mercoledì 20 agosto 2025

 BUDDHISMO

Le religioni in Tibet

A dispetto della grande importanza che in Tibet riveste il fenomeno religioso, non esiste nella lingua tibetana alcun termine che corrisponda al nostro vocabolo “religione”, come non esiste quello di “spiritualità” e che quindi possa indicare almeno le due grandi tradizioni religiose che convivono in Tibet: buddhismo e bonismo. I termini tibetani per indicare le due sunnominate tradizioni religiose sono “chos” e “bon” che possono essere tradotti con “dottrina”. I credenti tibetani, per parte loro, si definiscono semplicemente “interni”, ciò che denota l’intenzione di escludere i seguaci di altre dottrine definendo costoro con l’appellativo di “esterni”. La religione autoctona tibetana era formata da un complesso di pratiche e credenze, che incorporava diverse costituenti di matrice sciamanica, insieme ad altre di tipo animista. Ad ogni modo molte domande sulla religione pre/buddhistica sono ancora ad oggi in attesa di una risposta. Sembra tuttavia che la tradizione religiosa prebuddhistica non fosse caratterizzata da un patrimonio di scritture sacre cui fare riferimento, oppure se tali scritture esistevano in tempi remoti, è probabile che siano

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andate completamente perdute ad oggi. Né si conoscono i rapporti tra quel patrimonio religioso e le dottrine parimenti religiose di altre culture centroasiatiche, in particolare quelle sviluppatesi nel mondo iranico antico, con le quali peraltro è possbile scorgere vaghe analogie. Occorre in primo luogo distinguere l’insieme di credenze e pratiche primitive del Tibet, dal “bonismo” propriamente detto: un sentiero di realizzazione spirituale, che compare come sistema religioso organizzato non più tardi dell’XI secolo, momento dal quale è possibile tracciarne la storia senza soluzione di continuità. Pare accertato che, almeno fino al IX secolo il termine “bon po”, derivato dal verbo “bon”, cioè “impetrare, porgere, invocare, salmodiare”, fosse utilizzato per indicare soltanto una delle principali classi sacerdotali del Tibet, specializzata nell’esecuzione di riti sacri che richiedevano la recitazione di formule esoteriche. Ma fu soltanto a seguito dell’incontro col buddhismo che il termine “bon” assunse la stessa formulazione del termine “chos”, utilizzato per designare specificamente il buddhismo.

Possiamo distinguere tre fasi precedenti la comparsa del bonismo vero e proprio. La prima è un insieme di pratiche religiose arcaiche di cui si conosce molto poco ma di cui si può ipotizzare fossero proprie di una tendenza animistica e sciamanica. Venivano inoltre celebrati riti per ingraziarsi gli dèi e per ottenerne i favori sia in vita che nell’al di là. La seconda fase inizia con l’arrivo in Tibet di alcuni sacerdoti “bon po” e “gshen”, particolarmente competenti in elaborati rituali di stile arcaico. Tra le incombenze dei “bon po” e degli “gshen” figuravano anche le arti mantiche, la celebrazione di rituali di giuramento e salmodie e le offerte rituali indirizzate agli dèi ancestrali.

Per quanto riguarda più da vicino la storia mitologica che racconta la discesa dei primi sovrani del Tibet dal regno dei cieli, si narra che la fondazione della prima dinastia sia opera, secondo il mito, di gNya kri bTsan po, personaggio di natura teandrica. Fu egli a smontare i gradini della scala sacra che congiungeva cielo e terra per arrivare sulla cima del monte sacro Yarlha Sham po, dalle cui vallate, poste ai

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piedi del monte, avrebbe preso il nome la dinastia. Vi era all’epoca qualcosa come una fune “iridata” che consentiva ai sovrani morenti di accedere al regno dei cieli. Fu il leggendario ottavo re a non risalire verso le sfere celesti a causa della recisione della fune, da lui stesso eseguita per sbaglio durante un duello nel quale perse la vita. A partire da quel momento i re furono destinati a perire come ogni comune mortale, le loro salme poterono ricevere sepoltura in grandi mausolei tumulari, che diventavano oggetto di culto. Insieme al sovrano venivano tumulati alcuni animali, oggetti preziosi e generi alimentari, venendo egli accompagnato anche da qualche servitore o familiare in quanto l’idea basilare era quella di garantire a ogni defunto una replica della sua vita terrena.

La persona del sovrano si configura come uno dei punti di forza dell’antica religione tibetana. Egli è saggio, retto e giusto. In quanto discendente degli dèi ancestrali, gli sono attribuite le proprietà divine del cielo e quelle naturali della terra ossia dei due piani cosmici di cui il sovrano costituisce il terzo elemento.

La terza delle fasi che portano al bonismo elaborato contempla i contatti storici tra il nucleo di credenze che si era andato evolvendo in seno alla religione antica del Tibet e il Dharma. Questa sarà la matrice del bonismo vero e proprio, la cui formazione apporterà profonde modifiche alle credenze e pratiche arcaiche. Figura centrale del bonismo al pari di Buddha nel buddhismo fu sTon pa gShen rab, ritenuto fondatore del culto.

A partire dall’VIII/IX secolo, una volta affermatosi il buddhismo in Tibet, i bonisti si impegnarono a rendere le proprie scritture in tibetano, poiché erano state dapprima redatte nell’idioma di Zhang zhung. Verso la fine dell’VIII secolo la religione dei “bon po” fu messa al bando. Quale è giunto a noi il bonismo è quindi il risultato di un lungo processo di elaborazione delle antiche credenze e pratiche religiose tibetane avvenuto parallelamente alla filtrazione e reinterpretazione di un numero non indifferente di elementi concettuali e di metodo provenienti dal Dharma. D’altra parte, a misura che attecchiva in Tibet, il buddhismo subiva

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l’influenza della religione locale, della quale adottava diversi ingredienti, ma è altrettanto vero che il buddhismo causò molteplici e più profondi mutamenti in quella primitiva congerie di credenze e pratiche di culto, con l’apporto sia di profonde concezioni filosofiche sia di scupolosa pratica religiosa. Oggi bonisti e buddhisti condividono gran parte delle componenti dei loro sistemi religiosi, sino al punto di poter affermare che il bonismo sia una scuola eterodossa del buddhismo tibetano stesso.

