giovedì 21 agosto 2025

Introduzione 
CapitoloI. Considerazioni a carattere generale sulla normativa di principio 
in materia ambientale. 
CapitoloII. Cenni alla struttura e alla formazione delle norma 
internazionale. Citazione delle inerenti disposizioni a carattere 
internazionale in materia di ambiente. Riferimenti dottrinali. 
CapitoloIII. Cenni al processo di consolidazione del diritto ambientale
livello internazionale. 
CapitoloIV. Cenni al processo definitorio dei principi fondamentali in 
materia ambientale a carattere sovranazionale. 
CapitoloV. Cenni alla normativa interna di adeguamento alle disposizioni 
internazionali in materia di ambiente. 
CapitoloVI. L’iter internazionale che ha portato all’attuale situazione della 
normativa ambientale a livello sovranazionale. 
CapitoloVII. Cenni alla tematica della biodiversità e sua tutela 
convenzionale. 
CapitoloVIII. Analisi settoriale del diritto ambientale internazionale. 
CapitoloIX. Profili di diritto comunitario dell’ambiente. 
CapitoloX.. Rapporti tra diritto comunitario, giurisprudenza e dottrina 
costituzionale Italiana 
CapitoloXI.. Il concetto di ambiente in Costituzione 
CapitoloXIII. Cenni alle interrelazioni tra norme di tutela ambientale 
internazionali e settori del diritto interno. Profili di diritto civile. 
CapitoloXIV. Soggetti legittimati all’esercizio dell’azione risarcitoria. 
CapitoloXV. Illecito ambientale e immissioni ex art. 844 c.c. 
Capitolo XVI. Il ruolo della sanzione penale nella tutela dell’ambiente. 
Capitolo XVIII. Profili di Diritto processuale civile. 
Capitolo XVIII. Fondamenti di Diritto penale in materia ambientale. 
Capitolo XIX. Conclusioni. 
 
 
Introduzione 
Per il tramite del presente lavoro lo scrivente vorrebbe sottoporre, in 
particolare al Docente relatore e al Direttore della Scuola di 
Specializzazione, ma anche all’intero Corpo Docente, ai fini di un giudizio 
di approvazione, una tesi a carattere “compilativo”, cioè priva di pretese 
veritative, o pretenziosamente originali, nel senso di cercare da parte dello 
scrivente nuove deduzioni rispetto ad una più consolidata dottrina, tutto ciò 
senza che la scarsa genuinità vada ad inficiare alcuni spunti di riflessione 
individuali che per non essere riferiti ad altri potrebbero essere definiti 
come “formulati” autonomamente dallo scrivente. Se cioè si volga lo 
sguardo, persino se esso sguardo sia di breve momento, alla stesura 
dell’Indice, che è inserito immediatamente “prima” di questa breve 
introduzione, la quale appartiene com’è ovvio al corpo del testo, si 
potrebbe anche distrattamente notare che il presente lavoro è suddiviso in 
più Capitoli, alcuni anche più brevi di un normale capitolo di un qualsiasi 
testo accademico, i quali però non sono, in ragione della loro “brevità”, 
quel che si dice ”una bagatella” ma un qualcosa in cui si realizza, in un 
certo senso, la volontà di chi scrive, la quale trascende la lettera del testo e 
si configura come la volontà di chiarire a sé stesso e dinanzi al Docente 
relatore in primis, ciò che è stato inserito inizialmente e che si conclude con 
il riferimento incidentale, ma a mio parere assai rilevante, ai rapporti in 
senso legislativo e dottrinale tra Diritto dell’ambiente e Diritto processuale 
penale. Ciò che in minima parte costituisce per lo scrivente un motivo di 
imbarazzo è peraltro, e ne domando scusa, l’incertezza circa il numero, 
l’estensione e l’oggetto delle “note a pie’ di pagina” grazie alle quali, 
secondo l’indicazione sempre del Relatore, è possibile dare maggiore 
consistenza e sostanza a ciò che si afferma nel corpo del testo. Per quanto 
detto tenterò di inserire nelle note cui ho poc’anzi accennato tutto ciò che 
costituisce: un approfondimento, la difesa di un assunto di principio, la 
motivazione oppure la sintesi di un provvedimento legislativo o 
giurisdizionale, ma anche per esteso una pronuncia della Corte 
Costituzionale senz’altro riferibile alla questione della tutela dell’ambiente. 
Per quanto attiene agli argomenti, possibile oggetto di trattazione, essi mi 
paiono abbastanza ricchi, nutriti e configurati da chi scrive secondo il 
metodo del confronto con il diritto ambientale di altri settori del diritto 
oggettivo; tutto ciò precisando che per “altri settori” vorrei indicare le altre 
materie giuridiche di cui si compone il nostro diritto oggettivo, materie 
ovviamente assai differenti e anche a volte del tutto indipendenti tra loro, 
oltre che dal Diritto Ambientale, e ciò o per propria autonoma sussistenza 
normativa oppure perché apparentemente le distanze tra principi di diritto 
ambientale e principi di altri settori del diritto sono troppo ampie e 
proibitive. L’intero lavoro è pertanto finalizzato anche, modestamente, a 
ritrovare, nel mare magnum del diritto oggettivo e delle sue materie 
giuridiche, le interrelazioni necessarie a configurare dal punto di vista 
dottrinale uno o più punti di contatto sempre tra diritto dell’ambiente e tutto 
il novero delle più rilevanti materie giuridiche, conferendo, nella 
percezione di chi scrive, ad esso diritto dell’ambiente, la legittima 
appartenenza al novero dei risultati, assai cospicui, cui il diuturno lavorìo 
dottrinale, giurisprudenziale e infine legislativo, ha consentito ad oggi di 
giungere, sempre in riferimento a quanto detto e al di là delle evidenti 
difficoltà che il problema in parola potrebbe presentare. 
I. Considerazioni a carattere generale sulla normativa di principio 
in materia ambientale 
Prima di esaminare nel dettaglio le caratteristiche settoriali del diritto 
ambientale mi pare doveroso un riferimento a tutta una serie di fonti, 
afferenti alla formazione del diritto ambientale, fonti relative allo sviluppo 
di quel processo che, a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, ha 
dato luogo alla nascita e alla consolidazione di una serie di principi oggi 
quasi del tutto accettati non solo a livello internazionale, ma anche 
nell’ambito degli ordinamenti interni di più entità statali, variamente legati 
da più trattati, bilaterali, trilaterali o multilaterali. Ma per ben introdurre i 
Trattati internazionali che hanno avuto ed hanno ad oggetto la tematica 
ambientale, converrà operare un qualche cenno al Diritto internazionale 
“generale”, così da evidenziare anche quegli aspetti che vengono “prima” 
dei Trattati internazionali in materia ambientale e che ne condizionano le 
modalità di redazione e ratifica. Per fare tutto ciò occorre però far 
riferimento a tre insiemi di norme: il primo è quello già nominato delle 
fonti internazionali; il secondo è quello delle norme internazionali 
costituenti un sottoinsieme del primo, cioè, per quanto interessa l’Italia, le 
norme di matrice UE; infine è imprescindibile il riferimento alla normativa 
di carattere interno ad ogni entità statale, nella fattispecie della normativa 
che è finalizzata al riconoscimento e alla applicazione da parte di ciascun 
Stato nel proprio ordinamento di quelle stesse norme di carattere 
internazionale di cui si è detto, con particolare riferimento all’ordinamento 
del Nostro Stato. Esiste in altre parole un dovere per ciascuno Stato 
aderente agli accordi internazionali in parola, di emanare un provvedimento 
che consenta alle disposizioni di quegli stessi accordi di operare nella realtà 
“materiale” dello Stato in questione, ove chiaramente lo Stato in questione 
ne condivida l’intento. Per quanto riguarda lo Stato Italiano le norme di 
riferimento in materia di attuazione dei trattati internazionali ed in materia 
di recepimento dei provvedimenti di derivazione ONU e UE, vengono in 
rilievo gli artt. 10 e 11 della Nostra Carta Costituzionale. Il primo degli 
articoli citati recita: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle 
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione 
giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e 
dei trattati internazionali1 . Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese 
l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione 
italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le 
1 Cfr.: Diritto internazionale privato: Legge 218/95. 
condizioni stabilite dalla Legge. Non è ammessa l’estradizione dello 
straniero per motivi politici”. 
Il secondo articolo citato, che è quello di maggiore interesse nella presente 
trattazione, dispone nel senso seguente: “L’Italia ripudia la guerra come 
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di 
risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di 
parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un 
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni: promuove e 
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Mi pare di 
potere affermare che il primo degli articoli citati denoti la adesione 
dell’Italia alle norme dei trattati adottati dagli organi competenti ed 
esponenziali dei punti di convergenza tra gli ordinamenti dei Paesi della 
Comunità Internazionale, e quindi in forza di esso articolo abbia parte 
nell’ambito dell’ONU, cioè “Organizzazione delle Nazioni Unite”, oltre ad 
essere parte di altri trattati internazionali bilaterali, trilaterali o plurilaterali 
non solo presenti ma anche eventualmente in fase redazionale o in attesa di 
ratifica. 
Il novero di tali Trattati ha ad oggetto svariate materie, ad esempio, 
ritornando per un attimo al tema in parola, lo stesso problema della tutela 
 NOTA: Sigla e Descrizione delle numerose Associazioni e Organizzazioni internazionali 
create per il tramite della normativa trattatistica. AAN Assemblea Atlantico del Nord. 
Altra denominazione: NAA. ABM Anti balistic missile = Trattato anti missili balistici; 
ACC Arab Cooperation Council = Consiglio di Cooperazione Araba ACMN Alto 
Commissario per le minoranze nazionali. Altra denominazione: HCNM. ACNUR Alto 
Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. Altra denominazione: UNCHR; ACP 
Stati d’Africa, dei Caraibi e del Pacifico; AEA European Environmental Agency = 
Agenzia Europea dell'Ambiente. Altra denominazione EEA; AFTAAmerica Free Trade 
Area = Zona di libero scambio americana; AIEA Agenzia internazionale dell’Energia 
Atomica. Altra denominazione: IAEA; ALADI, Asociación Latino-Americana De 
Integración = Associazione Latino Americana di Integrazione. Altra denominazione: 
LAIA. ALALC Asociación Latino-Americana de Libre Comercio = Associazione latino-
americana di libero scambio. Altre denominazioni: ALALE e LAFTA. ALALE 
Asociación Latino/Americaine de Libre/Echange = Associazione latino americana di 
libero scambio. Altre denominazioni: LAFTA e ALALC. Altener II: Programme for the 
promotion of renewable energy sources in the Community = Programma per la 
promozione delle fonti energetiche rinnovabili nella Comunità; ANCOM Andean 
Common Market = Mercato comune andino. APCEA Association parlamentaire pour 
la coopération Euro-arabe = Associazione parlamentare per la cooperazione euro-
araba; APEC Asia-Pacific Economic Cooperation = Cooperazione economica Asia–
Pacifico; ARION: Community programme concerning study visits for educationalists = 
Programma comunitario relativo a visite di studio per i responsabili della politica 
educativa. ASA Association of South-East Asia = Associazione dei Paesi del Sud est 
asiatico; ASE European Space Agency = Agenzia spaziale europea. Altra 
denominazione: ESA: ASEAN Association of South-East Asian Nations = Associazione 
delle Nazioni del Sud-est asiatico. ASEF Asia Europe Foundation = Fondazione Asia – 
Europa. ASEM Asia Europe meeting = Incontro Asia Europa Auto Oil; Community 
program for the prevention of air pollution from motor vehicles = Programma 
comunitario relativo alla lotta contro l'inquinamento atmosferico provocato dai veicoli 
a motore; AWEPA: Association of Western European Parliamentarians for Africa = 
Associazione dei parlamentari dell’Europa occidentale per l’Africa AWEPAA 
Association of West European Parliamentarians for Action Against Apartheid = 
Associazione dei Parlamentari dell’Europa occidentale per l’azione contro l’apartheid. 
 Voce tratta dall’Enciclopedia Treccani on/line, che così continua:” Per approfondire la 
conoscenza dell'origine della nostra biosfera, è opportuno fare riferimento a un utile e 
chiaro modello di vita minima. Esso può essere considerato come un sistema costituito 
da tre sottosistemi auto/catalitici: uno metabolico, uno genetico e uno che funge da 
confine. Il sistema, nel suo insieme, deve essere in grado di riprodursi nello spazio e, 
inoltre, può risultare utile poiché è in grado di conciliare le due teorie tradizionali 
rispetto al problema della vita: l'approccio genetico e quello sistemico. Per di più 
consente di esaminare ulteriori ipotesi sulle origini della vita. Varie teorie spiegano le 
dell’Ambiente, la cui tutela, come è noto, interessa, (se è vero che il pianeta 
Terra costituisce di per sé una biosfera, o ecosfera, vocabolo comprensivo 
per indicare quella parte della Terra nella quale si riscontrano le condizioni 
indispensabili alla vita animale e vegetale), tutti gli abitanti del pianeta, ciò 
conferendo alla tutela in parola il rango di “qualcosa di fondamentale e 
generale”. La biosfera terrestre comprende la parte bassa dell’atmosfera, 
tutta l’idrosfera e la parte superficiale della litosfera, fino a 2 km di 
profondità. Insieme alle forme di vita che ospita, costituisce un sistema 
complesso, in equilibrio dinamico con le altre componenti della Terra. 
Origini di questi sottosistemi e le loro diverse associazioni. Nonostante siano stati 
effettuati con successo numerosi esperimenti nel campo dell'evoluzione chimica, ancora 
non sappiamo da dove potrebbero essere derivati gli acidi nucleici (DNA, RNA) e i 
lipidi, ossia i composti chimici considerati determinanti rispettivamente per i processi 
ereditari e per la costituzione dei confini cellulari. Pur in presenza di questo limite, molti 
ricercatori credono che ci sia stato uno stadio transitorio dell'evoluzione, il cosiddetto 
mondo a RNA, in cui si ritiene che quest'acido svolgesse sia il ruolo genetico, sia quello 
enzimatico. Ciò nonostante, non è ancora disponibile una qualche ipotesi attendibile in 
grado di delineare un meccanismo plausibile per l'auto/replicazione dell'RNA, senza 
l'ausilio di enzimi in un ambiente prebiotico. Al di là delle considerazioni strutturali, 
anche la dinamica di questi sistemi è d'importanza fondamentale. Sembra che per la 
formazione del genoma primordiale sia stata essenziale la compartimentazione, prima in 
forma passiva (tramite assorbimento su superfici minerali), poi in una forma attiva 
(mediante le membrane). È probabile che il codice genetico si sia originato in sistemi 
già viventi e che gli amminoacidi possano essere stati introdotti in un mondo a RNA 
come coenzimi dei ribosomi. Per poter affrontare il problema dell'origine dei sistemi 
biotici, quindi, si deve innanzi tutto concordare su una definizione operativa del 
concetto di vita. Purtroppo, a questo proposito, non esiste finora un accordo generale, 
poiché alcuni studiosi ritengono che per caratterizzare la vita siano necessari o 
sufficienti, da soli o in associazione, la capacità di auto/replicazione, l'utilizzazione di 
enzimi nei processi chimici o addirittura la presenza di vere e proprie cellule. Di certo è 
importante il criterio di discriminazione, che se applicabile su vasta scala, dovrebbe 
essere in grado di: (a) differenziare tra vivente e non vivente in modo operativamente 
semplice e in modo non troppo restrittivo; (b) includere la vita in tutte le sue forme note, 
sia quelle attuali sia, ipoteticamente, in tutte quelle passate; (c) agevolare la 
progettazione in laboratorio di esperimenti su forme di vita minima coerenti con essa; 
(d) aiutare chi esplora lo spazio ad attribuire il termine vita a nuove forme biologiche 
scoperte; (e) essere coerente dal punto di vista logico.” 
 
I problemi che potrebbero sorgere in relazione alla conservazione, sempre 
della biosfera, interessano come accennato, tutti gli Stati del mondo, anche 
se non tutti sono disposti a prendere parte attiva ai Trattati internazionali in 
materia, oppure non riescono, come ad esempio la Cina, ad ottemperare 
alle disposizioni dei predetti Trattati e ai limiti da essi posti alle emissioni 
nocive e all’inquinamento che ne deriva, semplicemente perché la velocità 
dello sviluppo industriale non consente loro, per ora, di adottare 
provvedimenti nel senso di ridurre le emissioni di sostanze che vanno 
contro le istanze di tutela dell’ambiente contenute nei Trattati relativi e a 
cui tutti i Paesi sono chiamati a livello internazionale a prendere parte 
attiva. 
Per quanto riguarda il secondo dei due articoli costituzionali citati, anche 
esso è riferibile ad una prospettiva sovranazionale. Notevole è l’impegno 
del Nostro Paese nel ripudiare ogni tipo di conflitto ed anzi di negare in 
toto al ricorso alla guerra ogni legittimazione in ordine alla risoluzione 
delle controversie internazionali.4 Ma il contenuto del disposto in parola 
davvero interessante ai fini di un discorso sull’ambiente è relativo alla 
seconda parte dell’articolo 11 Cost., e si sostanzia nella dichiarazione di 
consenso da parte del Governo italiano all’adesione ad organizzazioni che 
tutelino la pace e la giustizia tra le Nazioni, anche se ciò comporti a carico 
dell’Italia “limitazioni alla propria sovranità”. 
 Ormai da anni non si parla più di sostegno da parte dell’Italia a uno o più Stati in 
conflitto, ma di “missione di pace”, ad indicare la volontà da parte del nostro Paese di 
favorire attraverso la presenza nei teatri di guerra, il raggiungimento di accordi di 
pacificazione, quando non periodici “cessate il fuoco”. 
 L’organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) è un’unione di Stati a competenza 
generale e a vocazione universale, fondata nel 1945. Suoi obiettivi, elencati all’art. 1 
della Carta delle Nazioni Unite, sono: mantenere la pace e la sicurezza internazionale 
(Sicurezza collettiva); sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni, sulla base del 
rispetto dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli; promuovere la 
cooperazione internazionale in materia economica, sociale e culturale (Cooperazione 
allo sviluppo), nonché il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali 
(Diritti umani. Diritto internazionale). Dell’ONU, operativa dal 1946 e con sede a New 
York, fanno parte 193 Stati. Nel 2001 è stato conferito all’ONU e al suo Segretario 
generale di allora K. Annan il premio Nobel per la pace. 
 L’art. 7 della Carta dell’ONU distingue tra organi principali e organi sussidiari. I primi, 
stabiliti direttamente dalla Carta, che ne regola la composizione e le funzioni quali 
organi permanenti, sono: l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il Consiglio di 
sicurezza delle Nazioni Unite, il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, il 
Segretariato (avente a capo il Segretario generale delle Nazioni Unite), il Consiglio 
Sulla base della lettura del secondo articolo mi pare di capire che, se è vero 
che l’art. 10 Cost. fa riferimento all’ONU5 e alla adesione a tale 
d’amministrazione fiduciaria (che aveva la funzione di controllare l’amministrazione di 
determinati territori, già sottoposti a un regime di tipo coloniale da parte dello Stato cui 
erano affidati, e che ha cessato formalmente di funzionare nel 2005); la Corte 
internazionale di giustizia. 
Gli organi sussidiari, istituiti dagli organi principali tramite una delibera ad hoc, non 
hanno carattere permanente e svolgono le funzioni loro attribuite dagli organi principali. 
Nel corso degli anni l’Assemblea ha istituito organi sussidiari per perseguire fini 
specifici, quali la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo; 
il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo; il Fondo delle Nazioni Unite per 
l’infanzia; il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Tra gli organi sussidiari 
più rilevanti figura l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, istituito 
dall’Assemblea generale con risoluzione 428 (V) del 14 dicembre 1950. Nel 2005 sono 
stati creati due nuovi organi sussidiari: il Consiglio per i diritti umani, anch’esso 
dipendente dall’Assemblea, che ha sostituito la preesistente Commissione dei diritti 
umani, e la Commissione per il peace-building, organo comune dell’Assemblea 
generale e del Consiglio di sicurezza. 
Durante la seconda guerra mondiale “Nazioni Unite” fu la denominazione indicante il 
complesso degli Stati in guerra contro le potenze del Tripartito. Sulla base ideologica 
della Carta Atlantica, il 1° gennaio 1942, 26 Stati sottoscrissero a Washington la 
Dichiarazione delle Nazioni Unite, impegnandosi a mettere in comune per le esigenze 
belliche le proprie risorse e a non concludere armistizio e pace separata con i nemici. 
Attraverso varie tappe (conferenze di Mosca 19-30 ottobre 1943, Dumbarton Oaks 21 
agosto-7 ottobre 1944, Yalta 4-11 febbraio 1945), l’azione diplomatica di Stati Uniti, 
Unione Sovietica e Gran Bretagna spinse l’iniziativa verso la costituzione di 
un’organizzazione internazionale per il mantenimento della pace, basata 
sul principio della sovrana uguaglianza degli Stati membri. Tale costituzione, che in 
parte riprese caratteri già propri della Società delle Nazioni, fu realizzata nella 
conferenza di San Francisco (25 aprile-26 giugno 1945), ove 50 nazioni sottoscrissero 
la Carta delle Nazioni Unite, entrata in vigore il 24 ottobre 1945. 
I presupposti dai quali, alla fine della seconda guerra mondiale, il sistema di sicurezza 
dell’ONU traeva origine consistevano sia nella convinzione che nessuna efficace tutela 
della pace nel mondo avrebbe potuto realizzarsi senza un’azione di comune accordo fra 
le maggiori potenze internazionali sia nella esigenza di limitare il più possibile, nelle 
situazioni di minaccia alla pace, l’uso unilaterale della forza armata da parte degli Stati, 
attribuendone il monopolio al Consiglio di sicurezza, che avrebbe dovuto garantire 
interventi rispondenti alla volontà comune delle principali componenti 
della comunità internazionale. 
Ma, oltre al limite costituito dalla facoltà di veto concessa ai membri permanenti del 
Consiglio, che impedisce di procedere in senso contrario alla volontà anche di una sola 
di tali potenze, la netta divisione della comunità internazionale in due blocchi principali 
(occidentale, composto dagli Stati sviluppati e a economia capitalista, e orientale, 
composto dagli Stati con regimi di socialismo reale) e, soprattutto, la contrapposizione 
frontale fra le due maggiori potenze di ciascuno di tali blocchi, USA e URSS, precluse a 
lungo il formarsi di una volontà comune dei membri permanenti del Consiglio di 
sicurezza in relazione alle principali crisi e ai conflitti internazionali. 
In secondo luogo, l’impegno assunto dagli Stati membri di mettere a disposizione 
contingenti e attrezzature militari tali da permettere la costituzione di una forza armata 
permanente dell’ONU rimase sulla carta, rendendo di fatto impossibile una gestione 
diretta da parte del Consiglio di operazioni militari intese a fermare e a reprimere atti di 
aggressione o altre gravi violazioni della pace. L’unico intervento incisivo 
dell’Organizzazione all’epoca della guerra fredda si ebbe nel 1950 quando il Consiglio 
di sicurezza autorizzò l’uso della forza armata da parte degli Stati membri per reagire 
all’attacco portato dalla Corea del Nord alla Corea del Sud: autorizzazione 
accompagnata da una massiccia azione di truppe statunitensi che respinsero nelle 
posizioni originarie le forze nordcoreane. Nonostante la paralisi pressoché totale del 
Consiglio di sicurezza, qualche altro risultato fu egualmente raggiunto: va ricordato 
l’invio di numerose forze di pace (UN peacekeeping forces) per assicurare sia il rispetto 
di accordi di cessate il fuoco sia il mantenimento di zone cuscinetto fra le parti 
belligeranti (Peace-keeping). 
Inoltre, relativamente all’aspetto preventivo dei conflitti internazionali, le Nazioni Unite 
rappresentarono il principale foro internazionale in cui si è combattuta la guerra fredda, 
mantenendola su un piano politico-diplomatico, senza degenerare in uno scontro armato 
o in una rottura insanabile. Infine, va ricordata la costante azione per un disarmo 
multilaterale e per la non proliferazione e il divieto di uso e di commercio di armi 
nucleari e termonucleari. 
I mutamenti nella situazione politica mondiale, a seguito del crollo dei regimi comunisti 
nell’Est europeo (1989-91), hanno inciso sensibilmente nella composizione e negli 
equilibri dell’ONU. Non solo, infatti, dal 1991 al 1993 si aggiunsero ben 17 nuovi Stati 
membri ma, soprattutto con la dissoluzione dell’URSS, venne a mancare una delle 
grandi potenze che avevano dato origine all’intero sistema, condizionandone a lungo il 
funzionamento. 
Il mutato quadro politico fece emergere una rinnovata possibilità di azione da parte del 
Consiglio di sicurezza. Nel 1991, dopo l’invasione e l’annessione forzata del Kuwait da 
parte dell’Iraq dell’agosto 1990, l’ONU affidò a una coalizione di forze composte dai 
maggiori e dai minori paesi membri delle Nazioni Unite il compito di respingere fuori 
dal Kuwait gli iracheni, attraverso un intervento militare guidato dagli Stati Uniti. 
Diverso e sicuramente meno incisivo fu il ruolo dell’ONU in Ruanda, quando 
il conflitto tra hutu e tutsi esplose violentemente nel 1994. Nessun intervento di 
interposizione tra le parti sembrò praticabile da parte dell’ONU, che promosse 
comunque aiuti umanitari per attenuare, quantomeno, la portata del disastro. La crisi 
scoppiata nella Iugoslavia nel 1992, con la dissoluzione della Repubblica popolare 
federale, espose l’ONU a difficili e inconcludenti iniziative. Dal giugno 1992 forze di 
interposizione ONU vennero dispiegate a Sarajevo e in altre zone del paese, e nel 
settembre una risoluzione del Consiglio di sicurezza bandì i voli militari nello spazio 
aereo della Bosnia ed Erzegovina. Nel 1993, sei città musulmane, assediate dai Serbo-
Bosniaci, furono poste sotto la protezione dell’ONU (con la missione UNPROFOR), ma 
nel suo insieme l’azione si rivelò fortemente inadeguata rispetto alla violenza del 
conflitto. 
Successivamente, misure implicanti l’uso della forza sono state decise dal Consiglio di 
sicurezza per fronteggiare la minaccia del terrorismo internazionale (intervento 
in Afghanistan, 2001), o per porre fine a gravi e massicce violazioni dei diritti umani nel 
corso di una guerra civile (intervento in Libia, 2011). Complessivamente, l’ONU non 
sembra ancora aver assunto il ruolo di protagonista che le sarebbe proprio. Va peraltro 
considerato positivamente il crescente rilievo assunto dall’attività non coercitiva, 
consistente nell’invio di forze di pace in situazioni di grave e persistente crisi interna di 
alcuni Stati. 
In campo politico-sociale l’azione dell’ONU si è rivelata di notevole incisività 
soprattutto nel processo di decolonizzazione, nel periodo che va dalla metà degli anni 
1950 alla fine degli anni 1960. 
L’azione diplomatica svolta contribuì soprattutto ad accelerare l’acquisizione 
dell’indipendenza dei nuovi Stati. Il momento culminante può individuarsi nella dura 
condanna del colonialismo pronunciata dall’Assemblea generale nella Dichiarazione del 
14 dicembre 1960. La crescita della rappresentanza afro-asiatica conseguente 
alla decolonizzazione ha determinato un più cospicuo interessamento a favore di un 
equilibrato sviluppo economico e sociale dell’intera comunità internazionale. 
L’impegno dell’ONU in questo campo si è manifestato soprattutto nell’elaborazione e 
nell’affermazione dei principi di un nuovo ordine dei rapporti economici fra gli Stati, 
diretto a ridurre le enormi diseguaglianze esistenti nelle condizioni di benessere 
economico e sociale e nelle capacità produttive e di commercio. Inoltre 
l’Organizzazione si è attivata nella realizzazione di programmi di assistenza tecnica, di 
finanziamento e ricostruzione economica in numerose aree del mondo, specie in Africa, 
Estremo Oriente e America Latina. 
In questo settore è stata elaborata e adottata in seno all’ONU una serie di importanti atti 
normativi, intesi a promuovere uno standard minimo di rispetto dei principali diritti 
umani e a condannare le più gravi violazioni di tali diritti (Dichiarazione universale dei 
diritti dell’uomo, 10 dicembre 1948; Convenzione contro il genocidio, 9 dicembre 1948; 
Dichiarazione e Convenzione contro la discriminazione razziale, 20 e 21 dicembre 
1965; Patto internazionale sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici, sociali 
e culturali, 16 dicembre 1966; Convenzione contro l’apartheid, 30 novembre 1973; 
Dichiarazione e Convenzione contro la tortura, 9 e 10 dicembre 1984; Moratoria 
universale della pena di morte, 18 dicembre 2007). 
In secondo luogo, l’ONU si è impegnata nella denuncia e nella condanna di singoli 
paesi che violassero sistematicamente i più elementari diritti dell’uomo. In tal senso 
l’intervento più continuo ed efficace si è avuto nei confronti di Sudafrica e Rhodesia 
(odierno Zimbabwe) per il regime di apartheid; ma ripetute sono state pure le denunce 
delle violazioni perpetrate da Israele nei territori arabi occupati o da dittature militari 
come quelle di alcuni paesi latino-americani negli anni 1970-80. 
L’azione a tutela dei diritti umani incontra tuttavia un limite di rilievo nello stesso 
statuto dell’Organizzazione, che vieta l’intervento negli affari interni degli Stati 
membri), finendo per impedire qualsiasi azione diretta in situazioni di grave violazione 
dei diritti dell’uomo; a meno che la violazione stessa non costituisca anche una 
minaccia alla pace, nel qual caso il divieto suddetto è inapplicabile. 
Data una certa organizzazione da parte dell’Italia, il secondo articolo sia invece tale da 
fondare, nel proprio disposto, una sostanziale apertura del nostro 
ordinamento alla partecipazione alla Unione Europea, la quale, secondo il 
ragionamento elaborato all’inizio del presente lavoro, adottando un modo 
di procedere “per insiemi” potremmo definire come sottoinsieme 
dell’ONU, in quanto quest’ultimo contiene al proprio interno l’UE, essendo 
l’ONU più comprensivo a livello di adesioni rispetto alla stessa UE, la 
quale peraltro comprende in sé a sua volta un insieme, comunque sia, 
nutrito di Stati aderenti. La riflessione appena citata non avrebbe però alcun 
senso se non fosse connessa al carattere “trasversale” della tutela 
ambientale, che come già detto più su nel lavoro in parola, interessa l’intera 
biosfera. Ed è allora compito del Nostro Paese, insieme a tutti i Paesi che 
hanno aderito anche in un passato non troppo vicino, a Trattati di Diritto 
Internazionale tout court o di Diritto internazionale comunitario, continuare 
nell’attività di recepimento delle normative provenienti prevalentemente, 
ad oggi e anche limitatamente all’Italia, dall’ordinamento comunitario. Tra 
gli oggetti di recepimento rientra senz’altro la normativa a tutela 
dell’ambiente. 
II. Cenni alla struttura e alla formazione della norma 
internazionale. Citazione delle inerenti disposizioni a carattere 
internazionale in materia di ambiente. Riferimenti dottrinali. 

A questo punto del discorso ci si potrebbe domandare quali siano i vincoli a 
carattere internazionale accettati e formalmente condivisi anche dall’Italia, 
considerando che comunque ve ne è un novero piuttosto 
esauriente. Ovviamente esiste una risposta, la quale può essere formulata 
nei termini secondo cui come in ogni aggregato di norme, anche nel diritto 
internazionale esistono meccanismi che si pongono quali matrici delle 
norme che quell’aggregato vanno a sostanziare.6 Esistono cioè norme sulla 
“formazione” di norme di rango secondario e terziario, che poggiano sulle 
norme a carattere primario. Potremmo suddividere a tale stregua le norme 
meramente internazionali, cioè non comunitarie o nazionali, in due insiemi 
distinti: le norme consuetudinarie e le norme dei trattati e del diritto 
derivato dalle predette consuetudini, infine le norme attuative delle 
disposizioni internazionali le quali costituiscono l’ultimo anello applicativo 
della serie di norme come poc’anzi descritta. Per cominciare, vediamo cosa 
sono le norme consuetudinarie. Queste ultime sono ben conosciute nel 
nostro ordinamento in quanto comprese nel novero delle “Disposizioni 
preliminari al Codice civile” o “disposizioni sulla legge in generale”. Per 
la verità il legislatore, nel dettare le norme preliminari al Codice Civile, 
annovera tra le Disposizioni preliminari non proprio la “consuetudine” tout 
Il primo di tali aggregati di norme è la consuetudine internazionale che vale finché è 
rispettata ed applicata da un numero sufficiente di Stati. Dalle regole consuetudinarie 
deriva poi la norma pattizia, che a differenza della consuetudine necessita non solo di un 
atteggiamento psicologico favorevole e di forte abitualità, ma soprattutto un documento 
condensato in un supporto scritto, sia cartaceo che digitale, eventualmente assistito da 
protocolli, cioè accordi “accessori” che non fanno niente altro che specificare i diritti e i 
doveri dei contraenti, i quali ultimi, lo ricordiamo, sono sempre Entità Statuali o 
parastatali. 
 
Ma ciò che corrisponde alla consuetudine, cioè gli “usi”, espressione 
che potrebbe essere intesa come sinonimo per l’appunto di consuetudine. 
Per passare all’ambito internazionale, sono consuetudini, così come lo sono 
a livello interno, quei comportamenti ripetuti nel tempo e assistiti dalla 
convinzione che quegli stessi comportamenti siano giuridicamente dovuti o 
che si abbia il diritto di praticarli anche in assenza di formale disciplina. 
Occorrono dunque quei caratteri che a livello interno come a livello 
internazionale sono la c.d. “diuturnitas” insieme quest’ultima alla “opinio 
iuris ac necessititatis”. A partire dunque dai suddetti presupposti, vengono 
ricavate le norme dei Trattati, i quali, a parte la consuetudine, costituiscono 
le fonti primarie cui ogni ordinamento può o meno scegliere di aderire. Ciò 
vale anche per l’Italia8. Infine ci si interroga sulla questione della possibile 
inclusione delle norme di equità tra le norme internazionali. La risposta 
sembra debba essere negativa.9 E tale risposta va estesa non solo alla 
consuetudine contra legem, contraria cioè alle pregresse norme 
consuetudinarie, ma anche alla consuetudine praeter legem ossia quella tra 
le consuetudini che si ponesse a integrazione del diritto internazionale. Ove 
infatti il diritto internazionale è lacunoso ciò non vuol dire che vi sia una 
assenza di disciplina, ma che non vi è per il momento da parte di due o più 
stati la volontà o la necessità di colmare la assenza di disciplina in uno o 
più ambiti suscettibili di quella stessa disciplina che andrebbe, se accettata 
in forza di trattato, a regolamentare i rapporti tra i contraenti. Occorre 
allora, come da intestazione e una volta fatto riferimento alla formazione 
delle norme a carattere internazionale, accennare alle fonti di carattere 
internazionale generalmente riconosciute in materia ambientale. E 
possibilmente all’iter, cioè al novero dei trattati stipulati in successione, 
trattati chiaramente aventi ad oggetto la problematica ambientale. 

III. Cenni al processo di consolidazione del diritto ambientale a 
livello internazionale 

Innanzitutto bisogna dire che la situazione ambientale iniziò a 
rappresentare un “problema” a carattere internazionale a partire dagli anni 
’70 dello scorso secolo, probabilmente a partire da una crisi energetica che 
interessò il mondo intero e che fu dovuta ad una carenza di fonti 
energetiche fossili, o idrocarburi, che dir si voglia. In altre parole il prezzo 
delle materie prime di sviluppo utilizzate da quasi tutti i paesi del mondo, e 
cioè carbone e petrolio subì gli effetti di una drastica diminuzione in 
concomitanza con una situazione internazionale che era all’epoca 
caratterizzata dal fenomeno della decolonizzazione e della chiusura ai 
rapporti commerciali da parte dei Paesi ricchi di risorse fossili ma ostili 
all’Occidente industrializzato, che posero in atto una forte speculazione 
accrescendo il prezzo delle materie prime per danneggiare Paesi come 
l’Italia, che di materie prime come il petrolio era ed è forte importatrice. 
Quindi, relativizzando l’aspetto ambientale alla scarsità di combustibili 
fossili si cominciò a pensare all’ambiente come risorsa non solo da 
proteggere di per sé, ma anche e soprattutto per ricavare dall’ambiente 
stesso fonti di energia “pulita” che potessero cioè sostituire in sostanza la 
dipendenza dal petrolio. In questa rassegna di Convenzioni internazionali a 
tutela dell’ambiente si comincia con la Conferenza di Stoccolma. 
Il testo dell’art. 21 è il seguente: ”la Carta delle Nazioni Unite e i principi del diritto 
internazionale riconoscono agli Stati il diritto sovrano di sfruttare le risorse in loro 
possesso, secondo le loro politiche ambientali, ed il dovere di impedire che le attività 
svolte entro la propria giurisdizione o sotto il proprio controllo non arrechino danni 
all'ambiente di altri Stati o a zone situate al di fuori dei limiti della loro giurisdizione 
nazionale.” 
 Il testo dell’art. 24 è il seguente: “la cooperazione per mezzo di accordi internazionali 
o in altra forma è importante per impedire, eliminare o ridurre e controllare 
efficacemente gli effetti nocivi arrecati all'ambiente da attività svolte in ogni campo, 
tenendo particolarmente conto della sovranità e degli interessi di tutti gli Stati. 
Il Rapporto Brundtland. "Il futuro di tutti noi", rapporto della Commissione 
Brundtland su ambiente e sviluppo, è stato pubblicato nel 1987. Lo studio prende avvio 
sottolineando come il mondo si trovi davanti ad una "sfida globale" a cui può rispondere 
solo mediante l'assunzione di un nuovo modello di sviluppo definito "sostenibile". Per 
sviluppo sostenibile si intende "far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione 
senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro". "Lo sviluppo 
sostenibile, lungi dall'essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto processo 
di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, 
l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi 
coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali". Tuttavia, se da un lato "lo 
sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a 
tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore" dall'altro nella 
proposta persiste una ottimistica (per alcuni critici eccessiva) fiducia nella tecnologia 
che porterà ad una nuova era di "crescita economica": "Il concetto di sviluppo 
sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensì imposti dall'attuale stato della 
civiltà relativamente all' Ambiente Umano, promossa dall’ONU per fare piena luce sui rapporti 
tra lo sviluppo incontrollato sulla base del petrolio e le esigenze di 
protezione dell’ambiente non ancora adeguatamente considerate. Alla 
Conferenza di Stoccolma fece seguito la Dichiarazione di Stoccolma, 
firmata dai Paesi che avevano preso parte alla Conferenza, con la quale 
dichiarazione vennero sanciti principi di grande importanza per il futuro del 
Diritto dell’Ambiente, quali il principio 2111 e 2412 della stessa 
Dichiarazione. 
Nello sviluppo del diritto internazionale relativo all’ambiente si ebbe un 
vero e proprio balzo in avanti con la pubblicazione del sunnominato Rapporto 
Brundtland, rapporto condizionato dalle Nazioni Unite, in ordine alla
tecnologia e all'organizzazione sociale delle risorse economiche e dalla capacità della 
biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane. La tecnica e la organizzazione 
sociale possono però essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era 
di crescita economica". Comunque sia, un aspetto merita di essere sottolineato: la 
centralità della "partecipazione di tutti": "il soddisfacimento di bisogni essenziali (basic 
needs) esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la 
maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la garanzia che tali poveri abbiamo la 
loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità 
dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l'effettiva 
partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a 
livello delle scelte internazionali". Il rapporto è diviso in tre ampi sezioni che disegnano 
le sfide a cui è chiamata l'umanità: Parte 1. Preoccupazioni comuni · un futuro 
minacciato · verso uno sviluppo sostenibile · il ruolo dell'economia internazionale 2 
Parte 2. Sfide collettive · Popolazione e risorse umane · Sicurezza alimentare: sostenere 
le potenzialità · Specie ed ecosistemi: risorse per lo sviluppo · Energia: scelte per 
l'ambiente e lo sviluppo · Industria: produrre più con meno · Il problema urbano Parte 3. 
Sforzi Comuni · Gestione dei beni comuni internazionali · Pace, sicurezza, sviluppo e 
ambiente · Verso un'azione comune. Il volume si chiude con il Sommario dei principi 
legali proposti per la protezione ambientale e per lo sviluppo sostenibile. 
Citazione tratta dalla sintesi dei punti di maggiore interesse all’interno della 
Conferenza. L'improrogabile necessità di individuare un percorso universale per 
costruire uno sviluppo sostenibile conduce la comunità mondiale a riunirsi nel 1992 a 
sviluppo del tema dello “sviluppo sostenibile”, che allora per la prima volta 
venne formulato in un documento a carattere internazionale. La definizione 
data nel documento è quella secondo la quale “lo sviluppo sostenibile 
consiste nello sviluppo che soddisfa i bisogni della generazione presente, 
senza compromettere la possibilità per le generazioni future di soddisfare i 
propri”. Sempre sulla base del citato Rapporto “lo sviluppo sostenibile 
consiste nello sviluppo in cui l’utilizzo delle risorse, la direzione degli 
investimenti, la traiettoria del processo tecnologico e i cambiamenti 
istituzionali concorrono tutti insieme ad accrescere la possibilità di 
rispondere ai bisogni dell’umanità, non solo oggi, ma anche in futuro.” 
Per tornare alla considerazione dello sviluppo dell’istituto dello “sviluppo 
sostenibile” va fatta menzione di una Conferenza internazionale successiva 
a quella di Stoccolma ossia la Conferenza di Rio del 1992.
Rio de Janeiro. I Paesi aderenti Riconoscono che le problematiche ambientali devono 
essere affrontate in maniera universale e che le soluzioni devono coinvolgere tutti gli 
Stati. Vengono negoziate e approvate tre dichiarazioni di principi, firmate due 
convenzioni globali. Per sovrintendere all'applicazione degli accordi nasce la 
Commissione per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite CSD con il mandato di 
elaborare indirizzi politici per le attività future e promuovere il dialogo e la costruzione 
di partneriati tra governi e gruppi sociali. Hanno partecipato rappresentanti dei governi 
di 178 Paesi, più di 100 capi di Stato e oltre 1000 Organizzazioni Non Governative. 
Sono state sottoscritte 2 convenzioni e 3 dichiarazioni di principi: 
L'Agenda 21: il Programma d'Azione per il XXI secolo, pone lo sviluppo sostenibile 
come una prospettiva da perseguire per tutti i popoli del mondo 
La Dichiarazione dei principi per la gestione sostenibile delle foreste (pdf, 18 
KB) sancisce il diritto degli Stati di utilizzare le foreste secondo le proprie necessità, 
senza ledere i principi di conservazione e sviluppo delle stesse 
La Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (pdf, 52 KB) cui seguirà la 
Convenzione sulla Desertificazione - pone obblighi di carattere generale miranti a 
contenere e stabilizzare la produzione di gas che contribuiscono all'effetto serra 
La Convenzione quadro sulla biodiversità (pdf, 54 KB), con l'obiettivo di tutelare le 
specie nei loro habitat naturali e riabilitare quelle in via di estinzione 
La Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo (pdf, 17 KB), definisce in 27 principi 
diritti e responsabilità delle nazioni nei riguardi dello sviluppo sostenibile 
"Gli Stati coopereranno in uno spirito di partnership globale per conservare, tutelare e 
ripristinare la salute e l'integrità dell'ecosistema terrestre." 
[…] 
"Il modo migliore di trattare le questioni ambientali è quello di assicurare la 
partecipazione di tutti i cittadini interessati, a diversi livelli. […] Gli Stati faciliteranno e 
incoraggeranno la sensibilizzazione e la partecipazione del pubblico, rendendo 
ampiamente disponibili le informazioni." 
[…] 
"Gli Stati dovranno cooperare per promuovere un sistema economico internazionale 
aperto e favorevole, idoneo a generare una crescita economica e uno sviluppo 
sostenibile in tutti i Paesi, a consentire una lotta più efficace ai problemi del degrado 
ambientale. […] Le misura di lotta ai problemi ecologici transfrontalieri o mondiali 
dovranno essere basate, per quanto è possibile, su un consenso internazionale." 
"[…] La Comunità e i singoli cittadini devono assumersi in prima persona le proprie 
responsabilità. La condivisione della responsabilità impone un'azione collettiva […]" 
L'Unione Europea approva nel 1992 il Quinto Piano di Azione Ambientale (pdf, 529 
KB) al fine di rendere operativi gli accordi firmati a Rio. 
Il Piano auspica un cambiamento dei modelli di comportamento della società 
promuovendo la partecipazione di tutti i settori, rafforzando lo spirito di 
corresponsabilità che si estende all'Amministrazione Pubblica, alle imprese e alla 
collettività. Vengono ampliati i dispositivi per l'attuazione del programma, come 
strumenti legislativi, economici e finanziari. 
1992 V Piano d'Azione Ambientale dell'UE "Per uno sviluppo durevole e sostenibile" 
1993/1999 
"è necessario un cambiamento radicale in tutti i settori di intervento della comunità. 
Esso presuppone che la tutela dell'ambiente venga integrata nella definizione e 
nell'attuazione delle altre politiche comunitarie, non solo per il bene dell'ambiente, ma 
per il bene e il progresso degli altri settori." 
Settori d'intervento Industria manifatturiera: "occorre incoraggiare diverse forme di accordi su base 
volontaria e di autocontrollo" 
Energia 
"un miglioramento globale dei consumi energetici e dell'ambiente non è pensabile senza 
un miglioramento nei paesi in via di sviluppo e nell'Europa centrale e orientale." 
Trasporti 
"occorre migliorare la posizione competitiva dei modi di trasporti più ecologici, 
ferrovie, navigazione interna e marittima e trasporti combinati." 
Agricoltura 
"la ricerca di un equilibrio sostenibile tra attività agricola e risorse naturali … è 
auspicabile da un punto di vista ambientale e agricolo/economico. "Turismo "se il 
turismo è pianificato e controllato adeguatamente, può senz'altro favorire lo sviluppo 
regionale e la protezione dell'ambiente." 
 
