistette comunque a partire dal VI secolo. Molto più profondo come accennato, fu però l’incontro del mondo cristiano con quello indù tra il XVII e il XVIII secolo, ad opera di missionari gesuiti che gettarono le basi di un dialogo interreligioso che per certi versi continua ancora oggi.
Tuttavia ciò che determinò un avvicinamento non sporadico, non occasionale della civiltà indiana all’occidente fu opera della penetrazone commerciale da parte delle potenze europee e poi del dominio britannico, teso a imporre non solo la propria religione, ma anche di intrattenere rapporti commerciali con gli indiani. La presenza degli occidentali determinò nella tradizione indù una spaccatura che si concreto nella diffusione di almeno due correnti teologiche: quella che auspicava un ritorno alle origini vediche, e quella aperta a nuove idee e impegnata nella ricerca di un incontro con i valori cristiani. I nuovi movimenti di riforma, cioè appartenenti alla seconda delle tendenze menzionate, si presentarono nella forma di libere associazioni di carattere culturale. All’insieme di queste associazioni e a ciò che esse propagandavano fu dato il nome di neo-hinduismo.
Il primo di tali movimenti è Brahma Samaj, fondato nel 1828 da tale Rammohan Ray, formatosi in ambiente bengalese, che venne a contatto anche con la cultura coranica e ovviamente imparò la lingua inglese, prestando anche servizio presso la East India Company. Scopi del movimento di Samaj furono il rifiuto del politeismo,
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e dell’adorazione delle immagini votive, con l’intento ulteriore di un ritorno alle origini vedantiche. Lottò contro l’usanza di ardere viva la moglie del defunto (sati). Samaj lottò anche contro le pretese dei missionari cristiani ma altresì contro quelle dei brahamani tentando di diffondere un approccio popolare ai testi sacri hindù. Una volta venuto meno Ray le redini del movimento furono assunte da Debendranath Thakur, che impostò il discorso riferendolo positivamente al cristianesimo, ma affermando comunque la superiorità del credo hindù. Ma fu grazie a Kesab Candra Sen che fu fondato l’ Adi Brahma Samaj, e con esso espresso per la prima volta il rifiuto della società castale indiana. Il movimento ebbe il suo apice quando ottenne un provvedimento governativo favorevole alla celebrazione di matrimoni non hindù sulla base delle sue convinzioni circa le celebrazioni proprie per l’appunto alla religione indù.
Altro movimento neo/induista che si sviluppò e decadde in breve tempo è quello detto Pramahamsa Sabha ma le sue asserzioni di fede furono adottate da un altro movimento, il Prarthana Samaj che si caratterizzò per essere il tentativo di fondare il culto sui poemi devozionali e su questa base introdurre una serie di riforme miranti al superamento dei tabù di casta e all’emancipazione degli intoccabili, insieme ad un miglioramento del ruolo della donna nella società indù, in particolare all’abolizione della pratica del sati, cioè come già accennato, la arsione rituale della moglie del defunto sulla pira funeraria.
Ulteriore movimento neo/induista fu il Dev/Samaj, fondanto da Satyananda Agnihotri, nome religioso di Siv Narayan Agnihotri, il quale si pose all’interno del gruppo da lui stesso fondato nella veste di guida spirituale o guru, cui doveva essere reso lo stesso culto dedicato alle divinità, persino attraverso l’ostensione del suo ritratto. La dottrina del guru fu definita Norma divina e i suoi principi raccolti in un testo sacro che va sotto il nome di “Trattato divino”, i cui aspetti più evidenti sono il rifiuto delle caste, la promozione della commensalità, il matrimonio intercastale, la
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lotta contro i matrimoni infantili e contro l’usanza della dote insieme alla promozione dell’istruzione femminile.
Altro movimento, l’Arya Samaj propugnò un ritorno alle origini, considerando il Veda l’unica rivelazione divina e il suo fondatore, il brahmano Mul Sankar concepì l’idea di riportare la tradizione brahamanica alle sue origini cioè la concezione di un induismo autentico o purificato. Il nuovo credo si basava su dieci principi:
- Il Signore è la fonte di ogni umano sapere.
- Tutto ha origine nel Signore.
- Il corretto sapere è contenuto nei testi sacri, i Veda.
- Occorre promuovere la verità e condannare la menzogna.
- Occorre ispirare ogni propria azione al Dharma, cioè all’Ordine cosmico.
- Occorre operare perseguire il bene fisico, spirituale e sociale.
- Occorre coltivare nei rapporti con gli altri i valori dell’amore e della giustizia.
- Occorre promuovere la conoscenza a scapito dell’ignoranza.