La fondazione del buddhismo tibetano

La storiografia religiosa del Tibet attribuisce al volere di Srong btsan sGampo la definitiva introduzione del buddhismo nel paese. Il contatto iniziale dei tibetani col Dharma sarebbe già avvenuto tuttavia, almeno cinque generazioni prima. Vuole la leggenda che durante il regno di Lha Tho tho ri cadde miracolosamente, dal cielo sul palazzo reale, un “sutra” in cui erano esposte le dieci virtù della dottrina buddhista; oppure secondo altra versione, a cadere dal cielo fu anche un piccolo “stupa”, un sigillo e altri oggetti sacri. Il sunnominato re fu colui che consolidò l’unità tribale portata a buon punto da suo padre, nonché colui che cominciò ad espandere le frontiere del regno, confrontandosi vittoriosamente con i cinesi e i nepalesi e gli abitanti di Zhang Zhung, avviando così il periodo aureo della storia militare del Tibet, che lo avrebbe visto dominatore dell’Asia centrale per oltre 200 anni. Secondo la letteratura locale sarebbe stato Srong btsan il primo re tibetano ad abbracciare il Dharma. Egli avrebbe invitato anche alcuni maestri buddhisti dalla Cina e dal Nepal e avrebbe promosso la traduzione di diversi sutra buddhisti in tibetano. Ma l’importanza che viene attribuita dalla tradizione al monarca nella diffusione del buddhismo in Nepal pare davvero eccessiva, se si pensa che egli mandò un gruppo di giovani della real casa in Cina per studiare alcuni classici del confucianesimo. Se il ruolo di Srong btsan come paladino del Dharma è stato magnificato, la sua attività militare fu però posta in secondo piano. Egli, insieme a due dei suoi successori non fu più visto come detentore del potere politico e militare

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ma come un personaggio di natura sacrale. E’ per questo che i tre sovrani furono insigniti nell’VIII o IX secolo con l’appellativo “re del Dharma”. Nella seconda matà dell’VIII secolo il Tibet aveva raggiunto una posizione internazionale che rendeva necessaria la adozione di una religione di stato in sostituzione di quella autoctona. Inizialmente il monarca tibetano dell’epoca pensò che la diffusione del buddhismo potesse adempiere a tale compito, ma la religione di cui egli si fece promotore non raccolse il seguito sperato. Fu così che il monarca fece venire dal subcontinente indiano un guru che aveva fama di taumaturgo: Padmasambhava, che portò con sé le pratiche del buddhismo iniziatico, che si dimostrarono l’arma adeguata per favorire l’insediamento di quella confessione straniera. Il buddhismo riportò quindi una grande vittoria, ma ciò non implicò l’emarginazione degli aderenti a quella che fino ad allora era la principale religione del luogo. Tuttavia i fedeli di quest’ultima non si diedero per vinti e lottarono aspramente a favore del loro credo, tanto da scatenare una sorta di faida interna nella quale ebbe la meglio la fazione buddhista, cosicché molti ex aderenti alla religione pre/buddhica si convertirono, altri furono costretti dalle circostanze ad emigrare, portando con sé i testi sacri che dovevano essere riportati alla luce a partire dal X secolo. E’ del 791 d.C. un decreto regale che proclama il Dharma unica religione ufficiale in Tibet. Vi erano tuttavia a partire da quell’epoca, alcune non lievi divergenze sull’interpretazione da dare alla religione ufficiale buddhista. Una in particolare era quella che vedeva contrapposte la visione indiana da un lato e quella cinese dall’altro. Per risolvere l’attrito il monarca indisse un concistoro, il quale pose di fronte alcuni qualificati sostenitori di entrambe le posizioni. Fu così che tra il 792 e il 794 si svolse il Concilio del Tibet, che infine vide prevalere la componente indiana su quella cinese, non senza che ciò desse luogo a lotte intestine, dovute anche all’opposizione degli irriducibili tra i seguaci della religione precedente all’affermazione del buddhismo, cioè i seguaci del “bonismo”.

Il pronipote di Srong lde btsan, cioè Khri gTsug lde btsan, assai più noto sotto lo pseudonimo di Ral pa can, “dalla lunga chioma”, ebbe un tale zelo religioso che lo

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portò a prendere i voti monastici e a siglare un trattato di pace con la Cina. Durante il suo regno il lavoro di traduzione degli antichi testi buddhisti proseguì con rinnovato vigore, nonostante il suo inizio risalisse a decenni prima. Il risultato di tutto ciò fu un lessico etimologico di termini buddhisti in sanscrito e in tibetano. L’opera, intitolata “Mahavyutpatti” si pose come indispensabile per tradurre comparativamente i testi buddhisti nelle differenti lingue in cui esso buddhismo era praticato. Ral pa can fu ucciso a causa di una lite con il fratello, quest’ultimo ancora legato ai culti prebuddhici, da un monaco buddhista che gli scagliò una freccia mortale nel corso di una celebrazione religiosa. Con la successione del fratello regicida Glang Darma al defunto Ral pa can si chiuse la prima fase della diffusione del buddhismo in Tibet, che tuttavia dopo qualche secolo, cioè intorno all’anno 1000, assunse una posizione nettamente dominante nella vita religiosa del popolo tibetano.