 
IV. Cenni al processo definitorio dei principi fondamentali in materia 
ambientale a carattere sovranazionale 

Il processo di enucleazione dei principi fondamentali in materia ambientale 
ha dato luogo alla formulazione di più principi fondamentali in essa materia 
ed anche in materia di sviluppo sostenibile, ossia il “principio della 
sovranità permanente degli Stati sulle loro risorse naturali e del divieto di 
inquinamento transfrontaliero”, cioè il principio detto “21”. 
Il secondo principio, detto di “prevenzione” rappresenta un principio di 
riferimento, al quale tutti i Paesi sono vincolati e che costituisce l’obbligo 
di prevenire ogni situazione di potenziale rischio di danno all’ambiente, 
indipendentemente dalla circostanza che tale danno si verifichi ugualmente. 
Ulteriore principio è quello di “precauzione” secondo la cui definizione 
quando ci sono rischi di danni seri e irreversibili, quali che siano le 
risultanze scientifiche in merito, occorre tutelare l’ambiente in via 
prioritaria. 
Il principio di precauzione è presente in molte Convenzioni, ultima delle 
quali la Convenzione di Helsinki sui corsi d’acqua transfrontalieri. 
Insieme dei principî etici intesi a orientare i medici nella sperimentazione umana, 
messi a punto dalla World Medical Association e adottati nel giugno del 1964 a 
Helsinki. La Dichiarazione di fatto recepiva e ampliava i principî del Codice di 
Norimberga, e dal 1964 è stata più volte rivista e aggiornata, sull’onda delle nuove 
controversie e dei ripensamenti che sono emersi nel contesto della riflessione bioetica. 
Dal Codice di Norimberga, la Dichiarazione recepiva il principio del consenso, che da 
volontario diventava informato, quale requisito essenziale per rendere eticamente 
accettabile una ricerca clinica. Si ribadiva altresì che la ricerca su soggetti incapaci di 
fornire il consapevole consenso doveva essere condotta soltanto quando non fosse 
possibile effettuarla su persone giuridicamente in grado di farlo. Essa ammetteva 
comunque l’intervento del tutore nel caso di soggetti non in grado di dare il consenso a 
causa dell’età, delle condizioni fisiche o di un ritardo mentale, richiedendo tuttavia che, 
ove possibile, si dovesse avere l’assenso della persona anche se non competente. La 
Dichiarazione sosteneva, per la prima volta, la necessità che i protocolli di ricerca 
clinica e le procedure per ottenere il consenso venissero esaminate da comitati etici 
indipendenti operanti all’interno delle stesse istituzioni in cui vengono condotte le 
ricerche. Tra le valutazioni della Dichiarazione iniziale, che sono state superate nelle 
successive versioni, vi era la distinzione tra ricerca non terapeutica e ricerca terapeutica. 
Una novità importante introdotta nell’ultima versione riguarda il principio, controverso 
per numerosi bioeticisti, secondo il quale nelle sperimentazioni cliniche condotte nei 
Paesi in via di sviluppo si devono rispettare gli stessi standard etici adottati nei Paesi 
sviluppati. 
Infine il c.d. “principio dello sviluppo sostenibile” il quale, più sopra 
considerato, rappresenta un punto di riferimento fondamentale per lo 
sviluppo della normativa ambientale, sia a carattere internazionale che 
regionale (ad esempio in riferimento all’Unione europea), che nazionale 
(cioè con riferimento a ciascuno degli Stati parti della Comunità 
internazionale). 
La definizione di sviluppo sostenibile è sempre quella contenuta nel 
“Rapporto Bruntland”.16 Gli elementi costitutivi dello sviluppo sostenibile 
sono quattro. Il primo elemento è rappresentato dal concetto dell’uso equo 
e sostenibile, o prudente e razionale, delle risorse naturali, inteso come 
norma programmatica che deve guidare gli Stati della Comunità 
internazionale allorché essi si trovino a definire e ad applicare le proprie 
politiche di tutela ambientale e di sviluppo economico. 
 Nel 1983, in seguito a una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 
fu istituita la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, che aveva l’obiettivo 
di elaborare un’“agenda globale per il cambiamento”. La Commissione era presieduta 
dalla norvegese Gro Harlem Brundtland, e nel 1987 pubblicò un rapporto, il Rapporto 
Brundtland, che introduce la fondamentale teoria dello sviluppo sostenibile. 
 Trattato di Diritto dell’ambiente, cit. 
Il secondo principio costitutivo, anche esso definibile come norma 
programmatica, impone agli Stati, nella definizione delle loro priorità, 
soprattutto nelle loro politiche di sviluppo di tener conto non solo dei 
bisogni della generazione presente ma anche di quelle future. 
Il terzo elemento o principio, costitutivo del principio dello sviluppo 
sostenibile è rappresentato dal concetto di equità inter/generazionale, in 
relazione al quale ogni Stato, definendo le proprie politiche di sviluppo 
deve tener conto non solo delle proprie esigenze, ma anche di quelle di altri 
Stati e di altri popoli della Terra, tutto ciò nel medesimo frangente 
temporale, ossia nel medesimo tempo storico.17 
 
Capitolo V. Cenni alla normativa interna di adeguamento alle disposizioni 
internazionali in materia di ambiente. 

Un problema di definizione analogo a quello che interessa i rapporti 
internazionali in materia ambientale si può riscontrare anche a livello 
interno ai singoli ordinamenti, in particolare l’Italia, tra fonti statali, 
regionali e locali. I rapporti tra tali fonti vengono regolati mediante 
l’applicazione dei criteri di gerarchia e competenza. Oltre a questi ultimi 
criteri la giurisprudenza costituzionale ha dato sempre maggiore rilievo al 
criterio degli interessi che implica almeno due ordini di considerazioni. In 
primo luogo occorre considerare il peso “costituzionale” dei beni oggetto di 
tutela e disciplina giuridica; in secondo luogo occorre considerare la 
dimensione territoriale degli interessi implicati. Per quanto riguarda i 
rapporti tra Regioni ed enti territoriali superiori, va detto che dopo la 
riforma costituzionale del titolo V della parte seconda della Costituzione, 
approvata con referendum nel 2001, la Corte Costituzionale, dinanzi al 
nuovo assetto delle competenze tra Stato e enti territoriali ha adottato due 

principi di risoluzione delle vertenze: il “principio della cooperazione 

leale” e “il principio di bilanciamento”. Con il primo si intende un obbligo 
posto a carico degli enti locali di leale collaborazione sulla base delle 
proprie competenze costituzionalmente definite. Il secondo principio 
intende che nei rapporti tra legislazione positiva e quelli di decisione 
giurisprudenziale vi sia un’adeguata ripartizione delle tutele. Il contributo 
della giurisprudenza è stato determinante per consolidare definitivamente la 
posizione dell’ambiente come valore costituzionale, cui è stata attribuita 
una posizione primaria nell’ordinamento, tanto da poter essere considerato 
secondo alcuni, come diritto fondamentale della persona.18 
Trattato di Diritto dell’Ambiente, cit. che si fonda nel contesto citato su una 
interpretazione dell’art. 2 della Costituzione. Quest’ultimo dispone:” La Repubblica 
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle 
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri 
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.” 
19 SENTENZA 10 DEL 26 LUGLIO 2002. 
Pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» n. 30 del 31 luglio 2002 
 
LA CORTE COSTITUZIONALE 
composta dai signori: Presidente: Cesare RUPERTO; Giudici: Riccardo CHIEPPA, 
Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI 
MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni 
Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA; 
 
ha pronunciato la seguente 
SENTENZA 
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5, 
commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 19 (Norme in 
materia di attività a rischio di incidenti rilevanti), promosso con ricorso del Presidente 
del Consiglio dei ministri, notificato il 23 gennaio 2002, depositato in Cancelleria il 31 
successivo ed iscritto al n. 6 del registro ricorsi 2002. 
Visto l'atto di costituzione della Regione Lombardia; 
Udito nell'udienza pubblica del 21 maggio 2002 il Giudice relatore Piero Alberto 
Capotosti; 
Uditi l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri 
e gli avvocati Giuseppe Ferrari e Massimo Luciani per la Regione Lombardia. 
 
Capitolo VI.
Come accennato, con la riforma del Titolo V della Carta costituzionale la 
materia “ambiente, ecosistema e beni culturali” è stata inserita tra quelle di 
competenza esclusiva dello Stato, ragione per cui l’attenzione del giudice 
delle Leggi si è spostata dalla attenzione al valore ambientale alla 
distribuzione sempre in materia di ambiente, delle competenze tra Stato e 
Regioni. La evidenza del nuovo approccio da parte dei giudici nei riguardi 
della materia ambientale può essere ritrovata nella sentenza del Giudice 
delle leggi n. 407 del 2002,19 in base alla quale “la materia della tutela 
Ritenuto in fatto 
1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri solleva, con ricorso notificato il 23 
gennaio 2002, depositato il successivo 31 gennaio, questione di legittimità 
costituzionale in via principale degli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5, commi 1 e 2, 
della legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 19 (Norme in materia di 
attività a rischio di incidenti rilevanti) - pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione 
Lombardia del 27 novembre 2001, supplemento ordinario n. 48 - in riferimento all'art. 
117, secondo comma, lettere h) ed s) della Costituzione, nonché agli artt. 8, 9, 15, 18, 
21 e 28 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 (Attuazione della direttiva 
96/1982/CE relativa al controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con 
determinate sostanze pericolose), ed all'art. 72 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 
112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli 
enti locali, in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59). 
2. - Il ricorrente premette che la disciplina delle attività a rischio di incidenti 
rilevanti sarebbe riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, 
secondo comma, lettere h) ed s) nel testo modificato dalla legge costituzionale 18 
ottobre 2001, n. 3, in quanto riconducibile alle materie "sicurezza" e "tutela 
dell'ambiente". 
L'art. 18 del d.lgs. 17 agosto 1999, n. 334, ai sensi dell'art. 72 del d.lgs. 31 marzo 
1998, n. 112, ha attribuito alle regioni il potere di regolamentare il procedimento di 
istruttoria tecnica, le autorità titolari delle competenze conseguenti, il raccordo con il 
procedimento di valutazione di impatto ambientale, le modalità di coordinamento dei 
soggetti che svolgono l'istruttoria tecnica, le procedure per gli interventi di salvaguardia 
dell'ambiente e del territorio. Le regioni potrebbero, quindi, disciplinare esclusivamente 
gli interventi strumentali, nel rispetto della disciplina stabilita dalla legge statale, che 
sarebbe invece violata dalle disposizioni impugnate. 
2.1. - Il ricorrente deduce che l'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 334 del 1999 stabilisce 
che, "affinché sorga l'obbligo del rapporto preliminare di sicurezza", le sostanze 
pericolose presenti in determinati stabilimenti "debbono essere in quantità uguali o 
superiori a quelle indicate nell'allegato I, parti 1 e 2, colonna 3 (v. richiamo all'art. 8. 
1)". 
L'art. 3, comma 1, della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2001 dispone, 
invece, che il rapporto preliminare debba essere presentato dal gestore di nuovi 
stabilimenti, qualora negli stessi siano presenti sostanze pericolose in quantità uguale o 
superiore a quella indicata nell'allegato I, parte 1, colonna 2 e parte 2, colonna 2 del 
d.lgs. n. 334 del 1999. Dunque, secondo la difesa erariale, "le quantità indicate nella 
norma statale sono più elevate di quelle richieste dalla norma regionale che in questo 
modo ha ampliato la sfera normativa della legge statale", non limitandosi a disciplinare 
le materie indicate nell'art. 18 del d.lgs. n. 334 del 1999, né ad esercitare le funzioni 
amministrative conferite dall'art. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998. 
2.2. - L'art. 28 del d.lgs. n. 334 del 1999 ha disposto che, sino alla emanazione del 
decreto di cui all'art. 10, sono applicabili i criteri fissati nel decreto del Ministro 
dell'ambiente del 13 maggio 1996. 
L'art. 4, comma 2, della legge regionale in esame, in via transitoria e fino al termine 
fissato dalla legge statale, ad avviso dell'Avvocatura, avrebbe invece illegittimamente 
stabilito che sono obbligatori gli elementi previsti dal suo allegato 2, i quali non 
coincidono con quelli richiesti dalle norme dello Stato. 
2.3. - L'art. 21, comma 3, del d.lgs. n. 334 del 1999 dispone che per le modifiche di 
impianti e di depositi, di processi industriali, della natura o dei quantitativi di sostanze 
pericolose individuate con il decreto di cui all'articolo 10, ossia per quelle che 
potrebbero costituire aggravio del preesistente livello di rischio, deve essere avviata 
l'istruttoria per la valutazione del rapporto di sicurezza. 
L'art. 5, commi 1 e 2, della legge regionale impugnata, in contrasto con la norma 
statale, dispone invece che, anche qualora le modifiche "non comportano aggravio di 
rischio", debba essere redatta una scheda valutativa tecnica, la quale, ovviamente, 
presuppone un'attività preparatoria. 
Secondo l'Avvocatura, le norme impugnate realizzerebbero effetti innovativi e 
sarebbero costituzionalmente illegittime, dato che il livello di sicurezza, salvo che non 
sussistano situazioni ambientali differenti - ciò che non accade nel caso in esame -, 
dovrebbe essere identico sull'intero territorio nazionale. La fissazione di adempimenti 
differenziati realizzerebbe "alterazioni sotto il profilo della concorrenza in danno di 
quelle imprese che si trovano ad operare in regioni la cui disciplina più gravosa 
costringe ad affrontare costi maggiori". 
Infine, conclude il ricorrente, la circostanza che l'art. 10 della legge regionale rinvia 
la sua entrata in vigore alla data della stipulazione dell'accordo di programma Stato-
Regione ex art. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998, non inciderebbe sull'interesse 
all'impugnazione poiché, una volta concluso detto accordo, le norme censurate 
diverrebbero immediatamente efficaci. 
2.4. - La difesa erariale, nella memoria depositata in prossimità dell'udienza 
pubblica, ha insistito per la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme 
impugnate, ribadendo le argomentazioni svolte nel ricorso. 
3. - Nel giudizio si è costituita la Regione Lombardia, chiedendo che la Corte 
dichiari il ricorso manifestamente inammissibile e, in linea gradata, manifestamente 
infondato. 
Nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, la resistente deduce 
che il ricorso sarebbe inammissibile per difetto di interesse all'impugnazione, poiché 
l'efficacia delle norme censurate è condizionata alla stipulazione di un accordo di 
programma tra Regione e Stato, il quale, rifiutando il proprio assenso alla stipula di 
siffatto accordo, può impedire che la legge impugnata produca effetti. 
Nel merito, la Regione Lombardia sostiene che, sebbene il controllo sugli impianti e 
sulle industrie a rischio di incidenti rilevanti riguardi sia la materia "sicurezza", sia la 
materia "tutela dell'ambiente", gli artt. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998 e 18 del d.lgs. n. 
334 del 1999 dimostrerebbero che questo controllo interferisce con le materie "governo 
del territorio", "tutela della salute" e "protezione civile", attribuite alla competenza 
legislativa di tipo concorrente della Regione. Inoltre, il d. m. 9 maggio 2001, 
disponendo che "le Regioni assicurano il coordinamento delle norme in materia di 
pianificazione urbanistica, territoriale e di tutela ambientale con quelle derivanti dal 
decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 e dal presente decreto", nonché "il 
coordinamento tra i criteri e le modalità stabiliti per l'acquisizione e la valutazione delle 
informazioni di cui agli articoli 6, 7 e 8 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 e 
quelli relativi alla pianificazione territoriale e urbanistica" (art. 2, commi 1 e 3), 
conforterebbero che la prevenzione ed il controllo sui rischi di incidenti rilevanti è 
riconducibile anche a materie attribuite alla competenza legislativa regionale di tipo 
concorrente. 
Dunque, secondo la resistente, nell'esercizio della propria competenza in materia di 
governo del territorio e di tutela della salute dei cittadini, nel rispetto dei principi 
fondamentali fissati dalla legge statale, essa legittimamente avrebbe stabilito una 
disciplina più rigorosa, estendendo l'obbligo di redigere il rapporto di sicurezza e la 
scheda di valutazione dei rischi (artt. 3 e 5 della legge regionale n. 19 del 2001). Inoltre, 
a suo avviso, per numerose materie elencate nell'art. 117 della Costituzione sarebbe 
difficile stabilire i confini tra competenza statale e regionale e, proprio per questo, 
occorrerebbe applicare il criterio teleologico e, comunque, riconoscere, come nel caso 
della protezione ambientale, che la Regione è titolare di competenza legislativa in 
riferimento ai profili che interessano anche materie di sua competenza, potendo in ogni 
caso emanare quelle norme che garantiscono una maggiore tutela del bene della salute. 
Infine, conclude la resistente, le norme, sotto il profilo della concorrenza, non 
pregiudicano le imprese che svolgono attività nella Regione Lombardia e, 
ragionevolmente, allo scopo di garantire la tutela del territorio e della salute umana, 
pongono rimedio ad una "disciplina statale palesemente lacunosa". 
4. - Le parti, all'udienza pubblica, hanno insistito per l'accoglimento delle 
conclusioni rassegnate nelle difese scritte. 
 
Considerato in diritto 
1. - Il giudizio in via principale promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, 
con il ricorso in epigrafe, nei confronti della Regione Lombardia ha ad oggetto gli artt. 
3, comma 1, 4, comma 2, 5, commi 1 e 2, della legge regionale 23 novembre 2001, n. 
19 (Norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti), in riferimento all'art. 
117, secondo comma, lettere h) ed s) della Costituzione, nonché agli artt. 8, 9, 15, 18, 
21 e 28 del decreto legislativo n. 334 del 1999 ed all'art. 72 del decreto legislativo n. 
112 del 1998. 
Premesso che la disciplina delle attività a rischio di incidente rilevante è riservata 
alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, a norma dell'art. 117, secondo comma, 
lettere h) ed s), della Costituzione, il ricorrente sottolinea che questo tipo di riserva, 
innanzi tutto, esclude, per definizione, che i livelli di sicurezza per attività egualmente 
pericolose possano essere diversi da regione a regione ed in secondo luogo esclude 
conseguentemente che possano essere previsti adempimenti diversificati per le varie 
imprese, con possibile alterazione anche delle regole della concorrenza. Le disposizioni 
regionali impugnate sarebbero pertanto, ad avviso del ricorrente, costituzionalmente 
illegittime, in quanto invadono la competenza esclusiva dello Stato in materia di 
"sicurezza" ed "ambiente", avendo altresì un contenuto che, sotto vari profili, è difforme 
e contrastante rispetto ad una serie di norme "fondamentali" della disciplina statale. 
2. - In linea preliminare va respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso per 
carenza di interesse, sollevata dalla difesa della Regione Lombardia, in base 
all'argomento che l'art. 10 della legge impugnata subordina l'efficacia della legge stessa 
alla "stipulazione dell'accordo di programma tra Stato e regione, di cui all'art. 72 del 
d.lgs. n. 112/1998". Va infatti osservato che l'impugnativa da parte dello Stato delle 
leggi regionali è sottoposta, ai sensi dell'art. 127 della Costituzione, ad un termine 
tassativo riferito alla pubblicazione e non anche all'efficacia della legge stessa e, d'altra 
parte, la pubblicazione di una legge regionale, in asserita violazione del riparto 
costituzionale di competenze, è di per sé stessa lesiva della competenza statale, 
indipendentemente dalla produzione degli effetti concreti e dalla realizzazione delle 
conseguenze pratiche (cfr. sentenza n. 332 del 1998). 
3. - Nel merito, il ricorso è infondato. 
La disciplina specifica delle attività a rischio di incidenti rilevanti si è sviluppata 
soprattutto in ambito comunitario, a decorrere dalla direttiva 82/501 CEE del 24 giugno 
1982 - c.d. "direttiva Seveso - la quale introdusse prescrizioni dirette alla prevenzione 
dei rischi industriali, coinvolgendo specialmente il responsabile dell'attività a rischio. Il 
decreto di attuazione - D.P.R. 17 maggio 1988, n. 175 - stabilì infatti una serie di 
obblighi a carico dei fabbricanti, prevedendo altresì un complesso procedimento di 
controllo, con l'intervento di una pluralità di soggetti pubblici, nel cui ambito le regioni, 
in particolare, furono chiamate a svolgere compiti di vigilanza sugli impianti a minore 
pericolosità, soggetti alla c.d. "dichiarazione", nonché sul rispetto delle misure di 
sicurezza. 
Il predetto atto comunitario è stato modificato dalla direttiva 96/1982 CE del 9 
dicembre 1996, che ha accentuato il profilo del controllo tecnico-ispettivo, anche 
prevedendo forme di pianificazione urbanistica ed ambientale del territorio esterno agli 
stabilimenti. In attesa dell'attuazione di questa direttiva, l'art. 72 del d.lgs. 31 marzo 
1998, n. 112, ha innovato il quadro organizzativo precedente, conferendo alle regioni, 
sia pure previa adozione di una specifica normativa, anche le competenze 
amministrative concernenti gli impianti a maggiore pericolosità, soggetti alla c.d. 
"notifica", e mantenendo allo Stato essenzialmente compiti di indirizzo e 
coordinamento. 
Successivamente il decreto di recepimento - d.lgs. 17 agosto 1999, n. 334 - ha 
ulteriormente ampliato le precedenti competenze delle regioni attribuendo ad esse anche 
la disciplina dell'attività procedimentale connessa all'istruttoria tecnica, nonché 
l'individuazione delle procedure più idonee per l'adozione degli interventi di 
salvaguardia dell'ambiente e del territorio di insediamento degli stabilimenti. 
Lo scrutinio di costituzionalità delle disposizioni regionali censurate va 
pertanto condotto sulla base del quadro di riparto delle competenze tra Stato e regioni, 
sul quale ora incide la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che reca "Modifiche al 
titolo V della parte seconda della Costituzione". 
A questo scopo, il primo problema da risolvere, ai fini della determinazione della 
competenza ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, riguarda l'individuazione della 
"materia" alla quale ricondurre la legge regionale in esame; materia che, secondo il 
ricorrente, è da identificare nei disposti delle lettere h) e s) dell'art. 117, secondo 
comma, della Costituzione. 
In proposito, appare improprio, nella fattispecie in esame, il riferimento alla materia 
"sicurezza", di cui alla lettera h) del citato art. 117. Non sembra infatti necessario a 
questo scopo accertare, in una prospettiva generale, se nella legislazione e nella 
giurisprudenza costituzionale la nozione di "sicurezza pubblica" assuma un significato 
restrittivo, in quanto usata in endiadi con quella di "ordine pubblico", o invece assuma 
una portata estensiva, in quanto distinta dall'ordine pubblico, o collegata con la tutela 
della salute, dell'ambiente, del lavoro e così via. È sufficiente infatti constatare che il 
contesto specifico della lettera h) del secondo comma dell'art. 117 - che riproduce 
pressoché integralmente l'art. 1, comma 3 lettera l) della legge n. 59 del 1997 - induce, 
in ragione della connessione testuale con "ordine pubblico" e dell'esclusione esplicita 
della "polizia amministrativa locale", nonché in base ai lavori preparatori, ad 
un'interpretazione restrittiva della nozione di "sicurezza pubblica". Questa infatti, 
secondo un tradizionale indirizzo di questa Corte, è da configurare, in contrapposizione 
ai compiti di polizia amministrativa regionale e locale, come settore riservato allo Stato 
relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell'ordine 
pubblico (sentenza n. 290 del 2001). 
Alla luce di queste considerazioni, le disposizioni legislative in questione non 
possono rientrare nell'ambito materiale riservato alla competenza esclusiva dello Stato 
dalla lettera h) dell'art. 117, secondo comma, della Costituzione. 
La disciplina in esame è invece riconducibile al disposto dell'art. 117, 
secondo comma, lettera s) della Costituzione, relativo alla tutela dell'ambiente. 
A questo riguardo va però precisato che non tutti gli ambiti materiali specificati nel 
secondo comma dell'art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come "materie" in 
senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del 
legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie (cfr. sentenza n. 282 del 
2002). In questo senso l'evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano 
ad escludere che possa identificarsi una "materia" in senso tecnico, qualificabile come 
"tutela dell'ambiente", dal momento che non sembra configurabile come sfera di 
competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa 
investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. In particolare, 
dalla giurisprudenza della Corte antecedente alla nuova formulazione del Titolo V della 
Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell'ambiente come "valore" 
costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia 
"trasversale", in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono 
essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze 
meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale (cfr., da ultimo, 
sentenze n. 507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998). 
I lavori preparatori relativi alla lettera s) del nuovo art. 117 della Costituzione 
inducono, d'altra parte, a considerare che l'intento del legislatore sia stato quello di 
riservare comunque allo Stato il potere di fissare standard di tutela uniformi sull'intero 
territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale 
alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali. In 
definitiva, si può quindi ritenere che riguardo alla protezione dell'ambiente non si sia 
sostanzialmente inteso eliminare la preesistente pluralità di titoli di legittimazione per 
interventi regionali diretti a soddisfare contestualmente, nell'ambito delle proprie 
competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dallo Stato. 
Anche nella fattispecie in esame, del resto, emerge dalle norme comunitarie e 
statali, che disciplinano il settore, una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti e 
funzionalmente collegati con quelli inerenti in via primaria alla tutela dell'ambiente. A 
questo proposito occorre, innanzi tutto, ricordare che nei "considerando" della citata 
direttiva 96/1982/CE si afferma, tra l'altro, che la prevenzione di incidenti rilevanti è 
necessaria per limitare le loro "conseguenze per l'uomo e per l'ambiente", al fine di 
"tutelare la salute umana", anche attraverso l'adozione di particolari politiche in tema di 
destinazione e utilizzazione dei suoli. Più specificamente, il citato decreto legislativo di 
recepimento n. 334 del 1999, dopo avere, all'art. 1, premesso che il decreto stesso 
contiene disposizioni finalizzate a prevenire incidenti rilevanti connessi a determinate 
sostanze pericolose e a "limitarne le conseguenze per l'uomo e per l'ambiente", all'art. 3, 
comma 1, lettera f) definisce "incidente rilevante" l'evento che "dia luogo ad un pericolo 
grave, immediato o differito, per la salute umana o per l'ambiente". E gli stessi concetti 
vengono sostanzialmente ribaditi anche negli artt. 7, comma 1, e 8, commi 2 e 10, 
cosicché si può fondatamente ritenere, in riferimento alle norme citate, che il decreto in 
esame attenga, oltre che all'ambiente, anche alla materia "tutela della salute", la quale, ai 
sensi dell'art. 117 della Costituzione, rientra nella competenza concorrente delle regioni. 
Così pure rientra nella competenza concorrente regionale la cura degli interessi 
relativi alla materia "governo del territorio", cui fanno riferimento, in particolare, gli 
artt. 6, commi 1 e 2, 8, comma 3, 12 e 14 dello stesso decreto, i quali prescrivono i vari 
adempimenti connessi all'edificazione e alla localizzazione degli stabilimenti, nonché 
diverse forme di "controllo sull'urbanizzazione". Anche le competenze relative alla 
materia della "protezione civile" possono essere individuate in alcune norme del citato 
decreto, come, ad esempio, l'art. 11, l'art. 12, l'art. 13, comma 1 lettera c), comma 2 
lettere c) e d) l'art. 20 e l'art. 24, le quali prevedono essenzialmente la disciplina dei vari 
piani di emergenza nei casi di pericolo "all'interno o all'esterno dello stabilimento". 
Infine, alcune norme, come, in particolare, i citati artt. 5, commi 1 e 2, ed 11 dello stesso 
decreto, sono riconducibili anche alla materia "tutela e sicurezza del lavoro", 
egualmente compresa nella legislazione concorrente. 
In definitiva quindi il predetto decreto n. 334 del 1999 riconosce che le regioni sono 
titolari, in questo campo disciplinare, di una serie di competenze concorrenti, che 
riguardano profili indissolubilmente connessi ed intrecciati con la tutela dell'ambiente. 
 Così definito il quadro degli interessi sottostanti alla vigente disciplina sulle 
attività a rischio rilevante, ne deriva che essa ha un'incidenza su una pluralità di interessi 
e di oggetti, in parte di competenza esclusiva dello Stato, ma in parte anche - come si è 
visto - di competenza concorrente delle regioni, i quali appunto legittimano una serie di 
interventi regionali nell'ambito, ovviamente, dei principi fondamentali della legislazione 
statale in materia, la cui violazione peraltro prospetta il ricorrente, anche se in via 
subordinata. 
Alla luce di queste considerazioni è da respingere il motivo principale di ricorso, 
secondo cui, nel caso di specie, la materia de qua dovrebbe ritenersi di competenza 
legislativa statale esclusiva, afferendo essa sia alla tutela dell'ambiente che alla 
sicurezza pubblica. Ma è altrettanto da respingere il motivo prospettato in via 
subordinata, secondo cui "ove volesse considerarsi tale legge regionale alla stregua di 
atto regolamentare di competenza regionale", alcune norme di essa sarebbero illegittime 
sotto il profilo del mancato rispetto dei limiti fissati dal citato decreto legislativo n. 334 
del 1999. 
In proposito è da osservare, indipendentemente dalla inammissibile "degradazione" 
della legge regionale a regolamento regionale, che i ricordati artt. 72 del d.lgs. n. 112 
del 1998 e 18 del d.lgs. n. 334 del 1999 stabiliscono che le regioni provvedono a 
disciplinare la materia con specifiche normative ai fini, in particolare, di "garantire la 
sicurezza del territorio e della popolazione". In questa ottica vanno appunto respinte le 
prospettate censure incentrate sull'asserito superamento dei limiti prestabiliti dal citato 
decreto legislativo n. 334 del 1999, dal momento che la Regione Lombardia può 
ragionevolmente adottare, nell'ambito delle proprie competenze concorrenti, una 
disciplina che sia maggiormente rigorosa, per le imprese a rischio di incidente rilevante, 
rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, proprio in quanto diretta ad assicurare un 
più elevato livello di garanzie per la popolazione ed il territorio interessati. 
In questo senso, d'altronde, si è già espressa questa Corte, quando in una vicenda 
analoga, a proposito dei limiti massimi di esposizione ai campi elettrico e magnetico, ha 
ritenuto non incostituzionale una disciplina regionale "specie a considerare che essa se, 
da un canto, implica limiti più severi di quelli fissati dallo Stato, non vanifica, dall'altro, 
in alcun modo gli obiettivi di protezione della salute da quest'ultimo perseguiti" 
(sentenza n. 382 del 1999). 
 
PER QUESTI MOTIVI 
LA CORTE COSTITUZIONALE 
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 
1, 4, comma 2, 5, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 23 novembre 
2001, n. 19 (Norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti), sollevata, in 
riferimento all'art. 117 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con 
il ricorso indicato in epigrafe. 
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 
il 10 luglio 2002. 
Il Presidente: Ruperto 
Il redattore: Capotosti 
Il cancelliere: Fruscella 
Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2002. 
Il cancelliere: Fruscella 
 
dell’ambiente non costituisce una materia in senso stretto dal momento che 
non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente 
circoscritta e delimitata, giacché essa si intreccia inestricabilmente con altri 
interessi e competenze”. L’ambiente si configura così come una materia 
“trasversale” in ordine alla quale si manifestano competenze diverse “che 
ben possono essere regionali, ma sempre spettando allo Stato le 
determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina 
uniforme sull’intero territorio nazionale”. Incidentalmente si potrebbe 
notare che il giudice costituzionale ha sviluppato un simile orientamento 
anche nella materia dei beni culturali, sposando la tesi già nominata della 
“trasversalità”. 
L’iter internazionale che ha portato all’attuale situazione della 
normativa ambientale a livello sovranazionale. 

VI. Cenni alla normativa interna di adeguamento alle disposizioni 
internazionali in materia di ambiente. 

Mi si consenta di sviluppare un’ulteriore riferimento al 
processo a carattere internazionale in materia di accordi relativi alla tutela 
ambientale, tutto ciò in aggiunta ai cenni già palesati in riferimento ad 
alcune convenzioni e relativi risultati di diritto interno relativi a quelle 
stesse convenzioni. 
Per cominciare la nostra disamina è necessario muovere dalla analisi della 
“Convenzione sull’inquinamento transfrontaliero a lunga distanza ed i suoi 
protocolli”.20 La nominata convenzione fu adottata sotto il benestare della 
20Convenzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza. 
Decisione 81/462/CEE relativa alla conclusione della convenzione sull’inquinamento 
atmosferico transfrontaliero a grande distanza 
Con la Convenzione di Ginevra sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a 
grande distanza, le parti (ovvero i paesi che l’hanno ratificata) si impegnano a 
collaborare per limitare, prevenire e ridurre gradualmente le loro emissioni di 
inquinanti atmosferici e a lottare contro l’inquinamento atmosferico 
transfrontaliero che ne deriva. 
La decisione conclude la convenzione per conto dell’Unione europea (Unione). 
Anche tutti gli Stati membri sono parti contraenti della convenzione. 

Si definisce inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza il rilascio, 
diretto o indiretto dovuto all’attività umana, di sostanze nell’aria che hanno effetti 
nocivi per la salute umana o per l’ambiente in un altro paese e per il quale il contributo 
delle fonti di emissione o dei gruppi di fonti non può essere distinto. 
Nell’ambito della convenzione sono stati sviluppati, in totale, otto diversi protocolli. 
Il protocollo del 1984 relativo al finanziamento a lungo termine del programma 
concertato per la sorveglianza e la valutazione del trasporto a grande distanza 
degli inquinanti atmosferici in Europa (Protocollo EMEP): uno strumento per 
la condivisione internazionale dei costi di un programma di monitoraggio che 
costituisce la spina dorsale dell’analisi e della valutazione dell’inquinamento 
atmosferico europeo alla luce degli accordi sulla riduzione delle emissioni. 
Il protocollo del 1985 relativo alla riduzione delle emissioni di zolfo o dei loro 
flussi transfrontalieri (Protocollo di Helsinki) di almeno il 30 % rispetto ai 
livelli del 1980; 
Il protocollo del 1988 relativo alla lotta contro le emissioni di ossidi di azoto 
(NOx) o ai loro flussi transfrontalieri (protocollo di Sofia): una prima 
fase prevede il congelamento delle emissioni di NOx o dei loro flussi 
transfrontalieri ai livelli del 1987; una seconda fase prevede l’applicazione di un 
approccio basato sugli effetti, per ridurre ulteriormente le emissioni di composti 
azotati, compresa l’ammoniaca (NH3), e di composti organici volatili (COV), in 
considerazione del loro contributo all’inquinamento fotochimico, 
all’acidificazione e all’eutrofizzazione e al loro effetti sulla salute umana, 
sull’ambiente e sui materiali, affrontando tutte le fonti di emissione significative. 
Il protocollo del 1991 sul controllo delle emissioni di COV o dei loro flussi 
transfrontalieri: questi composti sono responsabili della formazione dell’ozono 
troposferico e le parti contraenti devono optare per uno dei tre obiettivi di 
riduzione delle emissioni, da raggiungere entro il 1999: 
una riduzione del 30% dei COV, usando come base un anno tra il 1984 e 
il 1990; 
una riduzione del 30% delle emissioni di COV all’interno dell’area di 
gestione dell’ozono troposferico specificata nell’allegato I del protocollo 
e garantendo che le emissioni nazionali totali non superino i livelli del 
1988; o se le emissioni nel 1988 non hanno superato determinati livelli 
specificati, le parti contraenti possono optare per una stabilizzazione a 
quel livello di emissione. 
Il protocollo del 1994 relativo a una nuova riduzione delle emissioni di 
zolfo (Protocollo di Oslo): questo protocollo si basa sul protocollo di Helsinki 
del 1985 e fissa limiti di emissione fino al 2010 e oltre. Le parti sono tenute ad 
adottare le misure più efficaci per la riduzione delle emissioni di zolfo, che 
comprendono: 
 aumentare l’efficienza energetica; 
 utilizzare energie rinnovabili; 
 ridurre il contenuto di zolfo nei carburanti; e 
 applicare le migliori tecnologie di controllo disponibili (BAT). Il 
protocollo incoraggia inoltre ad applicare strumenti economici per 
l’adozione di approcci economicamente efficaci alla riduzione delle 
emissioni di zolfo. 


Il protocollo del 1998 sui metalli pesanti (Protocollo di Aarhus): si concentra su 
tre metalli, il cadmio, il piombo e il mercurio. Le parti contraenti dovranno 
ridurre le loro emissioni al di sotto dei livelli raggiunti nel 1990 (o in un anno 
alternativo tra il 1985 e il 1995). Il protocollo mira a ridurre le emissioni da fonti 
industriali, processi di combustione e incenerimento dei rifiuti. Stabilisce valori 
limite rigorosi per le emissioni da fonti fisse e suggerisce le migliori tecniche 
disponibili per queste fonti, come filtri speciali o depuratori per fonti di 
combustione o processi privi di mercurio. Il protocollo richiede alle parti 
contraenti eliminare progressivamente la benzina contenente piombo. Introduce 
inoltre misure per ridurre le emissioni di metalli pesanti da altri prodotti, ad 

esempio il mercurio nelle batterie, e propone l’introduzione di misure di 
gestione per altri prodotti contenenti mercurio, quali i componenti elettrici, i 
dispositivi di misurazione, le lampade fluorescenti, l’amalgama dentale, i 
pesticidi e le vernici. Il protocollo è stato modificato nel 2012 per introdurre 
valori limite di emissione (ELV) più stringenti per le emissioni di particolato e 
di cadmio, piombo e mercurio applicabili per talune combustioni e altre fonti di 
emissioni industriali che li rilasciano nell’atmosfera. Le categorie di sorgenti di 
emissioni per i tre metalli pesanti sono state estese anche alla produzione di 
leghe di silicio e ferromanganese, allargando così l’ambito delle attività 
industriali per le quali sono stabiliti limiti di emissione. 
Il protocollo del 1998 sugli inquinanti organici persistenti, il cui obiettivo finale 
è quello di eliminare eventuali scarichi, emissioni e perdite di tali inquinanti. Il 
protocollo vieta la produzione e l’uso di alcuni prodotti in via definitiva, mentre 
per altri l’eliminazione era prevista
per una fase successiva. Comprende 
disposizioni per il trattamento dei rifiuti di prodotti vietati e obbliga le parti 
contraenti a ridurre le loro emissioni di diossine, furani, idrocarburi policiclici 
aromatici ed esaclorobenzene (HCB) al di sotto dei loro livelli del 1990 (o di un 
anno alternativo tra il 1985 e il 1995). Per l’incenerimento dei rifiuti urbani, 
pericolosi e sanitari stabilisce valori limite specifici. Inizialmente si concentrava 
su un elenco di 16 sostanze che erano state selezionate in base a criteri di rischio 
concordati. Le sostanze includevano undici pesticidi, due prodotti chimici 
industriali e tre sottoprodotti/contaminanti. Il protocollo è stato modificato nel 
2009 per includere 7 nuove sostanze: esaclorobutadiene, ottabromodifeniletere, 
pentaclorobenzene, pentabromodifeniletere, perfluorottano sulfonato, naftaleni 
policlorurati e paraffine clorurate a catena corta. Le parti contraenti hanno rivisto 
gli obblighi per i composti DDT, eptaclor, HCB e PCB, nonché per gli ELV 
derivanti dall’incenerimento dei rifiuti. Per facilitare la ratifica del protocollo da 
parte dei paesi con economie in transizione, le parti contraenti hanno introdotto 
flessibilità per questi paesi per quanto riguarda i tempi per l’applicazione degli 
ELV e delle BAT.  
Il protocollo del 1999 per la riduzione dell’acidificazione, dell’eutrofizzazione e 
dell’ozono troposferico (Protocollo di Göteborg): fissa limiti nazionali di 
emissione dal 2010 al 2020 per 4 inquinanti: anidride solforosa (SO2), NO2, 
COV e NH3. Stabilisce inoltre valori limite rigorosi per fonti di emissioni 
specifiche (ad esempio impianti di combustione, produzione di elettricità, 
pulitura a secco, automobili e camion) e richiede che siano utilizzate le BAT per 
mantenere basse le emissioni. Anche le emissioni di COV da prodotti quali 
vernici o aerosol devono essere ridotte e gli agricoltori sono obbligati ad 
adottare misure specifiche per controllare le emissioni di NH3. Il protocollo è 
stato modificato nel 2012 per includere impegni nazionali sulla riduzione delle 
emissioni da raggiungere entro il 2020 e oltre [tali emendamenti sono stati 
ratificati dall’Unione nella decisione (UE) 2017/1757 del Consiglio]. Molti degli 
allegati tecnici del protocollo sono stati rivisti con serie aggiornate di ELV sia 
per le principali fonti fisse che per le fonti mobili. Il protocollo rivisto è il primo 
accordo vincolante che include impegni per la riduzione delle emissioni di 
particolato fine. Il protocollo modificato include anche specificatamente 
l’inquinante climatico di breve durata (fuliggine) come componente di una 
materia particolare. La riduzione del particolato (che comprende la fuliggine) 
attraverso l’attuazione del protocollo ridurrà l’inquinamento atmosferico, 
favorendo nel contempo i benefici collaterali del clima. 

Cooperazione politica 
La convenzione prevede che le parti contraenti elaborino ed attuino politiche e strategie 
appropriate, in particolare dei sistemi di gestione della qualità dell’aria. 
Le parti contraenti si riuniscono regolarmente (almeno una volta all’anno) per valutare i 
progressi compiuti e consultarsi sui settori oggetto della convenzione. 
Cooperazione scientifica 
Le parti realizzano attività concertate di ricerca e di sviluppo, in particolare per ridurre 
le emissioni dei principali inquinanti atmosferici, per sorvegliare e misurare i tassi di 
emissione e le concentrazioni in questione, nonché per studiarne gli effetti sulla salute e 
l’ambiente. 
Scambio di informazioni 
Le parti contraenti della convenzione si scambiano informazioni riguardanti, in 
particolare: 
le emissioni dei principali inquinanti atmosferici (a cominciare dall’SO2) e i loro 
effetti; 
gli elementi in grado di indurre degli importanti cambiamenti sul piano 
dell’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza (in particolare 
le politiche nazionali e lo sviluppo industriale); 
le tecnologie di controllo per ridurre l’inquinamento atmosferico; 
le politiche e le strategie nazionali per combattere i principali inquinanti. 

Cooperazione sul monitoraggio dell’inquinamento 
Le parti partecipano al programma concertato per la sorveglianza e la 
valutazione del trasporto a grande distanza degli inquinanti atmosferici in 
Europa (EMEP). Tale programma, disciplinato da un protocollo separato 
(il protocollo EMEP), mira a fornire alle parti contraenti della convenzione: 
informazioni scientifiche in materia di sorveglianza dell’atmosfera, 
elaborazione di modelli informatici; 
valutazione delle emissioni; 
elaborazione di proiezioni. 

Al fine del successo di tale cooperazione, la convenzione prevede di: 
estendere il programma, inizialmente incentrato sulla sorveglianza 
dell’SO2 e delle sostanze apparentate, agli altri principali inquinanti 
atmosferici; 
sorvegliare la composizione dei comparti ambientali che potrebbero 
essere contaminati da tali inquinanti (acqua, suolo e vegetazione) e gli 
effetti sulla salute e l’ambiente; 


 fornire dati meteorologici e altri dati scientifici relativi ai fenomeni che si 
manifestano nel corso del trasporto; 
 avvalersi, ove possibile, di tecniche di monitoraggio e di modelli 
comparabili o standardizzati; 
 incorporare l’EMEP nei programmi nazionali e internazionali pertinenti; 
 scambiarsi regolarmente i dati raccolti nel corso dell’attività di 
sorveglianza. 




DATA DI ENTRATA IN VIGORE 

La convenzione è entrata in vigore il 16 marzo 1983, novanta giorni dopo la data di 
deposito del 24o strumento di ratifica, accettazione, approvazione o adesione. 

CONTESTO 

La convenzione di Ginevra sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a 
grande distanza stabilisce un sistema che permette ai governi di collaborare con 
l’obiettivo di proteggere la salute umana e l’ambiente dall’inquinamento 
atmosferico che può danneggiare diversi paesi. La convenzione è stata firmata a 
Ginevra nel 1979, nell’ambito della Commissione economica per l’Europa delle 
Nazioni unite (UNECE) ed è entrata in vigore nel 1983. 
Per ulteriori informazioni consultare Politica ambientale (UNECE). 


DOCUMENTI PRINCIPALI 

Convenzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza — 
Risoluzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza (GU L 
171 del 27.6.1981, pag. 13). 

Decisione 81/462/CEE del Consiglio, dell’11 giugno 1981, relativa alla conclusione 
della convenzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza (GU 
L 171 del 27.6.1981, pag. 11). 

DOCUMENTI CORRELATI 

Decisione (UE) 2017/1757 del Consiglio, del 17 luglio 2017, relativa all’accettazione, a 
nome dell’Unione europea, di una modifica del protocollo del 1999 della convenzione 
sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza, del 1979, per la 
riduzione dell’acidificazione, dell’eutrofizzazione e dell’ozono troposferico (GU L 248 
del 27.9.2017, pag. 3). 

Decisione (UE) 2016/768 del Consiglio, del 21 aprile 2016, relativa all’accettazione 
degli emendamenti del protocollo del 1998 della convenzione del 1979 
sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza riguardante i metalli 
pesanti (GU L 127 del 18.5.2016, pag. 8). 

Decisione (UE) 2016/769 del Consiglio, del 21 aprile 2016, relativa all’accettazione 
degli emendamenti del protocollo del 1998 della convenzione del 1979 
sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza riguardante gli 
inquinanti organici persistenti (GU L 127 del 18.5.2016, pag. 21). 

Direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, 
relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento) 
(GU L 334 del 17.12.2010, pag. 17). 

Modifiche successiva alla direttiva 2010/75/UE sono state integrate nel documento 
originale. La versione consolidata ha unicamente un valore documentale. 

Decisione 2004/259/CE del Consiglio, del 19 febbraio 2004, relativa alla conclusione, a 
nome della Comunità europea, del protocollo sugli inquinanti organici persistenti alla 
convenzione del 1979 sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza 
(GU L 81 del 19.3.2004, pag. 35). 

Protocollo alla convenzione del 1979 sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a 
grande distanza (GU L 81 del 19.3.2004, pag. 37). 

Decisione 2003/507/CE del Consiglio, del 13 giugno 2003, relativa all’adesione della 
Comunità europea al protocollo della convenzione del 1979 sull’inquinamento 
atmosferico transfrontaliero a grande distanza per la riduzione dell’acidificazione, 
dell’eutrofizzazione e dell’ozono troposferico (GU L 179 del 17.7.2003, pag. 1). 

Protocollo alla convenzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande 
distanza, del 1979, per la riduzione dell’acidificazione, dell’eutrofizzazione e dell’ozono 
troposferico (GU L 179, del 17.7.2003, pag. 3). 

Decisione 2001/379/CE del Consiglio, del 4 aprile 2001, relativa all’approvazione, a 
nome della Comunità europea, del protocollo della convenzione del 1979 
sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza relativo ai metalli 
pesanti (GU L 134 del 17.5.2001, pag. 40). 

Protocollo alla convenzione del 1979 sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a 
grande distanza relativo ai metalli pesanti (GU L 134 del 17.5.2001, pag. 41). 

Decisione 98/686/CE del Consiglio, del 23 marzo 1998, relativa alla conclusione, da 
parte della Comunità europea, del protocollo della convenzione sull’inquinamento 
atmosferico transfrontaliero a grande distanza del 1979 relativo ad una nuova riduzione 
delle emissioni di zolfo (GU L 326 del 3.12.1998, pag. 34). 

Protocollo alla convenzione del 1979 sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a 
grande distanza relativo all’ulteriore riduzione delle emissioni di zolfo (GU L 326 del 
3.12.1998, pag. 35). 

Decisione 93/361/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1993, concernente l’adesione della 
Comunità al protocollo della convenzione di Ginevra sull’inquinamento atmosferico 
transfrontaliero a lunga distanza, del 1979, relativo alla lotta contro le emissioni di 
ossidi di azoto o ai loro flussi transfrontalieri (GU L 149 del 21.6.1993, pag. 14). 

Protocollo alla convenzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero di lunga 
distanza, del 1979, relativo alla lotta contro le emissioni di ossidi di azoto o ai loro 
flussi transfrontalieri (GU L 149 del 21.6.1993, pag. 16). 

Decisione 86/277/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1986, concernente la conclusione 
del protocollo alla convenzione del 1979 sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero 
a grande distanza, relativo al finanziamento a lungo termine del programma concertato 
di sorveglianza continua e di valutazione del trasporto a grande distanza degli inquinanti 
atmosferici in Europa (EMEP) (GU L 181 del 4.7.1986, pag. 1). 

Protocollo alla convenzione del 1979 sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a 
grande distanza, relativo al finanziamento a lungo termine del programma concertato di 
sorveglianza continua e di valutazione del trasporto a grande distanza degli inquinanti 
atmosferici in Europa (EMEP) (GU L 181 del 4.7.1986, pag. 2). 

 

Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite e aperta alla 
firma a Ginevra nel 1979. La convenzione parte dal presupposto che 
l’atmosfera rappresenta una risorsa condivisa a livello regionale europeo. 
La Convenzione in parola si pone come accordo “quadro” e contiene un 
obbligo generale per le Parti contraenti di ridurre progressivamente 
l’inquinamento atmosferico. Sebbene la Convenzione sia stata emanata e 
aperta alla firma nel 1979, è stato solo nel corso degli anni ’90 che si è dato 
luogo alla istituzione di un organo di controllo sul rispetto da parte degli 
Stati aderenti del Documento e dei protocolli ad esso collegati. La 
Convenzione in parola è assistita da otto protocolli: 

- Il primo è relativo al costante monitoraggio delle trasmissioni di 
elementi inquinanti in atmosfera; 
- Il secondo protocollo prescrive la riduzione delle emissioni di 
zolfo a carattere transfrontaliero di almeno il 30%; 
- Il terzo protocollo inerisce alla riduzione delle emissioni di ossidi 
di azoto, ma senza porre vincoli o limiti; 
- Il quarto protocollo riguarda le emissioni di composti organici 
volatili e i loro effetti transfrontalieri; 


- Il quinto protocollo, firmato nel ’94 si presenta come sviluppo del 
primo ed anche esso ha ad oggetto la progressiva riduzione delle 
emissioni di zolfo nell’atmosfera; 
- Il sesto protocollo è relativo ai metalli pesanti e alle scorie della 
lavorazione degli stessi, che vanno ridotte: si parla di metalli 
pericolosi per la salute quali: cadmio, piombo e mercurio; 
- Il settimo protocollo è relativo alla riduzione dell’inquinamento da 
prodotti organici; 
- L’ottavo protocollo è relativo all’abbattimento dell’acidificazione, 
eutrofizzazione e ozono al livello del suolo. Quest’ultimo 
protocollo è stato ratificato da 24 Parti ed è entrato in vigore nel 
2005. Sulla base di rilevazioni scientifiche sono stati negoziati 
alcuni livelli massimi di emissioni per quattro contaminanti (zolfo, 
ossidi di azoto, composti organici volatili e ammoniaca). 