- Occorre operare non solo per il proprio bene ma per il bene di tutti.
- L’Altruismo deve guidare i rapporti sociali.
Ciò che, a livello più strettamente politico e sociale l’Arya Samj propagandava era un progamma di riforme simili a quelle degli altri gruppi già elencati e descritti in questo testo, e cioè interventi a carattere riformistico su base sociale ed anche umanitaria ad esempio con la costruzione di scuole e orfanotrofi. Un elemento originale proprio del movimento in parola è rappresentato dalla possibilità, accordata a chi si fosse inizialmente allontanato dall’induismo per seguire altre fedi, come la musulmana e la cattolica, la possibilità di ritornare all’induismo attraverso una pratica rituale detta “suddhi”. In ultimo va detto che il movimento in parola aderì al movimento gandhiano per l’indipendenza dell’India, ma fu gravemente danneggiato dalla scissione avvenuta all’interno di quel movimento tra indù e musulmani.
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La società teosofica
Fondata nel 1875 nasceva la Società Teosofica, la cui fondazione non avvenne in India ma a New York ad opera di due personaggi non indiani: una nobildonna di nome Helena Petrovna Blavatsky e un colonnello britannico, Henry Steel Olcott. Una volta giunti in India i due fondatori si prefissarono tre obiettivi principali:
- Costruire una fratellanza umana universale.
- Promuovere lo studio comparato delle religioni, filosofie e scienze antiche.
- Investigare le leggi della natura che governano l’universo e sviluppare le potenzialità divine presenti nell’uomo.
Col passare di alcuni anni la Società divenne molto influente, soprattutto dopo che la sua sede centrale venne spostata ad Adyar, un sobborgo di Madras, dove nel 1886 fu fondata la Adyar Oriental Library, che ancora oggi svolge una lodevole attività di pubblicazione di scritti sanscriti.
Quando la Blavatsky lasciò l’India il colonnello Olcott da parte sua rimase, pubblicando nel 1888 la famosa opera intitolata “The secret doctrine” che divenne insieme ad una analoga opera della Blavatsky, e cioè l’“Iside rivelata”, il fondamento della ideologia dei teosofi.
Quando il colonnello Olcott venne meno, le redini della Società furono assunte da una donna di origine irlandese, Annie Besant, la quale spostò la sede centrale a Benares e anziché continuare a coltivare le scienze occulte si dedicò unicamente a propugnare le riforme sociali e religiose che all’epoca animavano tutti i gruppi neo/induisti.
I consensi intorno alla società vennero quasi del tutto meno a causa di un’episodio in particolare, relativo alla figura di un giovincello indiano in cui alcuni esponenti della teosofia credettero di scorgere niente meno che una incarnazione del Cristo. Ma l’organizzazione ricevette un duro colpo quando il giovane, rifiutando il proprio
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ruolo messianico si ritirò dalla società e continuò indipendentemente la propria ricerca spirituale. Ciò nonostante la Società teosofica continua ancora al giorno d’oggi a svolgere la sua missione attraverso i propri centri diffusi in tutto il mondo, a porre il proprio ruolo di mediatrice non solo fra Oriente e Occidente, ma anche tra dottrine religiose esoteriche ed essoteriche dell’antichità orientale.
Di diverso e assai maggiore rilievo dal punto di vista religioso sono altri ordini che operano in India e all’estero, che tuttavia presentano caratteristiche particolari, perché ad esempio fanno riferimento ad alcuni elementi della cristianità. Fra questi movimenti un posto di rilievo ha la Ramakrishna Mission, ispirata alla figura di Gadadhar Chatterji, mistico bengalese assai devoto al culto della Madre divina, il cui nome adottato nel culto è Ramakrsna Paramahamsa. Dopo essere stato iniziato alla religione sakta da una monaca bhairavi, ricevette da un mistico vaisnava l’iniziazione al Vedanta advaita ed entrò nel samnyasa. Ulteriori esperienze di mistica sufi e di cristianesimo convinsero Ramakrsna del fatto che tutte le forme di spiritualità si equivalgono, in quanto tendono all’unica Realtà assoluta. Alla figura di questo grande mistico si ispira un’organizzazione che è molto attiva anche ad oggi e che possiede molti monasteri sia in India che all’estero, insieme ad importanti centri culturali, come l’”Institute of culture” di Calcutta. L’organizzazione in parola fu fondata da un discepolo del mistico, che nel 1892 assunse il nome di Svami Vivekananda, il quale ci ha lasciato una grande quantità di scritti, pubblicati in otto volumi a Calcutta. Centro del culto in parola è Belurmath, un monastero alla periferia di Calcutta, casa dei monaci che hanno fatto proprio l’insegnamento di Ramakrsna. L’interesse per tutte le religioni che caratterizza questa forma di neoinduismo implica che i monaci siano impegnati, come quelli cristiani, in opere di carità e di beneficenza di vario tipo, ma anche nella diffusione del pensiero hindù attraverso apprezzate iniziative editoriali.