Per dividere la tradizione antica del buddhismo da quella successiva i tibetani hanno acquisito la consuetudine di distinguere il periodo in cui furono tradotte le opere più importanti del buddhismo iniziatico. I testi tradotti fino alla fine del X secolo furono classificati e definiti posteriormente come le “traduzioni antiche dei mantra segreti”, venendo a costituire il fondamento delle scritture, retaggio dei seguaci dell’Antica Tradizione. Le versioni tibetane dei testi religiosi realizzate successivamente, fanno al contrario parte della Tradizione Nuova del buddhismo locale. Si può segnalare per di più che determinate opere tantriche tradotte prima dell’anno mille furono poi adoperate dagli aderenti alle scuole della Nuova Tradizione e viceversa. Il periodo che comprende il X e l’XI secolo corrisponde alla cosiddetta “fase posteriore” di diffusione della dottrina del Buddha in Tibet e si caratterizza per una forte riattivazione di quella fede. Tale riattivazione o “rinascita” è stata anche interpretata quale espressione di una certa intolleranza nei confronti dell’Antica Tradizione, alla quale venivano mosse una serie di accuse: il lassismo nel fare osservare le regole della vita monastica; la degenerazione morale, derivante dalla intepretazione aberrante di alcuni precetti della dottrina tantrica; la sua natura ereticale,

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conseguenza della contaminazione con la vita arcaica del paese. In conseguenza dell’insegnamento dei lama – soprattutto nell’XI e XII secolo – gli adepti della forma di buddhismo preesistente nel paese finirono per essere definiti “antichi”. Un evento di importanza cruciale, sarebbe risultato l’arrivo dei musulmani nell’India settentrionale a partire dalla fine del XII secolo, arrivo che avrebbe costretto molti religiosi buddhisti a fuggire. Alcuni di loro cercarono rifugio in Tibet, portando con sé buona parte della tarda letteratura del buddhismo, con il conseguente consolidamento delle dottrine della Nuova Tradizione. In totale gli ordini religiosi e le scuole generatisi attorno al buddhismo ammontano in tutto a una trentina tra le passate e le presenti. Queste scuole mostrano una notevole omogeneità. Le poche differenze sono più imputabili a cause storiche che non a questioni dottrinali veramente significative. Il concetto di un linguaggio iniziatico ricollegabile a specifiche pratiche tantriche trasmesse senza soluzione di continuità da maestro a discepolo è comune a tutte le scuole ma è anche un elemento di differenziazione. Quanto agli ordini monastici del buddhismo tibetano, essi seguono tutti la regola religiosa Mulasarvastivadin, la cui trasmissione era stata conservata nel Tibet orientale dalla metà del IX secolo, quando il buddhismo fu sconfessato nelle regioni centrali del paese.

I mezzi dottrinali del buddhismo tibetano

Quella del Dharma tibetano è una dottrina in cui emergono due aspetti della tradizione buddhista dell’India, nella sua forma più tarda: la speculazione metafisica e gli insegnamenti iniziatici. Tutto ciò anche attraverso le influenze di religioni diverse e straniere, come zoroastrismo, sivaismo, taoismo, confucianesimo, manicheismo, nestorianesimo, islam, penetrate nel paese in tempi diversi. Come risultato di questi contatti e frutto delle regolari tradizioni ermeneutiche e delle profonde esplorazioni della psiche e della coscienza umana intraprese dai suoi lama, il Tibet ha dato al buddhismo una sua forma sincretica, in cui predomina la tradizione tantrica; l’enfasi è posta sull’aspetto dinamico dell’esperienza spirituale.

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Il vastissimo corpus di precetti, teorie e pratiche che ne consegue può essere analizzato seguendo due classificazioni. La più elementare è quella che vede il buddhismo suddiviso in due grandi tronchi, in cui sono contenute in nuce tutte le successive ramificazioni: il mezzo dei sutra e quello dei tantra. Accanto a questa troviamo la più comune delle classificazioni, secondo i tre indirizzi del buddhismo più diffusi: Hinayana, Mahayana e Vajrayana. E’ tuttavia la scuola rNying a offrire la più particolareggiata versione di questo trinomio secondo la c.d. “Dottrina dei nove mezzi graduali”.

I mezzi in questione sono così articolati: il “mezzo dei sutra”, o “sentiero della rinuncia”, inteso come soppressione del desiderio di beni terreni onde ottenere la perfezione spirituale; il mezzo dei “bodhisattva”, coloro cioè che antepongono l’altrui illuminazione alla propria, rinunziando temporaneamente allo stato nirvanico, e si consacrano alla pratica delle sei trascendenze che comporta lo sviluppo dello spirito buddhico sfociante nella compassione misericordiosa rivolta a tutte le creature senza esclusione; il mezzo dei tantra o “dell’effetto”, che pone l’accento sulle tecniche meditative incentrate sulla visualizzazione delle figure divine, che va diminuendo mano a mano che si procede lungo il sentiero tantrico.

La tradizione iniziatica è divisa in due gruppi: i “tantra esterni”, cioè il cosiddetto “sentiero della purificazione”, nel senso di affrancamento dagli istinti e dalle passioni che rendono spiritualmente impuro l’adepto; i “trantra interni” formano il “sentiero della trasformazione”, così chiamato poiché in esso le percezioni ordinarie della realtà fenomenica vengono tramutate in un mandala, in cui le stesse passioni ordinarie dell’individuo diventano potenti strumenti per la realizzazione spirituale. Le due verità sono contemplate come indivisibili.