Oltre alla convenzione appena descritta, nel volgere del tempo sono state 
concluse in successione anche altre convenzioni, ad esempio la 
Convenzione di Vienna” per la protezione della fascia di ozono, il cui 
contenuto è stato meglio specificato dal successivo “Protocollo di Montreal"

 La convenzione di Vienna per la protezione dello strato di ozono stabilisce i principi 
per proteggere lo strato di ozono in seguito ad avvertimenti scientifici che la riduzione 
rappresenta un pericolo per la salute umana e l’ambiente. È una convenzione quadro che 
mira principalmente a promuovere la cooperazione internazionale attraverso lo scambio 
di informazioni sull’impatto delle attività umane sullo strato di ozono. Essa non richiede 
alle parti di adottare misure specifiche. Queste giungeranno successivamente alla 
convenzione di Vienna sotto forma del Protocollo di Montreal. La Convenzione di 
Vienna è stata la prima convenzione in assoluto a essere firmata da tutti i paesi 
coinvolti. È entrata in vigore nel 1988 e ha ottenuto la ratifica universale nel 2009. La 
decisione 88/540/CEE fornisce all’Unione l’approvazione legale della convenzione di 
Vienna per la protezione dello strato di ozono e del protocollo di Montreal relativo a 
sostanze che riducono lo strato di ozono. 

 

Montreal”; la “Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti 
climatici”; il “Protocollo di Kyoto”, adottato al fine di dare migliore 
attuazione alla predetta “Convenzione quadro” (vale a dire la 
stabilizzazione delle emissioni di gas serra nell’atmosfera ad un livello in 
grado di prevenire dannose interferenze umane con il sistema climatico). 

VII. Cenni alla tematica della biodiversità e sua tutela convenzionale. 


Innanzitutto una definizione: si intende per “biodiversità” la variabilità tra 
gli organismi viventi all’interno di una singola specie (diversità genetica), 
fra specie diverse e tra ecosistemi. Le specie descritte dalla scienza sono in 
totale circa 1,75 milioni, mentre il valore di quelle stimate oscilla da 3,63 a 
più di 111 milioni. Peraltro, le stime risultano incomplete, poiché nuove 
specie vengono scoperte e aggiunte continuamente al totale generale.22 

La Convenzione di Washington (CITES) è una convenzione internazionale sul 
commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate di 
estinzione siglata nel 1975. Lo scopo fondamentale della Convenzione è quello di 
garantire che, ove sia consentito, lo sfruttamento commerciale internazionale di una 
specie di fauna o flora selvatiche sia sostenibile per la specie e compatibile con il ruolo 
ecologico che la specie riveste nel suo habitat. 

La Convenzione sulla biodiversità fu conclusa a Rio nell’ambito della 
relativa Conferenza ed ha tre obiettivi: la conservazione della diversità 
biologica, l’uso sostenibile delle sue componenti e la ripartizione giusta ed 
equa dei benefici risultanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche. 

Nel solco di questa prima Convenzione altre ne sono state concluse, ad 
esempio la Convenzione CITES23 sul commercio internazionale di specie 
animali e vegetali in via di estinzione; la Convenzione per combattere la desertificazione; la Convenzione di Ramsar sulle zone umide, che si occupa 
di proteggere le zone umide di rilievo nazionale. Queste ultime infatti sono 

oggetto di interesse per i loro numerosi scopi, tra cui il controllo degli 
allagamenti e dell’erosione, la purificazione delle acque e la stabilizzazione 
delle coste. Merita un cenno la Convenzione UNESCO sul patrimonio 
mondiale culturale e naturale del 1972 che rappresenta un Trattato di 
fondamentale importanza soprattutto per la tutela del patrimonio culturale, 
ma manifesta anche un interesse per la protezione dei siti di eccezionale 
valore naturale. 

Vi è infine da segnalare il “sistema di protezione del continente antartico”, 
internazionalizzato con il Trattato di Washington del 195924. L’obiettivo di 
tale Trattato era quello di congelare le pretese di alcuni Stati su singole 
sezioni del continente antartico, disponendo che l’Antartide può essere 
utilizzato solo per scopi pacifici, ivi inclusa la ricerca scientifica e che tutte 
le attività militari in loco sono proibite. Il Trattato antartico è stato 
affiancato negli anni dalla Convenzione antartica per la protezione delle 
risorse marine viventi nel 198025. Entrambi gli accordi mirano a 

Il trattato Antartico, firmato a Washington il 1° dicembre 1959 fra 12 dei Paesi 
partecipanti all’Anno Geofisico Internazionale (1957-58), regola la presenza sul 
continente dei Paesi interessati, ponendo i principi guida per la gestione delle attività sul 
continente. L’Italia ha aderito il 18 marzo del 1981. Lo spirito del trattato è quello di 
favorire gli usi pacifici del continente e di assicurare, nell’interesse dell’umanità, la 
conservazione della flora, della fauna e dell’ambiente naturale. Punti salienti del 
Trattato sono: la sospensione delle rivendicazioni territoriali; l’interdizione di ogni 
attività a carattere militare e il divieto di esperimenti nucleari e dello smaltimento dei 
rifiuti nucleari, la libertà di ricerca scientifica, la cooperazione internazionale nelle 
attività scientifiche, con scambi di informazioni e di personale. 

 La Convenzione è un accordo di cooperazione a scopo conservativo, al quale possono 
aderire anche gli Stati che non sono parte del Trattato di Washington, interessati alle 
attività di pesca e di ricerca nei mari antartici. La Convenzione si propone di: garantire 
la sostenibilità dell’ecosistema antartico, attraverso il controllo demografico delle specie 
sfruttate; mantenere l’equilibrio ecologico tra le specie pescate; minimizzare i rischi di 
alterazioni eco-sistemiche a lunga reversibilità. Regolamentare lo sfruttamento delle risorse viventi presenti nell’area 
Antartica allo scopo di evitarne la estinzione. 

 

VIII. Analisi settoriale del diritto ambientale internazionale 


Finora ho accennato, talora per esteso, talora soltanto citandoli con un 
breve commento, agli accordi e alle convenzioni in materia di ambiente e 
tutela ambientale. Ora occorre passare ad una analisi settoriale della 
normativa ambientale, cioè delle Convenzioni che sono preposte alla tutela 
ciascuna di un singolo elemento afferente alla biosfera come sopra definita. 

Innanzitutto viene in rilievo la “Convenzione delle Nazioni Unite sul 
Diritto del Mare” firmata a Montego Bay nel 198226 ed entrata in vigore 
nel 1984, che rappresenta lo strumento fondamentale di regolamentazione.

  La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) fissa un regime 
globale di leggi ed ordinamenti degli oceani e dei mari, che stabilisce norme che 
disciplinano tutti gli usi delle loro risorse. Essa sancisce il principio che tutti i problemi 
degli spazi oceanici sono strettamente collegati e devono essere affrontati nel loro 
complesso. Definisce, inoltre, linee guida che regolano le trattative, l'ambiente e la 
gestione delle risorse naturali dei mari e degli oceani. 

La Convenzione è stata aperta alla firma il 10 dicembre 1982 a Montego Bay, in 
Giamaica, dopo oltre 14 anni di negoziazioni che hanno visto la partecipazione di più di 
150 paesi rappresentanti tutte le regioni del mondo, tutti i sistemi giuridici e politici e 
diversi contesti socio/economici. Al momento della sua adozione, la Convenzione ha 
incorporato in un unico strumento le regole tradizionali per gli usi degli oceani e dei 
mari e allo stesso tempo ha introdotto nuovi concetti giuridici per affrontare nuove 
problematiche. La Convenzione ha inoltre fornito il quadro per l'ulteriore sviluppo di 
specifiche aree del diritto del mare. 

La convenzione è entrata in vigore, in conformità con l'articolo 308 del 16 novembre 
1994, 12 mesi dopo la data di deposito del sessantesimo strumento di ratifica o di 
adesione nazionale (la ratifica dell’Italia è avvenuta con legge 2 dicembre 1994, n. 689). 
Oggi, a livello globale, è il regime che si occupa di tutte le questioni relative al diritto 
del mare ed è stata ratificata da 156 stati più l’UE, mediante l’istituzione dell’obbligo di un uso pacifico 
dei mari e degli oceani, l’equa ed efficiente utilizzazione delle risorse 
marine, la conservazione delle specie viventi e lo studio, la protezione e la 
preservazione dell’ambiente marino. All’interno della Convenzione in 
parola sono presenti alcuni articoli che meritano di essere citati. L’art. 
19227 ad esempio pone a carico degli Stati l’obbligo generale di proteggere 
e preservare l’ambiente marino, mentre l’art. 19328 riconosce che gli Stati 
hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse naturali secondo le 
proprie politiche ambientali e nel rispetto del proprio obbligo di proteggere 
e preservare l’ambiente marino. L’art. 19429 testualmente dispone che “gli 

 Art. 193 Diritto sovrano degli Stati di sfruttare le proprie risorse naturali Gli Stati 
hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse naturali secondo le proprie 
politiche in ambito ambientale e nel rispetto del proprio obbligo di proteggere e 
preservare l’ambiente marino. 

Art. 194 Misure atte a prevenire, ridurre e tenere sotto controllo l’inquinamento 
dell’ambiente marino 1. Gli Stati adottano, singolarmente o congiuntamente secondo i 
casi, tutte le misure conformi alla presente Convenzione atte a prevenire, ridurre e 
tenere sotto controllo l’inquinamento dell’ambiente marino, quale che ne sia la fonte, 
usando a tal fine gli strumenti più idonei in loro possesso secondo le loro capacità, e si 
adoperano per armonizzare le rispettive politiche in questo ambito. 2. Gli Stati adottano 
tutte le necessarie misure affinché le attività condotte sotto la loro giurisdizione e sotto 
il loro controllo siano condotte in modo tale da non provocare danni di inquinamento ad 
altri Stati e al loro ambiente, e l’inquinamento eventualmente causato da incidenti o da 
attività svolte sotto la loro giurisdizione e controllo non si propaghi al di là delle zone 
dove essi esercitano diritti sovrani conformemente alla presente Convenzione. 3. Le 
misure adottate conformemente alla presente Parte debbono prevedere tutte le possibili 
fonti di inquinamento dell’ambiente marino. In particolare debbono includere, tra 
l’altro, provvedimenti atti a limitare al massimo: a) il versamento di sostanze tossiche, 
dannose o nocive e in particolare quelle non degradabili provenienti da fonti terrestri o 
dall’atmosfera, o da immissione; b) l’inquinamento da parte di navi, con particolare 
riferimento ai provvedimenti intesi a prevenire incidenti, e a fronteggiare le emergenze, 
garantendo la sicurezza delle operazioni in mare, prevenendo scarichi intenzionali o 
accidentali, e regolamentando la progettazione, la costruzione, l’armamento, le 
operazioni e la condotta delle navi; Navigazione 82 0.747.305.15 c) l’inquinamento 
prodotto da installazioni e macchinari utilizzati per l’esplorazione o lo sfruttamento 
delle risorse naturali del fondo marino e del sottosuolo, con particolare riferimento ai 
provvedimenti intesi a prevenire incidenti e a fronteggiare le emergenze, garantendo la 
sicurezza delle operazioni in mare, e regolamentando la progettazione, la costruzione, 
l’armamento, le operazioni e la conduzione di tali installazioni e macchinari; d) 
l’inquinamento prodotto da altre installazioni o apparecchiature che operano 
nell’ambiente marino, con particolare riferimento ai provvedimenti intesi a prevenire 
incidenti e a fronteggiare le emergenze garantendo la sicurezza delle operazioni in mare 
e regolamentando la progettazione, la costruzione, l’armamento, le operazioni e la 
condotta di tali installazioni o apparecchiature. 4. Nell’adottare misure atte a prevenire, 
ridurre o tenere sotto controllo l’inquinamento dell’ambiente marino, gli Stati si 
astengono da ogni interferenza ingiustificata nelle attività condotte dagli altri Stati 
nell’esercizio dei loro diritti e nell’assolvimento dei loro obblighi conformemente alla 
presente Convenzione. 5. Le misure adottate conformemente alla presente Parte 
includono quelle necessarie a proteggere e preservare ecosistemi rari o delicati, come 
pure l’habitat di specie in diminuzione, in pericolo o in via di estinzione e altre forme di 
vita marina. La Convenzione di Rotterdam (Convenzione PIC – Prior Informed Consent), adottata 
nel 1998 ed entrata in vigore nel 2004, disciplina le esportazioni e le importazioni di 
alcuni prodotti chimici e pesticidi pericolosi ed è basata sul principio fondamentale del 
consenso informato preliminare. 

E’ finalizzata a promuovere la condivisione delle responsabilità e la collaborazione tra 
le Parti interessate agli scambi internazionali di prodotti chimici pericolosi, con 
l’obiettivo di proteggere la salute umana e l’ambiente contro i possibili danni associati 
all’uso di questi prodotti. Il principio di base sul quale si fonda la Convenzione è che 

Stati adottano tutte le misure necessarie affinché le attività condotte sotto la 
loro giurisdizione e sotto i loro controllo siano realizzate in modo tale da 
non provocare danni da inquinamento ad altri stati e al loro ambiente e 
affinché l’inquinamento eventualmente causato da incidenti o da attività 
svolte sotto la loro giurisdizione e controllo non si estenda al di là delle 
zone dove si esercitano diritti sovrani conformemente alla Convenzione.” 

Occorre ora, sempre in ottica sintetica e procedendo per cenni relativi agli 
aspetti più rilevanti della disciplina internazionale della biosfera, accennare 
per l’appunto e in questa sede all’inquinamento dell’ambiente dovuto a 
sostanze pericolose. Occorre cioè commentare la “Convenzione sulla 
procedura di preventivo consenso informato per alcuni prodotti chimici e 
pesticidi pericolosi nel commercio internazionale (Convenzione PIC). La 
Convenzione in parola venne adottata a Rotterdam nel 1998. L’acronimo 
“PIC”30 con cui spesso si indica questa convenzione deriva dalla esportazione di prodotti chimici vietati o soggetti a rigorose restrizioni possa avvenire 
solo con il consenso preliminare informato da parte del Paese importatore. Pertanto 
l’importatore deve essere in possesso di tutte le informazioni per adottare ogni 
precauzione necessaria. Le Parti notificano al Segretariato della Convenzione tutti gli 
atti normativi definitivi che vietano o impongono rigorose limitazioni a un prodotto che 
rientra nell’ambito della Convenzione. Le informazioni trasmesse sono valutate dal 
Comitato di esame per i prodotti chimici (Chemical Review Committee) che elabora un 
documento di orientamento da sottoporre alla Conferenza delle Parti (COP). Se la COP 
decide di inserire il prodotto all’interno della procedura PIC, le Parti esportatrici e 
importatrici sono tenute a garantire il rispetto delle decisioni assunte. La Convenzione è 
stata ratificata da 161 Paesi (Parti), tra cui l’Italia (con Legge 11 luglio 2002 n. 176), ed 
attualmente include nell’allegato III 52 sostanze soggette alla procedura PIC, tra le quali 
35 pesticidi e 16 sostanze chimiche industriali e 1 sostanza di categoria pesticida e 
chimica industriale. All’interno dell’Unione Europea la Convenzione di Rotterdam è 
stata attuata dal Regolamento (CE) n. 649/2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio 
del 4 luglio 2012 (“Regolamento PIC”). Tale Regolamento conferma l’impegno 
dell’Unione Europea a garantire un controllo adeguato degli scambi dei prodotti chimici 
su scala mondiale per proteggere la salute umana e l’ambiente oltre i confini 
dell’Unione europea. Per l’Italia, le funzioni di Autorità Nazionale Competente per 
l’attuazione del regolamento PIC sono svolte dal Ministero della Salute, Direzione 
Generale della Prevenzione Sanitaria. 

 

Gli inquinanti organici persistenti (Persistent Organic Pollutants, POPs) sono composti organici 
tossici difficilmente biodegradabili, che possono accumularsi nei tessuti di esseri umani e animali. 
Dopo il loro rilascio, si diffondono a livello globale attraverso l’aria, l’acqua e la catena alimentare, 

espressione inglese “Prior Informed Consent”, consenso che deve 
precedere ogni movimento transfrontaliero di ben definite sostanze 
pericolose e di pesticidi, in modo da ridurre i rischi di danni all’ambiente e 
alla salute. Le disposizioni della Convenzione si applicano ai prodotti 
chimici e ai pesticidi particolarmente pericolosi individuati nell’allegato III 
alla Convenzione stessa. Attualmente l’Allegato contiene una lista di 25 
categorie di prodotti chimici, che può essere arricchita con altri prodotti 
mediante una specifica procedura prevista dalla Convenzione. 

Altra convenzione settoriale che può essere annoverata nel presente 
discorso è la “Convenzione sugli inquinanti organici persistenti”, adottata a 
Stoccolma nel 2001 e indicata comunemente come POP31 (da persistent 

provocando danni alla salute umana e all’ambiente anche a grande distanza dalla fonte di emissione. 
Possono ad esempio causare tumori, disfunzioni ormonali o compromettere la funzione riproduttiva. 

La Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti (Stockholm 
Convention on Persistent Organic Pollutants) si prefigge di ridurre al minimo le 
emissioni globali di queste sostanze nell'ambiente. La Convenzione è stata ratificata 
dalla Svizzera il 30 luglio 2003 ed è entrata in vigore il 17 maggio 2004. 

Prevede in particolare i seguenti impegni: 

1. Divieti e limitazioni di fabbricazione e di impiego per i prodotti commerciali 
(pesticidi e/o prodotti chimici industriali) seguenti: 

Allegato A: eliminazione 

 acido perfluoroesano sulfonico (PFHxS), suoi sali e sostanze correlate 
 acido perfluoroottanoico (PFOA), suoi sali e sostanze correlate 
 aldrina 
 alfa-esaclorocicloesano 
 beta-esaclorocicloesano 
 clordano 
 clordecone 
 decabromodifeniletere 
 dechlorane plus 
 dicofol 
 dieldrina 
 endrina 
 endosulfan 
 eptacloro 
 esabromobifenile 
 esabromociclododecano (HBCD) 
 esabromodifeniletere ed eptabromodifeniletere 
 esaclorobenzene 
 esaclorobutadiene 
 lindano 
 metossicloro 
 mirex 
 paraffine clorurate a catena corta (alcani C10–13, cloro-) 
 pentaclorobenzene 
 pentaclorofenolo, suoi sali ed esteri 
 policlorobifenili (PCB) 
 policloronaftalene 
 tetrabromodifeniletere e pentabromodifeniletere 
 toxafene 
 UV-328 


Allegato B: limitazione 

 DDT 
 acido perfluorottano sulfonato (PFOS), i suoi sali e fluoruro di perfluorottano sulfonile 


In Svizzera, la fabbricazione, l'immissione sul mercato, l'importazione e l'impiego di 
queste sostanze sono vietati. L'impiego di PFOS è invece soggetto a rigorose restrizioni 
(conformemente all'ordinanza sulla riduzione dei rischi inerenti ai prodotti chimici, 
ORRPChim). 
 La produzione non intenzionale delle seguenti sostanze, prodotte ed emesse ad 
esempio durante i processi di combustione, deve essere ulteriormente ridotta, se non 
eliminata: 

 esaclorobenzene 
 esaclorobutadiene 
 pentaclorobenzene 
 policlorobifenili (PCB) 
 policlorodibenzo-p-diossine (PCDD) e policlore-dibenzofurani (PCDF) 
 policloronaftaleni 

La Convenzione di Stoccolma stabilisce criteri e procedure in base ai quali altre 
sostanze possono essere inserite negli allegati della Convenzione. Le sostanze devono 
essere molto persistenti, soggette a bio accumulazione in animali e piante ed essere 
trasportabili su lunghe distanze. Inoltre, devono avere effetti tossici dimostrati sulla 
salute umana o sull'ambiente. 

I trasformatori e i condensatori contenenti PCB devono essere messi fuori esercizio 
entro il 2025 e smaltiti nel rispetto dell'ambiente. Occorre inoltre promuovere la 
migliore tecnica e la migliore prassi ambientale disponibili nell'ambito di processi di 
combustione e di produzione che possono generare emissioni di POP. 

Per l'attuazione di questi impegni dovranno essere adottate delle misure, soprattutto 
da parte dei Paesi in via di sviluppo e da quelli emergenti. Per sostenerli in tale compito, 
la Convenzione prevede aiuti finanziari come pure il trasferimento di conoscenze e 
tecnologie. 

Un altro impegno della Convenzione di Stoccolma è l'istituzione di un piano di 
attuazione nazionale nel quale ciascun Paese illustrerà la propria situazione nell'ambito 
della problematica relativa ai POP e delineerà le proprie strategie per l'eliminazione di 
questi inquinanti. La Svizzera ha presentato il proprio piano di attuazione nell'aprile del 
2006 e una prima revisione dello stesso nell'agosto 2012. 

L'efficienza della Convenzione di Stoccolma viene regolarmente verificata. A questo 
scopo vengono misurate le concentrazioni dei POP nell'aria o negli esseri umani (nel 
sangue o nel latte materno). La Svizzera ha partecipato agli studi sui POP nel latte 
materno coordinati dall'OMS (Organizzazione mondiale della sanità) e dall'UNEP 
(Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente). 

 Esso programma  si propone di salvaguardare la salute umana e 
l’ambiente dagli effetti negativi di una serie di sostanze pericolose definite 
“inquinanti organici persistenti”. Tali sostanze sono utilizzate nei più 
svariati settori, ad esempio il DDT. Il novero delle sostanze rientranti 
nell’elenco non è tassativo ma può essere ampliato con decisione adottata 
in conferenza dalle parti. Ad esempio nel 2009 è stata adottata una prima 
delibera che ha portato alla aggiunta di altre nove sostanze alla lista 
originaria degli inquinanti organici persistenti prevista dall’allegato A della 
Convenzione. 

Altra Convenzione “di settore” è la Convenzione di Basilea32 sul 
movimento transfrontaliero di rifiuti. Essa Convenzione venne adottata 

La decisione approva a nome cella Comunità economica europea (oggi UE) la 
convenzione di Basilea. 

La convenzione costituisce l’accordo più completo in materia ambientale globale 
riguardante i rifiuti pericolosi e altri rifiuti. Essa punta a proteggere la salute umana e 
l’ambiente dagli effetti avversi risultanti dalla generazione, dai movimenti 
transfrontalieri (attraverso i confini) e dalla gestione di rifiuti pericolosi e altri rifiuti. 

La convenzione regola i movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e altri rifiuti e 
richiede alle parti di garantire la gestione e lo smaltimento di tali rifiuti con modalità 
sane dal punto di vista ambientale. 

Le parti si impegnano altresì a: 

ridurre al minimo le quantità trasportate; 
trattare e smaltire i rifiuti il più vicino possibile al luogo in cui vengono generati; 
Prevenire o ridurre al minimo la generazione di rifiuti alla fonte. 


PUNTI CHIAVE 

Ambito di applicazione 

La convenzione contiene otto allegati: 
 Allegato I: Categorie di rifiuti da controllare — dai rifiuti clinici ai rifiuti 
provenienti dalla produzione, formulazione e utilizzo di solventi organici; 
 Allegato II: Categorie di rifiuti che richiedono un esame speciale — rifiuti 
urbani e residui provenienti dell’incenerimento dei rifiuti urbani 


Allegato III: Elenco delle proprietà pericolose — ad esempio se si tratta di 
sostanze solide o liquide esplosive o infiammabili, spontaneamente 
infiammabili, corrosive o eco/tossiche (nocive per l’ambiente); 
 Allegato IV: Elenco operazioni di smaltimento: 
 Allegato V A: Informazioni che devono essere fornite alla notifica; 
 Allegato V B: Informazioni da fornire nel documento sul movimento: 
 Allegato VI: Arbitrato; 
 Allegato VII: (non in vigore); 
 Allegato VIII: Elenco dei rifiuti. 


Obblighi generali previsti dalla convenzione 

Le parti si impegnano a: 

 non esportare (o importare) rifiuti pericolosi o altri rifiuti verso (o da) uno stato 
non firmatario; 
non esportare rifiuti a meno che lo stato di importazione non abbia dato previo 
consenso per iscritto a tale importazione specifica; 
 comunicare informazioni riguardanti movimenti internazionali proposti verso gli 
stati interessati per mezzo di un modulo di notifica; ciò consentirà a tali stati di 
valutare gli effetti dei rifiuti pericolosi o altri rifiuti sulla salute umana e 
sull’ambiente; 
 consentire movimenti internazionali di rifiuti solo se il loro movimento e 
smaltimento non comportano alcun pericolo; 
 imballare, etichettare e trasportare i rifiuti movimentati, in conformità con 
le disposizioni internazionali, e garantire che essi siano accompagnati da 
un documento di movimento dal punto in cui ha inizio il movimento al punto di 
smaltimento. 


Le parti possono imporre requisiti supplementari che siano coerenti con la convenzione 

Procedure di notifica 

La convenzione introduce procedure di notifica relativamente a: 

 movimenti internazionali tra le parti; 
 movimenti internazionali da una parte attraverso il territorio di uno stato non 
firmatario. 


Spedizioni illegali 

In caso di rifiuti esportati illegalmente, le parti firmatarie della convenzione hanno 
l’obbligo di re-importarli. 

Gestione ambientale corretta 

Le parti concordano di collaborare per l’adozione di pratiche corrette per la gestione 
ambientale di rifiuti pericolosi e altri rifiuti. 

Risoluzione delle controversie 

Le parti si impegnano a risolvere eventuali controversie attraverso modalità di 
negoziazione pacifiche di loro scelta. Se non viene individuata una soluzione, la 
controversia viene sottoposta alla Corte internazionale di giustizia o a un collegio 
arbitrale composto da tre parti. 

Segreteria 

La segreteria facilita la cooperazione e la condivisione delle informazioni tra le parti. 

Sviluppo di capacità 

I centri regionali o sub/regionali di tutto il mondo forniscono attività di formazione e di 
sviluppo delle capacità. 

Esecuzione della legislazione 

La convenzione è stata integrata nel diritto dell’UE tramite il Regolamento (CE) 
n. 1013/2006 e i successivi emendamenti. 

A PARTIRE DA QUANDO SI APPLICANO LA DECISIONE E LA 
CONVENZIONE? 

La decisione è stata applicata dal 1 febbraio 1993. L’accordo si applica dall’8 maggio 
1994. 

CONTESTO 

L’UE, oltre agli Stati membri, è parte nella convenzione. L’UE ha ratificato la modifica 
del divieto che impedisce l’esportazione di rifiuti verso paesi non membri dell’OCSE, 
sebbene tale emendamento non sia ancora entrato in vigore a livello internazionale. 

La convenzione è stata negoziata sotto l’egida del Programma delle Nazioni Unite per 
l’ambiente ed è stata adottata nel 1989. 

Per ulteriori informazioni, si consulti: 

 Spedizioni di rifiuti (Commissione europea). 


TERMINI CHIAVE 

Smaltimento: comprende operazioni risultanti dallo smaltimento finale e operazioni che 
possono condurre al recupero di risorse, al riciclaggio, rigenerazione, riuso diretto o usi 
alternativi. 

DOCUMENTI PRINCIPALI 

Decisione 93/98/CE del Consiglio, del 1 febbraio 1993, sulla conclusione, a nome della 
Comunità, della convenzione sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti 
pericolosi e del loro smaltimento (convenzione di Basilea) (GU L 39 del 16.2.1993, pag. 
1). 

Rettifica della decisione 93/98/CEE del Consiglio del 1 febbraio 1993 sulla 
conclusione, a nome della Comunità, della convenzione sul controllo dei movimenti 
transfrontalieri di rifiuti pericolosi e del loro smaltimento (convenzione di Basilea) (GU 
L 74 del 17.3.1994, pag. 52). 

Convenzione di Basilea Convenzione sul controllo dei movimenti transfrontalieri di 
rifiuti pericolosi e del loro smaltimento (GU L 39 del 16.2.1993, pag. 3). 

DOCUMENTI CORRELATI 

Regolamento (CE) n. 1013/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 
2006 relativo alle spedizioni di rifiuti (GU L 190 del 12.7.2006, pag. 1). 

Le successive modifiche al Regolamento (EC) n. 1013/2006 sono state integrate nel 
documento originale. Questa versione consolidata ha solo un valore documentario. 

 

sulla spinta emotiva dei numerosi casi relativi al trasporto di rifiuti 
pericolosi. Questa Convenzione si occupa di regolamentare il trasporto e il 
commercio di rifiuti pericolosi piuttosto che proibirne totalmente i 
movimenti transfrontalieri. A tal fine essa prevede per le parti un obbligo di 
carattere generale volto a ridurre la produzione dei rifiuti pericolosi per 
quanto possibile, e il loro smaltimento all’interno del Paese di produzione, 
in modo da ridurre tendenzialmente al minimo i movimenti transfrontalieri 
di rifiuti pericolosi. 

Per quanto riguarda un ulteriore ambito di applicazione delle norme a tutela 
dell’ambiente, cioè la regolamentazione in materia di incidenti nucleari, 
quest’ultima si è sviluppata nel corso del tempo in due diversi ambiti: da un 
lato predisponendo strumenti che impongono agli Stati doveri di 
informazione e di assistenza reciproca in caso di incidenti nucleari; 
dall’altro elaborando norme di natura convenzionale tendenti a stabilire 
principi e regole uniformi ai quali devono adeguarsi le legislazioni interne 
degli stati membri in materia di responsabilità civile per danni connessi allo 
sfruttamento dell’energia nucleare. Nel primo ambito possono essere 
menzionate le due Convenzioni internazionali adottate a Vienna nel 1986, 
sotto gli auspici dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’energia 
atomica)33, poco dopo il verificarsi dell’incidente di Chernobyl34. Si tratta 
 L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) è l’organo ufficiale 
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in materia di energia nucleare, creato nel 1957 
in risposta al celebre discorso del presidente degli Stati Uniti Eisenhower all’Assemblea 
Generale delle Nazioni Unite dell’8 dicembre 1953, in seguito noto come “Atoms for 
Peace”. Da tale discorso seguono anche le linee guida per la stesura dello statuto 
dell’agenzia, approvato all’unanimità da 81 Nazioni nell’ottobre del 1956: promuovere 
l’uso pacifico dell’energia atomica ed assicurare che la diffusione della relativa 
tecnologia non favorisca lo sviluppo di progetti militari. A febbraio 2019, l’agenzia 
conta 171 Stati membri. 
Trentasette anni fa un guasto al reattore 4 dell’impianto scatenò il più grave incidente 
atomico della storia. Ricordare oggi la durissima lezione di Chernobyl significa 
guardare a un futuro senza nucleare per il Pianeta. Era il 26 aprile del 1986. Un guasto 
al reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl cambiò il corso della storia e 
l’esistenza di intere generazioni. È stato classificato come il più grave incidente 
nucleare con circa 4mila vittime stimate dall’Onu (secondo altre fonti sono molte di più) 
e 116mila sfollati dalla regione circostante. Le particelle radioattive trasportate dalle 
masse d’aria raggiunsero un’area vastissima e arrivarono addirittura in Europa. La 
quantità di radiazioni era altissima. A peggiorare la situazione è stata poi la mancanza di 
informazioni tempestive nei confronti delle popolazioni coinvolte che ha 
drammaticamente contribuito all’esposizione. A distanza di decenni, le conseguenze 
della contaminazione nucleare sono ancora tangibili. Basti pensare che il disastro di 
Chernobyl rilasciò una quantità di radiazioni almeno 100 volte in più rispetto alle 
bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Il fall-out nucleare interessò l’Ucraina, la 
Russia e per il 70% la Bielorussia, Paese più colpito dalla catastrofe. A lasciare la zona 
furono solo 350.000 persone. Gran parte della popolazione colpita rimase nelle zone 
colpite complice, oltre alla disinformazione, l’impossibilità a spostarsi a causa delle 
difficili condizioni economiche. Gravissimi gli effetti a lungo termine anche 
sull’ambiente, a carico di ecosistemi, flora e fauna. La contaminazione del suolo 
avvenne principalmente per mezzo di alcuni elementi radioattivi come lo Stronzio-90 
e gli isotopi del Cesio, il 134 e il 137. Sotto il profilo sanitario, nel corso degli anni, 
oltre all’abbassamento delle difese immunitarie e all’aumento di numerose patologie 
legate a una dieta fortemente contaminata da radionuclidi, si è palesato un fortissimo 
incremento di casi di tumore alla tiroide che ha colpito soprattutto i più piccoli a causa 
dello iodio radioattivo fuoriuscito dalla centrale nella prima fase del disastro. A questo 
si sono aggiunte una serie di gravi patologie di natura psicologica legate alla cosiddetta 
“sindrome di Chernobyl” che hanno presentato sintomi connessi alla consapevolezza di 
vivere in un territorio fortemente contaminato e senza futuro per sé e per la propria 
famiglia. La preoccupante situazione emergenziale ha portato Legambiente ad attivarsi 
sin dai primi anni sia per sensibilizzare l’opinione pubblica circa l’assurdità della scelta 
del nucleare che per fornire un supporto concreto alle popolazioni colpite. Grazie alla 
nostra rete di circoli locali e famiglie e a una incredibile gara di solidarietà siamo 
riusciti ad accogliere oltre 25mila tra bambine e bambini provenienti dalle zone più 
contaminate di Bielorussia, Russia e Ucraina, consentendo loro di effettuare percorsi 
terapeutici di un mese in Italia. La solidarietà ha poi preso la forma di “Rugiada”, un 
progetto attraverso il quale viene garantita ospitalità in un centro specializzato e 
totalmente sostenibile realizzato in un’area priva di radioattività a bambine e bambini 
bielorussi provenienti dalle zone più contaminate .I piccoli ospiti del Centro Speranza a 
Vilejka possono contare su un soggiorno durante il quale vengono sottoposti a controlli 
medico-sanitari e a un regime alimentare sano e privo di contaminazioni. Grazie 
all’aiuto dei nostri circoli e dei donatori, mai venuto meno nel tempo, e alla 
collaborazione dei nostri referenti in Bielorussia, il progetto Rugiada continua senza 
sosta a donare speranza. Un vero e proprio presidio di Legambiente in Bielorussia, un 
segnale concreto di solidarietà verso le popolazioni colpite, vittime innocenti del 
disastro nucleare. Il disastro di Chernobyl è avvenuto trentasette anni fa, ma ancora oggi 
più di 5 milioni di persone vivono nelle aree contaminate, mangiano cibo e bevono 
acqua radioattivi. Cereali, ortaggi, carne, latte, selvaggina, funghi e frutti di bosco 
conservano ancora oggi una presenza significativa di radionuclidi. A ciò si aggiunge la 
grave crisi economica che affligge la Bielorussia e la disastrosa guerra in Ucraina che 
coinvolge proprio quell’area. Sia il sito di Chernobyl che le altre centrali nucleari 
ucraine attualmente in funzione rappresentano obiettivi sensibili e il rischio di una 
ennesima catastrofe nucleare è altissima. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: non ha 
alcun senso continuare a spingere sul nucleare. É una scelta pericolosa, assurda e ha 
tempi lunghissimi di realizzazione. Serve al contrario promuovere con decisione le 
rinnovabili e portare avanti con coraggio e concretezza le trattative per la pace in 
Ucraina affinché eventuali rischi di trasformare le centrali attualmente attive in bersagli 
venga definitivamente archiviata. La definitiva chiusura delle ultime centrali in 
funzione in Germania ci fa ben sperare. Si vada tutti in questa direzione. 

 

La Convenzione sulla valutazione dell’impatto ambientale in un contesto 
transfrontaliero (Convenzione di Espoo) è stata adottata il 25 febbraio 1991 a Espoo 
(Finlandia). In Svizzera è in vigore dal 10 settembre 1997 ed è applicata anche in tutti i 
Paesi limitrofi. 

in particolare della Convenzione sulla notifica tempestiva in caso di 
incidente nucleare e della Convenzione sull’assistenza in caso di incidente 
nucleare o di emergenza radiologica. 

L’ultima Convenzione che mi pare degna di nota è la Convenzione di 
Espoo sulla valutazione di impatto ambientale in un contesto 

Principi e obiettivi. La Convenzione obbliga la Parte di origine (ossia lo Stato in cui è 
prevista la realizzazione di un progetto) a esaminare l’impatto ambientale di detto 
progetto sullo Stato limitrofo (Parte colpita) e prevede che la Parte di origine notifichi al 
centro di competenza della Parte colpita qualsiasi progetto che potrebbe avere un 
impatto transfrontaliero pregiudizievole importante per l’ambiente. Offre alla Parte 
colpita la possibilità di partecipare alla procedura di studio sull’impatto ambientale. 
Inoltre la Convenzione offre al pubblico della Parte colpita (una o più persone fisiche o 
giuridiche e associazioni) la possibilità di prender posizione sul progetto nel quadro 
dello studio di impatto ambientale. Anche le indagini ambientali relative al progetto 
devono presentare gli impatti ambientali sullo Stato limitrofo. La Convenzione prevede 
inoltre che, nella sua decisione, la Parte di origine tenga conto dei risultati della 
pubblicazione nello Stato o negli Stati limitrofi (Parti colpite). 

Campo d’applicazione 

Le attività (progetti) di cui all’appendice I della Convenzione di Espoo, dai quali 
«potrebbe derivare un impatto transfrontaliero pregiudizievole importante 
[sull’ambiente]» (art. 2 n. 2, 3, 4);altre attività per le quali le parti interessate 
concordano l’assoggettamento alla Convenzione di Espoo (art. 2 n. 5 e appendice III). 

Applicazione nella pratica 

In pratica, in Svizzera tutti i progetti sottoposti all’EIA secondo l’allegato 
dell’ordinanza concernente l’esame dell’impatto sull’ambiente (OEIA; RS 814.011) e 
dai quali potrebbe derivare un impatto transfrontaliero pregiudizievole importante per 
l’ambiente rientrano in linea di massima nel campo di applicazione della Convenzione 
di Espoo. La Convenzione sull'impatto transfrontaliero, che risale al 1991 e che impone alle Parti l’obbligo di 
predisporre tutte le misure appropriate ed effettive per prevenire, ridurre e 
controllare le attività progettate ed eseguite, ove siano suscettibili di avere 
un significativo impatto ambientale transfrontaliero. In particolare la 
Convenzione prevede l’obbligo fondamentale della Parte di origine, ossia 
della Parte che intende attuare un determinato progetto, di realizzare una 
preventiva procedura di valutazione di impatto ambientale, prima di 
assumere la decisione relativa all’autorizzazione di una determinata attività, 
rientrante tra quelle elencate nell’allegato I della Convenzione, che 
potrebbe causare un significativo impatto ambientale transfrontaliero. 

Per le attività che rientrano nella lista dell’allegato I la “rilevanza” dal 
punto di vista ambientale può essere comunque determinata dalle Parti 
sulla base dei criteri stabiliti nell’allegato III della Convenzione. 

L’ultima Convenzione internazionale che pare doveroso citare è la 
Convenzione di Aarhus36 del 1992 che si propone di garantire il diritto di 

La convenzione di Aarhus attribuisce al pubblico (individui e associazioni che li 
rappresentano) il diritto di accedere alle informazioni e di partecipare nelle decisioni in 
materia ambientale, così come ad avere diritto di ricorso se questi diritti non vengono 
rispettati. 

Con questa decisione, la convenzione di Aarhus (firmata dalla Comunità europea - ora 
Unione europea (UE) - e dai suoi Stati membri nel 1998) è stata approvata a nome 
dell’Unione europea. 

Punti Chiave 

La convenzione, in vigore dal 30 ottobre 2001, parte dall’idea che un maggiore 
coinvolgimento e una più forte sensibilizzazione dei cittadini nei confronti dei problemi 
di tipo ambientale conduca ad un miglioramento della protezione dell’ambiente. Essa 
intende contribuire a salvaguardare il diritto di ogni individuo, delle generazioni attuali 
e di quelle future, di vivere in un ambiente atto ad assicurare la sua salute e il suo 
benessere. A questo fine, la convenzione prevede 3 aree di intervento: 

assicurare l’accesso del pubblico alle informazioni sull’ambiente detenute dalle 
autorità pubbliche; 
favorire la partecipazione dei cittadini nei processi decisionali che influiscono 
sull’ambiente; 
estendere le condizioni per l’accesso alla giustizia in materia ambientale; 


Le istituzioni comunitarie rispondono alla definizione di autorità pubblica della 
convenzione, allo stesso titolo delle autorità nazionali o locali. 

Le parti firmatarie della convenzione concordano di applicare i diritti e obblighi elencati 
nella convenzione ai fini di: 

adottare le misure legislative, regolamentari o le altre misure necessarie; 
consentire ai funzionari e alle autorità pubbliche di fornire assistenza e 
orientamento ai cittadini, agevolandone l’accesso alle informazioni, la 
partecipazione ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia; 
promuovere l’educazione ecologica dei cittadini e aumentare la loro 
consapevolezza dei problemi ambientali; 


riconoscere e sostenere le associazioni, i gruppi o le organizzazioni aventi come 
obiettivo la protezione dell’ambiente. 


Accesso del pubblico alle informazioni in materia ambientale 

La convenzione prevede diritti ed obblighi precisi in materia di accesso 
all’informazione, concernenti in particolare i tempi di trasmissione e i motivi di cui 
dispongono le autorità pubbliche per rifiutare l’accesso a determinati tipi di 
informazione. 

L’accesso può venire rifiutato in 3 casi: 

se l’autorità pubblica non è in possesso dell’informazione richiesta; 
La richiesta è manifestamente irragionevole o formulata in modo troppo generico; 
La richiesta riguarda una materia in corso di completamento; 


Le richieste possono anche venire rifiutate sulla base del carattere confidenziale di 
attività di autorità pubbliche, difesa nazionale e sicurezza pubblica, per garantire il corso 
della giustizia o per rispettare il carattere confidenziale di: 

informazioni commerciali e industriali; 
diritti di proprietà intellettuale; 
dati personali; e 
gli interessi dell’eventuale terza parte che ha rivelato le informazioni. 


Poiché la divulgazione di informazioni può andare incontro agli interessi del pubblico, 
tutti questi motivi di rifiuto devono venire interpretati in modo restrittivo. 

Una decisione di rifiuto di accesso deve dichiarare le ragioni del rifiuto e indicare quali 
forme di ricorso sono accessibili al richiedente. 

Le autorità pubbliche devono mantenere aggiornate le informazioni in loro possesso, e a 
questo fine devono mantenere liste, registri e documenti accessibili al pubblico. A 
questo proposito, queste istituzioni sono invitate a fare un uso progressivamente 
maggiore di database elettronici contenenti la documentazione sullo stato dell’ambiente, 
la legislazione, i piani e le politiche a livello nazionale e le convenzioni internazionali. 

Nel 2003, gli Stati membri dell’UE hanno adottato la direttiva 2003/4/CE sull’accesso 
del pubblico all’informazione ambientale. I paesi dell’UE erano tenuti ad integrarla 
nella legislazione nazionale entro il 14 febbraio 2005. 

Nel 2006, l’Unione europea ha adottato il regolamento (CE) n. 1367/2006 che impone 
alle istituzioni e agli organi comunitari l’attuazione degli obblighi contenuti nella 
convenzione di Aarhus. 

Partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale 

La seconda parte della convenzione riguarda la partecipazione del pubblico ai processi 
decisionali. Ciò deve venire garantito attraverso la procedura di autorizzazione per 
specifiche attività (di natura principalmente industriale) elencate nell’Allegato I alla 
convenzione. La decisione finale di autorizzare l’attività deve adeguatamente conto dei 
risultati della partecipazione del pubblico. 

Il pubblico deve venire informato negli stadi iniziali del processo decisionale di quanto 
segue: 

l’oggetto in merito al quale la decisione deve essere presa; 
la natura della decisione da adottare; 
l’autorità competente; 
la procedura prevista, ivi compresi i dettagli pratici della procedura di 
consultazione; 
la procedura per una valutazione di impatto ambientale (se necessaria). 


I tempi procedurali devono consentire una genuina partecipazione del pubblico. 

È prevista una procedura abbreviata per la formulazione di piani e programmi in materia 
ambientale. 

La convenzione inoltre invita i firmatari a promuovere la partecipazione del pubblico 
nella preparazione delle politiche ambientali così come delle norme e leggi che possono 
avere un impatto significativo sull’ambiente. 

Nel 2003, gli Stati membri dell’UE hanno adottato la direttiva 2003/35/CE sull’accesso 
del pubblico all’informazione ambientale. 

Nel 2006 la decisione del Consiglio 2006/957/CE ha tenuto conto di un emendamento 
della convenzione che aumenta la partecipazione del pubblico ai processi decisionali 
riguardanti l’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati 
(OMG). A livello dell’UE, questo requisito è già soddisfatto in alcuni articoli della 
direttiva 2001/18/CE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi 
geneticamente modificati e del regolamento (CE) n. 1829/2003 relativo agli alimenti e 
ai mangimi geneticamente modificati. 

Molte altre direttive UE sull’ambiente regolano la partecipazione pubblica ai processi 
decisionali in materia ambientale. Sono incluse in particolare la direttiva 2001/42/EC e 
la direttiva sul quadro per l’azione comunitaria in materia di acque 
(direttiva 2000/60/CE). 

Accesso alla giustizia in materia ambientale 

Tutti coloro che ritenessero che i loro diritti di accesso all’informazione sono stati 
pregiudicati (per esempio nel caso di una richiesta di informazioni ignorata, 
ingiustamente rifiutata o inadeguatamente soddisfatta) devono poter avere accesso, in 

circostanze appropriate, ad una procedura di riesame all’interno della legislazione 
nazionale. 

L’accesso alla giustizia è anche garantito nel caso in cui la procedura di partecipazione 
stipulata dalla convenzione venisse violata. L’accesso alla giustizia è inoltre consentito 
per la composizione delle controversie relative ad atti di omissione da parte di privati o 
autorità pubbliche che contravvenissero le regole nazionali in materia ambientale. 

Entrambe le direttive 2003/4/CE e 2003/35/CE contengono provvedimenti sull’accesso 
alla giustizia. Una proposta del 2003 riguardo ad una direttiva sull’accesso alla giustizia 
in materia ambientale è stata ritirata nel 2014 come parte di un controllo di adeguatezza 
della Commissione europea della legge UE chiamato REFIT (Programma di controllo 
dell’adeguatezza e dell’efficacia della regolamentazione). 

Nell’aprile 2017 la Commissione ha adottato un documento guida sull’accesso alla 
giustizia in materia ambientale. Questo documento chiarifica come individui e 
associazioni possono contestare presso le corti nazionali decisioni, atti e omissioni da 
parte di autorità pubbliche relative a leggi ambientali dell’UE. 

 

accesso all’informazione, alla partecipazione del pubblico alle decisioni e 
all’accesso alla giustizia in materia ambientale, al fine di contribuire alla 
protezione del diritto di ogni persona appartenente alle generazioni presenti 
e future di vivere in un ambiente adeguato a garantire la tutela della salute e 
del benessere. A tal fine la Convenzione è basata su tre pilastri: l’accesso 
all’informazione, la partecipazione del pubblico alle decisioni in materia 
ambientale e l’accesso alla giustizia in materia ambientale. 