Un’ultima figura degna di nota nel neo/hinduismo è quella di Sri Aurobindo, la cui dottrina dello yoga integrale concepisce l’Universo come una realtà in continua
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trasformazione, che tende alla propria completa realizzazione, così come l’uomo, mediante lo “yoga” deve tendere alla propria perfezione, che consiste in un’attingimento all’essenza universale. Tra le pubblicazioni a carattere divulgativo di Sri Aurobindo, una delle più importanti è “The life divine”. In fondo, fine ultimo verso il quale Aurobindo intende guidare l’umanità è la “consapevolezza della totalità dell’essere”, che si può comunicare solo con il silenzio.
Ultimo ma non ultimo per importanza tra tutti coloro che, avvicinandosi alla cristianità, modificarono le proprie forme di pensiero e di riflessione, fu Mohandas Karamchand Gandhi ricordato non solo in India, ma in tutto il mondo come il “mahatma”, ossia “il grande spirito”. Nella sua figura ascetica e nobile, la tradizione religiosa dell’India trova l’espressione più alta della dignità morale e un monito perenne, capace di ricordarci che c’è sempre una soluzione ai gravi problemi dell’umanità, che è facoltà del singolo individuo abbracciare tale soluzione e lottare per essa.
Lo Hinduismo oggi
Notoriamente la creazione dei due Stati di India e Pakistan, sorti nel 1947 sulle rovine dell’Impero britannico delle Indie, avvenne soprattutto su basi religiose, con l’attribuzione all’ India dei territori a maggioranza Hindù e al Pakistan di quelli a maggioranza musulmana. Risale al 1971 la secessione dal Pakistan da parte del Bangladesh. Il cosiddetto Hinduismo è pertanto oggi la cultura religiosa tradizionale dell’India. Recenti ricerche hanno mostrato dati alla mano, che a dispetto delle stime ufficiali si può tranquillamente affermare che gli appartenenti alla religione hindù sono sì la maggioranza ma la loro percentuale sulla popolazione non va oltre il 62%. Si tratta comunque di un numero notevole di persone, e per accorgersene basta recarsi in un luogo santo in occasione di una grande celebrazione. La realtà indiana, tuttavia, è cambiata molto dal tempo in cui ottenne l’indipendenza e lo status internazionale di “Nazione”. Per comprenderla quale essa è oggi occorre considerare l’eredità del passato coniugandola con i cambiamenti determinati dal modernismo e
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da influenze esterne di vario tipo. Ad esempio l’”intoccabilità” dei paria è stata abolita dall’art. 17 della Costituzione indiana del 1950. Tuttavia a poco valgono le disposizioni costituzionali, comunque molto meno di quanto non conti il prestigio derivante dall’esercizio di una professione moderna, e il denaro che da tale professione deriva, insieme ad un buon livello di prestigio sociale. Si tratta di innovazioni adottate sempre grazie all’influsso occidentale, che ancora oggi è presente in India, a cominciare dalla Costituzione, che nei suoi principi ricalca le Costituzioni adottate a suo tempo dell’Occidente laico e secolare. Il vero nemico della tradizione religiosa indiana è tuttavia la secolarizzazione e con essa il modernismo, che avanza al ritmo del progresso economico e dello sviluppo tecnologico. Per quanto riguarda intuitivamente i dati di tale sviluppo, va detto comunque che ancora il 70% della popolazione è rurale. Nonostante i progressi compiuti il 40% della popolazione indiana vive ancora sotto la soglia di povertà. Allo stesso tempo l’India si trova al terzo posto nel mondo per il numero degli specialisti in informatica. Chiaramente: maggiore è il tasso di sviluppo economico, maggiore è il livello dei contrasti sociali, anzitutto tra musulmani e indù e poi tra hindu di una casta e hindu di altre caste. Quale effetto dello sviluppo vanno menzionati poi due fattori: l’indipendenza delle donne e la diffusione dei media, primo fra tutti il televisore, che per lungo tempo, fin dagli ultimi anni del Novecento ha trasmesso una fiction a sfondo profondamente religioso dal titolo evocativo: Mahabahrata. Questo dato dimostra che il sentimento religioso, anche nell’India moderna è molto diffuso. Quale perdurante segnale del passato religioso arcaico, esistono oggi in India molti ordini e congregazioni monastiche accomunate, a causa della straordinaria molteplicità delle espressioni religiose che essi rappresentano, da un unico termine per descriverle, che le racchiude interamente, e cioè “sadhu”, letteralmente “uomo santo”. Ed è proprio questa parola che come detto sta ad indicare i monaci mendicanti hindù, il cui numero è di circa 6 milioni. La gente li ritiene già morti mentre ancora sono in vita, ed è per questo che alla loro morte il loro corpo non viene cremato ma inumato. Nondimeno accanto a queste forme di
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religiosità primitive esistono ancora in notevole numero monasteri che somministrano a coloro che ne facciano richiesta, una cultura riferibile alla tradizione brahamanica, monasteri presieduti da sapienti che all’interno della gerarchia sono considerati dei veri e propri pontefici e ai quali vi è l’obbligo di rivolgersi con l’appellativo “Sua Santità”.