Dopo avere accennato alla dottrina dei nove mezzi, ovviamente tralasciando una particolare disamina di ciascuno di essi, ma descrivendo la struttura entro la quale sono contenuti, possiamo affermare che l’apice dei nove mezzi è “il grande compimento” o “la grande perfezione”: lo yoga supremo del buddhismo. Questo

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sistema olistico, la cui origine potrebbe essere più antica di quella del Dharma storico, costituisce l’espressione più alta ed essenziale di tutte le dottrine proprie degli adepti dell’antica tradizione del buddhismo tibetano, ma anche dei bonisti, presentando punti di corrispondenza sia col taoismo che col sistema non dualista indiano dell’Advaita Vedanta. Il sistema dottrinale conosciuto come la “grande perfezione” è il più radicale fra i sistemi preconizzanti l’ottenimento istantaneo dell’illuminazione conosciuti in Tibet. Lo stato buddhico che ne consegue, e che è essenziato di vacuità, naturato di purezza primordiale e perfetto nel realizzare in sé il suo fine, costituisce la causa unica e ultima di tutta la realtà. La classificazione dei tantra secondo le scuole della Nuova Tradizione presenta leggere varianti rispetto a quella dei “nove mezzi”. A parte la nomenclatura di “tantra inferiori” e “tantra superiori”, anziché “interni” ed “esterni”, lo “yoga supremo” è definito “yoga insuperabile”. Il primo dei tantra della Nuova Tradizione è detto “stato di generazione o sviluppo”, e comporta la visualizzazione dell’universo fenomenico come un mandala, che si manifesta attraverso una evocazione simbolica della divinità che lo presiede. Il punto di arrivo di questo stadio è la piena identificazione dello yogin con la sua divinità, in modo da attuare l’unione indissociabile della loro natura trascendentale. Nel secondo livello, detto “stadio di perfezione o di compimento si giunge al completo riconoscimento della realtà trascendente dell’entità divina stessa: vuota di ogni forma, attributo o determinazione concettuale, ma allo stesso tempo risplendente di quella chiara e profonda consapevolezza in cui tutto è presente, essendo stato trasceso persino il concetto di “dualità”. Tale è la mente del Buddha.

L’istituzione carismatica dei lama incarnati

Specifica delle religioni tibetane e in primo luogo della loro tradizione buddhista, è la dignità costituita da coloro che in occidente sono conosciuti come “lama reincarnati”, se non addirittura come Buddha viventi. Vuole la dottrina tibetana che, a differenza dei comuni individui fatalmente soggetti al ciclo samsarico, i

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maestri spirituali più evoluti abbiano la capacità di scegliere le circostanze spazio/temporali più convenienti per attuare la proiezione di un principio o residuo sostanzialmente fisico, psichico o mentale della loro persona in una nuova forma di esistenza. Il movente che spingerebbe questi lama, monaci o laici che siano, a riconnettersi a un’altra vita, usualmente materiata di carne (incarnazione), è secondo le scritture l’espletamento del principio fondamentale della compassione infinita.

Si possono distinguere due categorie di lama incarnati. La prima è quella dei lama incarnati propriamente detti: coloro la cui acendenza spirituale si fa risalire sino alla figura di un bodhisattva quando non direttamente a uno dei buddah archetipi. E’ questo il caso del Dalai lama. L’altra categoria è formata da quei lama che sono onorati quale semplice incarnazione carismatica di un altro lama.

Potrebbe darsi il caso che un solo maestro spirituale possa connettersi anche a cinque individui diversi in corrispondenza ad ognuno degli aspetti della personalità di ciascuno di essi individui, anch’essi dei lama. Ma può avvenire anche il contrario: che una sola persona sia riconosciuta come l’incarnazione di singoli aspetti simbolici di più di un lama.

Al fine di riconoscere in un bambino la presenza di un lama incarnato esistono precise procedure. Incaricata di condurre le relative indagini è una commissione ecclesiastica composta di solito da alcuni discepoli del defunto lama. Dopo una serie di prove e di verifiche, il soggetto designato è insignito del titolo di lama e delle sue prerogative istituzionali, con correlate prebende.

La dottrina dell’aldilà e il “Libro dei morti”

Di tutti i testi della religione tibetana, il più diffuso in Occidente è quello buddhista conosciuto come “Libro tibetano dei morti”. Si tratta di un manuale di istruzioni che vengono bisbigliate al morente allo scopo di orientarlo e aiutarlo ad affrancarsi dai

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travagli che egli, quale frutto del suo stesso karma, patirà durante lo stato di esistenza metafisica che succede alla morte e antecede a una nuova proiezione del ciclo dell’esistenza.

Quando colui che è in punto di morte non riesce a pervenire alla liberazione spirituale attraverso il pieno riconoscimento della vera natura luminosa della mente primordiale che è in ogni individuo, né sortisce effetto il rito – pronunciato da un religioso – del trasferimento del principio causale del morente al di fuori del ciclo samsarico, si procede allora alla lettura del Libro dei morti. Il testo fornisce all’estinto le istruzioni atte a controllare la serie di reazioni subliminali che si verificherebbero allorché si arriva sia al traumatico momento della morte, sia agli stadi ultraterreni successivi a quest’ultima, che preludono all’acquuisizione di una nuova veste “terrena” da parte del defunto. Onde far fronte al passaggio dalla vita al dopo morte, senza che vi siano ulteriori rinascite sotto differenti spoglie, il Libro tenta di rendere colui il quale ne ascolta le parole, capace di attingere a quello stato di autoconsapevolezza che, solo, può arrestare il suo divenire trasmigratorio ed emanciparsi da esso. Quello che è comunemente denominato “bar do” (”intervallo”) consiste più precisamente in quattro stadi:

- Stadio della vita;

- Stadio del decesso;

- Stadio della realtà assoluta;

- Stadio dell’esistenza.

Una volta sciolto ogni legame con la vita, quando siano venuti meno gli effetti dell’aggregazione dello stato fisico, è allora che si palesa il reale “assoluto” che sostanzia la coscienza primordiale dell’individuo. Se il defunto non è riuscito a emanciparsi dalle fasi anteriori, è in questa fase che dovrà ravvisare la caratteristica meramente soggettiva di quei fenomeni. Ciò che rende difficile al defunto l’accesso all’assoluto e quindi la fine delle incarnazioni è che l’esperienza post – mortem si ammanta di una miriade di suoni e di luci colorate, commiste a visioni inerenti il

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mandala delle cento deità cosmiche, e tutto ciò provoca un incantamento che incide sul karman del defunto, il quale si perde nel samsara, per reincarnarsi nuovamente al termine di un periodo di tempo che simbolicamente è considerato peri a sette settimane.