IX. Profili di diritto comunitario dell’ambiente 


Per passare dall’ambito internazionale di disciplina delle questioni 
ambientali all’ambito comunitario, che come detto, si configura come 
sottoinsieme del primo, mi pare di poter iniziare l’analisi di tale 
sottoinsieme del diritto internazionale, riferendomi alla relativa politica 
ambientale, che è uno dei principali settori in cui si estrinseca la azione 
della UE, e che si sostanzia nel perseguimento dello sviluppo sostenibile, 
nella determinazione e realizzazione di tutte le altre politiche ed azioni 

comunitarie, il quale sviluppo è un obiettivo ormai imprescindibile delle 
politiche poste in essere dalle Istituzioni europee. 

Occorre dire che nella versione originaria del Trattato istitutivo della CEE 
non si faceva menzione dell’ambiente. E’ solo con la fine degli anni ’60 e 
l’inizio degli anni ’70 che si pose la questione del diritto sostanziale, in 
materia ambientale e degli interventi normativi di protezione ambientale 
della Comunità. Il fondamento della disciplina fu rinvenuto nell’art. 2 del 
Trattato, che nella versione originaria stabiliva per la Comunità il compito 
di promuovere “uno sviluppo armonioso delle attività economiche ed 
un’espansione continua ed equilibrata”. In dottrina lo sviluppo della 
politica ambientale è stato analizzato attraverso diverse fasi temporali. La 
prima fase copre il periodo che va dall’entrata in vigore del Trattato 
istitutivo della CEE (1958) fino al 1972. In tale periodo furono adottate una 
serie di direttive attinenti alla classificazione, imballaggio e etichettatura 
delle sostanze pericolose, sull’inquinamento acustico, e sulle emissioni 
inquinanti prodotte da autoveicoli. 

La seconda fase va dal 1972 al 1987. Il primo documento programmatico 
per la protezione ambientale fu redatto nel 1973. Da quel momento diversi 
programmi di azione in materia ambientale sono stati adottati anticipando e 
consolidando lo sviluppo via via crescente di una vera e propria politica nel 
settore ambientale. 

I primi due programmi di azione ambientale (1973/’77 e 1977/’81)37 
stabilirono la priorità dell’interesse ambientale in relazione a qualsiasi tipo 
di programma o decisione adottata dalla CEE; successivamente stabilirono 

37Si tratta di due esempi di un più ampio quadro di provvedimenti di matrice europea a 
formazione progressiva che a partire dai citati programmi di azione ambientale si 
inseriscono nel novero di provvedimenti periodicamente emanati dalle Istituzioni 
europee nell’ottica della realizzazione di progressivi obiettivi ambientali. 

il principio della imputazione delle spese relative ai danni ambientali a 
carico del responsabile (principio del “chi inquina paga”). Risalgono a 
questi periodi le prime direttive comunitarie sulla protezione ambientale, e 
cioè le direttive sui “rifiuti”, sul tenore di zolfo nei combustibili, sulle 
sostanze pericolose nelle acque, sui rifiuti tossici e nocivi, sulla 
conservazione degli ambienti selvatici, sulle acque destinate al consumo 
umano e infine sulla qualità dell’aria. 

Il terzo Programma di azione (1982/1986) prevede l’istituzione di una 
politica ambientale, prevedendo una politica sistematica di prevenzione dei 
danni all’ambiente. Ricadono in questo periodo la direttiva sui rischi di 
incidenti rilevanti, la direttiva sulle emissioni in atmosfera degli impianti 
industriali, la direttiva sul tenore di piombo nella benzina, la direttiva sulla 
valutazione di impatto ambientale. 

Nella fase che va dal 1987 al 1993, si può a mio avviso iniziare citando 
l’adozione dell’Atto unico europeo, col quale viene messa in atto una 
attribuzione di competenze ambientali, le quali vengono meglio specificate 
e precisate con il Trattato di Maastricht38 del 1992 e con il Trattato di 

38 Il Trattato di Maastricht ha creato le premesse per la moneta unica europea: l’euro. Ha 
anche istituito la Banca centrale europea (BCE) e il Sistema europeo di banche centrali, 
precisandone le finalità. L’obiettivo principale della BCE è mantenere stabili i prezzi, 
cioè salvaguardare il valore dell’euro. 

Il Trattato ha segnato il coronamento di diversi decenni di dibattito sul rafforzamento 
della cooperazione economica in Europa. I leader europei hanno rilanciato l’idea di una 
moneta unica nel 1986, impegnandosi nel 1989 a realizzare un processo di transizione in 
tre fasi. 

Il Trattato di Maastricht ha definito formalmente queste fasi: 

Fase 1 (01/07/90 - 31/12/93) 

Introduzione della libera circolazione dei capitali fra gli Stati membri. 

Fase 2 (01/01/94 - 31/12/98) 

Rafforzamento della cooperazione fra le banche centrali nazionali e maggiore 
allineamento delle politiche economiche degli Stati membri. 

Fase 3 (01/01/99 - oggi) 

Graduale introduzione dell’euro e attuazione di una politica monetaria unica, affidata 
alla BCE. 

 

 Articolo 16. E’ riconosciuta la libertà d’impresa, conformemente al diritto 
comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali. 

Amsterdam del 1997 e infine con il Trattato di Lisbona del 2007. Le 
competenze in materia ambientale così ripartite costituiscono ancora oggi il 
pilastro sostanziale della politica ambientale di livello europeo. 

Ma è con il Trattato di Maastricht che l’ambiente diviene oggetto di una 
vera e propria politica comunitaria. Da questo momento non solo muta la 
denominazione stessa della Comunità da “Comunità Economica Europea” 
a “Comunità Europea”, ma viene istituita la “Unione Europea” intesa come 
nuova organizzazione che si aggiunge alla CE. Il successivo programma 
d’azione che va dal 1993 al 2000 dispone in merito al coordinamento dello 
sviluppo economico con la tutela ambientale. Dal 1999 cioè dall’entrata in 
vigore del Trattato di Amsterdam inizia l’ultimo periodo della integrazione 
delle politiche UE in materia di ambiente ed esso periodo prosegue fino ai 
giorni nostri. Obiettivo finale rimane quello dello sviluppo sostenibile. 

Nel 2000 i profili ambientali entrano a far parte della Carta dei diritti 
fondamentali dell’Unione europea, che riconoscendo il valore della tutela 
ambientale, sottolinea l’esigenza di un elevato livello di protezione e di un 
miglioramento della qualità dell’ambiente, attraverso una uniformazione 
delle politiche in materia, adottate dagli Stati aderenti. Ovviamente è 
presente all’interno della Carta la necessità di contemperare con il valore 
della tutela ambientale anche altre istanze, come quella della libertà di 
impresa (art.16)39 o il diritto di proprietà privata (art.17)40. La Carta 

 Articolo 17. Ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha 
acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuno può essere 
privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi 
previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la 
perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti 
dall’interesse generale. La proprietà intellettuale è protetta. 

 Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 modifica il Trattato sull’Unione 
europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, apportando significative 
innovazioni al diritto primario UE. Il Trattato sull’Unione europea (TUE) adesso 
contiene i principi informatori e le norme comuni del sistema dell’Unione, nonché le 
disposizioni relative alla PESC /PSDC, mentre il Trattato che istituisce la Comunità 
europea (che è diventato il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea /TFUE) 
disciplina le politiche settoriali (fatta eccezione per PESC/PSDC) e prevede disposizioni 
di dettaglio relative alle istituzioni e alle procedure. Il riposizionamento e la 
riformulazione di molte norme rispondono ad una logica di razionalizzazione e 
maggiore leggibilità, che risulta più evidente nella versione “consolidata” (GUCE n. C 
115 del 9 maggio 2008), con un effetto finale non troppo dissimile da quello del 
“Trattato unico”, originariamente previsto nel progetto di Costituzione per l’Europa, 
interrotto nel 2004-2005. Rispetto al progetto di Trattato costituzionale sono stati 
soppressi i termini di Costituzione, Legge e Legge quadro nonché l’articolo sui simboli 
dell’Unione (fatta eccezione per l’Euro), i quali resteranno tuttavia applicati nella prassi 
(come riconosciuto da una dichiarazione sottoscritta da 16 Paesi membri) e quello sul 
primato del diritto UE (un’apposita dichiarazione riconosce comunque che tale primato 
è un principio fondamentale e saldamente consolidato nella giurisprudenza della Corte 
di giustizia). Il Ministro degli Affari Esteri è stato rinominato Alto Rappresentante 

inizialmente non aveva valore vincolante, essendo solo un documento 
politico, ma essa è stata successivamente integrata sia nel Trattato 
costituzionale firmato a Roma il 29 ottobre del 2004 sia nel Trattato di 
Lisbona del 2007. Con riguardo al primo (il “Trattato che adotta una 
Costituzione per l’Europa”) pur essendosi interrotto il processo 
costituzionale europeo, l’incorporazione in esso della Carta dei diritti 
fondamentali va registrato come un elemento di portata significativa, anche 
se non si è mancato di sottolineare la delusione per il mancato atteso 
riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo all’ambiente in capo 
ai cittadini europei. 

Il Trattato di Lisbona41, entrato in vigore nel 2009 ha sostituito i Trattati 
precedenti con il “Trattato sull’Unione Europea” (TUE) e il Trattato sul 

dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. A differenza del Trattato 
costituzionale, la Carta dei diritti fondamentali UE non figura nel Trattato di Lisbona, 
ma ad essa viene comunque riconosciuto “lo stesso valore giuridico dei trattati“ 
attraverso un’apposita norma. La Carta, con gli adattamenti già convenuti nell’ambito 
del Trattato costituzionale, è stata nuovamente proclamata dai Presidenti delle tre 
Istituzioni a Strasburgo il 12 dicembre 2007. I diritti dei cittadini europei sono precisati 
e rafforzati. Viene in particolare istituita l’iniziativa popolare che consente ad almeno 
un milione di cittadini di invitare la Commissione europea a presentare una proposta 
appropriata. Le maggiori novità riguardano l’architettura generale dell’Unione, le 
Istituzioni e il loro funzionamento. Ponendo fine alla distinzione fra “Comunità” e 
“Unione”, d’ora in poi vi sarà solo l’Unione europea (che “sostituisce e succede alla 
Comunità europea”), con personalità giuridica unica. Con il nuovo sistema viene inoltre 
superata la struttura a “pilastri” in cui si articolava l’Unione fin dal Trattato di 
Maastricht, pur mantenendo alcune procedure distinte a seconda delle materie. Vengono 
istituiti un Presidente “stabile” del Consiglio europeo, che ne presiede e anima i lavori 
e un Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che 
si avvale di un Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) composto da funzionari 
della Commissione, del Consiglio e da funzionari diplomatici dei Paesi membri. Viene 
introdotto il sistema di voto a doppia maggioranza (55% degli Stati e 65% della 
popolazione) in Consiglio, (il sistema precedente potrà essere ulteriormente applicato, 
su richiesta di un Paese membro, fino al 31 marzo 2017). È stato inoltre previsto il 
rafforzamento del c.d. meccanismo di Ioannina (possibilità che una minoranza di Paesi 
chieda di prolungare le discussioni in seno al Consiglio per un “tempo ragionevole”) 
allo scopo di favorire il raggiungimento di un consenso più ampio. Il Parlamento 
europeo è probabilmente l’Istituzione che viene più rafforzata: viene infatti 
generalizzata la procedura legislativa ordinaria (codecisione con voto a maggioranza 
qualificata in Consiglio) che assicura il pieno coinvolgimento dell’emiciclo di 
Strasburgo in materie in cui aveva sino ad allora svolto un ruolo marginale (ad esempio 
lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, la politica agricola e la politica commerciale). 
Vengono introdotte nuove norme per definirne la composizione, che viene 
complessivamente ridotta a 751 membri. Il ruolo dei parlamenti nazionali e le procedure 
previste in materia di controllo dell’applicazione dei principi di sussidiarietà e 
proporzionalità risultano ulteriormente rafforzati. La ripartizione di competenze tra 
Unione e Stati membri viene inoltre chiarita e precisata. Il Protocollo sul ruolo dei 
Parlamenti nazionali prevede poi l’organizzazione di una regolare cooperazione 
interparlamentare definita congiuntamente da Parlamento europeo e Parlamenti 
nazionali e la possibilità per la Conferenza degli organismi specializzati negli affari 
comunitari ed europei (COSAC) di sottoporre all’attenzione delle Istituzioni europee i 
contributi che essa ritiene utili. Ai Parlamenti nazionali viene quindi riconosciuto un 
ruolo particolare anche in relazione alla procedura di revisione dei Trattati. Sul piano 
delle politiche vengono progressivamente superate le eccezioni sinora previste per lo 
Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, che viene integrato nel procedura legislativa 
ordinaria, sia pure con alcune peculiarità. Vengono create o riformulate alcune basi 
giuridiche (rappresentanza esterna dell’Euro, energia, protezione civile, cooperazione 
amministrativa, sport, turismo, protezione degli animali). Per quanto riguarda gli aspetti 
finanziari e di bilancio viene istituzionalizzata la programmazione finanziaria 
pluriennale. Sul piano della governance economica vengono riprese le innovazioni del 

Trattato costituzionale. Viene parimenti istituzionalizzato l’Eurogruppo. Rispetto al 
Trattato costituzionale vengono inoltre introdotti elementi di arricchimento, in materia 
energetica e ambientale. Vengono riprese tutte le innovazioni previste dal Trattato 
costituzionale in relazione alla Politica estera e di sicurezza comune e la Politica di 
sicurezza e difesa comune (nel cui ambito viene in particolare prevista la possibilità di 
una “cooperazione strutturata permanente”). Tali innovazioni – assieme alla sopra citata 
istituzione di una Presidenza stabile del Consiglio europeo e di un Alto Rappresentante 
dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, come pure alla personalità 
giuridica unica dell’Unione e alla creazione del Servizio europeo per l’Azione esterna – 
permetteranno di rendere l’Unione più presente, coesa ed efficace sulla scena 
internazionale. Il Trattato di Lisbona è entrato in vigore il 1° dicembre 2009. La ratifica 
ha avuto luogo per via parlamentare in tutti i Paesi membri (in Italia nel luglio 2008) 
tranne che in Irlanda dove l’esito negativo del referendum nel giugno 2008 ha 
comportato lo slittamento della data inizialmente prevista per l’entrata in vigore del 
Trattato (1° gennaio 2009). Un secondo referendum irlandese ha avuto luogo, con esito 
positivo, il 2 ottobre 2009 a seguito dell’approvazione da parte del Consiglio europeo 
del 18-19 giugno 2009 di apposite garanzie giuridiche in materia di diritto di famiglia, 
diritto alla vita, istruzione, tassazione diretta, politiche sociali, diritti dei lavoratori, 
servizi pubblici, neutralità e politica europea di sicurezza e di difesa. Ha contribuito allo 
slittamento dell’entrata in vigore del Trattato anche il complesso iter di ratifica in 
Repubblica ceca, ove la procedura è stata ultimata in data successiva al secondo 
referendum irlandese e a seguito dell’estensione a tale Paese dell’”opt-out” dalla Carta 
dei diritti fondamentali di cui gode anche la Polonia per limitarne la possibilità di 
invocazione nei giudizi di fronte ai rispettivi tribunali. 

 

Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Ai sensi dell’art. 3, par. 3 del 
TUE l’Unione si adopera per “lo sviluppo sostenibile dell’Europa”, basato 
su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità 
dell’ambiente. 

Il Trattato di Lisbona ridefinisce i settori in cui l’Unione ha competenza 
esclusiva o concorrente, ed anche a seguito di questa revisione l’ambiente 
rimane una delle politiche in cui l’Unione condivide il potere legislativo 
con gli Stati membri ed esercita la sua azione in conformità con i principi 
di attribuzione, di sussidiarietà e di proporzionalità. All’Unione è quindi 
attribuita una competenza concorrente con quella degli Stati membri ed 
inoltre a conferma della natura trasversale delle questioni inerenti 
all’ambiente rispetto alle altre aree di intervento comunitario è inserita 
nell’art. 11 del TFUE una clausola generale, in forza della quale “le 
esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella 
definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in 
particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”. 

Le norme del Trattato dedicate specificamente alla politica 
ambientale sono inserite nel titolo XX del Trattato FUE42. Sulla base 
di queste norme la UE contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: 

Il trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), risultato del trattato di 
Lisbona, è stato sviluppato a partire dal trattato che istituisce la Comunità europea (TCE 
o trattato CE), come attuato dal trattato di Maastricht. Lo stesso trattato CE si basava sul 
trattato che istituiva la Comunità economica europea (trattato CEE), firmato a Roma il 
25 marzo 1957. La creazione dell’Unione europea attraverso il trattato di Maastricht 
(7 febbraio 1992) ha segnato un ulteriore passo avanti lungo il percorso di unificazione 
politica dell’Europa.Tuttavia, l’Unione europea non sostituiva le Comunità europee, ma 
le poneva invece all’interno dello stesso quadro della struttura basata su «tre pilastri»: il 
1o pilastro era composto dalle Comunità europee [la CE, la Comunità europea del 
carbone e dell’acciaio (CECA) fino al 2002 e l’Euratom]. Il 2o pilastro consisteva nella 
cooperazione fra i paesi dell’UE nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune. 
Il 3o pilastro riguardava la cooperazione fra paesi dell’UE nel campo della giustizia e 
degli affari interni. Ogni nuovo trattato comporta una nuova numerazione degli articoli. 
Il trattato di Lisbona, firmato il 13.12.2007 ed entrato in vigore l’ 1.12.2009, a sua volta 
ha rinominato il TCE come TFUE, il quale ha inglobato i tre pilastri nell’UE riformata 
ed è stato ancora una volta rinumerato. Il TFUE è uno dei due trattati fondamentali 
dell’UE, insieme al trattato sull’Unione europea (TUE). Forma la base dettagliata del 
diritto dell’Unione europea definendo i principi e gli obiettivi dell’Unione e l’ambito 
d’azione all’interno dei settori d’intervento. Stabilisce inoltre i dettagli organizzativi e di 
funzionamento delle istituzioni dell’UE. Come già dichiarato nel preambolo precedente, 
lo scopo del TCE era quello di «porre le fondamenta di un’unione sempre più stretta fra 
i popoli europei». Quella formulazione è ancora presente nel preambolo dell’attuale 
TFUE e del TUE. Questi trattati hanno effettivamente attribuito una dimensione più 
politica e democratica all’integrazione europea, al di là dell’obiettivo originario di tipo 
economico di creare un mercato unico. 

Parte prima, Principi: 

1. descrive l’ambito di applicazione del trattato e il suo collegamento con il TUE 
(articolo 1); 
2. delinea le competenze dell’Unione secondo il livello di poteri dell’UE in ciascun 
settore (articoli 2, 3, 4, 5 e 6); 


3. stabilisce i principi generali che reggono l’azione dell’Unione (articoli da 7 a 
17). 


Parte seconda, Non discriminazione e cittadinanza dell’Unione: 

1. vieta la discriminazione in base alla nazionalità (articolo 18); 
2. afferma l’intenzione dell’UE di «combattere le discriminazioni fondate sul 
sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la 
disabilità, l’età o l’orientamento sessuale» (articolo 19); 
3. stabilisce e definisce la cittadinanza dell’Unione e i diritti correlati (articoli da 
20 a 24). 


Parte terza, la più ampia (articoli da 26 a 197), forma la base giuridica delle politiche e 
azioni interne dell’Unione nei seguenti settori: 

1. il mercato interno (titolo I); 
2. la libera circolazione delle merci (titolo II), compresa l’unione doganale; 
3. la politica agricola comune e la politica comune della pesca (titolo III); 
4. la libera circolazione dei lavoratori (e delle persone in genere), dei servizi e 
dei capitali (titolo IV); 
5. lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (titolo V), compresa la cooperazione di 
polizia e giudiziaria; 
6. i trasporti (titolo VI); 
7. la concorrenza, la fiscalità e il ravvicinamento delle legislazioni (titolo VII); 
8. la politica economica e monetaria (titolo VIII), compresi gli articoli sull’euro; 
9. la politica occupazionale (titolo IX); 
10. la politica sociale (titolo X), in relazione alla Carta sociale europea (1961) e 
alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (1989); il 
titolo XI istituisce il Fondo sociale europeo; 
11. le politiche relative all’istruzione, alla formazione professionale, alla gioventù e 
allo sport (titolo XII); 
12. la cultura (titolo XIII); 
13. la sanità pubblica (titolo XIV); 
14. la protezione dei consumatori (titolo XV); 
15. le reti che attraversano l’Europa (titolo XVI); 
16. la politica industriale (titolo XVII); 
17. la coesione economica, sociale e territoriale, in altre parole la riduzione delle 
disparità di sviluppo (titolo XVIII); 
18. le politiche relative a ricerca e sviluppo e spazio (titolo XIX); 
19. la politica ambientale (titolo XX); 
20. la politica energetica (titolo XXI); 
21. il turismo (titolo XXII); 
22. la protezione civile (titolo XXIII); 
23. la cooperazione amministrativa (titolo XXIV). 


Parte quarta: L’Associazione dei paesi e territori d’oltremare (articoli da 198 a 204) 
descrive le relazioni speciali fra l’Unione europea e i territori d’oltremare di alcuni paesi 
dell’UE che, al contrario delle regioni ultraperiferiche, non fanno parte dell’Unione. 

Parte quinta, L’azione esterna dell’Unione (articoli da 205 a 222) descrive: 

1. la politica commerciale comune (scambi esterni); 
2. la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario per i paesi esterni all’UE; 
3. le relazioni con i paesi esterni all’UE (trattati 
internazionali, sanzioni e solidarietà tra paesi dell’UE) e gli organismi 
internazionali; 
4. l’istituzione di delegazioni dell’UE; 
5. che le azioni esterne devono essere in linea con i principi sanciti al capo 1 del 
titolo V del TUE relativo alla politica estera e di sicurezza comune (articolo 
205). 


Parte sesta, Le disposizioni istituzionali e finanziarie approfondiscono: 

1. le istituzioni dell’Unione europea (articoli da 223 a 227); 
2. gli organi consultivi dell’Unione (articoli da 300 a 307); 
3. la Banca europea per gli investimenti (articoli 308 e 309); 
4. gli atti giuridici (regolamenti, direttive, ecc.) e le procedure dell’Unione (articoli 
da 288 a 299); 
5. il bilancio dell’Unione (articoli da 310 a 325); 
6. la cooperazione rafforzata fra paesi dell’UE (articoli da 326 a 334). 


Parte settima — Le disposizioni generali e finali (articoli da 335 a 358) riguardano punti 
giuridici specifici quali la capacità giuridica dell’UE, l’applicazione territoriale e 
temporale, le sedi delle istituzioni, le immunità, l’effetto sui trattati firmati prima del 
1958 e la data di adesione. 

 

- Salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente; 
- Protezione della salute umana; 
- Utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; 
- Promozione sul piano internazionale di misure destinate a 
risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale, e 
in particolare a combattere i cambiamenti climatici. (Art. 191 
par.1 TFUE). 
X. Rapporti tra diritto comunitario, giurisprudenza e dottrina 
costituzionale Italiana 


Va detto che la preminenza a livello comunitario degli interessi ambientali, 
non implica subordinazione degli altri interessi aventi pari dignità, ma 
impone un bilanciamento, in attuazione del principio di integrazione 
congiuntamente al principio di proporzionalità. Questa logica, se 
considerata a livello di ordinamento interno, si può dire che abbia 
determinato un mutamento dell’indirizzo giurisprudenziale della Corte 
costituzionale, la quale ha ampliato su base giurisprudenziale quelle che 
sono le competenze dello Stato in materia di ambiente. Secondo il nuovo 
indirizzo infatti solo lo Stato può assicurare il punto di equilibrio 
sostanziale tra diversi interessi. 

Già nelle sentenze della Corte del 2003 si affidava allo Stato il compito di 
bilanciare gli interessi ambientali con altri altrettanto fondamentali 
interessi. Ma è solo nelle pronunce n. 367 e 37843 del 2007 che si gettano le 
basi per la progressiva ricostruzione stato/centrica della tutela ambientale. 
La pronuncia n. 378 assume particolare rilevanza per l’inquadramento 
dogmatico ed il complessivo posizionamento giuridico della dimensione 
ambientale dell’ordinamento. Nella successiva sentenza n. 380/2007 si 
precisa che proprio in quanto valore costituzionalmente protetto, l’ambiente 
è materia trasversale. Esulando per un attimo dalle sentenze, e sotto un 
profilo valoriale l’ambiente è oggetto del combinato disposto degli artt. 2,  9, 32, Cost. ma anche 41, 42, 43, 44 c.c. Rileva infine l’art. 117 Cost. con 
riferimento all’articolazione dei soggetti dell’ordinamento e alle loro 
competenze. Ma è sulla base delle predette sentenze costituzionali che 
l’ambiente rifluisce nell’ambito della tutela esclusiva dello Stato, mentre la 
valorizzazione dei beni ambientali cade nell’area della competenza 

43 Si tratta di due pronunciamenti con cui il Giudice delle leggi assume una posizione 
sfavorevole alla legittimità di alcune censure costituzionali poste in essere da alcune 
regioni. 

concorrente. Tutte le successive sentenze della Corte costituzionale in 
materia di ambiente, seguono questo indirizzo interpretativo e 
giurisprudenziale. 

Per allargare il campo visuale e sempre in ottica di rapporti tra 
Costituzione, Corte costituzionale e Diritto comunitario va detto 
innanzitutto che, nonostante nel nostro ordinamento esista una notevole 
produzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale sull’ambiente, non 
risulta ancora pienamente delineato lo status giuridico della materia 
ambientale nel suo complesso. Ciò in quanto innanzitutto la nostra dottrina 
ha provato spesso, un senso di frustrazione causato dal non riuscire ad 
inquadrare gli istituti del diritto dell’ambiente nelle categorie tradizionali 
del nostro ordinamento, che ha portato a negare per lungo tempo qualsiasi 
autonomia scientifica nel nostro ordinamento alla materia del diritto 
ambientale. 

In secondo luogo rimane tuttora aperto il dibattito fra i sostenitori di un 
approccio antropocentrico alla tutela ambientale e quanti propendono 
invece per privilegiare una visione eco centrica dei rapporti fra diritto e 
ambiente. 

Andando oltre si pone all’attenzione dello scrivente la novella 
costituzionale del 2001, una riforma che molti ritengono imperfetta in 
quanto lascia aperte sia la questione della definizione giuridica di ambiente, 
sia quella della sua collocazione nell’ambito delle norme costituzionali. In 
tale contesto i contributi della Corte finalizzati a delimitare e interpretare la 
problematica relativa all’inquadramento costituzionale e di normativa 
ordinaria della questione ambientale appaiono fondamentali. Ovviamente è 
altrettanto fondamentale il contributo dottrinale, il quale contiene al proprio 

interno una dicotomia tra due ambiti teorici in materia di ambiente: quello 
delle teorie moniste e quello delle teorie pluraliste. Sul versante di queste 
ultime la migliore dottrina nega che si possa avere una ricostruzione 
unitaria della giurisprudenza ambientale. Il contributo in parola suddivide 
la materia ambientale in almeno tre diverse nozioni: una prima lo considera 
in relazione alla tutela degli elementi paesaggistici e culturali, una seconda 
che affronta il problema degli inquinamenti in relazione alla difesa del 
suolo, dell’aria e dell’acqua, una terza che fa riferimento all’urbanistica e al 
governo del territorio. 

Altra dottrina di pari valore sostiene invece che l’ambiente costituisca una 
nozione unitaria, attraverso il suo collegamento, ora ai diritti della 
personalità, ora ai diritti sociali, con angolazioni diverse e articolate ma 
tutte fondamentalmente caratterizzate da un limite di fondo: quello di 
considerare la nozione di ambiente prevalentemente in relazione alla 
rivendicazione di situazioni giuridiche soggettive. Per tornare alla 
questione della rilevanza del concetto di ambiente nella Costituzione 
italiana va detto innanzitutto che la Nostra Costituzione come le altre 
Costituzioni varate subito dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale non 
poteva contenere espliciti riferimenti all’ambiente, in quanto la materia 
ambientale era all’epoca considerata una materia di secondo ordine. Basti 
pensare al dibattito in sede di assemblea costituente, relativo all’articolo 
della Costituzione, il n. 9, rispetto al quale furono manifestate forti 
resistenze basate sulla convinzione del carattere superfluo o addirittura 
inutile di una previsione costituzionale a tutela del paesaggio. 

La norma che offre maggiori spiragli proprio nell’ambito di un 
riconoscimento della doverosità della tutela ambientale è proprio contenuta 

nell’art. 9 Cost.44 che, al secondo comma contiene una enunciazione di 
tutela del “paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione”, 
inserita tra i compiti costituzionalmente riconosciuti in capo 
all’ordinamento. 

44Il testo integrale dell’art. 9 è il seguente: La Repubblica promuove lo sviluppo della 
cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e 
artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche 
nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme 
di tutela degli animali. 

 

Sotto un diverso profilo la protezione dell’ambiente è stata accostata a 
quella della salute che affida alla Repubblica “la tutela della salute come 
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e che, alla 
luce del disposto dell’art. 2 può essere interpretato nel senso di favorire la 
salubrità dell’ambiente in ordine alla preservazione della tutela 
dell’individuo. Il rapporto tra ambiente e salute si pone così in un ottica di 
complementarietà, nel senso che l’effettività del diritto alla salute previsto 
nell’articolo 32 presuppone il mantenimento di una salubrità ambientale 
tale da garantire l’integrità fisica e la vita degli individui. A partire dagli 
anni Settanta, tanto la dottrina che la giurisprudenza sottolineano la 
corrispondenza di interessi connessi ad ambiente e salute nell’ottica della 
preservazione della integrità fisica dell’individuo, delineando sia il diritto 
soggettivo che l’interesse collettivo alla salubrità dell’ambiente. Anche 
nella giurisprudenza della Corte costituzionale l’approccio soggettivo del 
diritto all’ambiente salubre ha trovato importanti riscontri in due pronunce 
del 1987, la n. 210 e la n. 641, in cui viene sottolineata la necessità di 
creare istituti giuridici specifici per la sua protezione, cioè a favore della 
tutela di un ambiente salubre. 

I primi sporadici interventi della Corte costituzionale in materia di 
ambiente si rinvengono sempre a partire dagli anni Settanta, come peraltro 
le sunnominate dottrina e giurisprudenza. Si tratta di interventi piuttosto 
eterogenei che possono essere collegati ad aspetti specifici della protezione 
della natura. In questo senso una pronuncia del 1971 relativa all’istituzione 
del Parco dello Stelvio, nella quale viene fatto un primo riferimento alle 
finalità precipue della legge, cioè di tutelare “l’ambiente naturale che si è 
costituito spontaneamente o mediante l’opera dell’uomo in una determinata 
porzione di territorio”. E’ però a partire dagli anni ’80 che il Giudice 
costituzionale, a causa della necessità di risolvere un contenzioso tra Stato 
e Regioni in materia di governo del territorio (e quindi in senso lato, 
dell’ambiente), è chiamato più volte a decidere. I contributi più interessanti 
prima della novella del 2001 possono essere individuati, da un lato, nella 
delineazione di uno schema interpretativo dei rapporti Stato/regioni in 
merito alle competenze in materia di ambiente e dall’altro nella 
ricostruzione giurisprudenziale di un compiuto status dell’ambiente come 
valore costituzionale. 

Per quanto riguarda il primo aspetto, cioè il riparto di competenze in 
materia ambientale, il percorso argomentativo del Giudice costituzionale è 
stato ricostruito in maniera convincente da un orientamento dottrinale che 
individua negli interventi della Corte un modello di governo dell’ambiente 
basato su tre pilastri. 

Il primo “pilastro” può essere individuato nel riconoscimento da parte della 
Consulta di una potestà legislativa di tipo concorrente delle Regioni in 
materia di tutela dell’ambiente pur in assenza di una esplicita voce 
all’interno del catalogo delle materie elencate nella versione originaria 
dell’art. 117 Cost. 

Il secondo pilastro del sistema di governo dell’ambiente si ricaverebbe 
dalla necessità che nell’azione di tutela “siano coinvolti tutti i livelli 
territoriali di governo in una logica di effettiva corresponsabilità e che tale 
concorso di competenze sia determinato dal principio di leale 
cooperazione”. 

Nella ricostruzione in parola, il terzo pilastro è rappresentato dalla graduale 
affermazione di un sistema di riparto delle competenze ambientali tra lo 
Stato e le diverse autonomie territoriali orientato unicamente su logiche di 
tipo sussidiario, fondate cioè, in particolare, sul criterio della dimensione 
territoriale degli interessi e sulla individuazione del livello ottimale di 
allocazione delle diverse funzioni. 

XI. Il concetto di ambiente in Costituzione 


Fino al 2001 mancavano riferimenti diretti alla tutela dell’ambiente in 
Costituzione, e la sua protezione era affidata ad alcuni tentativi 
interpretativi del Giudice delle leggi, che aveva individuato alcune 
situazioni soggettive riferibili alla tutela dell’ambiente negli articoli 2, 9, 32 
della Costituzione, con accenni anche agli articoli 41 e 44 c.c. per confluire 
poi su una definizione di ambiente come “valore costituzionale”. In effetti 
l’art. 2 che afferma il principio personalistico di matrice cattolica, clausola 
generale che consente lo sviluppo dei cosiddetti diritti della personalità è 
stato spesso utilizzato dalla dottrina per postulare l’esistenza a livello 
costituzionale di un diritto soggettivo all’ambiente, ma tutto ciò con scarso 
seguito e scarse applicazioni giurisprudenziali. A sua volta l’art. 9, in 
materia di tutela del paesaggio, è stato spesso chiamato in causa per 
giustificare l’imposizione di vincoli ambientali, ma non è dotato di una 
portata sufficientemente idonea a ricomprendere l’insieme delle materie 

riconducibili all’ambiente né, tantomeno, per affermare un diritto 
all’ambiente. L’art. 32, a tutela della salute può costituire una base per 
l’evidenziazione della tutela di un diritto all’ambiente salubre, ma da 
applicare limitatamente ai casi in cui un ambiente salubre determina 
effettivi benefici alla salute. 

Le maggiori difficoltà esegetiche si pongono però in base all’articolo 117 
Cost., il quale prevede tre tipi di competenza legislativa: esclusiva in capo 
allo Stato, concorrente fra Stato e Regioni e residuale in capo alle Regioni, 
che possono legiferare, in piena autonomia, in tutte le materie non riservate 
alle due liste succitate. Alla competenza esclusiva dello Stato viene affidata 
“la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, mentre nella 
lista concorrente Stato/Regioni ritroviamo la valorizzazione dei beni 
culturali e ambientali. La riserva di legge a favore dello Stato in materia 
ambientale è apparsa inizialmente come in controtendenza rispetto ad un 
ordinamento costituzionalmente orientato ad accrescere il potere delle 
Regioni in materia di ambiente. Nel corso degli anni infatti molte funzioni 
in materia di ambiente erano state attribuite alle Regioni, attraverso 
l’introduzione di istituti quali la VIA e la VAS. Proviamo a definire questi 
concetti, che sono stati introdotti, bisogna dire, a partire da un livello 
sovranazionale che tende a dare attuazione al principio di prevenzione. Il 
primo dei procedimenti elencati, con la sigla VIA, che sta per “Valutazione 
di impatto ambientale”, è stato introdotto in Italia da una direttiva europea, 
la 85/337/CEE del Consiglio europeo. Come detto particolarità del 
procedimento è la sua attinenza al principio di prevenzione: esso è 
finalizzato a prevedere e contrastare le conseguenze dannose di interventi 
sul territorio prima che si verifichino. Relativamente alle categorie di 
progetti sottoponibili al procedimento di valutazione, la normativa 

comunitaria opera una distinzione tra progetti che obbligatoriamente 
formano oggetto del procedimento e progetti che invece sono oggetto di 
valutazione preventiva solo quando gli Stati membri ritengano che le loro 
caratteristiche lo richiedano. L’analisi dei progetti si articola in più punti: le 
caratteristiche dei progetti; la localizzazione dei progetti; le caratteristiche 
dell’impatto potenziale, cioè sul risultato effettivo del progetto. 

Per quanto riguarda il secondo istituto che viene in considerazione, cioè la 
VAS, sigla che sta per “Valutazione ambientale strategica”, introdotto con 
direttiva 2001/42, esso istituto riguarda l’incidenza sull’ambiente 
dell’approvazione di piani e programmi i quali possono produrre 
conseguenze sull’ambiente. La direttiva che ha introdotto nel nostro 
ordinamento il procedimento in parola specifica che le attività suscettibili 
di avere un effetto negativo sull’ambiente sono poste in essere nei settori 
agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della 
gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della 
pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli”. E’ dunque 
evidente la centralità del ruolo che la VAS assume all’interno delle 
politiche ambientali europee. 

Data la situazione delle prerogative che, al di là del disposto costituzionale, 
il legislatore ha pian piano posto a carico delle Regioni, la riserva di legge 
esclusiva a favore dello Stato in materie quali la tutela dell’ambiente e 
dell’ecosistema è stata indicata da molti come il preoccupante passo verso 
un “centralismo ambientale” che potrebbe danneggiare, data la normativa, 
la situazione dell’ambiente a causa di un effettuale “vulnus” alla 
ripartizione delle competenze. Tuttavia già dai primi commenti all’art. 117 
Cost. emerge che il senso di pericolosità che la riforma dello stesso 
prospetta, è soltanto apparente. Innanzitutto l’art. 117 non fornisce una 
definizione di “ambiente” chiara ed esaustiva. In secondo luogo pur citando 
i vocaboli “ambiente” e “ecosistema”, non ne viene data una definizione. 

Tornando alla analisi dei rapporti Stato/Regioni, che in Costituzione è 
previsto per quanto attiene alle materie di competenza concorrente il 
quadro è ancora più incerto in quanto si potrebbe verificare una 
sovrapposizione di legislazione, da parte dello Stato e da parte delle 
Regioni. Infine la Regioni dispongono della competenza residuale che 
consente loro di riappropriarsi di diverse funzioni situate in zone di confine 
ma non immediatamente riferibili alle materie di cui alle due liste dell’art. 
117 Cost. 

A ciò si aggiunga che il successivo art. 118 Cost. disciplina le competenze 
amministrative e di gestione, e prevede un ampio ricorso al principio di 
sussidiarietà, in primis a beneficio dei Comuni ma anche delle Province e 
delle Regioni nei confronti dello Stato centrale. Sembra in tal modo 
superato il principio del “parallelismo” delle funzioni, secondo il quale il 
livello che deteneva la competenza legislativa rispondeva anche della 
connessa funzione amministrativa. 

Si è detto più su che la materia dell’ambiente potrebbe essere considerata 
una materia “trasversale” in quanto interrelata a più settori 
dell’ordinamento. Tuttavia negli ultimi anni il Giudice costituzionale ha 
abbracciato un diverso orientamento, inaugurato dalla Sentenza n. 
367/2007 in materia di paesaggio. La lettera della sentenza, per quanto qui 
interessa è la seguente: “è evidente che sul territorio gravano più interessi 
pubblici: quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la 
cui cura spetta allo Stato in via esclusiva e quelli concernenti la fruizione 
del territorio, che sono affidati alle competenze regionali, concernenti il 

governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali.” 
Questo nuovo orientamento è stato ulteriormente sviluppato nella sentenza 
successiva cioè la n. 378/2007, in cui i giudici della Consulta hanno 
chiarito che l’ambiente non deve essere considerato come bene immateriale 
trattandosi invece di un bene della vita, materiale e complesso, la cui 
disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia della qualità e degli 
equilibri delle sue singole componenti. Nella sentenza in parola la Corte 
sembra voler chiarire i significati di “ambiente ed ecosistema” attraverso 
un riferimento al diritto internazionale laddove sostiene, sulla base di una 
rilettura della Convenzione di Stoccolma del 1972 che la competenza dello 
Stato concerne il concetto di “ambiente”, quello di “ecosistema” e quello di 
“beni culturali”, precisando che per “ecosistema” deve intendersi quella 
parte di “biosfera” che riguarda l’intero territorio nazionale. Sempre in base 
a questo nuovo indirizzo la tutela dell’ambiente si caratterizzerebbe per una 
serie di elementi, che possono essere riassunti in quattro punti chiave: 

- La tutela dell’ambiente ha un contenuto “oggettivo” in quanto 
riferito ad un bene della vita e “finalistico” perché diretto alla sua 
migliore conservazione; 
- Sullo stesso bene della vita (l’ambiente) concorrono diverse 
competenze le quali restano distinte tra loro e sono chiamate a 
perseguire, in autonomia, le loro finalità mediante la previsione di 
distinte discipline giuridiche (statali o regionali); 
- La competenza statale, quando è espressione della tutela 
dell’ambiente, costituisce un vero e proprio limite nell’esercizio 
delle competenze regionali; 
- Le Regioni purché risultino nell’ambito dell’esercizio delle 
competenze loro attribuite, possono pervenire a livelli di tutela più 


elevati, incidendo alla fine però solo in modo diverso e indiretto 
sulla tutela dell’ambiente. 


La recente sentenza n. 373 del 2010 ha infine rappresentato una occasione 
per qualificare come principi gli elementi chiave della giurisprudenza 
costituzionale in materia di tutela dell’ambiente. 

In merito all’orientamento giurisprudenziale e dottrinale or ora richiamato 
non manca chi sostiene che vi siano ancora questioni aperte non toccate né 
tanto meno risolte dalla dottrina e dalla giurisprudenza in parola. In 
particolare ci si chiede come possa configurarsi concretamente la materia 
denominata “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, che costituisce 
comunque un valore costituzionalmente protetto. Oltre a tale problematica 
riflessione sorgono all’attenzione del giurista, una serie di questioni 
pratiche. Una prima questione è relativa all’esame della giurisprudenza 
recente, che non lascia comprendere se la sunnominata materia sia oggetto 
di una disciplina ben definita oppure sia una materia oggetto di norme 
meramente programmatiche. Un secondo problema riguarda la possibilità o 
meno per le Regioni di derogare in melius alla legislazione statale, mentre 
il terzo concerne i titoli di intervento della potestà legislativa ambientale 
delle stesse Regioni i quali non sarebbero secondo la dottrina individuati 
con sufficiente chiarezza. 

XII. Cenni di Diritto amministrativo in materia ambientale 


Nelle ripartizioni tradizionali del Diritto amministrativo si tende ad 
attribuire una importanza fondamentale al diritto processuale 
amministrativo, ponendo in secondo piano tutte le altre problematiche che 
potrebbero rientrare nel novero delle attività amministrative, cioè i 
numerosi profili sostanziali. Questi ultimi sono invece un elemento 

essenziale del diritto amministrativo dell’ambiente. In effetti i principi che 
valgono per il diritto processuale generale non valgono in riferimento alla 
problematica ambientale. Tuttavia si può sicuramente affermare che il 
principio del “favor libertatis” che presiede alle attività economiche, nel 
senso di tutelare la libertà di sfruttamento delle risorse ambientali viene 
progressivamente sostituito del “favor naturae”, con una evidente 
preferenza accordata alla tutela degli interessi pubblici ambientali nei 
confronti di iniziative private. Conseguentemente il disposto dell’art. 41 
Cost. è stato modificato attraverso il divieto di porre in essere tutte quelle 
attività che potrebbero danneggiare l’ambiente. 

Le prescrizioni in materia di tutela ambientale, emanate dalla autorità 
hanno quasi del tutto perduto il carattere di tipicità tanto che alle volte si 
verifica un porre “a carico” dei privati quelle attività che implicano un 
costo notevole. 

Nel contesto del diritto amministrativo si può argomentare nel modo 
seguente: 

- È escluso il principio del silenzio – assenso, sostituito dall’ordine 
dell’autorità; 
- Viene introdotta un’ampia deroga all’intangibilità dei diritti 
quesiti, quali configurati dal rilascio di una autorizzazione 
all’esercizio di attività economica, nel caso di iniziative inerenti ad 
un interesse ambientale. La concedibilità dell’autorizzazione può 
venire meno anche in corso d’opera, sempre che sopraggiungano 
istanze a carattere ambientale ovvero relative alla evoluzione della 
migliore tecnologia, o all’entrata in vigore di nuove normative; 


- Non è ammessa la previa notifica di inizio attività in sostituzione 
di un procedimento permissivo, a parte i casi di attività di recupero 
di rifiuti e dello svolgimento di attività a ridotto inquinamento 
atmosferico; 
- E’ preclusa in materia ambientale la sanzione dell’esaurimento del 
potere di provvedere in caso di ritardo della pubblica autorità 
competente, ammettendosi solo il ricorso per sostituzione 
all’autorità sovraordinata; 
- Resta inapplicato il principio generale della tempestività della 
azione amministrativa, con la fissazione di termini per provvedere 
sulle istanze dei privati, per mancanza di sanzioni sui ritardi e 
sulle omissioni; 
- Viene aggirato il principio del non aggravamento del 
procedimento amministrativo sia mediante il ricorso a prescrizioni 
conformative minuziose ed invasive, sia attraverso artifizi 
procedimentali; 
- Il divieto di ricorso all’analogia nella prassi viene derogato sia in 
sede di interpretazione giudiziale sia in sede di applicazione della 
norma specifica; 
- La sanabilità degli abusi ambientali non viene espressamente 
disciplinata, e resta fermo il loro carattere incriminante; 
- La responsabilità estesa dal produttore del prodotto che canalizza 
non solo gli obblighi connessi alla produzione ma anche di 
organizzare centri di raccolta e smaltimento dei rifiuti prodotti 
dalla propria attività; 
- Le restrizioni all’esercizio della delega per lo svolgimento dei 
compiti ambientali quale esimente di responsabilità nell’impresa 
fissando condizioni stringenti e requisiti tassativi di applicabilità; 


- Sotto il profilo processuale viene derogato il principio di matrice 
civilistica della personalità dell’interesse ad agire, ed il principio 
di origine costituzionale che riserva la legittimazione attiva nei 
confronti della Pubblica Amministrazione per lesione di interessi 
legittimi o di diritti soggettivi, concedendosi alle associazioni 
ambientaliste nazionali la facoltà di ricorrere in sede 
giurisdizionale amministrativa per l’annullamento di 
provvedimenti amministrativi illegittimi, a tutela di semplici 
interessi diffusi. 


Vero è che ad oggi si potrebbe cogliere l’emergere di una progressiva 
riconduzione del diritto ambientale nell’ambito del diritto amministrativo, 
intendendo con tale espressione l’espansione dei profili amministrativi 
rispetto alla situazione embrionale nella quale il diritto ambientale era stato 
descritto or sono quarant’anni da autorevole dottrina che aveva inaugurato 
tali studi. La rilevanza determinante del diritto amministrativo è 
riconosciuta dagli studiosi di Diritto penale dell’ambiente, i quali mettono 
in luce il carattere ausiliario della propria disciplina essendo il profilo 
penale influenzato dai fatti amministrativi come veri e propri elementi 
costitutivi delle fattispecie criminose ambientali. 

Un diritto ambientale come disciplina del tutto autonoma richiede la 
realizzazione del progressivo allineamento “reciproco” della disciplina 
repressiva con quella incentivante. Tuttavia, mentre la disciplina fondata su 
ordini conformativi e su divieti diviene sempre più consistente, minuziosa 
ed invasiva, per porre fine a tale crescita esponenziale a livello normativo 
ha iniziato a manifestarsi la tendenza a consentire al privato di 
autocertificare la conformità dell’attività che egli decide di intraprendere a 
tutta la normativa a carattere amministrativo inerente a quella stessa 

attività. Tuttavia in ambito amministrativo non manca chi ritiene che tale 
maggiore autonomia conferita al privato nasconda in realtà un artifizio 
legislativo che tende ad aggirare la normativa per consentire la 
realizzazione di attività non conformi a legge. Al fine di comporre il 
potenziale contenzioso tra livello di attività giuridica pubblica e privata, il 
legislatore costruisce molte norme ambientali secondo uno schema binario: 
da un lato prescrive divieti all’attività privata; dall’altro concede deroghe. 

In realtà ogni nuova funzione e ogni nuovo provvedimento amministrativo 
viene posto a carico del sistema degli operatori privati, secondo un criterio 
di traslazione degli oneri per lo svolgimento delle attività istituzionali delle 
Pubbliche amministrazioni. 