L’esperienza monastica riguarda tuttavia una minoranza di persone, che nondimeno costituiscono un punto di riferimento per le grandi masse di semplici hindù la cui devozione si esplica, come nell’antichità, attraverso atti esteriori di devozione, di culto e di pietà religiosa. Va detto anche che fra le pratiche religiose di tutti gli hindù, di ogni condizione, spiccano ancora quelle della elemosina, del digiuno e del pellegrinaggio ai luoghi santi. Una grande importanza rivestono poi e ancora al giorno d’oggi, i vari riti di purificazione, consistenti per lo più in un bagno in uno dei tanti fiumi sacri, soprattutto nel Gange. I samskara maggiormente praticati continuano ad essere quelli del passato, ossia la nascita, l’iniziazione, il matrimonio e infine i riti funebri. Per quanto riguarda le usanze tradizionali, un grave problema sociale è quello rappresentato dal dovere per la famiglia della futura sposa, di procurarsi una dote, cioè una quantità di denaro da versare allo sposo prima del matrimonio, ciò in quanto non tutti coloro che aspirano a maritare una propria figlia hanno a disposizione una quantità di denaro sufficiente da destinare allo sposo. Ciò costituisce un problema perché a volte una dote scarsa può essere l’origine di problemi nel rapporto coniugale, ad esempio atti di violenza contro la donna in questione da parte del marito. Altro grande problema è quello dei matrimoni prepuberali, che ad oggi non è del tutto scomparso sebbene esistano leggi che lo vietano e che fissano per il matrimonio un’età minima dei nubendi che si aggira intorno ai vent’anni. Accanto a questi retaggi del passato ve ne sono molti altri che vengono preservati scrupolosamente nelle zone rurali soprattutto: un’ esempio su tutti è l’adorazione della vacca. A parte queste considerazioni di carattere etnografico va anche detto che nonostante la separazione dal Pakistan musulmano in India si verificano periodici atti di intolleranza religiosa tra hindu e musulmani.
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Nonostante ciò pare che a partire dall’inizio del nuovo secolo le teorizzazioni in materia religiosa abbiano perso quella carica radicale che avevano nel passato e che si sia giunti alla formulazione di una verità, secondo cui tutti i modi di intendere la religione e le verità ultime sono bene accetti, in quanto il principio divino è uno ma ha tante diramazioni. Tuttavia nel processo di modernizzazione in atto esiste anche il pericolo sociale costituito dai “senza casta”, dalle popolazioni tribali e dalle altre caste arretrate, che potrebbero minare il potere centrale se motivate ed organizzate a tale scopo.
A dispetto di quanto comunemente si pensi, recentemente non solo organizzazioni di altra fede sono state introdotte in India ma anche organizzazioni di fede hinduista si sono spostate al di fuori del subcontinente portando con sé le proprie credenze e i propri atti rituali, nonché le loro istituzioni religiose. Ne è un esempio in Italia l’istituzione nei pressi di Savona, a Carcare, della sede della Unione Induista Italiana o “Sanatana Dharma Samgha” che ha ricevuto dalle autorità dello Stato, nel 2000, lo staus di confessione religiosa sulla base dell’art. 8 della Costituzione italiana.