Il buddhismo in Cina

Le prime testimonianze della presenza del buddhismo in Cina risalgono all’incirca alla metà del I secolo d.C.; le prime prove della presenza ufficiale di un buddhismo monastico possono essere fatte risalire alle seconda metà del II secolo d.C., periodo in cui un gruppo di missionari stranieri operava a Luoyang, all’epoca capitale dell’Impero. La dinastia Han guidava un impero unito che comprendeva gran parte della attuale Cina e che a quei tempi aveva esteso il suo potere fino nel cuore dell’Asia centrale, fino a giungere alle porte di un altro impero di pari potenza ed estensione: l’impero indiano. Nella zona deserta che si estendeva tra i due imperi, ossia lungo la c.d. “via della seta” esistevano pur tuttavia piccoli regni che giocavano un ruolo essenziale nel commercio carovaniero tra Cina e Medio Oriente in qualità di intermediari e alla fine si trasformarono in fiorenti centri buddhisti. Nel corso di sei secoli la Cina fu un fulcro di scambi commerciali, culturali e quindi anche religiosi. Tutto ciò fino a che l’espansione dell’Islam vi pose fine. Ci sono indizi che indicano che il Buddhismo fosse presente in Cina attraverso le rotte marittime fin dal II secolo d.C.

Di fatto la Cina assorbì la cultura buddhista non da una sola regione ma da più regioni dell’Asia già buddhista, con la conseguenza che fu esposta all’influenza di più scuole o movimenti buddhisti. Questa diversità dipendeva dal fatto che la provenienza di ciascuna scuola era differente. Il buddhismo praticato in India era differente da quello praticato a Samarcanda o nella regione del Mekong. Queste diversità non furono bene accette ai pensatori buddhisti cinesi, i quali tentarono di eliminare se non altro le contraddizioni, ma al tempo stesso di elaborare una dottrina a sé stante. A questo proposito possono essere indicate due tendenze principali. La

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prima si espresse in termini scolastici attraverso la reintegrazione di tutti gli insegnamenti buddhisti conosciuti, in una sorta di sistema gerarchico di insegnamenti graduali differenziati a seconda del periodo di riferimento del materiale scritturale e dei vari periodi di insegnamento del Buddha. La seconda tendenza consistette in un più radicale rigetto di tutte le differenze e nella diffusione di una via all’illuminazione intuitiva e diretta, una tendenza che alla fine portò alla nascita del buddhismo “zen”, assai diffuso in Giappone.

Una seconda conseguenza della situazione geografica fu una certa regionalizzazione del buddhismo cinese. A causa della loro vicinanza all’estremo limite orientale della Via della seta, i centri di nord e di nord ovest rimasero a diretto contatto con le regioni “occidentali”. Per molti secoli i missionari stranieri più importanti operarono principalmente al nord e fu sempre qui che vennero tradotte in lingua cinese le maggiori opere buddhiste e che l’arte cinese riprese modelli monumentali e più latamente stilistici dell’arte buddistica. Durante il periodo che va dalla fine del III al IV secolo d.C. la consapevolezza che nel nord del Paese esistevano dinastie di conquistatori non cinesi, il sostegno al buddhismo da parte dei sovrani stranieri fu favorito dalle origini non cinesi di quelle dottrine.

Fino alla riunificazione dell’impero nel 589 d.C. le zone meridionali della Cina furono governate da una serie di dinastie cinesi, i sovrani delle quali consideravano sé stessi i legittimi successori degli Han e i veri custodi della società cinese e della sua civiltà. Qui troviamo lo sviluppo dei generi del buddhismo più influenzati dal contesto cinese, incentrati sull’interpretazione delle idee buddhiste nei termini della filosofia e della religione cinesi. Dopo l’unificazione della Cina, avvenuta alla fine del VI secolo d.C., queste due principali correnti del buddhismo si amalgamarono; e la loro fusione condusse principalmente, durante l’Alto Mediovo cinese, sotto le dinastie Sui e Tang a uno sviluppo senza precedenti del buddhismo.

Tuttavia sebbene in India esistessero centri dottrinali buddhisti di monaci cinesi e viceversa in Cina fossero ben diffusi monasteri buddhisti indiani, non vi fu mai un

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mescolarsi delle due visioni del buddhismo, che dopo il ricordato periodo di contaminazione iniziale, si allontanarono a livello dottrinale. In conclusione la situazione geografica risultò un fattore decisivo nei modi di trasmissione del buddhismo in Cina. Nel V e nel VI secolo d.C. le corti e gli aristocratici coreani e giapponesi cominciarono a favorire il buddhismo nei loro Stati, e il genere di buddhismo che essi adottarono era di chiara origine cinese.

Una volta penetrato in Cina, il buddhismo venne a confrontarsi con una situazione che non aveva mai affrontato prima. Se prima di allora esso aveva potuto diffondersi senza troppe difficoltà lungo i piccoli centri urbani lungo la via della seta, la sua penetrazione in Cina fu resa una impresa titanica a causa del mutato contesto, innanzitutto territoriale, e cioè l’estensione territoriale del paese Cina, un territorio immenso, in più pervaso da una cultura millenaria e soprattutto refrattaria alle “novità”, soprattutto per quanto attinente alla propria religione. Quando il buddhismo mise piede in Cina quest’ultima aveva già quindici secoli di storia alle spalle e le idee politiche e sociali che si erano affermate nel frattempo erano del tutto estranee al credo buddhista. Uno degli ostacoli più forti alla penetrazione del buddhismo era dato dal rapporto tra l’ordine buddhista e lo Stato; in Cina il buddhismo dovette confrontarsi con una concezione dell’autorità socio/politica alla quale non era abituato. Cio è a dire che mentre in India il culto buddhista aveva un rapporto con il potere, cioè con il monarca e il suo apparato militare, in una parola la c.d. “autorità politica”, nel senso che ai monaci era permesso praticare il proprio culto, anche non necessariamente buddistico nell’accezione più generale del termine; in Cina questo tipo di rapporto era prettamente contrario ad una delle principali concezioni della teologia confuciana, secondo la quale l’imperatore costituiva l’unico vertice del potere, del prestigio e dell’autorità in ogni campo, sia secolare che religioso. I valori diffusi in Cina dal Confucianesimo sono civili e sociali: l’osservanza delle regole cerimoniali di comportamento, l’ordine gerarchico della società e in special modo della famiglia e la corretta relazione tra chi governa e chi è soggetto al potere. Anche in periodi durante i quali il buddhismo prosperò e fu