Per continuare il discorso va nominato senz’altro il provvedimento di 
codificazione delle principali fonti di settore (amministrativo), a seguito del 
quale (d.lgs. 152/2006) vengono raggruppate in un solo testo, mentre in 
precedenza erano presenti in una molteplicità di provvedimenti distinti. 
Dopo l’emanazione del provvedimento il legislatore ha inteso inserire, per 
il tramite del d.lgs. 128/2010, nella parte introduttiva del provvedimento 
adottato in precedenza, alcuni principi fondamentali, integrando i 
precedenti che erano stati fortemente criticati dalla dottrina. Tuttavia 
quest’ultima è quasi del tutto concorde nel ritenere il provvedimento in 
parola non come una struttura legislativa coerente e sistematica ma una 
semplice giustapposizione. Per rimediare alla difficoltà applicativa di 
norme prive di un coordinamento che ne sintetizzi e ne chiarifichi il 
contenuto, il legislatore inserisce all’interno del provvedimento in parola 
una serie di principi generali che potrebbero trovare applicazione anche in 
prospettiva europea. Il provvedimento di integrazione non ha però sortito 
gli effetti che il legislatore si era prefisso. Ciò detto, una reale rilevanza e 

conformità alle norme dell’ordinamento si rinviene nella disposizione che 
fissa e qualifica i principi contenuti nella parte prima del codice ambientale 
come regole generali “della materia ambientale negli atti normativi, di 
indirizzo e coordinamento e nell’emanazione dei provvedimenti 
contingibili e urgenti”. (Art.3 – bis, comma 2). 

La norma presenta alcuni aspetti interessanti. In primo luogo esclude che i 
principi elencati nella prima parte del d.lgs. 152/2006 possano essere 
invocate come norme di relazione, dacché il legislatore le definisce “norme 
di azione”. Gli atti che dovranno porsi a confronto con i suddetti principi 
non potranno essere quelli normativi di natura primaria, ma quelli di natura 
secondaria nonché quelli amministrativi generali. Per quanto concerne le 
ordinanze degli enti amministrativi se ne riduce il numero e la frequenza 
con la quale vengono emanate. 

Tuttavia è ancora possibile affermare che tutte le attività produttive e di 
erogazione dei servizi che presentino inerenza agli interessi ambientali 
sono sottoposte a regime amministrativo. L’ordinamento del settore 
amministrativo comprende nel novero delle proprie competenze, le 
seguenti: autorizzazioni costitutive, autorizzazioni in funzione del bisogno, 
autorizzazioni in funzione di programmazione, autorizzazioni in funzione 
di controllo, autorizzazioni dichiarative e altre ancora. 

I provvedimenti autorizzativi in materia ambientale presentano alcuni 
caratteri comuni. Innanzitutto non preesiste una situazione di diritto 
soggettivo ai sensi dell’art. 41 Cost., ma di interesse legittimo. In secondo 
luogo per sintetizzare la situazione giuridica soggettiva di coloro che 
intendono porre in essere attività che sono subordinate ad una 
autorizzazione amministrativa, si potrebbe utilizzare la formula studiata all’inizio del ‘900, formula conosciuta come “divieto con riserva di 
permesso”. In effetti la disciplina del procedimento amministrativo in 
materia di ambiente è tuttora dettata dalla legge generale sul procedimento 
amministrativo. La stessa L. 241/199045 si incarica di regolare le modalità 

 Legge 7 agosto 1990, n. 241 
Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai 
documenti amministrativi 

Art. 1. (Princípi generali dell'attività amministrativa) 

1. L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di 
economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, secondo le 
modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli 
procedimenti, nonché dai princípi dell'ordinamento comunitario. 

1-bis. La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, 
agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente. 

1-ter. I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il 
rispetto dei princípi di cui al comma 1, con un livello di garanzia non inferiore a quello 
cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla 
presente legge. 

2. La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per 
straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria. 

2-bis. I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi 
della collaborazione e della buona fede. 
(comma aggiunto dall'art. 12, comma 1, lettera 0a), legge n. 120 del 2020) 

Art. 2. (Conclusione del procedimento) 

1. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere 
iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante 
l’adozione di un provvedimento espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, 
inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche 
amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in 
forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al 
punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo. 

2. Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 
non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle 
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il 
termine di trenta giorni. 

3. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi 
dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri 

competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione 
e per la semplificazione normativa, sono individuati i termini non superiori a novanta 
giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle 
amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri 
ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i 
procedimenti di propria competenza. 

4. Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo 
dell’organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della 
particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a 
novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni 
statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su 
proposta anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e per la 
semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. I termini 
ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione 
dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti 
l’immigrazione. 

4-bis. Le pubbliche amministrazioni misurano e pubblicano nel proprio sito internet 
istituzionale, nella sezione “Amministrazione trasparente”, i tempi effettivi di 
conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per i cittadini e per le 
imprese, comparandoli con i ter- mini previsti dalla normativa vigente. Con decreto del 
Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la pubblica 
amministrazione, previa intesa in Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto 
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti modalità e criteri di misurazione dei 
tempi effettivi di conclusione dei procedimenti, nonché le ulteriori modalità di 
pubblicazione di cui al primo periodo. 
(comma introdotto dall'art. 12, comma 1, lettera a), legge n. 120 del 2020) 

5. Fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di 
garanzia e di vigilanza disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di 
conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza. 

6. I termini per la conclusione del procedimento decorrono dall’inizio del procedimento 
d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte. 

7. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 17, i termini di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 del 
presente articolo possono essere sospesi, per una sola volta e per un periodo non 
superiore a trenta giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a 
fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione 
stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si 
applicano le disposizioni dell’articolo 14, comma 2. 

8. La tutela in materia di silenzio dell'amministrazione è disciplinata dal codice del 
processo amministrativo. Le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso 
proposto avverso il silenzio inadempimento dell'amministrazione sono trasmesse, in via 
telematica, alla Corte dei conti. 

8-bis. Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla 
osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini 

di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, 
ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i 
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali 
effetti, di cui all’articolo 19, commi 3 e 6-bis, primo periodo, adottati dopo la scadenza 
dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-
nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni. 
(comma introdotto dall'art. 12, comma 1, lettera a), legge n. 120 del 2020) 

9. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento 
di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e 
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente. 

9-bis. L' organo di governo individua un soggetto nell'ambito delle figure apicali 
dell'amministrazione o una unità organizzativa cui attribuire il potere sostitutivo in caso 
di inerzia. Nell'ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera 
attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in 
mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell'amministrazione. Per 
ciascun procedimento, sul sito internet istituzionale dell’amministrazione è pubblicata, 
in formato tabellare e con collegamento ben visibile nella homepage, l’indicazione del 
soggetto o dell’unità organizzativa a cui è attribuito il potere sostitutivo e a cui 
l’interessato può rivolgersi ai sensi e per gli effetti del comma 9-ter. Tale soggetto, in 
caso di ritardo, comunica senza indugio il nominativo del responsabile, ai fini della 
valutazione dell’avvio del procedimento disciplinare, secondo le disposizioni del 
proprio ordinamento e dei contratti collettivi nazionali di lavoro, e, in caso di mancata 
ottemperanza alle disposizioni del presente comma, assume la sua medesima 
responsabilità oltre a quella propria. 
(comma introdotto dall'art. 12, comma 1, lettera a), legge n. 120 del 2020, poi così 
modificato dall'art. 61, comma 1, lettera a), della legge n. 108 del 2021) 

9-ter. Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento o quello 
superiore di cui al comma 7, il responsabile o l’unità organizzativa di cui al comma 9-
bis, d’ufficio o su richiesta dell’interessato, esercita il potere sostitutivo e, entro un 
termine 28 maggio 2021 61 pari alla metà di quello originariamente previsto, conclude 
il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario. 
(comma introdotto dall'art. 12, comma 1, lettera a), legge n. 120 del 2020, poi così 
sostituito dall'art. 61, comma 1, lettera b), della legge n. 108 del 2021) 

9-quater. Il responsabile individuato ai sensi del comma 9-bis, entro il 30 gennaio di 
ogni anno, comunica all'organo di governo, i procedimenti, suddivisi per tipologia e 
strutture amministrative competenti, nei quali non è stato rispettato il termine di 
conclusione previsti dalla legge o dai regolamenti. Le Amministrazioni provvedono 
all'attuazione del presente comma, con le risorse umane, strumentali e finanziarie 
disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza 
pubblica. 

9-quinquies. Nei provvedimenti rilasciati in ritardo su istanza di parte è espressamente 
indicato il termine previsto dalla legge o dai regolamenti di cui all'articolo 2 e quello 
effettivamente impiegato. 

Art. 2-bis. (Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del 
procedimento) 

1. Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono 
tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza 
dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. 

1-bis. Fatto salvo quanto previsto dal comma 1 e ad esclusione delle ipotesi di silenzio 
qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione 
del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, 
l'istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le 
modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai 
sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. In tal caso le somme 
corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento. 


Art. 3. (Motivazione del provvedimento) 

1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione 
amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere 
motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i 
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione 
dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria. 

2. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale. 

3. Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato 
dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e 
reso disponibile, a norma della presente legge, anche l’atto cui essa si richiama. 

4. In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l’autorità cui 
è possibile ricorrere. 

Art. 3-bis. (Uso della telematica) 
(introdotto dall'art. 3 della legge n. 15 del 2005) 

1. Per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche 
agiscono mediante strumenti informatici e telematici , nei rapporti interni, tra le diverse 
amministrazioni e tra queste e i privati. 
(comma introdotto dall'art. 12, comma 1, lettera b), legge n. 120 del 2020) 

Art. 4. (Unità organizzativa responsabile del procedimento) 

1. Ove non sia già direttamente stabilito per legge o per regolamento, le pubbliche 
amministrazioni sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad 
atti di loro competenza l’unità organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro 
adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del provvedimento finale. 

2. Le disposizioni adottate ai sensi del comma 1 sono rese pubbliche secondo quanto 
previsto dai singoli ordinamenti. 

Art. 5. (Responsabile del procedimento) 

1. Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro 
dipendente addetto all’unità la responsabilità della istruttoria e di ogni altro 
adempimento inerente il singolo procedimento nonché, eventualmente, dell’adozione 
del provvedimento finale. 

2. Fino a quando non sia effettuata l’assegnazione di cui al comma 1, è considerato 
responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa 
determinata a norma del comma 1 dell’articolo 4. 

3. L’unità organizzativa competente, il domicilio digitale e il nominativo del 
responsabile del procedimento sono comunicati ai soggetti di cui all’articolo 7 e, a 
richiesta, a chiunque vi abbia interesse. 
(comma così modificato dall'art. 12, comma 1, lettera c), legge n. 120 del 2020) 

Art. 6. (Compiti del responsabile del procedimento) 

1. Il responsabile del procedimento: 

a) valuta, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i 
presupposti che siano rilevanti per l’emanazione di provvedimento; 
b) accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all’uopo necessari, e 
adotta ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria. In particolare, 
può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o 
incomplete e può esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni 
documentali; 
c) propone l’indizione o, avendone la competenza, indice le conferenze di servizi di cui 
all’articolo 14; 
d) cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalle leggi e dai 
regolamenti; 
e) adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti 
all’organo competente per l’adozione. L'organo competente per l'adozione del 
provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può 
discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se 
non indicandone la motivazione nel provvedimento finale. 

Art. 6-bis. (Conflitto di interessi) 

1. Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i 
pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale 
devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, 
anche potenziale. 

Art. 7. (Comunicazione di avvio del procedimento) 

1. Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di 
celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le 
modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento 
finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. 
Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un 

provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente 
individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire 
loro, con le stesse modalità, notizia dell’inizio del procedimento. 

2. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la facoltà dell’amministrazione di adottare, 
anche prima della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, 
provvedimenti cautelari. 

Art. 8. (Modalità e contenuti della comunicazione di avvio del procedimento) 

1. L’amministrazione provvede a dare notizia dell’avvio del procedimento mediante 
comunicazione personale. 

2. Nella comunicazione debbono essere indicati: 

a) l’amministrazione competente; 
b) l’oggetto del procedimento promosso; 
c) l’ufficio, il domicilio digitale dell’amministrazione e la persona responsabile del 
procedimento; 
(lettera così modificata dall'art. 12, comma 1, lettera d), legge n. 120 del 2020) 
c-bis) la data entro la quale, secondo i termini previsti dall'articolo 2, commi 2 o 3, deve 
concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell'amministrazione; 
c-ter) nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa 
istanza; 
d) le modalità con le quali, attraverso il punto di accesso telematico di cui all’articolo 
64-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 o con altre modalità telematiche, è 
possibile prendere visione degli atti, accedere al fascicolo informatico di cui all’articolo 
41 dello stesso decreto legislativo n. 82 del 2005 ed esercitare in via telematica i diritti 
previsti dalla presente legge; 
(lettera così sostituita dall'art. 12, comma 1, lettera d), legge n. 120 del 2020) 
d-bis) l’ufficio dove è possibile prendere visione degli atti che non sono disponibili o 
accessibili con le modalità di cui alla lettera d). 
(lettera aggiunta dall'art. 12, comma 1, lettera d), legge n. 120 del 2020) 

3. Qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o 
risulti particolarmente gravosa, l’amministrazione provvede a rendere noti gli elementi 
di cui al comma 2 mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite 
dall’amministrazione medesima. 

4. L’omissione di taluna delle comunicazioni prescritte può esser fatta valere solo dal 
soggetto nel cui interesse la comunicazione è prevista. 

Art. 9. (Intervento nel procedimento) 

1. Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di 
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio 
dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento. 

Art. 10. (Diritti dei partecipanti al procedimento) 

1. I soggetti di cui all’articolo 7 e quelli intervenuti ai sensi dell’articolo 9 hanno diritto: 

a) di prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall’articolo 24; 
b) di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di 
valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento. 

 Art. 10-bis. (Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza) 

1. Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità 
competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica 
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro 
il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto 
di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La 
comunicazione di cui al primo periodo sospende i termini di conclusione dei 
procedimenti, che ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle 
osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui al secondo 
periodo. Qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato 
accoglimento il responsabile del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a 
dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se ve ne 
sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni. In caso di 
annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il 
suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già 
emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato. Le disposizioni di cui al presente 
articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia 
previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti 
previdenziali. Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all'accoglimento della 
domanda inadempienze o ritardi attribuibili all'amministrazione. 
(comma modificato dall'art. 9, comma 3, della legge n. 180 del 2011, poi dall'art. 12, 
comma 1, lettera e), legge n. 120 del 2020) 

Art. 11. (Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento) 

1. In accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’articolo 10, 
l’amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in 
ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di 
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione 
di questo. 

1-bis. Al fine di favorire la conclusione degli accordi di cui al comma 1, il responsabile 
del procedimento può predisporre un calendario di incontri cui invita, separatamente o 
contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati. 

2. Gli accordi di cui al presente articolo debbono essere stipulati, a pena di nullità, per 
atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Ad essi si applicano, ove non 
diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti 
in quanto compatibili. Gli accordi di cui al presente articolo devono essere motivati ai 
sensi dell’articolo 3. 

3. Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti ai medesimi controlli previsti 
per questi ultimi. 

4. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede 
unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un 
indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato. 

4-bis. A garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, in 
tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi nelle ipotesi previste al 
comma 1, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo 
che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento. 

5. (abrogato) 

Art. 12. (Provvedimenti attributivi di vantaggi economici) 

1. La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione 
di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono 
subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle 
forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le 
amministrazioni stesse devono attenersi. 

2. L’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai 
singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1. 

Art. 13. (Ambito di applicazione delle norme sulla partecipazione) 

1. Le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti 
dell’attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, 
amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano 
ferme le particolari norme che ne regolano la formazione. 

2. Dette disposizioni non si applicano altresì ai procedimenti tributari per i quali restano 
parimenti ferme le particolari norme che li regolano. 

Art. 14. (Conferenze di servizi) 
(articolo così sostituito dall'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 127 del 2016) 

1. La conferenza di servizi istruttoria può essere indetta dall'amministrazione 
procedente, anche su richiesta di altra amministrazione coinvolta nel procedimento o del 
privato interessato, quando lo ritenga opportuno per effettuare un esame contestuale 
degli interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, ovvero in più 
procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesime attività o risultati. Tale 
conferenza si svolge con le modalità previste dall'articolo 14-bis o con modalità diverse, 
definite dall'amministrazione procedente. 

2. La conferenza di servizi decisoria è sempre indetta dall'amministrazione procedente 
quando la conclusione positiva del procedimento è subordinata all'acquisizione di più 
pareri, intese, concerti, nulla osta o altri atti di assenso, comunque denominati, resi da 
diverse amministrazioni, inclusi i gestori di beni o servizi pubblici. Quando l'attività del 
privato sia subordinata a più atti di assenso, comunque denominati, da adottare a 
conclusione di distinti procedimenti, di competenza di diverse amministrazioni 
pubbliche, la conferenza di servizi è convocata, anche su richiesta dell'interessato, da 
una delle amministrazioni procedenti. 

3. Per progetti di particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi 
l'amministrazione procedente, su motivata richiesta dell'interessato, corredata da uno 
studio di fattibilità, può indire una conferenza preliminare finalizzata a indicare al 
richiedente, prima della presentazione di una istanza o di un progetto definitivo, le 
condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari pareri, intese, concerti, nulla 
osta, autorizzazioni, concessioni o altri atti di assenso, comunque denominati. 
L'amministrazione procedente, se ritiene di accogliere la richiesta motivata di indizione 
della conferenza, la indice entro cinque giorni lavorativi dalla ricezione della richiesta 
stessa. La conferenza preliminare si svolge secondo le disposizioni dell'articolo 14-bis, 
con abbreviazione dei termini fino alla metà. Le amministrazioni coinvolte esprimono le 
proprie determinazioni sulla base della documentazione prodotta dall'interessato. 
Scaduto il termine entro il quale le amministrazioni devono rendere le proprie 
determinazioni, l'amministrazione procedente le trasmette, entro cinque giorni, al 
richiedente. Ove si sia svolta la conferenza preliminare, l'amministrazione procedente, 
ricevuta l'istanza o il progetto definitivo, indice la conferenza simultanea nei termini e 
con le modalità di cui agli articoli 14-bis, comma 7, e 14-ter e, in sede di conferenza 
simultanea, le determinazioni espresse in sede di conferenza preliminare possono essere 
motivatamente modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi 
nel successivo procedimento anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul 
progetto definitivo. Nelle procedure di realizzazione di opere pubbliche o di interesse 
pubblico, la conferenza di servizi si esprime sul progetto di fattibilità tecnica ed 
economica, al fine di indicare le condizioni per ottenere, sul progetto definitivo, le 
intese, i pareri, le concessioni, le autorizzazioni, le licenze, i nullaosta e gli assensi, 
comunque denominati, richiesti dalla normativa vigente. 

4. Qualora un progetto sia sottoposto a valutazione di impatto ambientale di competenza 
regionale, tutte le autorizzazioni, intese, concessioni, licenze, pareri, concerti, nulla osta 
e assensi comunque denominati, necessari alla realizzazione del medesimo progetto, 
vengono acquisiti nell'ambito della conferenza di servizi, convocata in modalità 
sincrona ai sensi dell'articolo 14-ter, secondo quanto previsto dall'articolo 27-bis del 
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. 
(comma così sostituito dall'art. 24 del d.lgs. 104 del 2017) 

5. L'indizione della conferenza è comunicata ai soggetti di cui all'articolo 7, i quali 
possono intervenire nel procedimento ai sensi dell'articolo 9. 

Art. 14-bis. (Conferenza semplificata) 
(articolo così sostituito dall'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 127 del 2016) 

1. La conferenza decisoria di cui all'articolo 14, comma 2, si svolge in forma 
semplificata e in modalità asincrona, salvo i casi di cui ai commi 6 e 7. Le 
comunicazioni avvengono secondo le modalità previste dall'articolo 47 del decreto 
legislativo 7 marzo 2005, n. 82. 

2. La conferenza è indetta dall'amministrazione procedente entro cinque giorni 
lavorativi dall'inizio del procedimento d'ufficio o dal ricevimento della domanda, se il 
procedimento è ad iniziativa di parte. A tal fine l'amministrazione procedente comunica 
alle altre amministrazioni interessate: 

a) l'oggetto della determinazione da assumere, l'istanza e la relativa documentazione 
ovvero le credenziali per l'accesso telematico alle informazioni e ai documenti utili ai 
fini dello svolgimento dell'istruttoria; 
b) il termine perentorio, non superiore a quindici giorni, entro il quale le 
amministrazioni coinvolte possono richiedere, ai sensi dell'articolo 2, comma 7, 
integrazioni documentali o chiarimenti relativi a fatti, stati o qualità non attestati in 
documenti già in possesso dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili 
presso altre pubbliche amministrazioni; 
c) il termine perentorio, comunque non superiore a quarantacinque giorni, entro il quale 
le amministrazioni coinvolte devono rendere le proprie determinazioni relative alla 
decisione oggetto della conferenza, fermo restando l'obbligo di rispettare il termine 
finale di conclusione del procedimento. Se tra le suddette amministrazioni vi sono 
amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico/territoriale, dei beni 
culturali, o alla tutela della salute dei cittadini, ove disposizioni di legge o i 
provvedimenti di cui all'articolo 2 non prevedano un termine diverso, il suddetto 
termine è fissato in novanta giorni; 
d) la data della eventuale riunione in modalità sincrona di cui all'articolo 14-ter, da 
tenersi entro dieci giorni dalla scadenza del termine di cui alla lettera c), fermo restando 
l'obbligo di rispettare il termine finale di conclusione del procedimento. 

3. Entro il termine di cui al comma 2, lettera c), le amministrazioni coinvolte rendono le 
proprie determinazioni, relative alla decisione oggetto della conferenza. Tali 
determinazioni, congruamente motivate, sono formulate in termini di assenso o dissenso 
e indicano, ove possibile, le modifiche eventualmente necessarie ai fini dell'assenso. Le 
prescrizioni o condizioni eventualmente indicate ai fini dell'assenso o del superamento 
del dissenso sono espresse in modo chiaro e analitico e specificano se sono relative a un 
vincolo derivante da una disposizione normativa o da un atto amministrativo generale 
ovvero discrezionalmente apposte per la migliore tutela dell'interesse pubblico. 

4. Fatti salvi i casi in cui disposizioni del diritto dell'Unione europea richiedono 
l'adozione di provvedimenti espressi, la mancata comunicazione della determinazione 
entro il termine di cui al comma 2, lettera c), ovvero la comunicazione di una 
determinazione priva dei requisiti previsti dal comma 3, equivalgono ad assenso senza 
condizioni. Restano ferme le responsabilità dell'amministrazione, nonché quelle dei 
singoli dipendenti nei confronti dell'amministrazione, per l'assenso reso, allorché 
implicito. 

5. Scaduto il termine di cui al comma 2, lettera c), l'amministrazione procedente adotta, 
entro cinque giorni lavorativi, la determinazione motivata di conclusione positiva della 
conferenza, con gli effetti di cui all'articolo 14-quater, qualora abbia acquisito 
esclusivamente atti di assenso non condizionato, anche implicito, ovvero qualora 
ritenga, sentiti i privati e le altre amministrazioni interessate, che le condizioni e 
prescrizioni eventualmente indicate dalle amministrazioni ai fini dell'assenso o del 
superamento del dissenso possano essere accolte senza necessità di apportare modifiche 
sostanziali alla decisione oggetto della conferenza. Qualora abbia acquisito uno o più 
atti di dissenso che non ritenga superabili, l'amministrazione procedente adotta, entro il 
medesimo termine, la determinazione di conclusione negativa della conferenza che 
produce l'effetto del rigetto della domanda. Nei procedimenti a istanza di parte la 

suddetta determinazione produce gli effetti della comunicazione di cui all'articolo 10-
bis. L'amministrazione procedente trasmette alle altre amministrazioni coinvolte le 
eventuali osservazioni presentate nel termine di cui al suddetto articolo e procede ai 
sensi del comma 2. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data 
ragione nell'ulteriore determinazione di conclusione della conferenza. 

6. Fuori dei casi di cui al comma 5, l'amministrazione procedente, ai fini dell'esame 
contestuale degli interessi coinvolti, svolge, nella data fissata ai sensi del comma 2, 
lettera d), la riunione della conferenza in modalità sincrona, ai sensi dell'articolo 14-ter. 

7. Ove necessario, in relazione alla particolare complessità della determinazione da 
assumere, l'amministrazione procedente può comunque procedere direttamente in forma 
simultanea e in modalità sincrona, ai sensi dell'articolo 14-ter. In tal caso indice la 
conferenza comunicando alle altre amministrazioni le informazioni di cui alle lettere a) 
e b) del comma 2 e convocando la riunione entro i successivi quarantacinque giorni. 
L'amministrazione procedente può altresì procedere in forma simultanea e in modalità 
sincrona su richiesta motivata delle altre amministrazioni o del privato interessato 
avanzata entro il termine perentorio di cui al comma 2, lettera b). In tal caso la riunione 
è convocata nei successivi quarantacinque giorni 2. 

Art. 14-ter. (Conferenza simultanea) 
(articolo così sostituito dall'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 127 del 2016) 

1. La prima riunione della conferenza di servizi in forma simultanea e in modalità 
sincrona si svolge nella data previamente comunicata ai sensi dell'articolo 14-bis, 
comma 2, lettera d), ovvero nella data fissata ai sensi dell'articolo 14-bis, comma 7, con 
la partecipazione contestuale, ove possibile anche in via telematica, dei rappresentanti 
delle amministrazioni competenti. 

2. I lavori della conferenza si concludono non oltre quarantacinque giorni decorrenti 
dalla data della riunione di cui al comma 1. Nei casi di cui all'articolo 14-bis, comma 7, 
qualora siano coinvolte amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-
territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, il termine è fissato in novanta 
giorni. Resta fermo l'obbligo di rispettare il termine finale di conclusione del 
procedimento. 

3. Ciascun ente o amministrazione convocato alla riunione è rappresentato da un unico 
soggetto abilitato ad esprimere definitivamente e in modo univoco e vincolante la 
posizione dell'amministrazione stessa su tutte le decisioni di competenza della 
conferenza, anche indicando le modifiche progettuali eventualmente necessarie ai fini 
dell'assenso. 

4. Ove alla conferenza partecipino anche amministrazioni non statali, le amministrazioni 
statali sono rappresentate da un unico soggetto abilitato ad esprimere definitivamente in 
modo univoco e vincolante la posizione di tutte le predette amministrazioni, nominato, 
anche preventivamente per determinate materie o determinati periodi di tempo, dal 
Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, ove si tratti soltanto di amministrazioni 
periferiche, dal Prefetto. Ferma restando l'attribuzione del potere di rappresentanza al 
suddetto soggetto, le singole amministrazioni statali possono comunque intervenire ai 
lavori della conferenza in funzione di supporto. Le amministrazioni di cui all'articolo 

14-quinquies, comma 1, prima della conclusione dei lavori della conferenza, possono 
esprimere al suddetto rappresentante il proprio dissenso ai fini di cui allo stesso comma. 

5. Ciascuna regione e ciascun ente locale definisce autonomamente le modalità di 
designazione del rappresentante unico di tutte le amministrazioni riconducibili alla 
stessa regione o allo stesso ente locale nonché l'eventuale partecipazione delle suddette 
amministrazioni ai lavori della conferenza. 

6. Alle riunioni della conferenza possono essere invitati gli interessati, inclusi i soggetti 
proponenti il progetto eventualmente dedotto in conferenza. 

7. All'esito dell'ultima riunione, e comunque non oltre il termine di cui al comma 2, 
l'amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione della 
conferenza, con gli effetti di cui all'articolo 14-quater, sulla base delle posizioni 
prevalenti espresse dalle amministrazioni partecipanti alla conferenza tramite i rispettivi 
rappresentanti. Si considera acquisito l'assenso senza condizioni delle amministrazioni il 
cui rappresentante non abbia partecipato alle riunioni ovvero, pur partecipandovi, non 
abbia espresso ai sensi del comma 3 la propria posizione, ovvero abbia espresso un 
dissenso non motivato o riferito a questioni che non costituiscono oggetto della 
conferenza. 

Art. 14-quater. (Decisione della conferenza di servizi) 
(articolo così sostituito dall'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 127 del 2016) 

1. La determinazione motivata di conclusione della conferenza, adottata 
dall'amministrazione procedente all'esito della stessa, sostituisce a ogni effetto tutti gli 
atti di assenso, comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e dei gestori 
di beni o servizi pubblici interessati. 

2. Le amministrazioni i cui atti sono sostituiti dalla determinazione motivata di 
conclusione della conferenza possono sollecitare con congrua motivazione 
l'amministrazione procedente ad assumere, previa indizione di una nuova conferenza, 
determinazioni in via di autotutela ai sensi dell'articolo 21-nonies. Possono altresì 
sollecitarla, purché abbiano partecipato, anche per il tramite del rappresentante di cui ai 
commi 4 e 5 dell'articolo 14-ter, alla conferenza di servizi o si siano espresse nei 
termini, ad assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi dell'articolo 21-
quinquies. 

3. In caso di approvazione unanime, la determinazione di cui al comma 1 è 
immediatamente efficace. In caso di approvazione sulla base delle posizioni prevalenti, 
l'efficacia della determinazione è sospesa ove siano stati espressi dissensi qualificati ai 
sensi dell'articolo 14-quinquies e per il periodo utile all'esperimento dei rimedi ivi 
previsti. 

4. I termini di efficacia di tutti i pareri, autorizzazioni, concessioni, nulla osta o atti di 
assenso comunque denominati acquisiti nell'ambito della conferenza di servizi 
decorrono dalla data della comunicazione della determinazione motivata di conclusione 
della conferenza. 

Art. 14-quinquies. (Rimedi per le amministrazioni dissenzienti) 
(articolo così sostituito dall'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 127 del 2016) 

1. Avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza, entro 10 giorni 
dalla sua comunicazione, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, 
paesaggistico/territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica 
incolumità dei cittadini possono proporre opposizione al Presidente del Consiglio dei 
ministri a condizione che abbiano espresso in modo non equivoco il proprio motivato 
dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza. Per le amministrazioni 
statali l'opposizione è proposta dal Ministro competente. 

2. Possono altresì proporre opposizione le amministrazioni delle regioni o delle 
province autonome di Trento e di Bolzano, il cui rappresentante, intervenendo in una 
materia spettante alla rispettiva competenza, abbia manifestato un dissenso motivato in 
seno alla conferenza. 

3. La proposizione dell'opposizione sospende l'efficacia della determinazione motivata 
di conclusione della conferenza. 

4. La Presidenza del Consiglio dei ministri indice, per una data non posteriore al 
quindicesimo giorno successivo alla ricezione dell'opposizione, una riunione con la 
partecipazione delle amministrazioni che hanno espresso il dissenso e delle altre 
amministrazioni che hanno partecipato alla conferenza. In tale riunione i partecipanti 
formulano proposte, in attuazione del principio di leale collaborazione, per 
l'individuazione di una soluzione condivisa, che sostituisca la determinazione motivata 
di conclusione della conferenza con i medesimi effetti. 

5. Qualora alla conferenza di servizi abbiano partecipato amministrazioni delle regioni o 
delle province autonome di Trento e di Bolzano, e l'intesa non venga raggiunta nella 
riunione di cui al comma 4, può essere indetta, entro i successivi quindici giorni, una 
seconda riunione, che si svolge con le medesime modalità e allo stesso fine. 

6. Qualora all'esito delle riunioni di cui ai commi 4 e 5 sia raggiunta un'intesa tra le 
amministrazioni partecipanti, l'amministrazione procedente adotta una nuova 
determinazione motivata di conclusione della conferenza. Qualora all'esito delle 
suddette riunioni, e comunque non oltre quindici giorni dallo svolgimento della 
riunione, l'intesa non sia raggiunta, la questione è rimessa al Consiglio dei ministri. La 
questione è posta, di norma, all'ordine del giorno della prima riunione del Consiglio dei 
ministri successiva alla scadenza del termine per raggiungere l'intesa. Alla riunione del 
Consiglio dei ministri possono partecipare i Presidenti delle regioni o delle province 
autonome interessate. Qualora il Consiglio dei ministri non accolga l'opposizione, la 
determinazione motivata di conclusione della conferenza acquisisce definitivamente 
efficacia. Il Consiglio dei ministri può accogliere parzialmente l'opposizione, 
modificando di conseguenza il contenuto della determinazione di conclusione della 
conferenza, anche in considerazione degli esiti delle riunioni di cui ai commi 4 e 5. 

7. Restano ferme le attribuzioni e le prerogative riconosciute alle regioni a statuto 
speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti speciali di 
autonomia e dalle relative norme di attuazione. 

Art. 15. (Accordi fra pubbliche amministrazioni) 

1. Anche al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 14, le amministrazioni pubbliche 
possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in 
collaborazione di attività di interesse comune. 

2. Per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste 
dall’articolo 11, commi 2 e 3. 

2-bis. A fare data dal 30 giugno 2014 gli accordi di cui al comma 1 sono sottoscritti con 
firma digitale, ai sensi dell'articolo 24 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, con 
firma elettronica avanzata, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera q-bis) del decreto 
legislativo 7 marzo 2005, n. 82, o con altra firma elettronica qualificata pena la nullità 
degli stessi. Dall'attuazione della presente disposizione non devono derivare nuovi o 
maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato. All'attuazione della medesima si 
provvede nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste dalia 
legislazione vigente. 

Art. 16. (Attività consultiva) 

1. Gli organi consultivi delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, 
del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, (ora articolo 1 del d.lgs. n. 165 del 2001 - 
n.d.r.) sono tenuti a rendere i pareri ad essi obbligatoriamente richiesti entro venti giorni 
dal ricevimento della richiesta. Qualora siano richiesti di pareri facoltativi, sono tenuti a 
dare immediata comunicazione alle amministrazioni richiedenti del termine entro il 
quale il parere sarà reso, che comunque non può superare i venti giorni dal ricevimento 
della richiesta. 

2. In caso di decorrenza del termine senza che sia stato comunicato il parere o senza che 
l’organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie, l’amministrazione richiedente 
procede indipendentemente dall’espressione del parere. Salvo il caso di omessa richiesta 
del parere, il responsabile del procedimento non può essere chiamato a rispondere degli 
eventuali danni derivanti dalla mancata espressione dei pareri di cui al presente comma. 
(comma così modificato dall'art. 12, comma 1, lettera f), legge n. 120 del 2020) 

3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano in caso di pareri che debbano 
essere rilasciati da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, 
territoriale e della salute dei cittadini. 

4. Nel caso in cui l'organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie i termini di cui 
al comma 1 possono essere interrotti per una sola volta e il parere deve essere reso 
definitivamente entro quindici giorni dalla ricezione degli elementi istruttori da parte 
delle amministrazioni interessate. 

5. I pareri di cui al comma 1 sono trasmessi con mezzi telematici. 

6. Gli organi consultivi dello Stato predispongono procedure di particolare urgenza per 
l’adozione dei pareri loro richiesti. 

6-bis. Resta fermo quanto previsto dall’articolo 127 del codice dei contratti pubblici 
relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e 
successive modificazioni. 

Art. 17. (Valutazioni tecniche) 

1. Ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per 
l’adozione di un provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le 
valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed enti non provvedano o 
non rappresentino esigenze istruttorie di competenza dell’amministrazione procedente 
nei termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal 
ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette 
valutazioni tecniche ad altri organi dell’amministrazione pubblica o ad enti pubblici che 
siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti 
universitari. 

2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica in caso di valutazioni che debbano 
essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-
territoriale e della salute dei cittadini. 

3. Nel caso in cui l’ente od organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie 
all’amministrazione procedente, si applica quanto previsto dal comma 4 dell’articolo 16. 

Art. 17-bis. Effetti del silenzio e dell’inerzia nei rapporti tra amministrazioni pubbliche 
e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici 
(articolo introdotto dall'art. 3 della legge n. 124 del 2015) 

1. Nei casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque 
denominati di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per 
l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre 
amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti comunicano il 
proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal ricevimento dello schema 
di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte 
dell'amministrazione procedente. Esclusi i casi di cui al comma 3, quando per 
l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi è prevista la proposta di una o 
più amministrazioni pubbliche diverse da quella competente ad adottare l’atto, la 
proposta stessa è trasmessa entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta da parte di 
quest’ultima amministrazione. Il termine è interrotto qualora l'amministrazione o il 
gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto o nulla osta rappresenti esigenze 
istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale nel termine 
stesso. In tal caso, l'assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni 
dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento; lo stesso 
termine si applica qualora dette esigenze istruttorie siano rappresentate 
dall’amministrazione proponente nei casi di cui al secondo periodo. Non sono ammesse 
ulteriori interruzioni di termini. 
(comma così modificato dall'art. 12, comma 1, lettera g), legge n. 120 del 2020) 

2. Decorsi i termini di cui al comma 1 senza che sia stato comunicato l'assenso, il 
concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito. Esclusi i casi di cui al comma 3, 
qualora la proposta non sia trasmessa nei termini di cui al comma 1, secondo periodo, 

l’amministrazione competente può comunque procedere. In tal caso, lo schema di 
provvedimento, corredato della relativa documentazione, è trasmesso 
all’amministrazione che avrebbe dovuto formulare la proposta per acquisirne l’assenso 
ai sensi del presente articolo. In caso di mancato accordo tra le amministrazioni statali 
coinvolte nei procedimenti di cui al comma 1, il Presidente del Consiglio dei ministri, 
previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo 
schema di provvedimento. 
(comma così modificato dall'art. 12, comma 1, lettera g), legge n. 120 del 2020) 

3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai casi in cui è prevista 
l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni 
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico/territoriale, dei beni culturali e della salute 
dei cittadini, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza 
di amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di 
cui all'articolo 2 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le 
amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta è di 
novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell'amministrazione procedente. 
Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla 
osta, lo stesso si intende acquisito. 
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi in cui disposizioni del 
diritto dell'Unione europea richiedano l'adozione di provvedimenti espressi. 

Art. 18. (Autocertificazione) 

1. Le amministrazioni adottano le misure organizzative idonee a garantire l’applicazione 
delle disposizioni in materia di autocertificazione e di presentazione di atti e documenti 
da parte di cittadini a pubbliche amministrazioni di cui al decreto del Presidente della 
Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. 
(comma così modificato dall'art. 12, comma 1, lettera h), legge n. 120 del 2020) 

2. I documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l'istruttoria del 
procedimento, sono acquisiti d'ufficio quando sono in possesso dell'amministrazione 
procedente, ovvero sono detenuti, istituzionalmente, da altre pubbliche amministrazioni. 
L'amministrazione procedente può richiedere agli interessati i soli elementi necessari 
per la ricerca dei documenti. 

3. Parimenti sono accertati d’ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e 
le qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è 
tenuta a certificare. 

3-bis. Nei procedimenti avviati su istanza di parte, che hanno ad oggetto l’erogazione di 
benefici economici comunque denominati, indennità, prestazioni previdenziali e 
assistenziali, erogazioni, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, prestiti, agevolazioni, 
da parte di pubbliche amministrazioni ovvero il rilascio di autorizzazioni e nulla osta 
comunque denominati, le dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47 del decreto del 
Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, ovvero l’acquisizione di dati e 
documenti di cui ai commi 2 e 3, sostituiscono ogni tipo di documentazione 
comprovante tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla normativa di 
riferimento, fatto comunque salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi 

antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, 
n. 159. 
(comma aggiunto dall'art. 12, comma 1, lettera h), legge n. 120 del 2020) 

Art. 18-bis. (Presentazione di istanze, segnalazioni o comunicazioni) 
(articolo introdotto dall'art. 3, comma 1, lettera a), d.lgs. n. 126 del 2016) 

1. Dell'avvenuta presentazione di istanze, segnalazioni o comunicazioni è rilasciata 
immediatamente, anche in via telematica, una ricevuta, che attesta l'avvenuta 
presentazione dell'istanza, della segnalazione e della comunicazione e indica i termini 
entro i quali l'amministrazione è tenuta, ove previsto, a rispondere, ovvero entro i quali 
il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento dell'istanza. Se la ricevuta 
contiene le informazioni di cui all'articolo 8, essa costituisce comunicazione di avvio del 
procedimento ai sensi dell'articolo 7. La data di protocollazione dell'istanza, 
segnalazione o comunicazione non può comunque essere diversa da quella di effettiva 
presentazione. Le istanze, segnalazioni o comunicazioni producono effetti anche in caso 
di mancato rilascio della ricevuta, ferma restando la responsabilità del soggetto 
competente. 

2. Nel caso di istanza, segnalazione o comunicazione presentate ad un ufficio diverso da 
quello competente, i termini di cui agli articoli 19, comma 3, e 20, comma 1, decorrono 
dal ricevimento dell'istanza, segnalazione o della comunicazione da parte dell'ufficio 
competente. 

Art. 19. (Segnalazione certificata di inizio attività - SCIA) 
(per l'interpretazione si veda l'art. 5, comma 2, legge n. 106 del 2011) 

1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla 
osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli 
richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui 
rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti 
dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite 
o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il 
rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell’interessato, con la sola 
esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli 
atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica 
sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della 
giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di 
acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla 
normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa 
comunitaria. La segnalazione è corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni 
e dell’atto di notorietà per quanto riguarda tutti gli stati, le qualità personali e i fatti 
previsti negli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, 
nonché, ove espressamente previsto dalla normativa vigente, dalle attestazioni e 
asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da parte 
dell’Agenzia delle imprese di cui all’articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 
2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, relative 
alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti di cui al primo periodo; tali attestazioni e 
asseverazioni sono corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche 
di competenza dell’amministrazione. Nei casi in cui la normativa vigente prevede 
l'acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l'esecuzione di verifiche 
preventive, essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e 
asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve le verifiche successive 
degli organi e delle amministrazioni competenti. La segnalazione, corredata delle 
dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni nonché dei relativi elaborati tecnici, può 
essere presentata a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, ad 
eccezione dei procedimenti per cui è previsto l’utilizzo esclusivo della modalità 
telematica; in tal caso la segnalazione si considera presentata al momento della 
ricezione da parte dell'amministrazione. 

2. L’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata, anche nei casi di cui 
all'articolo 19-bis, comma 2, dalla data della presentazione della segnalazione 
all’amministrazione competente. 
(comma così modificato dall'art. 3, comma 1, lettera b), d.lgs. n. 126 del 2016) 

3. L'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei 
presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della 
segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di 
prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora 
sia possibile conformare l'attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, 
l'amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere 
prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta 
giorni per l'adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure da parte del 
privato, decorso il suddetto termine, l'attività si intende vietata. Con lo stesso atto 
motivato, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela 
dell'interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, 
sicurezza pubblica o difesa nazionale, l'amministrazione dispone la sospensione 
dell'attività intrapresa. L'atto motivato interrompe il termine di cui al primo periodo, che 
ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l'adozione delle suddette 
misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso termine, cessano gli 
effetti della sospensione eventualmente adottata. 
(comma sostituito dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015, poi così modificato 
dall'art. 3, comma 1, lettera b), d.lgs. n. 126 del 2016) 

4. Decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo 
periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l'amministrazione competente adotta comunque i 
provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste 
dall'articolo 21-nonies. 
(comma così sostituito dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015) 

4-bis. Il presente articolo non si applica alle attività economiche a prevalente carattere 
finanziario, ivi comprese quelle regolate dal testo unico delle leggi in materia bancaria e 
creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e dal testo unico in 
materia di intermediazione finanziaria di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 
58.  

6. Ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o 
attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o 
attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1 è punito 
con la reclusione da uno a tre anni 

6-bis. Nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di sessanta giorni di cui al primo 
periodo del comma 3 è ridotto a trenta giorni. Fatta salva l'applicazione delle 
disposizioni di cui al comma 4 e al comma 6, restano altresì ferme le disposizioni 
relative alla vigilanza sull'attività urbanistico/edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni 
previste dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e dalle leggi regionali. 

6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di 
inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli 
interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, 
in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'articolo 31, commi 1, 2 e 3 
del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. 

Art. 19-bis. (Concentrazione dei regimi amministrativi) 
(articolo introdotto dall'art. 3, comma 1, lettera c), d.lgs. n. 126 del 2016) 

1. Sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione è indicato lo sportello unico, di 
regola telematico, al quale presentare la SCIA, anche in caso di procedimenti connessi 
di competenza di altre amministrazioni ovvero di diverse articolazioni interne 
dell'amministrazione ricevente. Possono essere istituite più sedi di tale sportello, al solo 
scopo di garantire la pluralità dei punti di accesso sul territorio. 

2. Se per lo svolgimento di un'attività soggetta a SCIA sono necessarie altre SCIA, 
comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e notifiche, l'interessato presenta un'unica 
SCIA allo sportello di cui al comma 1. L'amministrazione che riceve la SCIA la 
trasmette immediatamente alle altre amministrazioni interessate al fine di consentire, 
per quanto di loro competenza, il controllo sulla sussistenza dei requisiti e dei 
presupposti per lo svolgimento dell'attività e la presentazione, almeno cinque giorni 
prima della scadenza dei termini di cui all'articolo 19, commi 3 e 6-bis, di eventuali 
proposte motivate per l'adozione dei provvedimenti ivi previsti. 

3. Nel caso in cui l'attività oggetto di SCIA è condizionata all'acquisizione di atti di 
assenso comunque denominati o pareri di altri uffici e amministrazioni, ovvero 
all'esecuzione di verifiche preventive, l'interessato presenta allo sportello di cui al 
comma 1 la relativa istanza, a seguito della quale è rilasciata ricevuta ai sensi 
dell'articolo 18-bis. In tali casi, il termine per la convocazione della conferenza di cui 
all'articolo 14 decorre dalla data di presentazione dell'istanza e l'inizio dell'attività resta 
subordinato al rilascio degli atti medesimi, di cui lo sportello dà comunicazione 
all'interessato. 

Art. 20. (Silenzio assenso) 

1. Fatta salva l'applicazione dell'articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il 
rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente 
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori 
istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel 

termine di cui all'articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non 
procede ai sensi del comma 2. Tali termini decorrono dalla data di ricevimento. 

1. Fatta salva l'applicazione dell'articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il 
rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente 
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori 
istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel 
termine di cui all'articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non 
procede ai sensi del comma 2. Tali termini decorrono dalla data di ricevimento della 
domanda del privato. 
(comma così modificato dall'art. 3, comma 1, lettera d), d.lgs. n. 126 del 2016) 

2. L'amministrazione competente può indire, entro trenta giorni dalla presentazione 
dell'istanza di cui al comma 1, una conferenza di servizi ai sensi del capo IV, anche 
tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei contro/interessati. 

2-bis. Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale a provvedimento di 
accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del 
silenzio assenso, l’amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via 
telematica, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto 
dell’intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo. Decorsi 
inutilmente dieci giorni dalla richiesta, l’attestazione è sostituita da una dichiarazione 
del privato ai sensi dell’art. 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 
2000, n. 445. 
(comma introdotto dall'art. 62, comma 1, della legge n. 108 del 2021) 

3. Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della 
domanda, l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di 
autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. 

4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti 
riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la tutela dal rischio 
idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione, 
l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui 
la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai 
casi in cui la legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza, 
nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del 
Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto 
con i Ministri competenti. 
(comma modificato dall'art. 9, comma 3, legge n. 69 del 2009 poi dall'art. 54, comma 2, 
legge n. 221 del 2015) 

5. Si applicano gli articoli 2, comma 7, e 10-bis. 

5-bis. Ogni controversia relativa all'applicazione del presente articolo è devoluta alla 
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. 

Art. 21. (Disposizioni sanzionatorie) 

1. Con la segnalazione o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l’interessato deve 
dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. In caso di 
dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione 
dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il 
dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo 
che il fatto costituisca più grave reato. 
(comma così modificato dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015) 

2. (comma abrogato dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015) 

2-bis. Restano ferme le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività 
soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi 
vigenti, anche se è stato dato inizio all'attività ai sensi degli articoli 19 e 20. 