Il giainismo
Il giainismo, che attualmente conta in India poco più di tre milioni di fedeli, è la religione dei giaina, seguaci del Jina, il vincitore delle passioni, epiteto di Vradhamana o Mahavira, profeta di una religione che si propone come fine ultimo il superamento del ciclo delle esistenze (samsara), ognuna delle quali è determinata, nella condizione di partenza, dal complesso di azioni compiute in precedenza. In effetti il giainismo appare decisamente arcaico in quanto attribuisce un’anima a ogni manifestazione della natura, comprese pietre, gocce d’acqua o piante. Questo tipo di credenza religiosa si affermò rapidamente in quanto favorita dalle classi dominanti, che vedevano in essa un modo per andare oltre l’ingiustizia del mondo nella distribuzione del bene e del male, e anche congeniale ai membri delle classi subalterne, in quanto dava una speranza di migliorare la propria condizione anche se
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in una vita futura. La negazione di un’intima validità dell’esistenza terrena nel contesto di infinite esistenze, si esprime nella pratica dell’ascetismo. Ma se la pratica ascetica è l’ultimo passo sulla via che porta alla liberazione, essa è anche strettamente legata alla purificazione, che ha come momento centrale un atteggiamento empatico con tutti gli esseri viventi o comunque ritenuti dotati di anima. La religione giainista è molto più vicina al buddhismo che all’induismo, grazie alla presenza di organizzazioni monastiche che predicano l’abbandono dei sacrifici cruenti, l’ateismo e la predilezione per la figura del monaco itinerante. Ciò non esclude che i seguaci del jaina abbiano dato vita a forme di laicato, e si siano dedicati alla costruzione di templi. Le caratteristiche che hanno permesso al giainismo di durare attraverso i secoli, nonostante il contatto con gli indù: un certo meccanicismo, la ricerca della perfezione spirituale, l’avversione per le grandi speculazioni metafisiche. I giaina accettano il mondo nella sua apparenza immediata, e giungono ad ammettere la “indeterminatezza dell’essere”, per cui su ogni soggetto possono emettersi vari giudizi, ma tutti parziali, in quanto considerano soltanto degli elementi di una realtà in continua evoluzione. I giaina, come i buddhisti, non fanno differenza tra le varie dottrine, in quanto ogni dottrina comprende una parte di verità, per il raggiungimento della quale è tuttavia necessario abbracciare la dottrina giainica. L’uomo e il suo destino sono al centro dell’interesse: l’uomo può effettuare una scelta spirituale, ma sta soltanto a lui confidare che quella disciplina lo porterà al di sopra del mondo materiale.
La dottrina è per i giaina immutabile e affonda le proprie radici in una remota antichità, prima ancora che nel 500 a.C. venissero fissate la dottrina e l’organizazione chiesastica. Il fondatore del culto, conosciuto col nome di Parsva, nato da famiglia guerriera 250 anni prima di Mahavira e morto all’età di 100 anni fondò la prima comunità gianista, composta da monaci e laici e astretta a quattro voti: non nuocere, non mentire, non rubare, non possedere. Mahavira è indicato nei testi buddisti con l’epiteto di Nataputto. Suo padre Siddharta aveva il titolo di sovrano in un piccolo regno nella regione del Magadha e a Kundagrama nacque il
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futuro Mahavira. Conscio fin dalla giovinezza della transitorietà dei beni terreni dominò tuttavia l’aspirazione all’ascesi per non turbare la famiglia, si asposò ed ebbe una figlia. Morti i genitori si poté dare alla vita religiosa. Nel 43esimo anno di vita, dopo lunghe meditazioni e mortificazioni, ottenne la conoscenza assoluta. Da quel momento fu un “jina”, cioè un vincitore delle passioni, un “levali”, cioè un onnisciente, un “arhat” cioè un venerabile, un “mahavira”, cioè un grande eroe. Per i rimanenti trenta anni della sua vita si dedicò alla predicazione. Non è ricordato alcun incontro con il Buhddha. Erede e riformatore della propria comunità, Mahavira fissò instaurò l’ordine esplicito della castità, riconfermò la distinzione tra monaci e laici , dedicò i suoi sforzi alla definizione di una regola precisa in materia di doveri, costumi e uffici.
La religione di Mahavira si espanse seguendo le vie commerciali che portavano a sud e a ovest. Nel corso dei secoli la religione giainista attecchi non solo presso i membri di caste elevate, ma persino tra i re e i membri della casta guerriera, dopodiché diede luogo tra i discepoli vissuti secoli dopo la morte di Mahavira ad un canone di testi sacri ispirati alla predicazione de loro maestro.
Il declino del giainismo fu dovuto al successo della cosiddetta “controriforma barahmanica”, che restaurò il culto indù ufficiale. In fine la violenta immissione sul territorio indiano da parte musulmana, accomunò nelle persecuzioni, nella distruzione dei templi e nella conversione forzata Hindù giaina e buddhisti.