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generosamente aiutato dalla corte imperiale e da fedeli importanti, esso continuò ad essere sorvegliato dallo stato e dovette sempre mantenersi all’ombra della tradizione confuciana.

Tuttavia i motivi per cui il buddhismo non era bene accetto in Cina, ma soltanto tollerato erano anche altri. Ad esempio l’etica confuciana prescriveva che i principali compiti dell’uomo consistono nel rispetto dei propri genitori e nel dovere di generare figli maschi al fine di perpetuare il lignaggio. Inoltre i confuciani sostenevano che tutti i membri della società dovessero essere impiegati in lavori utili: l’elite prestando un concreto servizio allo stato e alla società; la massa dei cittadini essendo occupati in lavori produttivi. Ma i monaci e le monache buddhisti non praticavano alcuna di tali attività. Dato che il sostentamento dei monaci buddhisti, che praticavano il buddhismo indiano anche in Cina, proveniva sulla base delle loro scritture sacre e dei loro insegnamenti sacri, dall’elemosina, e non solo questo ma anche la circostanza che in India i monaci buddhisti fossero esonerati dalle tasse e dal servizio militare, ciò che era evidentemente in contrasto con gli interessi cinesi, contribuirono a far si che i monaci buddhisti cinesi fossero considerati dai confuciani come un ceto parassitario. Ma a parte queste censure cui fecero seguito atteggiamenti di repressione tuttavia non troppo violenti, come ad esempio l’incitamento nei confronti del popolo da parte dei governanti a non praticare la carità in favore dei monaci e delle monache buddhisti e a non seguirne le dottrine, che erano considerate “barabare” e incivili, l’atteggiamento dell’autorità era piuttosto liberale nei confronti dei religiosi seguaci del Buddha. Finché le persone assolvevano ai loro normali doveri sociali ed economici, erano libere di seguire la religione che preferivano, a condizione che questa non comportasse attività sovversive segrete o settarie.

Occorre dire qualcosa anche per quanto attiene ai rapporti tra il buddhismo e l’etrerogenea massa di credenze e di riti che va sotto il nome di “taoismo”. La religione taoista ha come principio fondamentale la ricerca dell’autopurificazione

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fisica e spirituale che dovrebbe portare al prolungamento della vita, o anche all’immortalità del corpo, a patto che l’adepto abbia appreso alla perfezione tutti i metodi di disciplina fisica e spirituale che vanno dalla meditazione agli esercizi respiratori alle regole dietetiche, alle tecniche sessuali. Inizialmente in contrasto, le due religioni, buddhismo e taoismo presero in prestito alcuni elementi l’uno dall’altro. A dispetto di tutti questi conflitti iniziali, il buddhismo divenne infine una delle principali religioni cinesi. Ciò in parte fu dovuto al fatto che anche la religione cinese conteneva elementi che favorivano l’accolglienza del buddhismo. Ad esempio l’ideale monastico buddhista era sentito come antisociale ma al tempo stesso mostrava molte somiglianze con un ideale cinese antico e molto rispettato: la “vita” ritirata dei saggi che desideravano preservare la loro purezza evitando l’influenza inquinante degli affari mondani. Inoltre l’idea buddhista che i meriti karmici accumulati da un credente potessero essere trasferiti a un’altra persona, che grazie a ciò veniva liberata dalla sofferenza poteva trovare un riscontro nell’ideale cinese del rispetto filiale. Molti altri punti di convergenza potrebbero essere menzionati. Infine elemento di contaminazione tra le due religioni era l’idea, di matrice buddhista, di “protezione soprannaturale”: l’idea cioè che il buddismo eserciti una potente e benefica influenza sull’ambiente che lo circonda. Il fatto che, dopo le iniziali diffidenze, il buddhismo monastico fosse infine protetto e favorito dalla corte imperiale, era in gran parte dovuto alla credenza che tali atti di devozione nei confronti dei monaci buddhisti avessero il potere di proteggere magicamente la dinastia governante.

I periodi principali della diffusione del buddhismo in Cina

Costituisce un elemento chiarificatore la divisione su base cronologica dei rapporti tra Cina e buddhismo in cinque periodi principali:

- La fase embrionale che va dai primi segni del buddhismo in Cina (metà primo secolo d.C.)fino al 300 d.C. In questo arco di tempo il buddhismo rivestì un ruolo marginale nella vita religiosa e intellettuale cinese. Facendo riferimento

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alle dinastie cinesi, tale fase copre approssimativamente l’ultimo periodo della dinastia Han, l’era dei Tre regni e la dinastia Jin occidentale per un periodo che va dal 25 al 316 d.C.;