2-ter. La decorrenza del termine previsto dall'articolo 19, comma 3, e la formazione del 
silenzio assenso ai sensi dell'articolo 20 non escludono la responsabilità del dipendente 
che non abbia agito tempestivamente nel caso in cui la segnalazione certificata o 
l'istanza del privato non fosse conforme alle norme vigenti. 
(comma aggiunto dall'art. 3, comma 1, lettera e), d.lgs. n. 126 del 2016) 

CAPO IV bis - EFFICACIA ED INVALIDITÀ DEL PROVVEDIMENTO 
AMMINISTRATIVO. REVOCA E RECESSO 
(capo introdotto dall'art. 14 della legge n. 15 del 2005) 

Art. 21-bis. (Efficacia del provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati) 

1. Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei 
confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata anche nelle 
forme stabilite per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura 
civile. Qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia 
possibile o risulti particolarmente gravosa, l'amministrazione provvede mediante forme 
di pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall'amministrazione medesima. Il 
provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati non avente carattere 
sanzionatorio può contenere una motivata clausola di immediata efficacia. I 
provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere cautelare ed 
urgente sono immediatamente efficaci. 

Art. 21-ter. (Esecutorietà) 

1. Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono 
imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il 
provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da 
parte del soggetto obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche 
amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi 
e secondo le modalità previste dalla legge. 

2. Ai fini dell'esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si 
applicano le disposizioni per l'esecuzione coattiva dei crediti dello Stato. 

Art. 21-quater. (Efficacia ed esecutività del provvedimento) 

1. I provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia 
diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo. 

2. L'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, 
per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha 
emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è 
esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una 
sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze. La sospensione non può 
comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l'esercizio del potere di 
annullamento di cui all'articolo 21-nonies. 
(comma così modificato dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015) 

Art. 21-quinquies. (Revoca del provvedimento) 

1. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della 
situazione di fatto non prevedibile al momento dell'adozione del provvedimento o, salvo 
che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di 
nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo 
ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell'organo che lo ha emanato ovvero 
da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del 
provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in 
danno dei soggetti direttamente interessati, l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere 
al loro indennizzo. 

1-bis. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida 
su rapporti negoziali, l'indennizzo liquidato dall'amministrazione agli interessati è 
parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell'eventuale conoscenza o 
conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di 
revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti 
all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico. 

1-ter. (abrogato) 

Art. 21-sexies. (Recesso dai contratti) 

1. Il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi 
previsti dalla legge o dal contratto. 

Art. 21-septies. (Nullità del provvedimento) 

1. È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è 
viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione 
del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge. 

2. (abrogato) 

Art. 21-octies. (Annullabilità del provvedimento) 

1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o 
viziato da eccesso di potere o da incompetenza. 

2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento 
o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese 
che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto 
adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata 
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in 
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da 
quello in concreto adottato. La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al 
provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis. 
(comma così modificato dall'art. 12, comma 1, lettera i), legge n. 120 del 2020) 

Art. 21-nonies. (Annullamento d'ufficio) 
(si veda anche l'articolo 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004) 

1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i 
casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, 
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque 
non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di 
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il 
provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei 
destinatari e dei contro/interessati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro 
organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e 
al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. 
(comma modificato dall'art. 25, comma 1, lettera b - quater), legge n. 164 del 2014, poi 
dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015, poi dall'art. 63, comma 1, della legge n. 108 
del 2021) 

2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone 
le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. 

2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei 
fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci 
per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, 
possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di 
dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché 
delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 
445. 
(comma aggiunto dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015, poi modificato dall'art. 63 
della legge n. 108 del 2021) 

Art. 21-decies Re/emissione di provvedimenti annullati dal giudice per vizi inerenti ad 
atti endo/procedimentali 
(articolo introdotto dall'art. 12, comma 1, lettera i-bis), legge n. 120 del 2020) 

1. In caso di annullamento di un provvedimento finale in virtù di una sentenza passata 
in giudicato, derivante da vizi inerenti ad uno o più atti emessi nel corso del 
procedimento di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale, il proponente 
può richiedere all’amministrazione procedente e, in caso di progetto sottoposto a 
valutazione di impatto ambientale, all’autorità competente ai sensi del decreto 
legislativo 3 aprile 2006, n. 152, l’attivazione di un procedimento semplificato, ai fini 

della ri/adozione degli atti annullati. Qualora non si rendano necessarie modifiche al 
progetto e fermi restando tutti gli atti e i provvedimenti delle amministrazioni 
interessate resi nel suddetto procedimento, l’amministrazione o l’ente che abbia adottato 
l’atto ritenuto viziato si esprime provvedendo alle integrazioni necessarie per superare i 
rilievi indicati dalla sentenza. A tal fine, entro quindici giorni dalla ricezione 
dell’istanza del proponente, l’amministrazione procedente trasmette l’istanza 
all’amministrazione o all’ente che ha emanato l’atto da ri/emettere, che vi provvede 
entro trenta giorni. Ricevuto l’atto ai sensi del presente comma, o decorso il termine per 
l’adozione dell’atto stesso, l’amministrazione ri/emette, entro i successivi trenta giorni, 
il provvedimento di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale, in 
attuazione, ove necessario, degli articoli 14-quater e 14-quinquies della presente legge e 
dell’articolo 25, commi 2 e 2 -bis, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. 

CAPOV 
(si veda il regolamento approvato con D.P.R. n. 184 del 2006) 

Art. 22. (Definizioni e princípi in materia di accesso) 

1. Ai fini del presente capo si intende: 

a) per "diritto di accesso", il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre 
copia di documenti amministrativi; 
b) per "interessati", tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici 
o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una 
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso; 
c) per "controinteressati", tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base 
alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero 
compromesso il loro diritto alla riservatezza; 
d) per "documento amministrativo", ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, 
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non 
relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e 
concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o 
privatistica della loro disciplina sostanziale; 
e) per "pubblica amministrazione", tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di 
diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto 
nazionale o comunitario. 

2. L’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico 
interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la 
partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza. 

3. Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati 
all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6. 

4. Non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che 
non abbiano forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto 
legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in materia di accesso a dati personali da parte della 
persona cui i dati si riferiscono. 

5. L'acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici, ove non 
rientrante nella previsione dell'articolo 43, comma 2, del testo unico delle disposizioni 
legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al d.P.R. 
28 dicembre 2000, n. 445, si informa al principio di leale cooperazione istituzionale. 

6. Il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha 
l'obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere 

Art. 23. (Ambito di applicazione del diritto di accesso) 

1. Il diritto di accesso di cui all’articolo 22 si esercita nei confronti delle pubbliche 
amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di 
pubblici servizi. Il diritto di accesso nei confronti delle Autorità di garanzia e di 
vigilanza si esercita nell'ambito dei rispettivi ordinamenti, secondo quanto previsto 
dall'articolo 24. 

Art. 24. (Esclusione dal diritto di accesso) 

1. Il diritto di accesso è escluso: 

a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 
801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione 
espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e 
dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo; 
b) nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li 
regolano; 
c) nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di atti 
normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali 
restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione; 
d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti 
informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi. 

2. Le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse 
formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso ai sensi del 
comma 1. 

3. Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato 
dell'operato delle pubbliche amministrazioni. 

4. L'accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare 
ricorso al potere di differimento. 

5. I documenti contenenti informazioni connesse agli interessi di cui al comma 1 sono 
considerati segreti solo nell'ambito e nei limiti di tale connessione. A tale fine le 
pubbliche amministrazioni fissano, per ogni categoria di documenti, anche l'eventuale 
periodo di tempo per il quale essi sono sottratti all'accesso. 

6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 
1988, n. 400, il Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti 
amministrativi: 

a) quando, al di fuori delle ipotesi disciplinate dall'articolo 12 della legge 24 ottobre 
1977, n. 801, dalla loro divulgazione possa derivare una lesione, specifica e individuata, 
alla sicurezza e alla difesa nazionale, all'esercizio della sovranità nazionale e alla 
continuità e alla correttezza delle relazioni internazionali, con particolare riferimento 
alle ipotesi previste dai trattati e dalle relative leggi di attuazione; 
b) quando l'accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di formazione, di 
determinazione e di attuazione della politica monetaria e valutaria; 
c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le 
azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla 
repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla 
identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, 
all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini; 
d) quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, 
persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli 
interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui 
siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli 
stessi soggetti cui si riferiscono; 
e) quando i documenti riguardino l'attività in corso di contrattazione collettiva nazionale 
di lavoro e gli atti interni connessi all'espletamento del relativo mandato. 

7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi 
la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. 
Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei 
limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del 
decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di 
salute e la vita sessuale 

Art. 25. (Modalità di esercizio del diritto di accesso e ricorsi) 

1. Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti 
amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L’esame dei 
documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di 
riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca 
e di visura. 

2. La richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta 
all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente. 

3. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso sono ammessi nei casi e nei 
limiti stabiliti dall’articolo 24 e debbono essere motivati. 

4. Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di 
diniego dell'accesso, espresso o tacito, o di differimento dello stesso ai sensi 
dell'articolo 24, comma 4, il richiedente può presentare ricorso al tribunale 
amministrativo regionale ai sensi del comma 5, ovvero chiedere, nello stesso termine e 
nei confronti degli atti delle amministrazioni comunali, provinciali e regionali, al 
difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito, che sia riesaminata la 
suddetta determinazione. Qualora tale organo non sia stato istituito, la competenza è 
attribuita al difensore civico competente per l'ambito territoriale immediatamente 
superiore. Nei confronti degli atti delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato 
tale richiesta è inoltrata presso la Commissione per l'accesso di cui all'articolo 
27 nonché presso l’amministrazione resistente. Il difensore civico o la Commissione per 
l'accesso si pronunciano entro trenta giorni dalla presentazione dell'istanza. Scaduto 
infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto. Se il difensore civico o la 
Commissione per l'accesso ritengono illegittimo il diniego o il differimento, ne 
informano il richiedente e lo comunicano all'autorità disponente. Se questa non emana il 
provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della 
comunicazione del difensore civico o della Commissione, l'accesso è consentito. 
Qualora il richiedente l'accesso si sia rivolto al difensore civico o alla Commissione, il 
termine di cui al comma 5 decorre dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, 
dell'esito della sua istanza al difensore civico o alla Commissione stessa. Se l'accesso è 
negato o differito per motivi inerenti ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi, 
la Commissione provvede, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale 
si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale 
il parere si intende reso. Qualora un procedimento di cui alla sezione III del capo I del 
titolo I della parte III del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, o di cui agli articoli 
154, 157, 158, 159 e 160 del medesimo decreto legislativo n. 196 del 2003, relativo al 
trattamento pubblico di dati personali da parte di una pubblica amministrazione, 
interessi l'accesso ai documenti amministrativi, il Garante per la protezione dei dati 
personali chiede il parere, obbligatorio e non vincolante, della Commissione per 
l'accesso ai documenti amministrativi. La richiesta di parere sospende il termine per la 
pronuncia del Garante sino all'acquisizione del parere, e comunque per non oltre 
quindici giorni. Decorso inutilmente detto termine, il Garante adotta la propria 
decisione. 

5. Le controversie relative all'accesso ai documenti amministrativi sono disciplinate dal 
codice del processo amministrativo. 

5-bis.(abrogato) 

6. (abrogato) 

Art. 26. (Obbligo di pubblicazione) 

1. (abrogato) 

2. Sono altresì pubblicate, nelle forme predette, le relazioni annuali della Commissione 
di cui all’articolo 27 e, in generale, è data la massima pubblicità a tutte le disposizioni 
attuative della presente legge e a tutte le iniziative dirette a precisare ed a rendere 
effettivo il diritto di accesso. 

3. Con la pubblicazione di cui al comma 1, ove essa sia integrale, la libertà di accesso ai 
documenti indicati nel predetto comma 1 s’intende realizzata. 

Art. 27. (Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi) 

1. È istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri la Commissione per 
l'accesso ai documenti amministrativi. 

2. La Commissione è nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, 
sentito il Consiglio dei ministri. Essa è presieduta dal sottosegretario di Stato alla 
Presidenza del Consiglio dei ministri ed è composta da dieci membri, dei quali due 
senatori e due deputati, designati dai Presidenti delle rispettive Camere, quattro scelti fra 
il personale di cui alla legge 2 aprile 1979, n. 97, anche in quiescenza, su designazione 
dei rispettivi organi di autogoverno, e uno scelto fra i professori di ruolo in materie 
giuridiche. È membro di diritto della Commissione il capo della struttura della 
Presidenza del Consiglio dei ministri che costituisce il supporto organizzativo per il 
funzionamento della Commissione. La Commissione può avvalersi di un numero di 
esperti non superiore a cinque unità, nominati ai sensi dell'articolo 29 della legge 23 
agosto 1988, n. 400. 

2-bis. La Commissione delibera a maggioranza dei presenti. L’assenza dei componenti 
per tre sedute consecutive ne determina la decadenza. 

3. La Commissione è rinnovata ogni tre anni. Per i membri parlamentari si procede a 
nuova nomina in caso di scadenza o scioglimento anticipato delle Camere nel corso del 
triennio. 

4. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro 
dell'economia e delle finanze, a decorrere dall'anno 2004, sono determinati i compensi 
dei componenti e degli esperti di cui al comma 2, nei limiti degli ordinari stanziamenti 
di bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri. 

5. La Commissione adotta le determinazioni previste dall'articolo 25, comma 4; vigila 
affinché sia attuato il principio di piena conoscibilità dell'attività della pubblica 
amministrazione con il rispetto dei limiti fissati dalla presente legge; redige una 
relazione annuale sulla trasparenza dell'attività della pubblica amministrazione, che 
comunica alle Camere e al Presidente del Consiglio dei ministri; propone al Governo 
modifiche dei testi legislativi e regolamentari che siano utili a realizzare la più ampia 
garanzia del diritto di accesso di cui all'articolo 22. 

6. Tutte le amministrazioni sono tenute a comunicare alla Commissione, nel termine 
assegnato dalla medesima, le informazioni ed i documenti da essa richiesti, ad eccezione 
di quelli coperti da segreto di Stato. 
 

Art. 28. (Modifica dell'articolo 15 del testo unico di cui al d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, 
in materia di segreto di ufficio) 

1. L'articolo 15 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati 
civili dello Stato, approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, è sostituito dal seguente: 
«Art. 15 ( Segreto d'ufficio ) - 1. L'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio. Non 
può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od 
operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a 
conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste 
dalle norme sul diritto di accesso. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato 
preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non 
vietati dall'ordinamento». 

Art. 29. (Ambito di applicazione della legge) 

1. Le disposizioni della presente legge si applicano alle amministrazioni statali e agli 
enti pubblici nazionali. Le disposizioni della presente legge si applicano, altresì, alle 
società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all’esercizio delle 
funzioni amministrative. Le disposizioni di cui agli articoli 2-bis, 11, 15 e 25, commi 5, 
5-bis e 6, nonché quelle del capo IV-bis si applicano a tutte le amministrazioni 
pubbliche. 

2. Le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, regolano le 
materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle 
garanzie del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa, così come definite dai 
princípi stabiliti dalla presente legge. 

2-bis. Attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo 
comma, lettera m), della Costituzione le disposizioni della presente legge concernenti 
gli obblighi per la pubblica amministrazione di garantire la partecipazione 
dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro il 
termine prefissato, di misurare i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti e di 
assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelle relative alla 
durata massima dei procedimenti. 
(comma così modificato dall'art. 12, comma 1, lettera l), legge n. 120 del 2020) 

2-ter. Attengono altresì ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, 
secondo comma, lettera m), della Costituzione le disposizioni della presente legge 
concernenti la presentazione di istanze, segnalazioni e comunicazioni, la segnalazione 
certificata di inizio attività e il silenzio assenso e la conferenza di servizi, salva la 
possibilità di individuare, con intese in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 
del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, casi ulteriori 
in cui tali disposizioni non si applicano. 
(comma modificato dall'art. 49, comma 4, legge n. 122 del 2010, poi dall'art. 3, comma 
1, lettera f), d.lgs. n. 126 del 2016) 

2-quater. Le regioni e gli enti locali, nel disciplinare i procedimenti amministrativi di 
loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati 
dalle disposizioni attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni di cui ai commi 2-bis e 
2-ter, ma possono prevedere livelli ulteriori di tutela. 

2-quinquies. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano 
adeguano la propria legislazione alle disposizioni del presente articolo, secondo i 
rispettivi statuti e le relative norme di attuazione. 

Art. 30. (Atti di notorietà) 

1. In tutti i casi in cui le leggi e i regolamenti prevedono atti di notorietà o attestazioni 
asseverate da testimoni altrimenti denominate, il numero dei testimoni è ridotto a due. 

2. E’ fatto divieto alle pubbliche amministrazioni e alle imprese esercenti servizi di 
pubblica necessità e di pubblica utilità di esigere atti di notorietà in luogo della 
dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà prevista dall’articolo 4 della legge 4 

gennaio 1968, n. 15, quando si tratti di provare qualità personali, stati o fatti che siano a 
diretta conoscenza dell’interessato. 



 

 

Le modalità di svolgimento del nominato procedimento, e molte delle competenze, dei 
poteri e delle attività attribuite da tale legge agli organi amministrativi 
rimangono sostanzialmente in vigore, senza che vi sia una sostanziale 
intenzione di modifica delle disposizioni in senso “ambientale”. 

I procedimenti ambientali di controllo hanno trovato una prima 
tipizzazione, relativamente alla tematica ambientale, nel d.lgs. 152/1999: si 
distinguono attività di monitoraggio, procedimenti ispettivi, rilevazione 
sistematica dello stato dell’ambiente, raccolta di dati. 

Per restare all’ambito amministrativo in tema di ambiente, il legislatore ha 
scelto, anziché racchiudere la disciplina inerente all’ambiente non in una 
materia dotata di un solo testo scritto di riferimento, specifico, organico e 
sistematico, di articolare le competenze amministrative in materia di 
ambiente in una molteplicità di normative di settore che sono ispirate ai 
principi di differenziazione e adeguatezza, questo ultimo principio rimesso 
ad una analisi “ex post”, da effettuarsi caso per caso da parte del legislatore 
statale o regionale. 

D’altro canto sussiste una obiettiva difficoltà a configurare l’ambito 
funzionale ambientale secondo una logica unitaria, viste le sue implicazioni 
con quasi tutti i settori dell’ordinamento. Inoltre la legge costituzionale del 
2001 ha complicato il quadro istituzionale riconoscendo alle Regioni 
potenziali competenze in materia di ambiente. Ancora oltre è stato istituito 
un Ministero dell’ambiente con caratteristiche di novità rispetto ai passati 

dicasteri. Da ministero agile, chiamato a svolgere la sua funzione di 
integrazione dell’interesse ambientale attraverso la concertazione con gli 
altri ministeri, è divenuto un organismo di amministrazione attiva, dotato di 
potestà autorizzative e gestionali importanti e diffuse sull’intero territorio 
nazionale. La sua struttura organizzativa è però rimasta invariata. Le sue 
funzioni autorizzative, ad es. la VIA o la AIA presuppongono una 
procedura complessa che non giova alla tempestività delle decisioni e dei 
provvedimenti. Analoghe difficoltà emergono dallo svolgimento concreto 
delle funzioni di bonifica dei siti contaminati, soprattutto se si tratta di SIN 
(Siti di Interesse Nazionale), peraltro individuati mediante una serie di 
leggi provvedimento. I SIN sono ad oggi 54 e comprendono il 5% 
dell’intero territorio nazionale. In molti casi di recupero di siti in disuso o 
danneggiati dall’inquinamento, il Ministero, ponendo in essere quelle che 
sono le proprie competenze, ha affidato a società di diritto privato il 
compito di recupero e riabilitazione dei suddetti siti. 

A livello di bilancio statale il nuovo Ministero dell’ambiente, insieme a 
tutte le sue sotto/strutture, procedimenti, interventi in materia ambientale, 
come la pianificazione di bacino distrettuale idrografico, hanno determinato 
in capo allo stesso Ministero un notevole polo di spesa pubblica. A livello 
centrale il Ministero dell’Ambiente rappresenta l’ente di governo del 
settore ambientale; da esso dipendono enti tecnici con funzioni di 
consulenza specialistica, come l’Istituto superiore per la protezione 
dell’ambiente (Ispra), o l’Osservatorio Nazionale dei Rifiuti. Funzioni di 
consulenza in materia ambientale sono svolte anche dall’Istituto Superiore 
di Sanità (ISS) e dal CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). 

Nel settore delle risorse idriche e in quello della protezione della natura, 
esistono figure organizzative di natura statale, come le autorità di bacino 

distrettuale ed i parchi nazionali, che svolgono importanti funzioni in 
materia ambientale ma che possono essere qualificati come enti statali 
decentrati. 

Nel settore della gestione dei rifiuti il consorzio nazionale imballaggi, i 
consorzi di filiera per il riciclaggio degli imballaggi e quelli per particolari 
categorie di rifiuti assicurano lo svolgimento delle principali attività di 
raccolta differenziata dei rifiuti. 

Infine la partecipazione ai procedimenti amministrativi ambientali 
mediante manifestazione degli interessi regionali e locali è assicurato dagli 
istituti di cooperazione istituzionale richiamati nel d.lgs. 152/2006 e cioè la 
conferenza Stato/Regioni e la Conferenza unificata. Il loro ruolo è di norma 
consultivo mentre in alcuni casi sono sede di accordi “specifici”. 

XIII. Cenni alle interrelazioni tra norme di tutela ambientale 
internazionali e settori del diritto interno. Profili di diritto civile. 


Il primo provvedimento normativo che viene in considerazione in materia 
di previsione legislativa di “danno ambientale” è la l. 8 luglio 1986, n. 349. 
Precedente all’adozione di quest’ultimo si erano verificati accesi contrasti 
sia in dottrina che in giurisprudenza circa la fattibilità di una qualunque 
tutela risarcitoria in caso di lesioni dell’ambiente. Dottrina e giurisprudenza 
ritenevano ora l’una ora l’altra che non si potesse considerare la tutela 
dell’ambiente come diritto oggettivo ma soltanto come interesse diffuso. 

Una prima tutela è stata possibile grazie alla relativa definizione apprestata 
dalla dottrina civilistica dell’ambiente come di un bene giuridico 
immateriale. Quest’ultimo viene definito come un insieme che, “pur 
contenendo vari beni e valori, quali la flora, la fauna, il sottosuolo, le 
acque, ecc., si distingue da questi e si identifica in una realtà, priva di 

consistenza materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo 
costituente, come tale, specifico oggetto di tutela da parte 
dell’ordinamento”. 

Su tali basi si imprime la tesi secondo la quale la dottrina ritiene che il bene 
ambiente deve ritenersi accertabile e risarcibile “per sé”, poiché sebbene 
immateriale esso ambiente costituisce un bene giuridico autonomo. 

Tuttavia, trattandosi di un bene non suscettibile di proprietà esclusiva, cioè 
da parte di privati, allora legittimato a chiedere una qualunque tutela 
risarcitoria, conseguente all’avvenuta lesione o compromissione 
dell’ambiente, è qualunque soggetto esponenziale della collettività 
interessata. 

D’altra parte la Corte dei conti in numerosi pronunciamenti aveva 
qualificato come danno “erariale” il danno all’ambiente. Inoltre la 
giurisprudenza contabile aveva affermato il principio per cui i dipendenti 
delle amministrazioni statali e degli enti locali sono tenuti al risarcimento a 
favore dello stato per il danno cagionato all’ambiente in tutte le ipotesi in 
cui, per dolo o colpa, abbiano illecitamente ordinato o consentito attività 
inquinanti o di degradazione del territorio. 

La Corte dei conti intendeva pertanto il “bene” ambiente come quel 
“complesso dei beni di uso e godimento pubblico, individuabili attraverso 
la legislazione che li protegge per garantire la conservazione e la fruizione 
da parte di tutta la collettività.” 

Vi erano tuttavia due punti critici nella nozione di ambiente. Innanzitutto la nozione di danno erariale era riferito ai soli amministratori e dipendenti 
pubblici, mentre era necessario pervenire ad una ricostruzione unitaria 
dell’istituto che comportasse la suscettibilità di sanzione individuale del 

danno pubblico ambientale da chiunque fosse cagionato, senza alcuna 
distinzione tra pubblico dipendente e privato cittadino. 

Il primo espresso riconoscimento di una tutela risarcitoria spettante ai 
privati per la lesione di interessi individuali si è verificata in occasione di 
un disastro naturale. La Cassazione, dopo aver riconosciuto la legittimità 
della censura mossa dai proprietari dei diritti dominicali su fondi posti in 
località interessata da attività nucleare, rende giustiziabile il diritto alla 
salute e all’ambiente dei suddetti proprietari e sancisce che l’art. 32 della 
Costituzione è configurabile anche come diritto all’ambiente salubre 
riconosciuto sia al singolo che alla comunità ove egli svolge la sua 
personalità. 

Per tornare alla disciplina prevista dalla legge n. 349/1986, istitutiva del 
Ministero dell’ambiente, la prevalente dottrina civilistica, ha parlato a 
riguardo di un istituto tendenzialmente estraneo al sistema della 
responsabilità civile, in quanto fortemente influenzato da finalità 
pubblicistiche e in particolare punitive. E’ stato evidenziato che l’art. 18 
della legge poc’anzi citata, contrariamente alla regola generale della 
responsabilità Aquiliana, di cui all’art. 2043 c.c., non prevedeva una 
legittimazione generale all’azione, spettante a qualsiasi soggetto 
danneggiato, ma attribuiva tale legittimazione esclusivamente allo stato, al 
quale era riservato il diritto al risarcimento del danno, ed agli enti locali, 
rispetto ai quali si poteva parlare di una azione meramente sostitutiva. 

Una parte della dottrina si è però posta in controtendenza con 
l’orientamento generalmente accettato in merito all’incidenza dell’art. 2043 
c.c. In particolare tale dottrina ritiene che la particolare applicabilità del 
detto articolo si sostanzi nei seguenti aspetti: a) tipicità dell’illecito penale 

rispetto al merito civile; b) peculiarità dell’oggetto delle tutela consistente 
in interessi collettivi o comunque superindividuali e non anche in diritti 
individuali; c) profilo individuale della colpa; d) accentuazione della 
finalità punitiva rispetto a quella risarcitoria; e) limitazione dei soggetti 
interessati all’azione; f) prevalenza del risarcimento in forma specifica 
rispetto a quello per equivalenza, da attuarsi attraverso il ripristino dello 
stato dei luoghi precedentemente sussistente. 

Grazie all’affermazione dei generali principi della responsabilità civile e in 
particolare della disciplina indicata dall’art. 2043 c.c. era possibile 
prevedere e riconoscere una legittimazione ad agire ai fini del risarcimento 
anche alle organizzazioni collettive di inerenza ai diritti che si collegano 
alla tutela dell’ambiente. 

Tuttavia ad ulteriore evoluzione della responsabilità per danno ambientale, 
per effetto dell’interpretazione giurisprudenziale, si pone una nota 
pronuncia della Corte di Cassazione con la quale questa responsabilità è 
stata ricondotta nell’ambito dell’art. 2050 c.c. e considerata ipotesi di 
responsabilità oggettiva. La pronuncia ha infatti stabilito il principio in base 
al quale il produttore di rifiuti tossici (nella specie, rifiuti industriali 
speciali) è comunque responsabile sulla base al disposto del c.c.

 Il quale dispone: ”Chiunque cagiona qualsiasi fatto doloso. Colposo, che cagiona ad 
altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.” 

Il quale dispone:”Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di una attività 
pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati è tenuto al risarcimento, 
se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno.” 

Esistono peraltro altre sentenze della Suprema Corte in materia ambientale, 
ma sono così numerose che citarle tutte e descriverne gli esiti sulla tutela 
ambientale sarebbe un lavoro immane. Mi riservo di confidare nella 

comprensione del Relatore. Credo di poter dire che a parte le due 
definizioni di “danneggiamento” contenute nei suddetti articoli del Codice 
civile e indicate in nota, convenga ora introdurre a livello di commento, 
una fattispecie di danno che non è di carattere patrimoniale né attiene alla 
salute dell’individuo, ma che si pone come estremamente rilevante per 
quanto concerne un discorso, sia pur “minimale” in materia di tutela 
sempre ambientale. Si tratta della nozione di “danno morale”, cui il 
Legislatore è giunto a dare consistenza e seguito. Le sentenze che in via 
definitiva hanno determinato l’intervento del legislatore in parola, quale più 
quale meno, contengono un principio che le accomuna e cioè che “la 
distinzione tra danno biologico e danno morale susseguente va individuata 
nella struttura del fatto realizzativo della menomazione: il danno biologico 
costituisce l’evento del fatto lesivo della salute, mentre il danno morale in 
subordine come anche il danno patrimoniale appartiene al danno 
conseguente in senso stretto.” Quello appena citato è il disposto essenziale 
di due sentenze in materia ambientale48, le quali sono incentrate sulla 
nozione ulteriore, anziché ultronea, nondimeno necessaria a tutela come già 
accennato del dritto “morale” alla tutela ambientale. 

 Le sentenze in nota sono le seguenti: 184/1986 e 37/1994. 

 “Le associazioni individuate in base all'articolo 13 della presente legge possono 
intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione 
amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi.” E’questa l’ultima disposizione 
dell’articolo in parola rimasta in vigore. Tutte la altre o sono state abrogate o sostituite 
da altri provvedimenti. 

 

Ma torniamo per un attimo al disposto della l. 349/1986, il quale è stato 
progressivamente superato. Alla regola di portata generale contenuta 
nell’art. 1849, si sono via via affiancate norme a provenienza regionale, 
provinciale o comunale, cioè norme sempre più settoriali provenienti dagli 
enti locali, il che richiama alla mente la definitiva consacrazione delle 

norme contenute nella riforma costituzionale del 2001 che sancisce 
definitivamente un ordinamento non centrato sull’apparato statale ma 
diffuso e policentrico. Il sistema normativo della responsabilità ambientale, 
così come delineato dalla legge 349/1986 è stato progressivamente 
superato, soprattutto per effetto della contestuale approvazione di 
specifiche discipline di settore con finalità preventiva, ovvero volte ad 
inibire lo svolgimento di attività potenzialmente lesive dell’ambiente. Per 
accennare alla successiva inerente legge 394/1991, diremo che quest’ultima 
prevede il potere da parte dell’ente gestore di disporre l’immediata 
sospensione delle suddette attività, ordinando altresì, la riduzione in 
pristino e la ricostituzione delle specie animali a spese del trasgressore. In 
caso di inottemperanza dell’ordine di riduzione in pristino, l’ente gestore 
deve provvedere all’esecuzione in danno degli obbligati recuperando le 
relative spese mediante apposita procedura ingiuntiva. I criteri di 
determinazione della responsabilità ambientale restano, tuttavia quelli 
previsti dall’art. 1850 della legge n. 349 del 1986. Ovviamente dato che tali 
criteri presentavano alcune incongruenze, occorreva un provvedimento di 
modifica di alcuni punti della normativa relativa agli illeciti ambientali. Al 
fine di superare tali incongruità, presenti nel sistema normativo, è stata 
adottata la legge delega 15 dicembre 200451, finalizzata al riordino, 

 Il Ministro dell'ambiente, apprezzate le circostanze, promuove le iniziative necessarie 
per l'adozione degli atti per i quali è previsto il suo concerto. 

 Legge 15 dicembre 2004, n. 308 

"Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione 
in materia ambientale e misure di diretta applicazione" 

pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27 dicembre 2004 - Supplemento 
Ordinario n. 187 

 
Art. 1. 

1. Il Governo e' delegato ad adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in 
vigore della presente legge, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, uno o 
più decreti legislativi di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni 
legislative nei seguenti settori e materie, anche mediante la redazione di testi unici: 

a) gestione dei rifiuti e bonifica dei siti contaminati; 
b) tutela delle acque dall'inquinamento e gestione delle risorse idriche; 
c) difesa del suolo e lotta alla desertificazione; 
d) gestione delle aree protette, conservazione e utilizzo sostenibile degli esemplari di 
specie protette di flora e di fauna; 
e) tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente; 
f) procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA), per la valutazione 
ambientale strategica (VAS) e per l'autorizzazione ambientale integrata QPPQ; 
g) tutela dell'aria e riduzione delle emissioni in atmosfera. 

2. I decreti legislativi di cui al comma 1, nel disciplinare i settori e le materie di cui al 
medesimo comma 1, definiscono altresì i criteri direttivi da seguire al fine di adottare, 
nel termine di due anni dalla data di entrata in vigore dei medesimi decreti legislativi, i 
necessari provvedimenti per la modifica e l'integrazione dei regolamenti di attuazione 
ed esecuzione e dei decreti ministeriali per la definizione delle norme tecniche, 
individuando altresì gli ambiti nei quali la potestà regolamentare e' delegata alle regioni, 
ai sensi del sesto comma dell'articolo 117 della Costituzione. 

3. I decreti legislativi di cui al comma 1 recano l'indicazione espressa delle 
disposizioni abrogate a seguito della loro entrata in vigore. 

4. I decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati su proposta del Ministro 
dell'ambiente e della tutela del, territorio, di concerto con il Ministro per la funzione 
pubblica, con il Ministro per le politiche comunitarie e con gli altri Ministri interessati, 
sentito il parere della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 
agosto 1997, n. 281. 

5. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo 
trasmette alle Camere gli schemi dei decreti legislativi di cui al comma 1, accompagnati 
dall'analisi tecnico-normativa e dall'analisi dell'impatto della regolamentazione, per 
l'espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari. Ciascuna 
Commissione esprime il proprio parere entro trenta giorni dalla data di assegnazione 
degli schemi dei decreti legislativi, indicando specificamente le eventuali disposizioni 
ritenute non conformi ai principi e ai criteri direttivi di cui alla presente legge. Al fine 
della verifica dell'attuazione del principio di cui al comma 8, lettera c), i predetti schemi 
devono altresì essere corredati di relazione tecnica. Il Governo, tenuto conto dei pareri 
di cui al comma 4 ed al presente comma, entro quarantacinque giorni dalla data di 
espressione del parere parlamentare, ritrasmette alle Camere, con le sue osservazioni e 
con le eventuali modificazioni, i testi per il parere definitivo delle Commissioni 
parlamentari competenti, da esprimere entro venti giorni dalla data di assegnazione. 
Decorso inutilmente tale termine, i decreti legislativi possono essere comunque emanati. 
Il mancato rispetto, da parte del Governo, dei termini di trasmissione degli schemi dei 
decreti legislativi comporta la decadenza dall'esercizio della delega legislativa. 

6. Entro due anni dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi di 
cui al comma 1, nel rispetto dei principi e criteri direttivi stabiliti dalla presente legge, il 
Governo può emanare, ai sensi dei commi 4 e 5, disposizioni integrative o correttive dei 
decreti legislativi emanati ai sensi del comma 1, sulla base di una relazione motivata 
presentata alle Camere dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, che 
individua le disposizioni dei decreti legislativi su cui si intende intervenire e le ragioni 
dell'intervento normativo proposto. 

7. Dopo l'emanazione dei decreti legislativi di cui al comma 1, eventuali modifiche e 
integrazioni devono essere apportate nella forma di modifiche testuali ai medesimi 
decreti legislativi. 

8. I decreti legislativi di cui al comma 1 si conformano, nel rispetto dei principi e 
delle norme comunitarie e delle competenze per materia delle amministrazioni statali, 
nonche' delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali, come definite ai sensi 
dell'articolo 117 della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto 
legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e fatte salve le norme statutarie e le relative norme di 
attuazione delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di 
Bolzano, e del principio di sussidiarietà, ai seguenti principi e criteri direttivi generali: 

a) garanzia della salvaguardia, della tutela e del miglioramento della qualità 
dell'ambiente, della protezione della salute umana, dell'utilizzazione accorta e razionale 
delle risorse naturali, della promozione sul piano internazionale delle norme destinate a 
risolvere i problemi dell'ambiente a livello locale, regionale, nazionale, comunitario e 
mondiale, come indicato dall'articolo 174 del Trattato istitutivo della Comunità europea, 
e successive modificazioni; 
b) conseguimento di maggiore efficienza e tempestività dei controlli ambientali, nonché 
certezza delle sanzioni in caso di violazione delle disposizioni a tutela dell'ambiente; 
c) invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica; 
d) sviluppo e coordinamento, con l'invarianza del gettito, delle misure e degli interventi 
che prevedono incentivi e disincentivi, finanziari o fiscali, volti a sostenere, ai fini della 
compatibilità ambientale, l'introduzione e l'adozione delle migliori tecnologie 
disponibili, come definite dalla direttiva 96/61/CE del Consiglio, del 24 settembre 1996, 
nonché il risparmio e l'efficienza energetica, e a rendere più efficienti le azioni di tutela 
dell'ambiente e di sostenibilità dello sviluppo, anche attraverso strumenti economici, 
finanziari e fiscali; 
e) piena e coerente attuazione delle direttive comunitarie, al fine di garantire elevati 
livelli di tutela dell'ambiente e di contribuire in tale modo alla competitività dei sistemi 
territoriali e delle imprese, evitando fenomeni di distorsione della concorrenza; 
f) affermazione dei principi comunitari di prevenzione, di precauzione, di correzione e 
riduzione degli inquinamenti e dei danni ambientali e del principio "chi inquina paga"; 
g) previsione di misure che assicurino la tempestività e l'efficacia dei piani e dei 
programmi di tutela ambientale, estendendo, ove possibile, le procedure previste dalla 
legge 21 dicembre 2001, n. 443; 
h) previsione di misure che assicurino l'efficacia dei controlli e dei monitoraggi 
ambientali, incentivando in particolare i programmi di controllo sui singoli impianti 
produttivi, anche attraverso il potenziamento e il miglioramento dell'efficienza delle 
autorità competenti; 

i) garanzia di una più efficace tutela in materia ambientale anche mediante il 
coordinamento e l'integrazione della disciplina del sistema sanzionatorio, 
amministrativo e penale, fermi restando i limiti di pena e l'entità delle sanzioni 
amministrative già stabiliti dalla legge; 
l) semplificazione, anche mediante l'emanazione di regolamenti, ai sensi dell'articolo 17, 
comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, delle procedure relative agli obblighi di 
dichiarazione, di comunicazione, di denuncia o di notificazione in materia ambientale. 
Resta fermo quanto previsto per le opere di interesse strategico individuate ai sensi 
dell'articolo 1, comma 1, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, e successive 
modificazioni; 
m) riaffermazione del ruolo delle regioni, ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, 
nell'attuazione dei principi e criteri direttivi ispirati anche alla interconnessione delle 
normative di settore in un quadro, anche procedurale, unitario, alla valorizzazione del 
controllo preventivo del sistema agenziale rispetto al quadro sanzionatorio 
amministrativo e penale, nonche' alla promozione delle componenti ambientali nella 
formazione e nella ricerca; 
n) adozione di strumenti economici volti ad incentivare le piccole e medie imprese ad 
aderire ai sistemi di certificazione ambientale secondo le norme EMAS o in base al 
regolamento (CE) n. 76112001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 
2001 e introduzione di agevolazioni amministrative negli iter autorizzativi e di controllo 
per le imprese certificate secondo le predette norme EMAS o in base al citato 
regolamento (CE) n. 76112001 prevedendo, ove possibile, il ricorso 
all'autocertificazione. 

9. I decreti legislativi di cui al comma 1 devono essere informati agli obiettivi di 
massima economicità e razionalità, anche utilizzando tecniche di raccolta, gestione ed 
elaborazione elettronica di dati e, se necessario, mediante ricorso ad interventi 
sostitutivi, sulla base dei seguenti principi e criteri specifici: 

a) assicurare un'efficace azione per l'ottimizzazione quantitativa e qualitativa della 
produzione dei rifiuti, finalizzata, comunque, a ridurne la quantità e la pericolosità; 
semplificare, anche mediante l'emanazione di regolamenti, ai sensi dell'articolo 17, 
comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e razionalizzare le procedure di gestione 
dei rifiuti speciali, anche al fine di renderne più efficace il controllo durante l'intero 
ciclo di vita e di contrastare l'elusione e la violazione degli obblighi di smaltimento; 
promuovere il riciclo e il riuso dei rifiuti, anche utilizzando le migliori tecniche di 
differenziazione e di selezione degli stessi, nonché il recupero di energia, garantendo il 
pieno recepimento della direttiva 2000/76/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, 
del 4 dicembre 2000, relativa all'incenerimento dei rifiuti, ed innovando le norme 
previste dal decreto del Ministro dell'ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel 
supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 16 aprile 1998, e successive 
modificazioni, con particolare riguardo agli scarti delle produzioni agricole; prevedere i 
necessari interventi per garantire la piena operatività delle attività di riciclaggio anche 
attraverso l'eventuale transizione dal regime di obbligatorietà al regime di volontarietà 
per l'adesione a tutti i consorzi costituiti ai sensi del decreto legislativo 5 febbraio 1997, 
n. 22; razionalizzare il sistema di raccolta e di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, 
mediante la definizione di ambiti territoriali di adeguate dimensioni all'interno dei quali 
siano garantiti la costituzione del soggetto amministrativo competente, il graduale 

passaggio allo smaltimento secondo forme diverse dalla discarica e la gestione affidata 
tramite procedure di evidenza pubblica; prevedere l'attribuzione al presidente della 
giunta regionale dei poteri sostitutivi nei confronti del soggetto competente che non 
no affinché gli operatori abbiano l'obbligo di informare il più 
presto possibile l'autorità competente di tutti gli aspetti pertinenti della situazione. 3. 
L'autorità competente , in qualsiasi momento, ha facoltà di: a) chiedere all'operatore di 
fornire informazioni su qualsiasi minaccia imminente di danno ambientale o su casi 
sospetti di tale minaccia imminente; b) chiedere all'operatore di prendere le misure di 
prevenzione necessarie; c) dare all'operatore le istruzioni da seguire riguardo alle misure 
di prevenzione necessarie da adottare; oppure d) adottare essa stessa le misure di 
prevenzione necessarie. 4. L'autorità competente richiede che l'operatore adotti le 
misure di prevenzione. Se l'operatore non si conforma agli obblighi previsti al paragrafo 
1 o al paragrafo 3, lettere b) o c), se non può essere individuato, o se non è tenuto a 
sostenere i costi a norma della presente direttiva, l'autorità competente ha facoltà di 
adottare essa stessa tali misure. Articolo 6 Azione di riparazione 1. Quando si è 
verificato un danno ambientale, l'operatore comunica senza indugio all'autorità 
competente tutti gli aspetti pertinenti della situazione e adotta: a) tutte le iniziative 
praticabili per controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto 
immediato, gli inquinanti in questione e/o qualsiasi altro fattore di danno, allo scopo di 
limitare o prevenire ulteriori danni ambientali e effetti nocivi per la salute umana o 
ulteriori deterioramenti ai servizi e b) le necessarie misure di riparazione 
conformemente all'articolo 7. 30.4.2004 IT Gazzetta ufficiale dell'Unione europea L 
143/61 2. L'autorità competente, in qualsiasi momento, ha facoltà di: a) chiedere 
all'operatore di fornire informazioni supplementari su qualsiasi danno verificatosi; b) 
adottare, chiedere all'operatore di adottare o dare istruzioni all'operatore circa tutte le 
iniziative praticabili per controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con 
effetto immediato, gli inquinanti in questione e/o qualsiasi altro fattore di danno, allo 
scopo di limitare o prevenire ulteriori danni ambientali e effetti nocivi per la salute 
umana o ulteriori deterioramenti ai servizi; c) chiedere all'operatore di prendere le 
misure di riparazione necessarie; d) dare all'operatore le istruzioni da seguire riguardo 
alle misure di riparazione necessarie da adottare; oppure e) adottare essa stessa le 
misure di riparazione necessarie. 3. L'autorità competente richiede che l'operatore adotti 

le misure di riparazione. Se l'operatore non si conforma agli obblighi previsti al 
paragrafo 1 o al paragrafo 2, lettere b), c) o d), se non può essere individuato o se non è 
tenuto a sostenere i costi a norma della presente direttiva, l'autorità competente ha 
facoltà di adottare essa stessa tali misure, qualora non le rimangano altri mezzi. Articolo 
7 Determinazione delle misure di riparazione 1. Conformemente all'allegato II, gli 
operatori individuano le possibili misure di riparazione e le presentano per approvazione 
all'autorità competente, a meno che questa non abbia intrapreso un'azione a norma 
dell'articolo 6, paragrafo 2, lettera e), e paragrafo 3. 2. L'autorità competente decide 
quali misure di riparazione attuare conformemente all'allegato II e, se necessario, in 
cooperazione con l'operatore interessato . 3. Se una pluralità di casi di danno ambientale 
si sono verificati in modo tale che l'autorità competente non è in grado di assicurare 
l'adozione simultanea delle misure di riparazione necessarie, essa può decidere quale 
danno ambientale debba essere riparato a titolo prioritario. Ai fini di tale decisione, 
l'autorità competente tiene conto, fra l'altro, della natura, entità e gravità dei diversi casi 
di danno ambientale in questione, nonché della possibilità di un ripristino naturale. Sono 
inoltre presi in considerazione i rischi per la salute umana. 4. L'autorità competente 
invita le persone di cui all'articolo 12, paragrafo 1 e, in ogni caso, le persone sul cui 
terreno si dovrebbero effettuare le misure di riparazione a presentare le loro 
osservazioni e le prende in considerazione. Articolo 8 Costi di prevenzione e di 
riparazione 1. L'operatore sostiene i costi delle azioni di prevenzione e di riparazione 
adottate in conformità della presente direttiva. 2. Fatti salvi i paragrafi 3 e 4, l'autorità 
competente recupera, tra l'altro attraverso garanzie reali o altre adeguate garanzie, 
dall'operatore che ha causato il danno o l'imminente minaccia di danno i costi da essa 
sostenuti in relazione alle azioni di prevenzione o di riparazione adottate a norma della 
presente direttiva. Tuttavia, l'autorità competente ha facoltà di decidere di non 
recuperare la totalità dei costi qualora la spesa necessaria per farlo sia maggiore 
dell'importo recuperabile o qualora l'operatore non possa essere individuato. 3. Non 
sono a carico dell'operatore i costi delle azioni di prevenzione o di riparazione adottate 
conformemente alla presente direttiva se egli può provare che il danno ambientale o la 
minaccia imminente di tale danno: a) è stato causato da un terzo, e si è verificato 
nonostante l'esistenza di opportune misure di sicurezza, o b) è conseguenza 
dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica, 
diversa da un ordine o istruzione impartiti in seguito a un'emissione o a un incidente 
causati dalle attività dell'operatore. In tali casi gli Stati membri adottano le misure 
appropriate per consentire all'operatore di recuperare i costi sostenuti. 4. Gli Stati 
membri hanno facoltà di consentire che l'operatore non sia tenuto a sostenere i costi 
delle azioni di riparazione intraprese conformemente alla presente direttiva qualora 
dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e che il danno 
ambientale è stato causato da: a) un'emissione o un evento espressamente autorizzati da 
un'autorizzazione conferita o concessa ai sensi delle vigenti disposizioni legislative e 
regolamentari nazionali recanti attuazione delle misure legislative adottate dalla 
Comunità di cui all'allegato III, applicabili alla data dell'emissione o dell'evento e in 
piena conformità delle condizioni ivi previste; L 143/62 IT Gazzetta ufficiale 
dell'Unione europea 30.4.2004 b) un'emissione o un'attività o qualsiasi altro modo di 
utilizzazione di un prodotto nel corso di un'attività, che l'operatore dimostri non essere 
state considerate probabile causa di danno ambientale secondo lo stato delle conoscenze 
scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell'emissione o dell'esecuzione 