Per quanto riguarda più nello specifico le convinzioni dei giaina in merito alle questioni teologiche, essi rifiutano l’idea dell’esistenza di una divinità suprema, unica, puramente spirituale, onnipresente e onnipotente, creatrice e reggitrice delle cose del mondo. Per essi l’universo è increato ed eterno. Nel mondo, che pure non è il peggiore dei mondi possibili, a gioie rapidamente dileguantisi s’alternano infelicità, crudeltà, ingiustizie senza fine, che colpiscono tutti gli esseri, dagli animali agli uomini. I giaina negano perciò l’esistenza di Dio in base a considerazioni di ordine logico, ossia rifiutano quel tipo di atteggiamento spirituale
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che consente l’intuizione della presenza del divino nel mondo. I giaina ritengono che solo la regola del karman, cioè di premio o castigo nell’infinito fluire delle esistenze, possa spiegare la sorte dei singoli e la presenza del bene e del male nel mondo. Soltanto le anime che hanno raggiunto la loro essenziale perfezione, sono sottratte alla legge del karman. Per i giaina i cosiddetti dèi non sono altro che anime che grazie alle azioni compiute in passato godono di possibilità sovrumane e di uno stato spirituale di estrema felicità, ma sono comunque soggette alla morte.
Per quanto riguarda la visione giainista dell’universo, quest’ultimo ha dimensioni pari allo spazio percorso in sei mesi da un dio che copre due milioni di miglia in un secondo. La parte inferiore del suddetto universo comprende gli inferni, nei quali le anime un tempo corrotte attendono che i patimenti abbiano termine in vista della purificazione definitiva, mentre solo le anime di coloro che si sono macchiati di colpe irremissibili sono condannate a sprofondare per sempre in un abisso senza fondo. I mondi dell’universo superiore ospitano le dimore degli dei. Tuttavia in possesso di una infinita beatitudine sono soltanto i “siddha”, che godono delle perfezioni dell’anima pura.
La storia dell’universo può essere racchiusa in sei età, che in senso discendente conducono alla peggiore abiezione e che in senso ascendente giungono alla più grande felicità e perfezione.
Per quanto riguarda in particolare la dottrina giainista, essa si articola in sette verità “fondamentali” che sono le seguenti:
- “sostanza spirituale”;
- “sostanze inanimate”;
- “afflusso” della materia nell’anima;
- “schiavitù”;
- “arresto” dell’afflusso di materia;
- “eliminazione” della materia;
- “liberazione”.
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Oltre a ciò il giainismo ammette sei classi di sostanze divise in animate e inanimate. Le sostanze sembrano inserire nel concetto di essere quello di divenire e sono lo spazio, il tempo, la materia e le anime o monadi vitali. Queste ultime sono infinite di numero. Il tempo permette l’evoluzione continua per la quale tutto esiste e tutto diviene. Lo spazio permette il movimento e il riposo. La materia è costituita da un numero infinito di atomi, che si aggregano tra loro e sono connessi alle anime. Quando nasce una nuova creatura ciò vuol dire che un’ anima è stata imprigionata in un corpo fatto di atomi, del quale potrà liberarsi, perché è questo che l’anima desidera, solo con la morte. E da ciò derivano la propria ragione, le rigidissime regole di condotta di coloro i quali, iniziati alla religione in parola, si impongono una serie ininterrotta di pratiche ascetiche, che purificando l’anima, la liberano progressiavemente del proprio karman negativo, affinché il praticante raggiunga all’atto della morte la assoluta purificazione. Tuttavia soltanto il monaco può affrontare questa serie di rinunce e mortificazioni che portano all’emancipazione. La chiesa giainica è composta da quattro “dignità”: monaci, monache, laici e laiche che si differenziano data la posizione scelta in seno alla pratica ascetica.
Il giainismo impone un assoluto vegetarianesimo, il rispetto per gli animali anche vecchi e malati. E’vietato il consumo di tuberi, di frutti ricchi di semi o acerbi, di cipolle, di aglio, considerati sede di molte anime, di miele. Vanno evitati anche alcoolici e attività sessuale in quanto nella fermentazione e nel coito si distruggono troppi esseri animati.
Il monaco giainista deve condurre vita itinerante, salvo che nella stagione delle piogge, quando l’aria e la terra brulicano di vita e sarebbe più difficile rispettare i divieti della propria “regola”. Egli allora si ritira nei rifugi che servono come luogo di raccolta anche per i laici che così possono ricevere l’insegnamento religioso. I sei punti della regola sono i seguenti:
- Equanimità verso tutto e tutti.
- Omaggio al maestro.
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- Pentimento.
- Meditazione.
- Rinuncia a cibi e bavande non indispensabili.