- La fase di formazione che va dal 300 fino al 600 d.C. circa e finisce nel 589 d.C. con la riunificazione dell’Impero sotto la dinastia Sui. Durante tutto questo periodo la Cina settentrionale venne governata da un gran numero di dinastie conquistatrici non cinesi, in gran parte di origine nomade. In generale la parte settentrionale della Cina presentava un alto grado di instabilità politica; nella seconda metà del V e agli inizi del VI secolo la gran parte della Cina settentrionale rimase unita per un certo periodo di tempo, sotto il governo della potente dinastia proto – mongola Toba – wei. Un’invasione barbarica degli inizi del IV secolo condusse a un esodo di massa della elite cinese, verso il bacino meridionale dello Yangzi, a fu lì che continuò il governo imperiale cinese. Sul piano intellettuale, questo periodo vede la penetrazione del buddhismo tra le elite colte (incluse le corti della Cina settentrionale e meridionale); all’interno del clero buddhista riscontriamo la formazione di una classe di monaci dotti e altamente preparati. Sul piano geografico il buddhismo raggiunge quasi tutte le regioni del territorio cinese. Ma è solo nel V secolo che viene compreso in maniera più profonda il contenuto specifico del messaggio buddhista, e lo scenario è pronto per la nascita di sétte buddhiste cinesi;

- La fase della crescita indipendente che copre l’alto Medioevo cinese, in un periodo che va dal 589 al 906 d.C. L’aspetto dottrinale più importante di questo periodo è la nascita di un certo numero di scuole tipicamente cinesi, indipendenti dal buddhismo e rette da maestri parimenti cinesi. D’altra parte alcune forme di buddhismo tardo/indiane, come il “tantra”, vengono trapiantate in Cina. Questa fase è considerata il periodo aureo del buddhismo in Cina, anche per quanto riguarda il benessere materiale. Le enormi ricchezze accumulate dai monasteri provocano una reazione violenta: una

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severa repressione del buddhismo monastico che può essere considerata l’inizio del declino del buddhismo in Cina;

- La fase del buddhismo nell’era premoderna copre il tardo periodo imperiale che va dal X al XIX secolo d.C. Il primo periodo va dal 906 al 960, mentre quello della dinastia Song, che sostituisce le cc.dd. “Cinque dinastie”, è a capo dell’impero dal 960 al 1275 d.C. In questo periodo il buddhismo comincia a perdere di attrattiva per l’elite colta. Fondamentalmente il buddhismo si riduce a due generi principali: lo Zen come istituzione e la Terra pura come movimento di matrice popolare. Durante il governo mongolo la Cina ha un breve ma intenso contatto con il lamaismo tibetano. Tuttavia l’isolamento culturale causato dalla scomparsa del buddhismo in India fa sentire i suoi effetti: a parte il lamaismo non ci sono più stimoli provenienti dall’India buddhista;

- Alla fine del XIX secolo gruppi di monaci colti e seguaci laici prendono varie iniziative per sollevare il buddhismo dallo stato di decadenza in cui esso è venuto a trovarsi, creando seminari buddhisti secondo nuovi principi: tentando di prendere contatto con il buddhismo vivo del Sud e del Sud–Est asiatico e fondando una associazione buddhista cinese. I tentativi non conducono a un vero e proprio rinascimento anche perché dagli anni Venti e Trenta il buddhismo deve affrontare la sfida del marxismo/leninismo e del nazionalismo. Dalla nascita della Repubblica popolare cinese il buddhismo presente nel Paese va incontro ad una dura repressione, che arriva fin quasi ad impedirne la sopravvivenza. A Taiwan e in comunità come quella di Singapore il buddhismo è sopravvissuto, spesso in forme drasticamente modernizzate.

A questo punto del discorso potrebbe essere utile mettere a fuoco alcuni aspetti generali del buddhismo cinese, alcune tendenze di base che ne determinano l’identità. A tal proposito il fatto che più colpisce è la trasformazione quasi totale che, a lungo andare, il buddhismo ha subito nell’ambiente culturale cinese. Ad

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esempio e per quanto attiene all’architettura e all’organizzazione, i monasteri buddhisti cinesi si sono sviluppati lungo direttrici autonome. Anche il corpus delle regole monastiche ha nel tempo acquisito una impronta marcatamente cinese. Per quanto poi riguarda i rapporti tra lo Stato e il buddhismo, quale religone istituzionalizzata, tali rapporti sono quasi sempre stati pervasi da una certa tensione. Il buddhismo risultava vulnerabile in quanto la dicotomia tra ciò che appartiene al “secolo” e ciò che appartiene al sacro non è mai esistita. In Cina il buddhismo dovette operare in un contesto culturale nel quale autorità spirituale e autorità temporale in gran parte coincidevano nella persona dell’imperatore, e quindi ebbe poco spazio per rivendicare una qualche autorevolezza. Un altro aspetto del buddhismo cinese sembra essere il suo quasi totale orientamento mahayanico. A parte qualche somiglianza tra pensiero mahayanico e pensiero taoista, la preferenza per quest’ultimo sembra dovuta a due aspetti fondamentali del pensiero cinese: la nozione di “totalità” e la preoccupazione per la vita sociale. La vocazione ascetica del buddhismo mal si conciliava, in altri termini, con l’operosità e il fattivo impegno sociale della dottrina taoista. Tuttavia uno dei più grandi meriti del buddhismo cinese fu il diventare progressivamente un eccezionale veicolo per l’introduzione della cultura cinese in Paesi come Giappone, Corea e Vietnam. Grazie a questi sviluppi il buddhismo cinese è diventato una delle più grandi forze plasmatrici della civiltà dell’Asia occidentale.