dell'attività. 5. Le misure adottate dall'autorità competente conformemente all'articolo 5, 
paragrafi 3 e 4 e all'articolo 6, paragrafi 2 e 3 lasciano impregiudicata la responsabilità 
dell'operatore interessato a norma della presente direttiva e l'applicazione degli articoli 
87 e 88 del trattato. Articolo 9 Imputazione dei costi nel caso di pluralità di autori del 
danno La presente direttiva lascia impregiudicata qualsiasi disposizione del diritto 
nazionale riguardante l'imputazione dei costi nel caso di pluralità di autori del danno, in 
particolare per quanto concerne la ripartizione della responsabilità tra produttore e 
utente di un prodotto. Articolo 10 Termini per il recupero dei costi L'autorità 
competente è legittimata ad avviare, nei confronti di un operatore o, se del caso, del 
terzo che ha causato il danno o la minaccia imminente di danno, i procedimenti per il 
recupero dei costi relativi a misure adottate conformemente alla presente direttiva entro 
cinque anni dalla data in cui tali misure sono state portate a termine o in cui è stato 
identificato l'operatore responsabile o il terzo responsabile, a seconda di quale data sia 
posteriore. Articolo 11 Autorità competente 1. Gli Stati membri designano l'autorità 
competente o le autorità competenti ai fini dell'esecuzione dei compiti previsti dalla 
presente direttiva. 2. Spetta all'autorità competente individuare l'operatore che ha 
causato il danno o la minaccia imminente di danno, valutare la gravità del danno e 
determinare le misure di riparazione da prendere a norma dell'allegato II. A tal fine, 
l'autorità competente è legittimata a chiedere all'operatore interessato di effettuare la 
propria valutazione e di fornire tutte le informazioni e i dati necessari. 3. Gli Stati 
membri provvedono affinché l'autorità competente possa delegare o chiedere a terzi di 
attuare le misure di prevenzione o di riparazione necessarie. 4. Le decisioni adottate ai 
sensi della presente direttiva che impongono misure di prevenzione o di riparazione 
sono motivate con precisione. Tali decisioni sono notificate senza indugio all'operatore 
interessato, il quale è contestualmente informato dei mezzi di ricorso di cui dispone 
secondo la legge vigente dello Stato membro in questione, nonché dei termini relativi a 
detti ricorsi. Articolo 12 Richiesta di azione 1. Persone fisiche o giuridiche: a) che sono 
o potrebbero essere colpite dal danno ambientale, o b) che vantino un interesse 
sufficiente nel processo decisionale in materia di ambiente concernente il danno o, in 
alternativa, c) che facciano valere la violazione di un diritto, nei casi in cui il diritto 
processuale amministrativo di uno Stato membro esiga tale presupposto, sono 
legittimate a presentare all'autorità competente osservazioni concernenti qualsiasi caso 
di danno ambientale o minaccia imminente di danno ambientale di cui siano a 
conoscenza e a chiedere all'autorità competente di intervenire a norma della presente 
direttiva. Gli elementi costitutivi dell'«interesse sufficiente» e della «violazione di un 
diritto» sono determinati dagli Stati membri. A tal fine, l'interesse di organizzazioni non 
governative che promuovono la protezione dell'ambiente e che sono conformi a tutti i 
requisiti previsti dal diritto nazionale è considerato sufficiente ai fini della lettera b). 
Tali organizzazioni sono altresì considerate titolari di diritti che possono subire 
violazioni ai sensi della lettera c). 2. La richiesta di azione è corredata di tutti i dati e le 
informazioni pertinenti a sostegno delle osservazioni presentate in relazione al danno 
ambientale in questione. 3. L'autorità competente tiene conto delle richieste di azione e 
delle osservazioni ad esse allegate che mostrino con verosimiglianza l'esistenza di un 
caso di danno ambientale. In tali circostanze l'autorità competente dà la possibilità 
all'operatore interessato di far conoscere le proprie opinioni circa la richiesta di azione e 
le osservazioni allegate. 4. Quanto prima, e comunque conformemente alle pertinenti 
disposizioni della legislazione nazionale, l'autorità competente informa le persone di cui 

al paragrafo 1, che hanno presentato il 30.4.2004 IT Gazzetta ufficiale dell'Unione 
europea L. 143/63 osservazioni all'autorità, della sua decisione di accogliere o rifiutare 
la richiesta di azione e indica i motivi della decisione. 5. Gli Stati membri possono 
decidere di non applicare i paragrafi 1 e 4 ai casi di minaccia imminente di danno. 
Articolo 13 Procedure di riesame 1. Le persone di cui all'articolo 12, paragrafo 1 sono 
legittimate ad avviare procedimenti dinanzi a un tribunale, o qualsiasi altro organo 
pubblico indipendente e imparziale, ai fini del riesame della legittimità della procedura 
e del merito delle decisioni, degli atti o delle omissioni dell'autorità competente ai sensi 
della presente direttiva. 2. La presente direttiva lascia impregiudicate le disposizioni 
nazionali che disciplinano l'accesso alla giustizia e quelle che consentono l'avvio di 
procedimenti giudiziari solo previo esperimento delle vie di ricorso amministrative. 
Articolo 14 Garanzia finanziaria 1. Gli Stati membri adottano misure per incoraggiare lo 
sviluppo, da parte di operatori economici e finanziari appropriati, di strumenti e mercati 
di garanzia finanziaria, compresi meccanismi finanziari in caso di insolvenza, per 
consentire agli operatori di usare garanzie finanziarie per assolvere alle responsabilità 
ad essi incombenti ai sensi della presente direttiva. 2. Anteriormente al 30 aprile 2010 la 
Commissione presenta una relazione in merito all'efficacia della direttiva in termini di 
effettiva riparazione dei danni ambientali e in merito alla disponibilità a costi 
ragionevoli e alle condizioni di assicurazione e di altri tipi di garanzia finanziaria per le 
attività contemplate dall'allegato III. La relazione esamina anche relativamente alla 
garanzia finanziaria i seguenti aspetti: un approccio graduale, un massimale per la 
garanzia finanziaria e l'esclusione di attività a basso rischio. Alla luce di tale relazione e 
di una valutazione approfondita dell'impatto, che include un'analisi costi/benefici, la 
Commissione presenta, se del caso, proposte per un sistema di garanzia 
finanziariaobbligatoria armonizzata. Articolo 15 Cooperazione fra Stati membri 1. 
Quando un danno ambientale riguarda o può riguardare una pluralità di Stati membri, 
questi cooperano, anche attraverso un appropriato scambio di informazioni, per 
assicurare che sia posta in essere una azione di prevenzione e, se necessario, di 
riparazione di tale danno ambientale. 2. Quando si è verificato un danno ambientale, lo 
Stato membro nel cui territorio ha origine il danno fornisce informazioni sufficienti agli 
Stati membri potenzialmente esposti ai suoi effetti. 3. Uno Stato membro che individui 
entro i suoi confini un danno la cui causa si è verificata al di fuori di tali confini può 
portarlo a conoscenza della Commissione e di qualsiasi altro Stato membro interessato; 
esso può raccomandare l'adozione di misure di prevenzione o di riparazione e può 
cercare, ai sensi della presente direttiva, di recuperare i costi sostenuti in relazione 
all'adozione delle misure di prevenzione o riparazione. Articolo 16 Relazione con il 
diritto nazionale 1. La presente direttiva non preclude agli Stati membri di mantenere o 
adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno 
ambientale, comprese l'individuazione di altre attività da assoggettare agli obblighi di 
prevenzione e di riparazione previsti dalla presente direttiva e l'individuazione di altri 
soggetti responsabili. 2. La presente direttiva non preclude l'adozione da parte degli 
Stati membri di idonee misure, come il divieto di doppio recupero, quando un doppio 
recupero dei costi potrebbe verificarsi come conseguenza di un'azione concorrente da 
parte di un'autorità competente a norma della presente direttiva e di una persona la cui 
proprietà abbia subito un danno ambientale. Articolo 17 Applicazione nel tempo La 
presente direttiva non si applica: — al danno causato da un'emissione, un evento o un 
incidente verificatosi prima della data di cui all'articolo 19, paragrafo 1; — al danno 

causato da un'emissione, un evento o un incidente verificatosi dopo la data di cui 
all'articolo 19, paragrafo 1, se derivante da una specifica attività posta in essere e 
terminata prima di detta data; — al danno in relazione al quale sono passati più di 30 
anni dall'emissione, evento o incidente che l'ha causato. Articolo 18 Relazioni e riesame 
1. Entro il 30 april 2013 gli Stati membri riferiscono alla Commissione sull'esperienza 
acquisita nell'applicazione della presente direttiva. Le relazioni comprendono le 
informazioni e i dati indicati nell'allegato VI. L 143/64 IT Gazzetta ufficiale dell'Unione 
europea 30.4.2004 2. Alla luce di tali relazioni la Commissione, anteriormente al 30 
april 2014 presenta al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione che comprende 
opportune proposte di modifica. 3. La relazione di cui al paragrafo 2 include un riesame: 
a) dell'applicazione: — dell'articolo 4, paragrafi 2 e 4 in relazione all'esclusione 
dell'inquinamento contemplato dagli strumenti internazionali elencati negli allegati IV e 
V dall'ambito di applicazione della presente direttiva, e — dell'articolo 4, paragrafo 3 in 
relazione al diritto di un operatore di limitare la propria responsabilità a norma delle 
convenzioni internazionali di cui all'articolo 4, paragrafo 3. La Commissione tiene conto 
dell'esperienza acquisita nelle pertinenti sedi internazionali, come l'IMO e l'Euratom, 
dei pertinenti accordi internazionali e della misura in cui tali strumenti siano entrati in 
vigore e/o siano stati attuati dagli Stati membri e/o siano stati modificati, tenuto conto di 
tutti i casi pertinenti di danno ambientale risultanti da tali attività e dell'azione di 
riparazione intrapresa nonché della relazione tra la responsabilità del proprietario della 
nave e i contributi dei destinatari di idrocarburi, e tenendo nella debita considerazione 
eventuali studi pertinenti condotti dal Fondo internazionale di risarcimento per i danni 
dovuti all'inquinamento da idrocarburi; b) dell'applicazione della presente direttiva al 
danno ambientale causato dagli organismi geneticamente modificati (OGM) 
particolarmente alla luce dell'esperienza acquisita nelle pertinenti sedi e convenzioni 
internazionali, come la convenzione sulla diversità biologica e il protocollo di Cartagena 
sulla bio/sicurezza, nonché delle conseguenze degli eventuali danni ambientali causati 
dagli OGM; c) dell'applicazione della presente direttiva in relazione alle specie e agli 
habitat naturali protetti; d) degli strumenti che possono essere presi in considerazione 
per l'inserimento negli allegati III, IV e V. Articolo 19 Attuazione 1. Gli Stati membri 
mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie 
per conformarsi alla presente direttiva entro il 30 aprile 2007. Essi ne informano 
immediatamente la Commissione. Quando gli Stati membri adottano tali disposizioni, 
queste contengono un riferimento alla presente direttiva o sono corredate di un siffatto 
riferimento all'atto della loro pubblicazione ufficiale. Le modalità del riferimento sono 
decise dagli Stati membri. 2. Gli Stati membri comunicano alla Commissione i testi 
delle disposizioni principali del diritto nazionale che adottano nel settore disciplinato 
dalla presente direttiva e una tabella di corrispondenza tra la presente direttiva e le 
disposizioni nazionali adottate. Articolo 20 Entrata in vigore La presente direttiva entra 
in vigore il giorno della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea. 
Articolo 21 Destinatari Gli Stati membri sono destinatari della presente direttiva. Fatto a Strasburgo, addì 21 aprile 2004. Per il Parlamento europeo Il Presidente P. COX Per il 
Consiglio Il Presidente D. ROCHE. 

Nel contesto della Direttiva una menzione particolare merita l’art. 311, come esplicato 
nel corpo del testo. 

La nuova disciplina del danno ambientale, attuativa delle sunnominate 
legge delega e direttiva europea è stata adottata con il d.lgs. 3 aprile 2006, 
n. 152, a norma del quale viene interamente modificata la questione della 
responsabilità per danno ambientale, la quale presenta i seguenti punti di 
divergenza rispetto alla disciplina dell’articolo 18 della legge citata e di 
tutta la normativa relativa. Tuttavia la riforma in parola non si pone come 
riforma organica di settore, poiché alcune disposizioni della precedente 
normativa sono ribadite nel nuovo provvedimento, cioè la legge 349/1986. 
Come infatti evidenziato dalla stessa giurisprudenza in materia, il 
provvedimento del 2006 si pone in continuità con la precedente normativa 
e ha ricondotto la fattispecie della responsabilità per danni all’ambiente nel 
tradizionale paradigma della responsabilità extracontrattuale soggettiva, 
con esclusione di ogni forma di responsabilità oggettiva. 

1. Ai sensi, sempre della già nominata direttiva 2004/35 CE, viene 
specificato che “costituisce danno il deterioramento in confronto alle 
condizioni originarie, provocato: 
2. Alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa interna, 
cioè nazionale; 
3. Alle acque interne; 
4. Alle acque costiere; 
5. Al terreno;” 


Va menzionato anche l’art. 311, emanato ad integrazione delle modifiche 
apportate dal provvedimento del 2006, cioè il provvedimento altrimenti 
conosciuto come T.U. in materia ambientale. L’art. 311 va ad integrare la 
disciplina contenuta nel primo provvedimento menzionato cioè il testo 
unico. La novità più significativa contenuta nel comma 3 dell’art. 311 è la 
definizione dei criteri del risarcimento per equivalente e della eccessiva 

onerosità. La più importante è invece data dalla determinazione 
dell’espressa previsione secondo la quale nel caso di concorso nello stesso 
evento di danno ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità 
personale. 

Il d.lgs. 135 del 25 settembre 2009 convertito con l. 20 novembre 2009, 
n.166 ha tuttavia modificato il comma 3 dell’art. 311 in modo da prevedere 
nuovamente che in caso di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno 
risponde nei limiti della propria responsabilità personale. 

A questo punto dello scritto si potrebbe notare la differente disciplina tra 
direttiva 2004 e disciplina interna. Mentre infatti sulla base della disciplina 
interna, il danno da risarcire in base alla responsabilità, andrà determinato 
in base all’apporto causale di ciascun compartecipe al fatto lesivo; la 
direttiva stabilisce invece che il dolo e la colpa non rilevano e il tipo di 
responsabilità cui l’operatore giuridico può andare incontro è soltanto 
oggettiva ed è relativa a specifici settori potenzialmente inquinanti, quali 
tra gli altri la attività chimica, l’industria dell’energia, le raffinerie, le 
cokerie, l’attività estrattiva, la produzione e lavorazione di metalli e la 
gestione dei rifiuti. 

Per quanto all’ambito strettamente giurisprudenziale, la Cassazione con 
successive pronunce ha operato un vero e proprio innesto tra le norme del 
Codice civile, considerando che in materia di ambiente l’unico parametro 
di giudizio valido è il mero “rapporto causale” tra azione (od omissione) ed 
evento lesivo. Infine mi pare d’obbligo un ulteriore riferimento all’art. 311 
nel nuovo testo, in cui detto articolo prevede il risarcimento in materia 
ambientale, solo ove gli strumenti interpretativi e normativi sono 

“inadeguati” a consentire una effettiva soddisfazione degli interessati da 
una controversia in materia di ambiente. 

XIV. Soggetti legittimati all’esercizio dell’azione risarcitoria 


Innanzitutto il primo soggetto legittimato ad esperire l’azione per danni da 
inquinamento è il Ministro dell’Ambiente. Ai sensi dell’art. 304 e ss. T.U. 
A. le risorse ricavate dallo Stato affluiscono in un apposito fondo, per 
essere destinate ad interventi urgenti in materia di sicurezza dei siti 
inquinati, a fini di disinquinamento, bonifica e ripristino ambientale e ad 
attività di ricerca nel campo delle riduzioni delle emissioni di gas ad effetto 
serra e dei cambiamenti climatici globali. 

Ai sensi dell’art. 309 e dell’art. 310 T.U.A. è attribuito alle Regioni 
l’esercizio dell’azione risarcitoria e quindi quest’ultimo è sottratto alla 
potestà dello Stato centrale, ed è attribuito anche agli enti locali e alle 
associazioni ambientaliste. Ciò nonostante per quanto concerne le 
associazioni ambientaliste viene riconosciuto di nuovo alle stesse il diritto 
di denunciare alle Autorità ai fini dell’annullamento quei provvedimenti 
che vanno a ledere l’integrità ambientale, qualunque sia il sito a rischio di 
eccessivo inquinamento. In sostanza la norma derivante dal combinato 

disposto degli artt. 30953 e 31054 tende ad estendere la legittimazione a far 
ricorso all’Autorità competente e a renderla una realtà diffusa, a scanso 
della “primazia” in materia di contenzioso, alla iniziativa statuale. 

53 Dispositivo dell'art. 309 Codice dell'ambiente:1. Le regioni, le province autonome e 
gli enti locali, anche associati, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o che 
potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legittimante la 
partecipazione al procedimento relativo all'adozione delle misure di precauzione, di 
prevenzione o di ripristino previste dalla parte sesta del presente decreto possono 
presentare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, 
depositandole presso le Prefetture - Uffici territoriali del Governo, denunce e 
osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di 
danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l'intervento 
statale a tutela dell'ambiente a norma della parte sesta del presente decreto. 

2. Le organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell'ambiente, di 
cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, sono riconosciute titolari 
dell'interesse di cui al comma 1. 

3. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare valuta le richieste di 
intervento e le osservazioni ad esse allegate afferenti casi di danno o di minaccia di 
danno ambientale e informa senza dilazione i soggetti richiedenti dei provvedimenti 
assunti al riguardo. 

4. In caso di minaccia imminente di danno, il Ministro dell'ambiente e della tutela del 
territorio e del mare, nell'urgenza estrema, provvede sul danno denunciato anche prima 
d'aver risposto ai richiedenti ai sensi del comma 3. 

 

54 1. I soggetti di cui all'articolo 309, comma 1, sono legittimati ad agire, secondo i 
principi generali, per l'annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione 
delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto nonché avverso il silenzio 
inadempimento del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e per il 
risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell'attivazione, da parte del medesimo 
Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno 
ambientale. 

2. Nell'ipotesi di cui al comma 1, il ricorso al giudice amministrativo può essere 
preceduto da una opposizione depositata presso il Ministero dell'ambiente e della tutela 
del territorio e del mare o inviata presso la sua sede a mezzo di posta raccomandata con 
avviso di ricevimento entro trenta giorni dalla notificazione, comunicazione o piena 
conoscenza dell'atto. In caso di inerzia del Ministro, analoga opposizione può essere 
proposta entro il suddetto termine decorrente dalla scadenza del trentesimo giorno 
successivo all'effettuato deposito dell'opposizione presso il Ministero dell'ambiente e 
della tutela del territorio e del mare. 

3. Se sia stata presentata l'opposizione e non ancora il ricorso al giudice 
amministrativo, quest'ultimo è proponibile entro il termine di sessanta giorni decorrenti 
dal ricevimento della decisione di rigetto dell'opposizione oppure dal trentunesimo 

giorno successivo alla presentazione dell'opposizione se il Ministro non si sia 
pronunciato. 

4. Resta ferma la facoltà dell'interessato di ricorrere in via straordinaria al 
Presidente della Repubblica nel termine di centoventi giorni dalla notificazione, 
comunicazione o piena conoscenza dell'atto o provvedimento che si ritenga illegittimo e 
lesivo. 

 

XV. Illecito ambientale e immissioni ex art. 844 c.c. 


Prima che l’attuale orientamento giurisprudenziale si consolidasse attorno 
agli art. 2043 e 2059 c.c., in relazione questi ultimi con gli articoli 2, 9, 32 
Cost., per molto tempo la responsabilità per danno ambientale era 
codificata nell’art. 844 c.c. che è portatore di una norma che per via 
analogica può essere estesa a tutelare le situazioni di criticità ambientale, in 
quanto, dispone l’articolo, al secondo comma, che “nell’applicare la norma, 
l’autorità giudiziaria deve contemperare le “esigenze della produzione con 
le ragioni della proprietà.” Ovviamente alla base di tale “arresto” del 
giudice delle Leggi esiste un apparato di sentenze, anche di 
“assestamento” il cui commento esula dal presente scritto data la mole del 
materiale. Tuttavia al fine di soddisfare le accresciute esigenze di tutela 
ambientale derivanti dall’incremento delle attività inquinanti e in 
particolare al fine di garantire una più effettiva e pronta tutela ambientale è 
stata introdotta una procedura alternativa di risoluzione stragiudiziale delle 
controversie, cioè la cosiddetta “transazione globale in materia 
ambientale”. Si tratta di un istituto con finalità deflattive del contenzioso 
inquadrabile nei più generali ADR (“Alternative Dispute Resolution). Al 
ministro dell’ambiente spetta in particolare sia la legittimazione attiva a 
detenere tutte le funzioni “e i compiti spettanti allo Stato in materia di 
tutela, prevenzione e riparazione dei danni all’ambiente”. Al ministro spetta 
in particolare sia la legittimazione attiva sia il potere di emanazione della 

speciale rimessione in pristino qualora ne ricorrano gli estremi. Dalla stessa 
concentrazione di funzioni in un unico organo decisionale sono in 
particolare derivate le seguenti disfunzioni; a) la difficoltà di un tempestivo 
esercizio dell’azione risarcitoria soggetta a termine di prescrizione 
quinquennale dovuta al disposto dell’art. 2947 c.c.; b) la difficoltà di una 
tempestiva adozione dell’ordinanza ripristinatoria soggetta ad un termine 
di decadenza di due anni, previsto dalla normativa speciale. 

Tali difficoltà hanno portato ad una esposizione del Ministro dell’ambiente 
con l’essere assoggettato oltreché alla censura da parte della Corte dei 
Conti, anche ad una serie di azioni ad opera di denuncianti privati, in 
merito al silenzio inadempimento e a causa del ritardato intervento. 

Da questa problematica che coinvolge il ministro dell’ambiente, si è passati 
sul piano del diritto privato ad una fattispecie prevista dall’art. 2 della legge 
13/2009, cioè la “transazione ambientale”. Deve evidenziarsi il fatto che 
prima dell’adozione della recente disciplina in materia di transazione, non 
esisteva una disciplina strettamente concernente soltanto le procedure di 
rimborso delle spese di bonifica e ripristino di aree contaminate od il 
risarcimento del danno ambientale relativo a siti di interesse nazionale. La 
legge 13/2009 all’articolo due si occupa solo dei suddetti caratteri della 
transazione. La buona volontà iniziale che aveva animato l’introduzione 
dell’istituto della transazione non è l’ambiente ma il solo interesse 
economico che ne sta alla base. Il che pone anche un problema di 
competenza che deve senza’altro essere risolto attribuendo una competenza 
esclusiva all’organo di vertice in materia di amministrazione e tutela 
dell’ambiente, cioè il ministero di volta in volta competente. 

Resta però il fatto che ai sensi di quanto previsto dall’art. 1996 c.c., “per 
transigere le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che 
formano oggetto della lite”. 

Oltre a ciò la già nominata conclusione del Consiglio di Stato, appare 
confermata dal testo del comma 1 dell’art. 2 della legge 13/2009 secondo il 
cui disposto, la transazione è una azione civile risarcitoria “nascente da un 
fatto illecito già verificato” ovvero “dalla obbligazione civile originata da 
un fatto illecito collocato nel passato e per il quale la menomazione 
dell’integrità ambientale è già storicamente avvenuta”. La conclusione del 
Consiglio di Stato appare confermata dal testo del comma 1 dell’art. 2 della 
legge 13/2009 secondo cui la transazione ha ad oggetto la “spettanza e la 
quantificazione degli oneri di bonifica e di ripristino del danno ambientale 
nonché del danno ambientale e degli altri eventuali danni di cui lo Stato e 
altri enti pubblici possano chiedere il risarcimento”. 

La differenza tra la transazione di cui all’art. 2, legge 13/2009 e la 
transazione prevista dal Codice civile è la natura pubblica della parte 
contraente, laddove si presenta la necessità di controlli e l’acquisizione di 
specifici pareri. Al privato ritenuto responsabile del danno ambientale è 
tuttavia attribuito un ruolo fondamentale e paritario rispetto al ministro 
dell’ambiente, con conseguente bilateralità dell’atto in questione. Per 
quanto concerne la forma di tale transazione è essenziale ricordare che 
essa, come tutti i contratti della Pubblica amministrazione, e in deroga 
all’art. 1967 c.c., richiede la forma scritta “ad substantiam” con la 
conseguenza che in mancanza della poc’anzi nominata forma il contratto è 
nullo pur in presenza di fatti concludenti o di manifestazioni tacite di 
volontà. La natura pubblica dell’accordo in esame impone inoltre, il 
rispetto dei principi generali dettati dall’articolo 1, comma 1 della legge 7 

agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo, volti a garantire 
attraverso idonee forme di pubblicità, sia la trasparenza dell’azione 
pubblica sia la partecipazione di tutti i soggetti interessati e coinvolti nella 
procedura. Inoltre lo schema di contratto, oltre ad essere comunicato alle 
Regioni e agli Enti locali, viene reso noto, mediante forme idonee di 
pubblicità, nei limiti delle risorse di bilancio disponibili per lo scopo, alle 
associazioni e ai privati interessati. 

Entro trenta giorni dalla comunicazione e dalla pubblicazione, gli enti e i 
soggetti interessati possono inviare i loro commenti sullo schema di 
contratto a coloro che parteciperanno alla Conferenza di servizi, indetta dal 
Ministero dell’ambiente fra i soggetti pubblici aventi titolo per acquisire e 
comporre gli interessi oggetto della transazione. 

La previsione di una Conferenza dei servizi nell’ambito del procedimento 
transattivo non comporta, però, l’esclusione della partecipazione di privati 
e dei soggetti portatori di interessi diffusi, ma la organizza, inserendola 
nella fase istruttoria antecedente il processo decisionale riservato invece 
esclusivamente ai pubblici poteri. 

Ai sensi dell’art. 317 del d.lgs. 152/2006 le somme derivanti dalla 
riscossione dei crediti in favore dello Stato per il risarcimento del danno 
ambientale sono versate all’entrata del bilancio dello Stato, per essere 
riassegnate, entro 60 giorni, con decreto del ministro dell’Economia e delle 
finanze, a un fondo di rotazione istituito nell’ambito di una apposita unità 
allo Stato di previsione del Ministero dell’ambiente, al fine di finanziare, 
anche in via di anticipazione, e in quest’ultimo caso, nella misura del 10% 
della spesa, una serie di interventi in campo ambientale. La legge opera in 
realtà una distinzione tra le transazioni che hanno ad oggetto, oltre che il 

risarcimento monetario del danno ambientale, anche oneri di bonifica e 
ripristino della situazione quo ante ovvero quelle che hanno ad oggetto 
prestazioni di carattere soltanto pecuniario, specificando le modalità di 
determinazione della destinazione dei proventi. 

La stipula del contratto di transazione determina l’abbandono del 
contenzioso pendente, precludendo ogni nuova azione avente ad oggetto il 
rimborso degli oneri di bonifica e di ripristino ovvero il risarcimento del 
danno ambientale nonché di altre eventuali pretese azionabili dallo Stato e 
dagli altri enti pubblici territoriali per i fatti oggetto della transazione. 

Con la stipula dei contratto di transazione si apre infine, la fase di 
esecuzione che è regolata in generale dalle norme di diritto privato. Non 
trova però applicazione il limite alla risoluzione per inadempimento, ai 
sensi dell’articolo 1976 c.c., ma per il resto si applica, pur con alcuni 
adattamenti il diritto di derivazione codicistica. 

Vengono tuttavia introdotti elementi di specialità rispetto alla disciplina 
civilistica con riferimento alla sola ipotesi di inadempimento da parte del 
soggetto privato. In particolare l’articolo 2 del d.l. 208/2008 dispone che in 
caso di inadempimento, anche parziale da parte dei soggetti privati delle 
obbligazioni da essi stessi assunte in via di transazione nei confronti del 
Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, quest’ultimo, 
previa diffida ad adempiere nel termine di trenta giorni, può dichiarare 
risolto il contratto di transazione. 

Inoltre, sempre ai sensi dell’articolo 2 del D. legge citato sopra nel corpo 
del testo, 

 la legge dispone anche nel senso di attribuire al Ministro il potere di 
risolvere il contratto di transazione, in tal modo lasciando al soggetto 
pubblico la scelta se far venire meno il vincolo negoziale o conservarlo. 

XVI. Il ruolo della sanzione penale nella tutela dell’ambiente. 


Le espressioni “diritto penale dell’ambiente” e “tutela penale 
dell’ambiente” coniate dalla dottrina e non rinvenibili in alcun testo 
normativo, eccezion fatta per la direttiva 2008/99/CE, sono state 
gradualmente utilizzate a partire dalla seconda metà del secolo scorso per 
indicare quella serie di provvedimenti normativi contenenti sanzioni penali 
che spesso accompagnavano provvedimenti a tutela di quegli interessi 
afferenti al paesaggio e al territorio, nonché alla tutela della salute, cioè 
tutta una serie di disposizioni, assistite “penalmente” cioè da sanzione 
penale, rispetto alla quale si fa riferimento agli articoli 9 e 32 Costituzione. 
Questa impostazione è stata ad esempio modificata con l’entrata in vigore 
del T.U. Ambiente, il quale ha introdotto alcuni riferimenti che fanno 
pensare ad una più stretta interrelazione tra diritto civile e diritto penale 
ambientale. Oggi infatti, allorché si tratti di “diritto penale dell’ambiente” 
si intende fare riferimento non solo alle norme del suddetto T.U. ma anche 
a tutte le disposizioni penali presenti nell’ordinamento che riguardino in 
generale la tutela dell’ habitat nel quale si svolge la vita dell’uomo. Ma non 
è chi non veda che una nozione così ampia di ambiente è inutilizzabile dal 
penalista. E’ quindi necessario delimitare il campo di indagine. Occorre 
pertanto chiarire in primo luogo cosa si intende per ambiente. Il termine in 
parola fa riferimento e può essere ricondotto a più significati. 

Si può definire ambiente uno spazio in cui vive una persona, ma vi è anche 
una accezione sociologica che per ambiente indica le condizioni sociali e 

personali in cui una persona vive e sviluppa la propria personalità. Vi è 
infine un ultimo significato del termine ambiente, cioè come l’insieme delle 
condizioni fisiche e chimiche in cui si sviluppano determinate forme di 
vita. 

Tuttavia, nell’impossibilità di dare un senso univoco al termine ambiente 
sulla base della legislazione ordinaria, occorre in via definitiva rivolgere lo 
sguardo alla Costituzione. In particolare, propriamente all’articolo 32 il 
quale afferma che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto 
dell’individuo e interesse della collettività”, e in cui si ravvisa la possibilità 
di configurare un diritto della salute ad esempio e soprattutto in ambito 
giuslavoristico cioè del diritto del lavoro. 

In realtà il diritto alla tutela dell’ambiente non deve interpretarsi come un 
unicum ma come una somma di tutele fra loro diverse quanto all’oggetto e 
precisamente: a) una tutela stricto sensu in base a quelle che sono le 
necessità ambientali in cui si muove e opera l’individuo, sulla base degli 
artt. 9 e 32 della Costituzione; b) una tutela che si fonda sul solo art. 9, 
rivolta ai soli beni ambientali, individuabili nel paesaggio e nelle bellezze 
naturali; c) una tutela della salute pubblica imperniata sull’art. 32 della 
Costituzione; d) una tutela dell’integrità del territorio fondata sull’art. 9. 

Mi pare utile fare a questo punto del discorso un breve excursus in merito 
al periodo iniziale e ai successivi sviluppi della tematica ambientale a 
livello di legge ordinaria. Se infatti iniziamo il percorso in parola dal 
Codice penale del 1930 esso codice non conteneva norme specifiche a 
tutela del contesto ambientale, in quanto la tutela dell’ambiente per evitarne 
il deterioramento poteva essere agevolmente ricavabile, a parte il divieto di 
analogia previsto in materia penale, in alcuni articoli in particolare, cioè ad 

esempio l’art. 635 comma 2, n. 5 e quindi la condotta di distruzione e di 
deterioramento, ad esempio di “boschi selve e foreste”. Se si escludono 
alcune fattispecie che non rileva citare, la tutela effettiva dell’ambiente era 
qualcosa in qualche modo già presente. 

Il ricorso alla normativa complementare parte dagli anni ’60 dello scorso 
secolo: ma il primo provvedimento organico di cui si parla viene 
condensato nel disposto della legge 615/1996 come “legge antismog”. Tale 
provvedimento legislativo prevedeva una serie di elementi tali da 
compromettere l’integrità e la salubrità ambientale, in particolare riferibili a 
tutto ciò che all’epoca successiva alla emanazione della Costituzione e al 
boom industriale susseguente, richiedeva un forte intervento di rettifica 
proveniente dalle leggi ordinarie ma sempre secondo gli articoli di 
riferimento costituzionale citati. Le disposizioni della suddetta legge furono 
successivamente in gran parte sostituite da quelle del d.p.r. 24/05/’98. 
Ovviamente non mancano a partire dai primi anni ’60, anni in cui venne 
per la prima volta preso in considerazione dal Legislatore il problema 
ambientale, successivamente, venne emanata nel 1976 la legge Merli, 
anche essa legge complementare, che rimase in vigore fino alla 
approvazione del Testo Unico Ambiente. La stessa legge Merli riguardava 
gli scarichi indiretti o diretti in tutte le acque, superficiali, sotterranee, 
interne e marine, nonché quelle situate negli impianti fognari. Successivi 
alla legge Merli vi sono ovviamente altri provvedimenti che però non fanno 
che meglio specificare il contenuto della legge in parola, anche sulla base 
del disposto di direttive o comunque procedimenti europei con effetti sul 
nostro ordinamento. 

Continuando il discorso su un piano cronologico viene in rilievo la 
disciplina contenuta nel decreto legislativo n. 52 del 2006 (detto Testo 

Unico Ambiente), il quale tenta di porsi come normativa di settore 
inclusiva di tutta la disciplina pregressa in materia di tutela dell’ambiente. 
Si tratta però di un tentativo privo di esito, anche data la mancanza nelle 
previsioni del decreto della disciplina di una regolamentazione di situazioni 
giuridicamente rilevanti come “la caccia, la flora, la fauna, l’energia 
nucleare e gli OGM”, fattispecie che a tutt’oggi sono contenute e 
frammentate nelle leggi “ordinarie” complementari. 

Ma per tornare al profilo di quello che ho definito excursus a carattere 
cronologico, bisogna dire che, sebbene durante il vigore dell’ordinamento 
precedente a quello attuale, non vi fosse, a causa del fatto che all’epoca 
l’ordinamento economico era fondato prevalentemente sull’agricoltura, un 
preciso interesse verso la tutela ambientale, ciò non esclude che alcuni dei 
comportamenti censurati dal Codice Rocco possano essere interpretati con 
riferimento alla realtà ambientale in senso protettivo e in modo da 
manifestare un certo interesse per alcune fattispecie di reato collegate alla 
questione ambientale. Ad esempio i delitti contro la pubblica incolumità, in 
cui la dottrina tenta di inserire un riferimento ad ipotetici reati 
“ambientali”; altro esempio potrebbe essere la considerazione del delitto di 
incendio boschivo (434 bis c.p.), un delitto che potrebbe determinare 
cospicui danni sia all’ambiente umano che a quello naturale, sempre però 
che in questa fattispecie siano ravvisati gli estremi del “pericolo comune”. 

Vi è poi la recente introduzione di due delitti previsti Codice penale, ossia 
quello di cui all’articolo 727 bis c.c. che punisce l’uccisione, la distruzione, 
la cattura, il prelievo, la detenzione, di specie provenienti da siti protetti; e 
quello previsto dall’art. 733 bis c.c. che dispone contro il deterioramento 
dell’habitat in cui vivono specie protette. Tali due nuovi reati rappresentano 

il risultato dell’adattamento dell’ordinamento italiano alla direttiva dell’UE 
n. 2008/99/CE, recepita con il D.lgs. 7/7/2011, n.121. 

Lo scrivente ha già affrontato in questo lavoro di commento e di analisi in 
materia ambientale, una serie di istituti nei quali, pur essendo il Codice 
Rocco non abrogato, traggono spunto da questo per delimitare e quindi 
realizzare una tutela ambientale effettiva. Sempre a livello penale si 
possono d’altra parte prospettare una serie di reati ad oggetto ambientale, 
nella cui fattispecie è senza altro presente la sanzione. I reati che però 
sicuramente possono essere rilevanti essi stessi in materia penale, 
appartengono alle seguenti fattispecie: a) i reati che puniscono l’esercizio 
non autorizzato o comunque non segnalato, di attività rischiose per 
l’ambiente; b) i reati che puniscono la semplice inosservanza dei precetti 
extrapenali; c) i reati che puniscono il superamento dei limiti posti dalle 
disposizioni amministrative. 

La prima categoria di reati è la fonte più presente tra le norme di diritto 
penale ambientale, fin dal 1966 quando nella legge antismog il legislatore 
puniva ad esempio la trasformazione di un impianto tecnico senza la 
preventiva approvazione del Comando provinciale del Vigili del Fuoco. Si 
tratta quindi di una scelta consapevole del legislatore, che tuttora persevera 
in tale tipologia punitiva, prevedendo all’interno del D.lgs. n. 152/2006 
numerose contravvenzioni che puniscono l’esercizio non autorizzato di 
attività rischiose per l’ambiente. Per quanto riguarda la seconda tipologia 
criminosa si tratta di norme incentrate sulla semplice disobbedienza alle 
disposizioni di autorità amministrative, contenute in ordini, atti 
amministrativi, valutazione della necessità di concedere permessi. La 
tecnica utilizzata da tali norme è quella delle norme penali in bianco che 
però pone problemi di compatibilità soprattutto con il principio della 

riserva di legge, in quanto spesso la tutela penale dipende in tutto o in parte 
dall’autorità amministrativa. La terza tipologia è senz’altro quella più 
classica e ricorrente nel diritto penale ambientale ed è caratterizzata dalle 
condotte di superamento dei limiti di inquinamento fissati dalle tabelle 
redatte dalle specifiche autorità amministrative. 

XVII. Responsabilità degli enti e reati ambientali 


Nell’ambito del diritto ambientale non può tralasciarsi la questione della 
responsabilità degli enti. Tra le critiche mosse dalla dottrina alla 
legislazione ambientale in Italia, tra le più ricorrenti concerneva proprio 
l’assenza di una previsione di responsabilità per i reati ambientali 
commessi a vantaggio o nell’interesse delle imprese. Tra le critiche mosse 
dalla dottrina alla legislazione ambientale italiana, una tra le più ricorrenti, 
dopo la svolta epocale determinata dall’entrata in vigore del sistema di 
responsabilità da reato degli enti in forza del D.lgs. 8/6/2001 numero 231 
concerneva proprio l’assenza di una previsione di responsabilità per i reati 
ambientali commessi a vantaggio o nell’interesse delle imprese. La 
responsabilità penale era limitata tradizionalmente alle persone fisiche, 
mentre alle imprese era solo riservato il ruolo di responsabile, sotto il 
profilo civilistico, per i danni prodotti dall’inquinamento. A questo 
proposito esiste una norma del T.U. delle leggi sull’ambiente, e cioè 
l’articolo 192 comma 4, che in tema di rifiuti dispone che “qualora la 
responsabilità da fatto illecito sia imputabile ad amministratori o 
rappresentanti di persona giuridica, sono tenuti in solido la persona 
giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, 
secondo le previsioni del D.lgs. 8/6/2001 n. 231 in materia di responsabilità 
amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni. 

Il Legislatore ha quindi nuovamente seguito la via già intrapresa nel 2007 
allorché aveva inserito nell’art. 25 septies i reati di omicidio e lesioni 
personali colposi a seguito di violazione delle norme a tutela della salute e 
della sicurezza sul lavoro. 

In sostanza sembra che sul punto specifico della responsabilità degli enti, il 
legislatore non si sia voluto impegnare oltre misura, limitandosi ad un 
adempimento quasi burocratico alla Direttiva europea. Dal risultato 
complessivo sembra quasi che la preoccupazione fosse soltanto quella di 
non apparire inadempienti di fronte agli obblighi sovranazionali, 
raggiungendo comunque l’obiettivo di aver coinvolto l’impresa nel disegno 
di tutela dell’ambiente. 

Una volta percorsi gli aspetti principali del diritto penale in tema di 
ambiente, va detto che l’attuale principio della “prevenzione” si distingue 
per una “opacità” di fondo. Non è infrequente nelle norme in questione che 
sia estremamente complicato individuare la condotta punibile. Si tratta di 
norme che si basano sulla violazione di regole tecniche e burocratiche di 
gestione: con la conseguenza che la descrizione della condotta è sostituita 
dal rinvio alla regolamentazione tecnico amministrativa, la trasgressione 
della quale è punita penalmente. 

Lo stesso Parlamento europeo e il Consiglio hanno ritenuto, con la 
direttiva 2008/99/CE che il ricorso al diritto penale rappresenta una misura 
indispensabile di contrasto nei confronti delle violazioni ambientali più 
gravi. E tuttavia l’unica deterrenza è data dal processo: non solo dal fatto di 
essere sottoposti ad indagini per reati ambientali, ma soprattutto per le 
misure coercitive legali che il magistrato può adottare, anche nei riguardi 
degli enti collettivi, e che incidono direttamente su situazioni concrete. 

L’analisi così condotta e a questo punto consente di trarre alcune 
conclusioni. Innanzitutto lo stato della legislazione penale a tutela 
dell’ambiente non è quello di un sistema organico ed efficace. Ciò che deve 
essere posto in rilievo è che l’ambiente è un bene che, forse più di altri 
interessa trasversalmente tutta la collettività. Da tale caratteristica discende 
che l’obiettivo dei legislatori europei deve essere quello di giungere ad una 
disciplina armonizzata sulla base degli standard europei espressi dalle 
direttive comunitarie che si sono interessate al tema. La nostra legislazione 
è assai lontana da tale obiettivo dal quale ha preso le distanze dopo 
l’attuazione della direttiva 2008/99/CE. Ciò che potrebbe risolvere questa 
impasse sarebbe un nucleo di norme incriminatrici di natura delittuosa, che 
dovrebbe affiancarsi alla disciplina complementare attualmente in vigore. 
Tale nucleo di nuove norme incriminatrici dovrebbe trovare posto nel 
Codice penale e dovrebbe essere formato, in armonia con quanto previsto 
dalla direttiva 2008/99/CE, da fattispecie fondate sul pericolo concreto e 
sul danno. In questo modo si avrebbe una disciplina incentrata sul rispetto 
del principio di offensività del reato e coerente con le indicazioni 
provenienti dalle direttive europee; ma soprattutto si avrebbe un sistema 
normativo effettivamente dissuasivo e specifico che non indurrebbe il 
diritto vivente a flessibilizzare gli istituti esistenti per adeguarli alla 
punibilità dei fatti lesivi dell’ambiente. 

XVIII. Profili di Diritto processuale civile 


La disciplina del danno ambientale contenuta nella parte VI del D.lgs. 3 
aprile 2006, n.152 ha sostituito quella dell’art.18, l. 8 luglio 1986, n. 349, 
per abrogazione di tale norma ad opera dell’art. 318 del D.lgs. n. 152, fatta 
eccezione per il comma 5 relativo alle facoltà processuali delle associazioni 
ambientaliste. Tale disciplina si caratterizza sul piano processuale, 

principalmente: a) per l’attribuzione al Ministero dell’Ambiente di un ruolo 
preminente nell’individuazione delle misure di ripristino cui corrisponde, 
sul piano processale, il riconoscimento della legittimazione processuale ad 
agire per il risarcimento del danno ambientale a titolo esclusivo; b) per 
l’abolizione della legittimazione ad agire ed intervenire per il risarcimento 
del danno ambientale degli enti locali e delle persone fisiche e giuridiche 
che sono o che potrebbero essere colpiti dal danno ambientale o che 
vantino un interesse tale da legittimare alla partecipazione al procedimento 
relativo all’adozione delle misure di precauzione, di previsione o di 
ripristino, riconoscendo la sola facoltà di sollecitare l’intervento statale e 
di ricorrere in caso di inerzie od omissioni; c) per la conseguente 
abrogazione dell’art. 9 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che aveva 
riconosciuto alle associazioni ambientali la possibilità di proporre azioni 
risarcitorie di competenza del giudice ordinario spettanti al Comune e alla 
Provincia a seguito di danno ambientale, con spese processuali da porsi a 
favore o carico dell’associazione e con liquidazione dell’eventuale 
risarcimento a favore dell’ente sostituito; d) per l’alternatività tra azione 
risarcitoria di danno di competenza del giudice ordinario e l’ordinanza 
ministeriale di ingiunzione a contenuto risarcitorio di competenza del 
Ministero dell’Ambiente; e) per l’individuazione di nuovi parametri di 
riferimento per le misure risarcitorie sia in sede giurisdizionale che in sede 
amministrativa. 

La ragione della specialità della suddetta disciplina dipende dalla 
particolarità della materia. L’ambiente in senso giuridico costituisce infatti 
un insieme che, pur comprendendo vari beni e valori, quali la flora, la 
fauna, il suolo, le acque, si distingue ontologicamente da questi e si 
identifica in una realtà, priva di consistenza materiale, ma espressiva di un 

autonomo valore collettivo costituente, come tale, specifico oggetto di 
tutela da parte dell’ordinamento. Per danno ambientale deve quindi 
ritenersi il danno procurato alla sola generalità indistinta dei consociati, e 
non anche il danno che l’individuo, sia esso pubblico o privato, singolo o 
ente collettivo, può subire nella propria sfera personale o patrimoniale in 
conseguenza del danno ambientale medesimo. L’azione di danno a tutela 
dell’ambiente differisce quindi dalle azioni ordinarie previste 
dall’ordinamento per la tutela della persona o del patrimonio. 

La ragione della suddetta distinzione si traduce nella necessità, sul piano 
sostanziale, di qualificare l’esatta natura della situazione giuridica 
soggettiva che si intende azionare e sul piano processuale di individuare 
l’azione esperibile nel caso di specie. 

Tale natura bipartita della tutela, sostanziale e processuale trova conferma 
nei trattati internazionali che disciplinano la responsabilità civile; nella 
direttiva comunitaria 2004/35/CE; e infine nel codice dell’ambiente, il 
quale accanto all’azione statale di danno ambientale ha previsto due 
distinte forme di tutela in favore dei soggetti lesi nelle proprie situazioni 
giuridiche soggettive: l’una dinanzi al giudice ordinario e l’altra nei 
confronti del giudice amministrativo. 

Il D.lgs. n.152 del 2006 ripartisce la giurisdizione in materia di danno 
ambientale tra il giudice ordinario, il giudice amministrativo e il giudice 
contabile. Il giudice ordinario, inoltre, secondo la tradizionale ripartizione 
di funzioni ha altresì la cognizione sulle controversie aventi ad oggetto i 
diritti soggettivi dei singoli, che si assumono lesi a seguito di un danno 
ambientale. Pertanto può affermarsi la giurisdizione del giudice ordinario 
sia per la tutela del diritto soggettivo all’ambiente secondo la disciplina 

speciale, sia per la tutela dei diritti soggettivi dei singoli secondo le regole 
ordinarie in punto di riparto della giurisdizione. 

Per quanto invece riguarda il giudizio amministrativo, l’organo competente 
per territorio è titolare degli interessi a ricorrere avverso le ordinanze 
ministeriali, il ricorso amministrativo in opposizione nonché il ricorso 
straordinario al Presidente della Repubblica. 

L’articolo che completa la serie delle disposizioni di cui si è elencato il 
contenuto, è il 310 del D.lgs. 152 del 2006, il quale riconosce l’azionabilità 
della pretesa per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo 
nell’attivazione, da parte del ministro, delle misure di precauzione, di 
prevenzione o di contenimento del danno ambientale, sempre avanti al 
giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, anche per quanto 
riguarda Regioni, province autonome, enti locali, anche associati, persone 
fisiche e giuridiche. 

Infine la disposizione contenuta nell’art. 313, comma 6 prevede la 
giurisdizione contabile nel caso di danno provocato da soggetti sottoposti 
alla giurisdizione della Corte dei Conti. La lettera della disposizione è la 
seguente: “Il Ministro invia rapporto all’Ufficio di procura regionale presso 
la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti competente per territorio.” 

Per continuare il discorso occorre interrogarsi sul danno all’ambiente 
nell’ottica dei principi generali del processo civile, secondo cui il rapporto 
processuale deve essere costituito fra soggetti che sono legittimati ad agire 
e a contraddire e ciò perché la legittimazione ad agire e a resistere in 
giudizio dipende dalla titolarità delle posizioni giuridiche soggettive 
dedotte nel processo medesimo. Nell’ambito di questo settore del diritto la 
prima fondamentale norma, in materia è contenuta nell’art. 18 della l. 