Quanto alle professioni, sono escluse dalla regola l’agricoltura, che è praticata con alcune limitazioni; la caccia e la pesca insieme allo scavo di pozzi, all’allevamento e al commercio di legname, armi e avorio. La professione di soldato non è vietata. La preferenza va tuttavia al commercio, alle professioni liberali, agli affari finanziari.
Per quanto attiene al culto tutto si svolge davanti alle immagini sacre, spesso contenute in strutture templari assai imponenti, quando il fedele procede alla circumambulazione, poi al bagno e alla lustrazione delle membra della statua con vari tipi di sostanze e quindi procede alla dazione delle offerte, all’utilizzo di sostanze inebrianti e al canto di inni e alla recitazione di formule sacre.
Secondo la dottrina giainista nel mondo, in quanto quest’ultimo è in continuo divenire, non può darsi alcun giudizio che sia duraturo e definitivo. Esistono tuttavia sette “punti di vista” dai quali la realtà può essere considerata. Per fare un esempio, se di una persona dico che è un eroe e considero questo unico aspetto della sua personalità, la rappresentazione che ne deriva è insufficiente perché non tiene conto delle altre caratteristiche dell’oggetto di giudizio. Tuttavia la contemporanea applicazione di tutti i “punti di vista” consente di attingere alla verità, ma ciò è possibile soltanto a coloro che possiedono la conoscenza assoluta che è la intuizione della verità senza il tramite dei sensi e che è propria soltanto dell’anima pura o di chi ha raggiunto la liberazione. La teologia giainista è in sostanza una sorta di relativismo teologico. Relativamente al buddhismo la dottina giainica si differenzia in quanto sostanzialmente i gianisti sostengono che la dottrina della “insostanzialita” dell’anima sia da considerare non veritiera, ciò che è invece cardine della dottrina buddhista. Nei confronti degli hindù la polemica nasce dall’opposizione dei giainisti al sacrificio, ed anche alla credenza diffusissima presso gli indù negli dèi, che i giainisti criticano in quanto dediti, essi dèi, soltanto alle proprie passioni senza
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mostrare alcun rispetto per quella che è la morale diffusamente accettata. Per quanto riguarda l’atteggiamento giainista nei confronti del sistema castale, i giaina hanno sempre negato la supremazia dei brahamani e dei guerrieri, anche se gli stessi giaina appresero presto la consuetudine di operare legami tra i propri membri in ragione di caratteristiche esteriori.
I giaina hanno prodotto, nelle varie lingue dell’India, trattati di politica, di architettura, grammatica, di retorica, diritto, di medicina, oltre ad una vasta letteratura poetica e in prosa. Ma soprattutto i giaina si sono dedicati all’epica, soprattutto del Ramayana.
Per quanto riguarda le religioni non indiane, una certa sintonia è stata riscontrata tra il giainismo e la religione di Zoroastro: in entrambi i movimenti di riforma c’è il desiderio della purezza orginaria, una netta opposizione tra spirito e materia, il rispetto di ogni essere vivente, la volontà di rinnovazione morale. Occorre anche in ultimo, considerare il liminale apporto dell’Islam, insieme al rapporto col cristianesimo, entrambi fenomeni trascurabili perché poco incisivi sulla sostanza della dottrina giainista.
Quando Vasco de Gama nel 1498 apre la via di mare diretta alle Indie, molti missionari accedono alla conoscenza delle tradizioni e delle ritualità indù in materia religiosa, nella convinzione che dopo aver conosciuto le credenze indiane avrebbero più facilmente potuto convertire gli indù al cristianesimo. La conoscenza scientifica del giainismo è contemporanea alla nascita della filologia indoaria. All’inizio il giainismo fu confuso con il buddhismo, ma successivamente si dimostrò l’indipendenza tra le due tradizioni. Ma al di là dell’interesse scientifico per una religione con pochi seguaci, stupisce che tale culto non si sia estinto in 2500 anni di vita, ciò che determinò da parte dei seguaci occidentali la volontà, tradotta in opere concrete, di esportare il giainismo in occidente. Tuttavia tali iniziative non ebbero molto seguito, ciò in quanto il giainismo non può fare a meno della sua diffusione territoriale nel solo subcontinente e non può nemmeno essere pensato senza
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riferimento al contesto sociale in cui è sorto e continua ad essere praticato: il contesto indiano.
Il sikh/panth
Il termine sikh-panth deriva dalla parola “sikha”, che vuol dire “discepolo” e che viene usata per indicare i discepoli di Guru Nanak, considerato unanimemente il fondatore di questa via di salvezza, e dei nove maestri che, dopo di lui, guidarono la comunità. Poiché ad oggi i sikh non hanno più maestri, essi ritengono che lo spirito divino in essi aleggiante sia possibile riscontrarlo nel Libro sacro della loro religione, poiché la parola sikh può anche intendersi come “discepolo” dell’unico vero maestro che è Dio. Per meglio definire questa corrente religiosa essa può essere definita come la “via dei discepoli”, aggiungendo alla parola sikh il suffisso “panth”. La patria del sikh-panth è una regione dell’India nord/occidentale, il Punjab, che oggi cosituisce uno degli stati delle Repubblica federale indiana, di poco più di cinquantamila kilometri quadrati di superficie. Nonostante le sue dimensioni ridotte rispetto all’estensione della superficie del subcontinente, il Panjab odierno è oggi l’unico stato a maggioranza sikh (60% circa della popolazione). I sikh sono una minoranza nel panorama demografico indiano e tuttavia sono molto attivi anche nelle istituzioni indiane, in cui ricoprono spesso ruoli di un certo rilievo, ad esempio nella pubblica amministrazione e nell’esercito.
La fonte principale della religione in parola è il suo libro sacro, intitolato “Il nobile libro originario che è Signore e Maestro spirituale”. Si tratta di un’imponente raccolta di canti religiosi che conta, nell’edizione a stampa, 1430 pagine e comprende 5894 composizioni poetiche, realizzate in gran parte dai maestri sikh succedutisi alla guida del culto. Il pròlogo a questa opera monumentale contiene le preghiere fondamentali dei sikh. Il libro sacro si conclude con un epilogo, che comprende opere di molti autori in lode dei primi cinque guru della tradizione.
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Il libro sacro dei Sikh è redatto in una lingua difficilmente comprensibile, in quanto ricca di influenze tratte da altri idiomi ed anche perché lo stesso alfabeto utilizzato è un qualcosa di originale che fa dei sikh un gruppo etnico fortemente identitario, che si avvale di numerose tradizioni manoscritte, realizzate nel corso di secoli e giunte sino ad oggi, tradizioni che ovviamente vanno ad affiancarsi al libro sacro nel suo nucleo originario.
Le origini del sikh/panth si collocano in un momento molto importante della storia del subcontinente. Proprio in quegli anni Vasco da Gama sbarcava a Calcutta dando inizio alla penetrazione europea in India. Di fronte all’impatto dell’islam e a differenza di quello derivato dal contatto con gli europei, il mondo hindu si chiuse in sé stesso e riesumò una serie di pratiche arcaiche come l’arsione della sposa sulla pira funeraria del marito defunto, che diedero alle classi inferiori grossi problemi di sopravvivenza a causa da un lato, di una chiusura nei riguardi di una struttura sociale non castale, dall’altra delle angherie dei nuovi arrivati islamici. D’altra parte la furia iconoclasta dei muslim portò questi ultimi a distruggere sistematicamente ogni traccia dell’antica religione indù. In ogni caso il proselitismo islamico non ebbe molto successo.
La comunità dei sikh si formò già durante la vita del suo primo guru, Nanak. Quest’ultimo non invitò mai i suoi discepoli a seguire la via monastica. La religione sikh è infatti una religione per laici, che devono compiere i propri doveri religiosi nel quotidiano e cioè mescolandosi alla gente comune, rifiutando le barriere sociali di appartenenza castale attraverso la commensalità, cioè il gesto che più di tutti simbolizza una sorta di fratellanza universale tra i sikh e l’intero popolo cui essi appartengono. Guru Nanak volle dare ai suoi discepoli la possibilità di avere una guida anche per il tempo in cui egli non sarebbe più stato in vita, perciò nominò un successore in Guru Angad, e a partire da quest’ultimo la società sikh fu governata da altri nove guru, ciascuno dei quali diresse la comunità fino alla morte. Con guru Govind Singh finì la serie dei dieci guru. Quest’ultimo infatti nominò guru prima di
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passare a miglior vita, lo stesso spirito divino che aveva dimorato in guru Nanak e negli altri nove guru della tradizione. Ma l’atto principale adottato dall’ultimo guru fu l’istituzione del Khalsa che trasformò il sikh/panth in una potente democrazia religiosa di santi/soldati, con le proprie regole sia nell’interno della organizzazione sia nei rapporti interpersonali esterni.
Dal punto di vista politico il Khalsa dovette fronteggiare nel corso dei secoli alcune persecuzioni ad opera del governo centrale indiano, e quelle dei colonizzatori provenienti dall’esterno del subcontinente. Attraverso diverse vicende i sikh/panth giunsero agli anni ’20 del XX secolo, organizzandosi in un partito politico, il quale è ancora ad oggi la principale compagine politica dei sikh nel Punjab.
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