349/1986, che anziché agli enti locali attribuiva allo Stato la competenza in 
merito all’azione risarcitoria sia in materia civile o penale. Altra legge del 
1999 estendeva tale potere alle organizzazioni ambientaliste a rilevanza 
nazionale in ipotesi di inerzia del comune e della provincia oltre che poteri 
di denuncia dei fatti lesivi di beni ambientali, di intervento nei giudizi civili 
e penali di danno ambientale e di ricorso in sede amministrativa per 
l’annullamento degli atti illegittimi. 

D’altra parte va detto che nei giudizi in materia ambientale legittimato 
attivo all’azione di risarcimento è soltanto il Ministero competente, nella 
fattispecie del Ministero per l’ambiente e il territorio. D’altra parte l’azione 
di danno ambientale ai sensi dell’art. 311 del D.lgs., presenta i caratteri 
dell’illecito Aquiliano. L’accertamento giurisdizionale ha ad oggetto infatti 
la verifica della sussistenza degli elementi costitutivi tipici dell’illecito di 
cui all’art. 2043 c.c., e cioè l’imputazione soggettiva a titolo di dolo o 
colpa; la antigiuridicità del comportamento e l’ingiustizia del danno; il 
nesso di causalità tra il fatto e il danno ingiusto. 

Per quanto attiene ai principi introdotti dalla direttiva 2004/35/CE essa 
disciplina si caratterizza per: a) la necessità di accertare la colpa, che può 
essere sia generica che specifica; b) per l’operatività del principio 
civilistico di cui all’art. 2055 c.c. il quale, in ipotesi di concorso 
nell’illecito, prevede che ciascuno risponda nei limiti della propria 
responsabilità personale; c) per il principio sulla responsabilità 
amministrativa, ad esempio in materia di successione mortis causa; d) per 
l’accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento; per 
l’accertamento della antigiuridicità nel fatto. 

Per passare ad altro, il Testo Unico sull’Ambiente condivide con il sistema 
civilistico alcuni principi fondamentali che possono suddividersi in due 
gruppi: a) il risarcimento in forma specifica; b) il risarcimento monetario. Il 
primo tipo di risarcimento non è solitamente richiesto dal privato che non 
ha interesse ad un risarcimento in forma specifica il quale peraltro non 
sempre è possibile. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento 
avvenga solo per equivalente monetario se la reintegrazione in forma 
specifica risulta eccessivamente onerosa. 

Tali principi si traducono sul piano processuale: a) nella necessità per il 
danneggiato di operare la scelta tra la riduzione in pristino e la condanna 
del convenuto ad una somma di denaro; b) nella doverosità per il giudice di 
verificare la sussistenza della possibilità (giuridica e fattuale) della 
riduzione in pristino nonché nella non eccessiva onerosità della condanna 
per il danneggiante, avuto riguardo al valore del bene da riparare. 

La disciplina di cui agli artt. 311 e 313 d.lgs. n. 152 pone come prioritario 
l’obbligo giuridico a carico dello Stato di domandare il risarcimento in 
forma specifica, e solo quando quest’ultimo sia eccessivamente oneroso per 
il danneggiante, avuto riguardo al valore del bene da riparare, richiedere un 
risarcimento in forma equivalente. Il legislatore in altri termini pur potendo 
disporre il ripristino dello status quo ante con disposizione d’ufficio, 
preferisce ricorrere alla tutela risarcitoria in dipendenza da una ratio legis 
che vede una maggiore sicurezza nel ripristino anziché nella 
monetizzazione di un risarcimento che tuttavia il giudice teme non sia 
sufficiente a coprire l’entità del danno. Quando invece il ripristino e 
l’adozione di misure di riparazione complementare o compensativa 
risultino in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai 
sensi dell’art. 2058 c.c., o comunque attuati in modo incompleto o difforme 

rispetto a quelli prescritti, il danneggiante è obbligato in via sostitutiva al 
risarcimento per equivalente in favore dello Stato. 

La liquidazione giudiziale del danno deve comprendere il pregiudizio 
arrecato all’ambiente e il costo necessario per il suo ripristino e va operata 
conformemente ai criteri enunciati nella direttiva 2004/35/CE. La 
applicazione retroattiva di norme di diritto sostanziale aventi ad oggetto i 
criteri di determinazione dell’obbligazione risarcitoria, incontra tuttavia sul 
piano processuale, due limitazioni: la prima, che riguarda giudizi ormai 
definiti con sentenza passata in giudicato; la seconda che riguarda le ipotesi 
in cui il Ministro dell’Ambiente abbia adottato l’ordinanza ingiuntiva a 
contenuto risarcitorio di cui all’art. 313 non potendo, il ministro stesso 
proporre o procedere ulteriormente nel giudizio per il risarcimento del 
danno ambientale, salva la possibilità di intervenire come persona offesa 
dal reato nel giudizio penale. 

Nonostante la previsione dei suddetti criteri tuttavia, la liquidazione del 
danno può risultare in concreto non facilmente calcolabile in termini 
aritmetici, anche per la complessità dell’assetto del territorio e la non 
agevole prevedibilità dei danni a medio e lungo termine secondo una 
concezione aritmetico contabile. 

La idoneità lesiva dell’evento infatti va valutata con specifico riferimento 
al valore ambientale come bene della collettività ed indipendentemente 
dalla particolare incidenza verificatasi su una o più delle loro componenti, 
secondo un concetto di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di 
danno patrimoniale, ha altresì riguardo, quanto alle componenti non 
patrimoniali del pregiudizio subito, al danno non patrimoniale. 

In tal caso potrebbe essere d’ausilio il ricorso alle norme e ai principi 
stabiliti nel c.c., agli artt. 122355, 122656, 122757, 272758, 272959, 2056. 

55 Art. 1223. Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve 

comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato 

guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta. 

 

 

56 Art. 1226 (Valutazione equitativa del danno). 

 

 Se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare,liquidato dal giudice 
con valutazione equitativa. 

 

 

57 Art. 1227. Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, 

il risarcimento e' diminuito secondo la gravità della colpa e 

l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non e' dovuto per i danni 
che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza. 

 

 

58 Art. 2727 Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un 
fatto noto per risalire a un atto ignorato. 

59 Art. 2729 1. Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del 
giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. 2. Le 
presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per 
testimoni. 

 

Con l’entrata in vigore dell’art. 2 del d.l. 208/2008 è stata prevista la 
possibilità di attuare una procedura alternativa stragiudiziale per il ristoro 
dei danni ambientali, cioè la c.d. “transazione globale”. Si tratta di un 
contratto con cui il Ministro dell’ambiente e i responsabili del danno 
ambientale dall’altra prevengono o risolvono una lite sorta o che può 
sorgere tra di loro attraverso reciproche concessioni. 

Rispetto al contratto civilistico tradizionale tuttavia, la transazione globale 
presenta degli elementi di specialità che incidono significativamente sul 
piano sostanziale e processuale comportando: 

l’esclusiva titolarità del potere di disporre del bene ambientale in capo al 
Ministero dell’Ambiente; 

la preclusione di ogni ulteriore azione di risarcimento del danno 
limitatamente ai fatti oggetto di definizione transattiva, e la cessazione 
della materia del contendere (rectius, il difetto di interesse ad agire) ove 
nelle more sia stata esercitata l’azione civile anche in sede penale; 

l’impugnazione stragiudiziale del contratto di transazione secondo le norme 
dettate in tema di risoluzione del contratto per inadempimento, con la 
particolarità che l’adempimento può essere anche parziale; 

la irretroattività della eventuale pronuncia di risoluzione, di tal che, in 
deroga all’art. 1458 c.c. le somme eventualmente non corrisposte dal 
responsabile in adempimento dell’accordo transattivo, non possono essere 
oggetto di una pronuncia restitutoria ma sono trattenute dal Ministero a 
titolo di acconto sulle maggiori somme dovute; 

la rilevabilità d’ufficio della nullità della transazione per mancanza della 
forma scritta, essendo la stessa richiesta ad substantiam a prescindere, in 
deroga all’art. 1967 c.c. dal suo oggetto. 

Il Legislatore del 2006 ha introdotto agli artt. 312 e seguenti del d.lgs. 
n.152 un rimedio di natura amministrativa di cui può giovarsi lo Stato in 
luogo dell’esercizio della azione civile di danno per conseguire il 
medesimo risultato, ovvero il risarcimento in forma specifica o per 
equivalente monetario del danno all’ambiente attraverso l’adozione del 
Ministro dell’ambiente di una cosiddetta “ordinanza/ingiunzione”. 

L’adozione dell’ordinanza ingiuntiva è soggetta a un termine di decadenza 
di 180 giorni decorrenti dalla comunicazione dell’avvio dell’istruttoria, 

ovvero nel massimo di due anni dalla notizia del fatto, salvo quando sia in 
corso il ripristino ambientale a cura e spese del trasgressore. In tal caso i 
termini decorrono dalla sospensione ingiustificata dei lavori di ripristino 
oppure della loro conclusione in caso di incompleta riparazione del danno. 

L’esercizio dell’azione di danno è invece soggetta a un più lungo termine 
prescrizionale, di cui all’art. 2947 c.c. e quindi il diritto al risarcimento del 
danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal momento in 
cui il fatto si è verificato. In ogni caso se il fatto è considerato dalla legge 
come reato, e se il reato prevede una prescrizione più lunga questa si 
applica anche alla azione civile. Tuttavia se il reato è estinto per causa 
diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio 
penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nel termine 
quinquennale, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data 
in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. 

Pertanto sulla base di tale differente regime processuale dei termini, è 
ipotizzabile che decorso il termine di decadenza di due anni per l’adozione 
dell’ordinanza ingiuntiva, questa venga adottata nelle more dell’esercizio 
dell’azione giurisprudenziale. Quest’ultima fattispecie è disciplinata 
dall’art. 315 d.lgs. n. 152, quale stabilisce che, ove l’ordinanza/ingiunzione 
sia stata già emessa, lo Stato non possa più esercitare l’azione di danno. 
Laddove invece l’ordinanza ingiunzione sia stata adottata nelle more del 
giudizio civile, o penale con costituzione di parte civile, l’eventuale 
giudizio civile non può proseguire mentre nell’eventuale giudizio penale lo 
Stato perde la qualità di parte civile, ma non quella di persona offesa dal 
reato, giacché titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale. 

L’articolo 313 comma 7, d.lgs. n. 156/2006, stabilisce in ogni caso una 
clausola di salvaguardia a tutela dei diritti dei soggetti che, singoli o 
associati subiscono un danno nella propria sfera personale o patrimoniale 
con ciò ribadendo la assoluta compatibilità e cumulabilità tra la disciplina 
speciale del danno pubblico ambientale, inteso come lesione dell’interesse 
pubblico generale dell’ambiente, la cui tutela resta in via esclusiva allo 
Stato ai sensi dell’art. 311 e la azionabilità dei diritti soggettivi secondo le 
norme ordinarie. La norma citata, infatti, dispone che resta fermo in ogni 
caso il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno 
ambientale, nella loro salute e nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio 
nei confronti del responsabile a tutela del diritto e degli interessi lesi. 

La dottrina e la giurisprudenza hanno individuato due tipi di azione 
esperibili, l’una tipica, posta a tutela della proprietà fondiaria (art. 844 c.c.) 
l’altra di natura tipica e generale (art. 2043 c.c.), esercitabile anche in via 
d’urgenza ex art. 700 c.p.c.60 Soprattutto quest’ultima azione, proprio per la 
sua atipicità ha consentito a dottrina e giurisprudenza, civile e penale, di 
elaborare diverse categorie di danno risarcibile, sia patrimoniale che non 
patrimoniale, sia a tutela delle persone fisiche che a tutela delle persone 
giuridiche, potendo anche queste ultime essere lese in entrambe le sfere 
giuridiche. 

60 Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi 
ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo 
diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e 
irreparabile , può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza, che 
appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti 
della decisione sul merito. 

 

Coerentemente con tali presupposti, lo stato concede alle organizzazioni 
ambientaliste il diritto alle tutele previste per le persone fisiche e 

giuridiche, e quindi anche quella di costituirsi in giudizio. La disciplina 
speciale posta dal Codice dell’Ambiente, non deroga ai criteri ordinari della 
legittimazione e della titolarità dell’azione e non impedisce l’applicabilità 
delle regole generali in tema di risarcimento del danno da reato e di 
costituzione di parte civile ove l’associazione ambientalista, al pari di 
qualsivoglia persona fisica o giuridica, assuma di essere stata lesa in un 
diritto/interesse iure proprio. 

Molti dubbi desta invece l’applicabilità dell’istituto della class action alle 
ipotesi di danno subìto da più soggetti e finanche da intere collettività in 
conseguenza dell’acquisto di prodotti difettosi o di pratiche commerciali 
scorrette. In tal caso si potrebbe ipotizzare una risposta positiva al 
problema sulla scorta della considerazione per cui il diritto alla salute ed 
alla salubrità ambientale rientrano appieno nel novero dei diritti dei 
consumatori, i quali hanno sicuramente interesse che il prodotto acquistato 
non leda la intangibilità della propria sfera personale e patrimoniale. 
Pertanto, se in tali casi è comunque ammessa l’azione individuale a tutela 
della salute e del patrimonio, non vi sarebbero particolari ostacoli a 
riconoscere tale possibilità a più soggetti o comitati o associazioni, nelle 
forme di azione di classe disciplinata dagli articoli 139 e 140 d.lgs. n. 206 
la cui legittimazione spetta non ai rappresentanti di una classe ma alle 
associazioni a tutela dei consumatori. 

Problemi interpretativi maggiori si porrebbero invece, nel caso di disastri 
ambientali provocati da attività di impresa estranee ad un rapporto di 
acquisto o di consumo, giacché manca nel codice dell’ambiente uno 
strumento processuale analogo a quello previsto dall’art. 140 bis del 
decreto legislativo 206/2005. 

Tale azione, secondo la dottrina dominante, andrebbe infatti limitata allo 
specifico campo di applicazione dei diritti contrattuali dei consumatori lesi 
da prodotti difettosi, da pratiche commerciali scorrette e da pratiche 
anticoncorrenziali in vista della condanna al risarcimento del danno e/o alle 
restituzioni senza potere estendere l’applicabilità dell’istituto, in via 
analogica, al diritto ambientale, inteso come diritto alla salute ma anche 
come interesse collettivo alla tutela dei beni ambientali. 

Il diritto alla salute, tutelato dall’art. 32 della Costituzione appartiene al 
novero dei diritti fondamentali degli individui. Trattandosi di un diritto 
assoluto ed indisponibile, esso non può soffrire limitazioni per effetto di 
atti di disposizione né può essere oggetto di affievolimento o compressione 
da parte della Pubblica amministrazione per effetto dell’esercizio di un suo 
potere. La tutela del diritto alla salute apprestata dall’ordinamento si 
configura dunque, piena e completa: piena perché ogni lesione del diritto 
alla salute o alla salubrità ambientale deve essere interamente risarcita, 
completa perché l’azione ex art. 2043 c.c. è esperibile sia in via ordinaria 
che in via cautelare e urgente. 

La giurisprudenza individua il fondamento della tutela risarcitoria del 
danno alla salute da inquinamento ambientale nell’art. 2059 c.c. a norma 
del quale il danno non patrimoniale “deve essere risarcito solo nei casi 
previsti dalla legge.” 

La norma in parola ex articolo 18961 c.p. è ritenuta ormai pacificamente 
applicabile a tutti i casi di lesioni di diritti assoluti, indisponibili o di 

61 o Stato ha ipoteca legale [c.c. 2808 3, 2817] sui beni dell'imputato a garanzia del 
pagamento: 

1. 1) delle pene pecuniarie e di ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato; 
2. 2) delle spese del procedimento; 


3. 3) delle spese relative al mantenimento del condannato negli stabilimenti di pena 
[188]; 
4. 4) delle spese sostenute da un pubblico istituto sanitario, a titolo di cura e di 
alimenti per la persona offesa, durante l'infermità; 
5. 5) delle somme dovute a titolo di risarcimento del danno [185], comprese le 
spese processuali; 
6. 6) delle spese anticipate dal difensore e delle somme a lui dovute a titolo di 
onorario]. 


L'ipoteca legale non pregiudica il diritto degli interessati a iscrivere ipoteca 
giudiziale [c.c. 2818-2820], dopo la sentenza di condanna, anche se non divenuta 
irrevocabile [c.p.p. 648]. 

Se vi è fondata ragione di temere che manchino o si disperdano le garanzie delle 
obbligazioni per le quali è ammessa l'ipoteca legale, può essere ordinato il sequestro dei 
beni mobili dell'imputato [c.p.p. 317, 320]. 

Gli effetti dell'ipoteca o del sequestro cessano con la sentenza irrevocabile di 
proscioglimento [c.p.p. 648, 650]. 

Se l'imputato offre cauzione, può non farsi luogo alla iscrizione della ipoteca legale 
o al sequestro. 

Per effetto del sequestro i crediti indicati in questo articolo si 
considerano privilegiati [c.c. 2745] rispetto ad ogni altro credito non privilegiato di data 
anteriore e ai crediti sorti posteriormente, salvi, in ogni caso, i privilegi stabiliti a 
garanzia del pagamento di tributi [c.c. 2752, 2758, 2759, 2771, 2772]. 

 

rilevanza costituzionale in forza di una interpretazione costituzionalmente 
orientata e tesa a ricomprendere, nell’astratta previsione della norma, ogni 
danno di natura non patrimoniale derivante da lesioni di valori inerenti alla 
persona e ciò anche se manchi del tutto il danno patrimoniale, perché ogni 
diritto, anche non patrimoniale, ai sensi del’art. 2043 c.c. è suscettibile di 
valutazione economica e laddove leso deve essere integralmente risarcito 
sia “iure proprio” che “iure hereditatis”. 

A tal proposito esiste una cospicua giurisprudenza orientata nel senso della 
norma di cui all’art. 2059 c.c. Ed esiste, a livello giurisprudenziale, anche il 
concetto di “integralità” del risarcimento del danno, delineato in più 
sentenze della Corte di Cassazione, per la precisione le n. 26972, 26973, 
26974, e 2975 del 2008, con le quali si è passati da un complesso di 

declinazioni del termine danno ad un bipolarismo che si fonda sulla diade 
“danno patrimoniale/danno non patrimoniale”, ove tuttavia il danno 
biologico, quello morale e quello esistenziale possono trovare ancora 
qualche utilità sul piano descrittivo, ma non già sul piano liquidatorio, il 
quale è sempre non suscettibile di duplicazione risarcitoria, sulla base della 
diade suddetta. 

Per concludere questo capitolo occorre far riferimento alle azioni a tutela 
della proprietà ex art. 844. La norma, introdotta per la prima volta con il 
codice civile del 1942, nasce per disciplinare la proprietà fondiaria e 
regolamentare i rapporti tra fondi limitrofi. La disciplina che essa contiene 
è in parte sostanziale e in parte processuale. Il particolare oggetto della 
disposizione ha indotto parte della dottrina e della giurisprudenza a 
ipotizzare la attinenza della norma alla materia del diritto ambientale, al 
fine di regolarizzare o inibire le prosecuzioni di immissioni intollerabili ai 
danni dell’ambiente naturale. Tale possibilità è stata però censurata in via 
interpretativa dalla Corte di Cassazione. 

La azione ha una natura essenzialmente reale in quanto è posta a tutela del 
diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento sul fondo limitrofo. 
Essa può avere carattere inibitorio (cioè proibitivo delle immissioni 
inquinanti) oppure negatorio come nel caso delle servitù in cui occorra 
stabilire il titolare del passaggio o della sopraelevazione. L’azione può 
essere anche di natura personale in dipendenza della causa petendi cioè 
della ragione dell’instaurazione di un giudizio civile, ovvero in dipendenza 
del petitum, cioè il bene concreto che è oggetto del processo. Tuttavia il 
diritto alla salute non può mai essere sacrificato e deve essere sempre 
anteposto alle altre istanze processuali civili. 

La legittimazione ad agire spetta al titolare del diritto di proprietà o di altro 
diritto reale o personale di godimento sul bene. Pertanto oltre al 
proprietario sono legittimati attivi il titolare di un diritto reale minore di 
godimento e il titolare di un diritto personale di godimento. 

Detto tutto ciò e per concludere la presente parte dello scritto va detto che 
l’accertamento del superamento della normale tollerabilità ha natura 
tecnica e deve essere necessariamente compiuto tramite apposita 
consulenza, non potendo formare oggetto di prova testimoniale. L’estrema 
generalità della dizione “uso normale del fondo” e di “normale tollerabilità 
delle emissioni” tuttavia rendono estremamente discrezionale la 
valutazione degli interessi da parte del giudice. 

Il comma 2 dell’art. 844 c.c. inoltre attribuisce al giudice il potere di 
contemperare tra esigenze della produzione e dell’industria perché 
considerate attività di interesse generale in confronto al diritto di proprietà. 
Di creazione giurisprudenziale è l’istituto dell’indennizzo da attività lecita 
ovvero anche quello dell’equo ristoro dovuto per la sopportazione delle 
immissioni giudicate tollerabili. 

Il processo civile è ispirato al principio dispositivo cosicché il giudice 
dispone secundum alligata et probata partium. 

Il regime probatorio è tuttavia diverso a seconda dell’esito del giudizio 
sulla tollerabilità o meno della immissione. Nel primo caso il pregiudizio è 
in re ipsa per il solo fatto della sopportazione delle immissioni e viene 
ristorato con la condanna al risarcimento. L’entità dell’indennizzo è 
soggetta al principio del prudente apprezzamento del giudice, il quale 
richiede a tal fine una serie di elementi come il valore del bene, la sua 
produttività, od anche un incremento di valore. 

Nel secondo caso invece trattandosi di pregiudizio da attività illecita trova 
applicazione anche il disposto dell’art. 2043 c.c.. Il soggetto danneggiato 
dovrà allegare e provare i fatti costitutivi dell’antigiuridicità della condotta, 
dell’ingiustizia del danno e del nesso di causalità tra il fatto e l’evento. La 
prova del pregiudizio subito può essere fornita con qualunque mezzo, 
anche attraverso il ricorso alle presunzioni semplici. Ciò è di fondamentale 
importanza ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, il quale può 
essere accertato, ferma restando l’unitarietà della liquidazione, sotto le 
categorie descrittive del danno esistenziale, morale e biologico. 

XIX. Fondamenti di Diritto processuale penale in materia ambientale 


Il presupposto della attività investigativa nel procedimento per le indagini 
preliminari è rappresentato dalla notizia di reato o “notitia criminis”, 
definita anche come l’informazione percepita dal p.m. o dagli organi della 
polizia giudiziaria, ad essi quindi destinata, relativa a un fatto costituente 
reato o meglio ad un fatto che presentandone l’apparenza, giustifichi il 
sospetto di reato. Deve trattarsi quindi di un fatto specifico con profili di 
concretezza tali da integrare gli elementi essenziali del reato, la cui 
qualificazione giuridica può, tuttavia, essere incerta: non è quindi 
necessario che la notizia di reato abbia ad oggetto un reato nella 
completezza dei propri elementi costitutivi: è compito del magistrato 
individuare il livello legale cui corrisponde il fatto oggetto della notizia. 

Il Pubblico Ministero è il naturale recettore della notizia di reato, l’organo 
cui spetta il potere/dovere di chiedere, di accertare se il “sospetto” possa 
divenire probabilità, per dare concretezza e contenuto alla domanda da 
formulare al giudice. 

Qualora la notizia pervenga ad autorità diversa dal pubblico ministero essa 
provvederà a trasmetterla al pubblico ministero nelle forme previste. L’art. 
330 c.p.p.62 affianca al p.m. la polizia giudiziaria nel prendere notizia di 
reati di propria iniziativa e nel ricevere le notizie di reato presentate o 
trasmesse a norma del codice di rito. 

62 Il pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria 
iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate o trasmesse a norma degli articoli 
seguenti. 

 

63 1. Salvo quanto stabilito dall'articolo 347, i pubblici ufficiali [357 c.p.] e 
gli incaricati di un pubblico servizio [358 c.p.] che, nell'esercizio o a causa delle loro 
funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono 
farne denuncia per iscritto, anche quando non sia individuata la persona alla quale il 
reato è attribuito. 

2. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un 
ufficiale di polizia giudiziaria. 

3. Quando più persone sono obbligate alla denuncia per il medesimo fatto, esse 
possono anche redigere e sottoscrivere un unico atto. 

4. Se, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, emerge un fatto nel 
quale si può configurare un reato perseguibile di ufficio, l'autorità che procede redige e 
trasmette senza ritardo la denuncia al pubblico ministero. 

Notizia di reato ed instaurazione del procedimento per le indagini 
preliminari sono elementi inscindibili e la prima è all’origine esclusiva 
dell’insieme di atti che “in giuridica coordinazione sono indirizzati verso la 
realizzazione di un determinato atto di carattere conclusivo: la 
formulazione di una richiesta del P.M. al giudice. 

La duplice modalità di accesso alla conoscenza della notizia di reato ha 
permesso alla dottrina di riproporre la distinzione tra notizia di reato 
“qualificata” o tipica e notizia di reato non qualificata o atipica. Nella 
prima categoria rientrano le notizie di reato rilevate dal P.M. o dalla P.G. 
ai sensi dell’art. 331 c.p.p.63. Tra le notizie non qualificate rientrano quelle 
percepite “di propria iniziativa” dagli organi dell’investigazione. 

 

Dottrina autorevole nel sostenere la distinzione, ha rilevato come abbia 
riflessi pratici al momento dell’iscrizione della notizia in quanto “le notizie 
qualificate sono naturalmente destinate al registro, le non qualificate vi 
finiscono solo se appaiono meritevoli di attenzione al P.M., che 
diversamente le ignora.” 

L’acquisizione della notitia criminis può avvenire anche nell’ambito di 
operazioni di natura amministrativa, ispettive o di vigilanza qualora 
l’attività conduca all’accertamento di fatto avente rilievo penale essendo 
emersi indizi di reato. In proposito la Suprema Corte sembra confermare il 
potere di iniziativa dell’organo di polizia che, entrato nel fondo privato 
altrui abbia poi proceduto ad una ispezione o perquisizione di propria 
iniziativa e al fuori dei limiti segnati dall’art. 352 c.p.p. sulla base di una 
mera situazione soggettiva, senza la preesistenza di una precisa notitia 
criminis e quindi non fondata sulla ricerca di prove di un reato commesso 
ma della stessa notizia di esso. La Cassazione si è espressa in tal senso 
nella sent. 43314 del 29/11/2005 confermando la legittimità della 
perquisizione e del sequestro penale in area ove agenti di polizia locale 
intervenuti su un fondo di proprietà privato rilevano la sussistenza di 
attività o residui di tali attività, che possono configurare un danno 
all’ambiente. 

L’art. 333 c.p.p. contiene al comma 3 una sintetica disciplina delle denunce 
anonime, vietandone qualsiasi uso, processuale o probatorio, salvo quanto 
previsto dall’art. 240 c.p.p.. La denuncia anonima non può avere carattere 
di notitia criminis. Peraltro la denuncia anonima rimane negli archivi per 
un quinquennio e poi viene distrutta. Sui risultati dell’indagine 
pre/processuale, il P.M. disporrà l’archiviazione qualora non sia emersa 

alcuna notizia di reato. Su tali profili la Corte di Cassazione si è da tempo 
attestata nel senso che gli elementi che tali denunce prospettano possono 
stimolare l’attività di indagine nella fase processuale volta ad espletare 
quell’iniziativa di acquisizione della notitia criminis e di preliminare 
verifica conoscitiva di elementi a tal fine utili. 

Per quanto riguarda in senso stretto la tutela normativa dell’ambiente 
idonea ad attivare un processo penale il codice non contiene un’espressa ed 
organica disciplina del c.d. sopralluogo giudiziale, con riferimento 
all’attività del P.M. o della P.G. Il sopralluogo può essere definito come “il 
complesso delle attività urgenti, tipizzate o meno, che l’organo della 
pubblica accusa svolge personalmente o fa compiere su direttiva o delega 
della polizia giudiziaria, che in presenza di reati, il P.M. incarica la P.G. 
delle indagini sul posto e di regola, nell’immediatezza del fatto o poco 
dopo il suo verificarsi.” 

Attività, quelle delle Pubblica amministrazione, che rientrano tra le cc.dd. 
“investigazioni dirette”, che si svolgono immediatamente su situazioni o 
cose che possono essere costituite da atti di indagine tipici (es. il sequestro) 
o generici (ad esempio rilievi segnaletici descrittivi o fotografici). 

Tutte le asserzioni precedenti valgono anche per quanto riguarda i reati 
ambientali. Un corretto modulo di intervento può peraltro indicare 
l’assoluta necessità di disporre, anzitutto la protezione e il controllo della 
scena del delitto ricorrendo a varie modalità operative quali: 
individuazione, isolamento, delimitazioni della zona utile, autorizzazione 
all’accesso del personale indispensabile, da identificare, annotazione di 
eventuali attività, già svolte dalla P.G. o di eventuali modificazioni dei 

luoghi prima dell’arrivo del P.M., identificazione di eventuali testimoni o 
indiziati assicurandone l’”isolamento” per le attività successive. 

Va sottolineata l’indispensabilità del ricorso all’ispezione giudiziale nei 
luoghi interessati da inquinamento dell’aria, ad esempio quelli in cui si 
trova a svolgere la propria attività un complesso industriale in prossimità di 
una zona protetta a livello di potenziale condizionamento della salubrità 
dell’ambiente. In questi casi le autorità si avvalgono di strumenti come 
l’ispezione che è atto tipico. La previsione di attività di P.G. consistenti in 
accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose richiama proprio 
l’istituto dell’ispezione. In tale attività è fatto obbligo non solo di 
documentare l’attività espletata ma anche di raccogliere tutto ciò, i cc.dd. 
“reperti”, che abbia attinenza alla prova del reato e dell’individuazione del 
colpevole. 

Per quanto ulteriormente riguarda l’attività di Polizia Giudiziaria, a norma 
dell’art. 354 c.p.p. è legittimata a compiere una serie di attività tipiche o 
atipiche: può effettuare gli accertamenti urgenti sui luoghi, provvedere al 
sequestro di urgenza onde assicurare che le tracce concernenti il reato siano 
conservate e che la situazione non sia mutata prima che il P.M. intervenga 
o assuma la direzione delle indagini. Ai sensi dell’art. 348 c.p.p. la polizia 
può farsi assistere da persone dotate di determinate competenze, il cui 
parere tuttavia non è vincolante il giudizio dell’organo decidente. 

Per quanto riguarda i verbali della polizia giudiziaria, i verbali degli atti 
irripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero o dai 
difensori delle parti private sono direttamente inseriti nel fascicolo per il 

184 
dibattimento e quindi il loro contenuto è utilizzabile nel relativo giudizio 
dopo averne dato lettura a norma dell’art. 431 c.p.p.64 e 511 c.p.p.65 
64 1. Immediatamente dopo l'emissione del decreto che dispone il giudizio, il 
giudice provvede nel contraddittorio delle parti alla formazione del fascicolo per il 
dibattimento. Se una delle parti ne fa richiesta il giudice fissa una nuova udienza, non 
oltre il termine di quindici giorni, per la formazione del fascicolo. Nel fascicolo per il 
dibattimento sono raccolti: 
1. a) gli atti relativi alla procedibilità dell'azione penale e all'esercizio dell'azione 
civile; 
2. b) i verbali degli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria; 
3. c) i verbali degli atti non ripetibili compiuti dal pubblico ministero e dal 
difensore; 
4. d) i documenti acquisiti all'estero mediante rogatoria internazionale e i verbali 
degli atti non ripetibili assunti con le stesse modalità; 
5. e) i verbali degli atti assunti nell'incidente probatorio; 
6. f) i verbali degli atti, diversi da quelli previsti dalla lettera d), assunti all'estero a 
seguito di rogatoria internazionale ai quali i difensori sono stati posti in grado di 
assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana; 
7. g) il certificato generale del casellario giudiziario e gli altri documenti indicati 
nell'articolo 236, nonché, quando si procede nei confronti di un apolide, di una persona 
della quale è ignota la cittadinanza, di un cittadino di uno Stato non appartenente 
all'Unione europea ovvero di un cittadino di uno Stato membro dell'Unione europea 
privo del codice fiscale o che è attualmente, o è stato in passato, titolare anche della 
cittadinanza di uno Stato non appartenente all'Unione europea, una copia del cartellino 
foto dattilo scopico con indicazione del codice univoco identificativo; 
8. h) il corpo del reato e le cose pertinenti al reato, qualora non debbano essere 
custoditi altrove(1)(2). 
2. Le parti possono concordare l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti 
contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché della documentazione relativa 
all'attività di investigazione difensiva. 
65 1. Il giudice, anche di ufficio, dispone che sia data lettura, integrale o parziale, 
degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento [431](1). 
2. La lettura di verbali di dichiarazioni è disposta solo dopo l'esame della persona 
che le ha rese, a meno che l'esame non abbia luogo [238, 511 bis](2). 
3. La lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l'esame del perito(3). 
4. La lettura dei verbali delle dichiarazioni orali di querela [336-340] o 
di istanza [341] è consentita ai soli fini dell'accertamento della esistenza 
della condizione di procedibilità [431 lett. a](4). 
5. In luogo della lettura, il giudice, anche di ufficio, può indicare specificamente gli 
atti utilizzabili ai fini della decisione [526]. L'indicazione degli atti equivale alla loro 
lettura. Il giudice dispone tuttavia la lettura, integrale o parziale, quando si tratta di 
185 
Tutto ciò posto, l’ipotesi di accertamento urgente in tema di reati 
ambientali non sembra potere dar luogo a problematiche particolari. Ove 
infatti la polizia giudiziaria effettui un sopralluogo e ne derivi motivo di 
esistenza di un danno ambientale, avrà solo l’obbligo di avvisare 
l’indagato, se presente, dei suoi diritti, ai sensi dell’art.114, Disp. Att. 
c.p.p. 
Una disciplina affatto peculiare, avente diretta e specifica attinenza con la 
materia ambientale è quella predisposta all’art. 101 del T.U.A. il quale 
prevede infatti, al comma tre, che tutti gli scarichi ad eccezione di quelli 
domestici e di quelli ad essi assimilati, devono essere resi accessibili per il 
campionamento da parte dell’autorità competente per il controllo nel punto 
assunto a riferimento per il campionamento, con facoltà dell’autorità di 
effettuare tutte le ispezioni che ritenga necessarie. 
Per quanto riguarda, tra tali disposizioni, il ricorso all’analisi biochimica 
dei campioni va detto, sulla base di una consolidata giurisprudenza che 
l’”accertamento” della pericolosità di un rifiuto non richieda 
necessariamente il ricorso ad abilità tecniche, quale il prelevamento di 
campioni e l’analisi degli stessi potendo il giudice accertarne la natura sulla 
base di elementi probatori diversi, purché possa fornire al riguardo una 
motivazione congrua, giuridicamente corretta e logica. 
Per quanto riguarda il sequestro probatorio esso è disciplinato nel codice di 
procedura penale negli artt. 253/265. Il sequestro in parola si caratterizza 
verbali di dichiarazioni e una parte ne fa richiesta [238]. come un atto di coercizione reale destinato “ad assoggettare determinate
cose a un vincolo di indisponibilità, mediante lo spossessamento di chi è
legittimato a farle circolare con effetti giuridici.” Coloro i quali sono
responsabili dell’adozione della suddetta misura sono i membri della
polizia giudiziaria. La finalità del sequestro è quella di mezzo di ricerca
della prova senza che occorra una preventiva convalida del giudice.
Per evitare che il ricorso al sequestro giudiziale si dilatasse fino a
comprendere fini diversi da quello probatorio il legislatore ha subito
specificato che la specifica finalità è da individuarsi nell’assicurazione di
eventuali prove che appaiono necessarie per l’accertamento dei fatti (art.
253 comma 1 c.p.p.).
Ciò detto, nell’ambito dell’accertamento dei reati ambientali assume
sicuramente un ruolo fondamentale il ricorso da parte del P.M. al sequestro
a fini probatori del corpo del reato. Peraltro essendo il sequestro in esame
una fonte di ricerca della prova, il P.M. nel suo potere di impulso
dell’azione penale, ben può fare ricorso a tale misura allorché ritenga che
l’apposizione di un vincolo di indisponibilità materiale al bene oggetto
della misura sia necessario, conformemente a quanto statuito in generale
sul punto dalla giurisprudenza di legittimità.
In questa prospettiva, se nessun problema pone l’indicazione degli elementi
da cui possa desumersi come ragionevole e fondata l’ipotesi di reato
ipotizzata (fumus boni iuris) e il collegamento della res al reato, i dubbi
maggiori sorgono in relazione all’esplicazione delle esigenze probatorie
che il P.M. intende perseguire con quel vincolo (ad esempio perché intende
effettuare una consulenza ambientale o degli accertamenti irripetibili) e
fino a che termini debba spingersi il suo obbligo motivazionale.
187
Il sequestro probatorio svolge essenzialmente due funzioni: la prima è
quella di documentare l’esistenza e lo stato della res al momento
dell’apprensione; la seconda è quella di giustificare il vincolo di
indisponibilità della cosa rispetto al contro/interesse del titolare di un diritto
sulla cosa.
Per quanto invece riguarda il sequestro preventivo, esso svolge una ben
diversa funzione data la diversità di natura e di contenuto nel
procedimento penale volto ad accertare la commissione di reati ambientali.
Peraltro proprio i risultati dell’elaborazione giurisprudenziale sul punto,
nell’escludere la necessità, per l’adozione del provvedimento, della
sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e tantomeno, dei gravi indizi di
reato, ritenendo invece sufficiente il meno palpabile requisito della
fondatezza “dell’accusa” intesa come astratta possibilità di sussumere il
fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato, rendono
questo strumento particolarmente efficace per prevenire le possibili
conseguenze criminose collegate alla libera disponibilità delle cose
pertinenti al reato, anche se appartenente ad un terzo.
In altri termini per quanto riguarda il presupposto per potersi far luogo al
sequestro preventivo devono sussistere quali elementi tipici della specifica
misura cautelare, i seguenti: il fumus delicti e il periculum in mora. Quanto
al primo, alla stregua di quanto evidenziato, la giurisprudenza di legittimità
tende a distinguere la misura cautelare appena descritta dalle misure cautelari personali, nettamente differenziando la libertà personale dalla
libera disponibilità di un bene, in ragione della differenza degli interessi
coinvolti, così che la verifica di legittimità del provvedimento applicativo
della misura cautelare non dovrà mai sconfinare nella valutazione in ordine
188
alla fondatezza dell’accusa, ma limitarsi all’astratta possibilità di sussumere
il fatto attribuito in una determinata ipotesi di reato.
La stessa Corte costituzionale è intervenuta a definire i parametri
applicativi minimi ai quali il giudice deve attenersi nel disporre il sequestro preventivo onde evitare specifici contrasti con gli artt. 24 e 97 Cost. In
proposito tre sono i principi enucleati dal giudice delle leggi: a) esistenza
del reato avendo riferimento secondo l’evocato orientamento della
giurisprudenza di legittimità, alla sua astratta configurabilità; b) verifica
dell’integrità dei presupposti che legittimazione all’applicazione della
misura; c) corrispondente obbligo di motivazione.
Riguardo, per quel che qui interessa, le fattispecie ambientali, il Codice
prevede che il sequestro preventivo rappresenta con tutta evidenza lo
strumento attraverso cui impedire che un sito, predisposto per raccogliere
rifiuti, venga a ciò adibito senza il rispetto delle norme previste, e anche se
lo stesso sito appartenga a soggetto diverso da colui che abbia realizzato la
condotta criminosa e anche di natura demaniale dello stesso.
In tema di discarica priva di autorizzazione è stato ritenuto legittimo il
sequestro dell’area adibita a discarica comunale e in cui, in base alla
prospettazione accusatoria, venivano depositati rifiuti diversi da quelli
autorizzati e in quantità superiore a quella autorizzata.
In tema di traffico illecito di rifiuti è stato, sempre nella medesima
prospettiva, ancora ritenuto legittimo il sequestro preventivo di un mezzo di
trasporto di proprietà del terzo estraneo al reato e utilizzato dall’indagato in
virtù di un contratto di nolo.
Si è poi, più in generale affermato che è legittimo il sequestro preventivo
avente ad oggetto una intera azienda ove sussistano indizi che anche taluni
189
soltanto dei beni aziendali sono stati adibiti ad usi contrari alla normativa di
riferimento a tutela dell’ambiente
Ugualmente la Suprema Corte ha ritenuto altresì legittimo il sequestro
preventivo di un insediamento produttivo, qualora quest’ultimo sia
esercitato in violazione di norme di legge penalmente sanzionate e appaia
necessario evitare la prosecuzione dell’attività criminosa e in aggiunta tutelare le disposizioni costituzionali su salute e ambiente. In quest’ultimo
senso è precisato come debba ritenersi senz’altro legittimo il sequestro
della conduttura qualora attraverso la stessa conduttura venga realizzato lo
scarico dei reflui industriali.
In ultima analisi, in relazione alle fattispecie ambientali, dovrà ritenersi
legittima la misura la quale da un lato sia volta a prevenire la commissione
di reati ambientali e sia quando si tratti di reati permanenti, rispetto a cui la
permanenza sia cessata sempre che sia accertata l’esistenza di un pericolo
concreto e attuale che la libera disponibilità del bene determini
conseguenze ulteriori rispetto alla consumazione del reato, che abbiano
connotazione di antigiuridicità, dovendo aversi riferimento al volontario
aggravarsi o protrarsi dell’offesa al bene protetto in stretta connessione con
la condotta penalmente illecita.
Per passare oltre, particolare rilievo deve attribuirsi al sequestro preventivo
finalizzato alla confisca di cui all’art. 321 comma 2 c.p.p. Infatti nel caso in
cui il sequestro sia finalizzato a prevenire le conseguenze illecite di una
attività che potrebbe avere conseguenze negative sull’assetto ambientale,
allora vi è la presenza di specifiche ipotesi di confisca obbligatoria che
elidono ogni problema di valutazione del pericolo correlabile all’uso o al
possesso della res, imponendosi al giudice un provvedimento di sequestro
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preventivo che va a colpire il bene che produce inquinamento tutte le volte
in cui, senza esperire determinati provvedimenti, il bene deve essere
interessato dalla sanzione della confisca. Il Testo Unico in materia
ambientale contiene innanzitutto una serie di ipotesi di confisca, tra cui
l’ipotesi ex art. 256, in cui è stabilito che alla sentenza di condanna o alla
sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 consegue la confisca dell’area sulla
quale è collocata una discarica abusiva. Un ulteriore ipotesi di confisca è stata prevista dall’articolo 259 T.U. in relazione al mezzo di trasporto. In
questo caso la norma stabilisce espressamente come obbligatoria la
confisca nel caso di condanna per il reato di traffico illecito di stupefacenti
oltre i confini nazionali. Va inoltre segnalato come di recente la Suprema
Corte abbia affermato la necessità di confisca obbligatoria del mezzo di
trasporto, non solo nelle ipotesi di trasporto illecito di rifiuti, cioè di
trasporto di rifiuti senza i prescritti documenti o con dati incompleti o
inesatti ovvero con uso di certificato falso ma anche in relazione al reatodi
attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti ove lo stesso reato sia
stato commesso mediante l’impiego di mezzi di trasporto.
Per quanto riguarda la disciplina della costituzione di parte civile nel
processo penale, essa presuppone l’esistenza di un danno quale
conseguenza immediata e diretta del fatto illecito. L’insieme delle regole
che governano la materia trovano fondamento prevalentemente nel disposto
dell’art. 18566 c.p., secondo cui “ogni reato obbliga alle restituzioni a
norma delle leggi civili. Ogni reato che abbia causato un danno
66 Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia
cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il
colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di
lui patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole e la
persona che a norma delle leggi civili debba rispondere per il fatto di lui”.
Ciò posto l’individuazione dei soggetti legittimati a far valere la pretesa
risarcitoria nel procedimento penale relativo a reati che abbiano cagionato
un danno ambientale e alle forme e modalità che scandiscono tale
partecipazione ha dato luogo a molteplici questioni cui sono conseguite
diverse e talvolta opposte soluzioni interpretative.
Al proposito deve innanzitutto osservarsi che, se costituisce aspetto
sufficientemente chiarito dal dettato normativo l’individuazione delle
modalità di intervento del danneggiato da reato nel processo penale,
giacché l’art. 74 c.p. consente al danneggiato di esercitare in sede penale
l’azione civile per il risarcimento dei danni di cui all’art. 185 c.p., le
questioni e le problematiche relative ai soggetti legittimati ad intervenire
nel procedimento penale relativo a reati che abbiano prodotto un danno
ambientale si sono andate peculiarmente sviluppando in seguito all’entrata
in vigore della legge n. 349 del 1946, istitutiva del Ministero dell’ambiente,
e con cui venne dettata la disciplina speciale in materia di danno
ambientale. La nozione giuridica di ambiente era infatti precedentemente
estranea al legislatore costituente, anche se quest’ultimo si adoperò per
ricondurre la problematica ambiente in costituzione agli artt. 9, 32 e 42.
Solo negli anni Sessanta comincia a profilarsi una vera e propria disciplina
dei beni ritenuti “essenziali”.
Sulle predette esigenze di tutela, quelle sancite nella legge n. 349 citata, vi
furono provvedimenti concomitanti che determinarono anche il
riconoscimento di organizzazioni aventi come scopo la tutela paesaggio, e
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in tal senso abilitate a ricorrere in sede amministrativa quando si verifichi,
possibilmente o probabilmente, un’ipotesi di danno ambientale.
Una conferma della nozione di ambiente unitariamente concepita, venne
sancita dalla Consulta nella sentenza n. 641, in cui l’ambiente è definito
come “un bene immateriale posto a disposizione per la propria fruizione di
tutti, e non appartiene in proprietà ad alcuno, poiché a nessuno è dato
appropriarsene”. Inoltre, afferma la Corte “l’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non
persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza
di habitat naturale nel quale l’uomo vive e agisce e che è necessario alla
collettività e con essa ai cittadini, secondo valori largamente sentiti.
Successivamente e dopo alcune sentenze del Giudice delle leggi un primo
passo avanti fu compiuto nel riconoscere la legittimità del risarcimento per
danno ambientale richiesto da queste ultime in ipotesi di danno civile in
sede penale. Alle associazioni ambientaliste qualora radicate sul territorio
ed espressione di interessi determinabili riferibili a una situazione storica
determinata veniva riconosciuta non soltanto la titolarità di un diritto della
personalità inerente al perseguimento delle finalità statutarie, ma anche la
titolarità in quanto ente esponenziale di una determinata collettività, di un
interesse legittimo oltre che un diritto. Il problema della tutela giuridica
delle attribuzioni dei poteri e delle attività delle associazioni non
governative in relazione ai danni all’ambiente ha trovato riconoscimento in
due sentenze della Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili. La prima
sentenza è la numero 500/1999, seconda risale al 2001 ed è la numero 2515.
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Con l’entrata in vigore del nuovo Codice dell’Ambiente si potrebbe
verificare un sostanziale passo indietro. A sciogliere qualsiasi dubbio è
stata una sentenza della Cassazione che dispone in ordine alla legittimità di
eventuali ricorsi da parte delle sunnominate associazioni, che vengono
riconosciute come titolari dell’azione civile, sulla base del già nominato
provvedimento. Il punto del ragionamento è che la tutela ambientale
inerisce ad un effetto che ha una triplice dimensione: a) personale quale del
diritto fondamentale dell’ambiente, appartenente ad ogni soggetto; b)
sociale ex art. 2 Cost.; c) pubblica, quale lesione del diritto/dovere pubblico
delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze.
Tre sono ancora i principi di diritto fissati dalla Suprema Corte in tema di
costituzione di parte civile delle associazioni ambientalistiche. Per inciso
mi pare utile citare, alla fine di questo capitolo, la sentenza della Corte di
Cassazione che ha riconosciuto la diretta applicabilità e risarcibilità del
danno ambientale con la sent. 14828 del 16 aprile 2010.