Il buddhismo in Giappone

Non si può assegnare una data precisa per l’introduzione del buddhismo in Giappone. La data ufficiale dell’evento è il 552, quando una missione del re Seimei del Regno coreano di Kudarasi recò in Giappone per chiedere aiuto contro una possibile invasione da parte dei re nemici Silla e Koguryo. I messi coreani portarono in dono una statua del Buddha e alcune scritture buddhiste di lingua cinese. L’accoglienza da parte Giapponese non fu pacifica. L’ingresso del buddhismo determinò una serie di disaccordi tra le famiglie detentrici del potere politico, tra le

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quali alcune erano favorevoli al contatto con quel tipo di cultura, mentre altre la rigettarono completamente. Alla fine della contesa l’imperatore diede il permesso di erigere una cappella nel suo palazzo dove fu posta l’imagine di Buddha e dove fu anche iniziata la lettura dei sutra. Risale agli anni 572/575 il regno di un imperatore dichiaratosi apertamente buddhista, a nome Yomei. Il successivo imperatore fu educato da monaci buddhisti, e oltre a favorire la crescita della nuova religione, si impegnò anche dal punto di vista letterario con tre commentari su tre sutra buddhisti, sui quali successivamente si modellò la vita religiosa e sociale del popolo giapponese. Inoltre l’imperatore fece costruire diversi templi buddhisti che ancora al giorno d’oggi contengono moltissimi tesori di arte buddhista e sono méta costante di pellegrinaggio. Secondo un documento dell’anno 624 in questo periodo il buddhismo si sviluppò e crebbe fino al punto che esistevano a quel tempo in Giappone, 46 templi buddhisti in cui vivevano 816 monaci e 569 monache. A seguito della intensa penetrazione dei monaci buddhisti in Giappone e della loro predicazione e della diffusione delle idee del Buddha in un contesto lontanissimo da quello di provenienza, i regnanti giapponesi favorirono la fondazione di sette buddhiste come quella di Nara, quest’ultima capitale del Giappone, costruita secondo gli schemi della capitale cinese Xian.

Le sette del buddhismo dette “Nara” dal nome della capitale del Giappone erano ciascuna caratterizzata da uno o più aspetti del buddhismo cinese sia per quanto attiene alla pratica del culto sia per quanto attiene nel complesso alla ritualità e ai suoi modi e maniere di intendere detta ritualità.

Nel 710 entrò in vigore in Giappone il primo codice di leggi scritte, sulla cui scia anche i monaci buddhisti adottarono una serie di regole riguardanti l’ammissione dei novizi, la vita e l’attività dei monaci e delle monache e l’amministrazione dei monasteri. Nonostante l’obbligatorietà di tali regole non furono pochi i monaci che periodicamente vi disattendevano.

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Un aspetto peculiare che si sviluppò in questo periodo e che oggi esiste ancora è la c.d. “fusione del buddhismo con lo shintoismo”. Gli dèi shintoisti erano gli antenati sia della casa imperiale, sia di tutte le famiglie che costituivano la popolazione giapponese e quindi non potevano essere altro che i protettori dei loro discendenti. Accanto ad essi e nel tempo vennero formulati numerosi sutra di matrice chiaramente buddhista, che attingevano al patrimonio religioso scintoista nel senso di favorire la protezione degli antenati defunti seguendo particolari rituali.

Nel 737 scoppiò una forte epidemia in Giappone e l’imperatore Shomu emise un editto secondo il quale in ogni provincia doveva essere eretta e venerata una statua del Buddha dinanzi alla quale avrebbero dovuto essere recitati alcuni inni propiziatori. Questo però fu solo un timido inizio di progettualità “religiosa”, in quanto l’imperatore decretò la costruzione di molti altri luoghi di culto intitolati al Buddha e ai quattro dèi protettori del Paese detti anche “Re divini”. Nel 741 fu tenuta al Todaiji, il tempio di Nara, la cerimonia chiamata Kaigen che consisteva nell’inserire gli occhi posticci nella statua di Buddha e così concludere l’opera esponendo il simulacro all’adorazione dei fedeli.

Dopo un periodo di instabilità dovuto al tentativo del monaco Dokio di diventare imperatore, fu impossibile mantenere la capitale a Nara, che fu spostata dall’imperatore Kan’mu a Kyoto. La nuova era che doveva seguire fu detta Heian, cioè “era della pace” e anche la capitale fu detta “Capitale della pace”. Intanto i contatti tra monaci buddhisti cinesi e giapponesi continuavano e numerosi furono gli scambi di scritti buddhisti in cinese e giapponese tradotti nelle rispettive lingue da monaci assai esperti nelle due lingue.

La scuola Tendai

La setta Tiantai o Tendai fu fondata dal monaco cinese Huiwen al quale succedette Huisi, cui a sua volta succedette Zhiyi e infine fu rifondata e rafforzata dal monaco Zanghan. La dottrina Tiandai o Tendai si fonda sul sutra del Loto nella traduzione

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cinese di Kumarajiva che risale alla fine del IV – inizio V secolo. Oltre al sutra del Loto la scuola Tiantai faceva molto uso di altri sutra, alcuni dei quali insegnano che tutti gli esseri senzienti posseggono la natura del Buddha, altri espongono la dottrina della compenetrazione fra “vuoto”, “esistenza temporanea” e “la via di mezzo che unisce le due posizioni precedenti”, ed altri che possiamo forse tralasciare per esigenze di brevità. Leggendo di questi insegnamenti, che costituiscono una parte infinitesima di un corpus di dottrine molto più ampio viene fatto di domandarsi come mai i vari templi del Tendai, a un certo punto della propria storia, organizzarono il monachesimo militare dei “sohei” cioè “monaci soldati” che all’inizio avevano soltanto il compito di mantenere l’ordine all’interno dei monasteri e proteggerli da attacchi esterni ma che in seguito divennero eserciti addestrati e sempre più numerosi e combatterono guerre spietate contro gli altri monasteri. Un fenomeno analogo, d’altra parte caratterizzò anche il monachesimo cristiano europeo.

Kukai e il buddhismo esoterico

Kukai nacque in una famigia aristocratica e colta, nella provincia di Sanuki sull’isola di Shikoku. Giunto all’età della ragione e dopo aver studiato alcuni classici della letteratura cofuciana, interruppe tali studi e iniziò a studiare la dottrina buddhista, con un atteggiamento più che rivolto alla teoria, orientato alla pratica. A un certo punto della propria vita Kukai partì per la Cina dove fu per breve tempo discepolo del monaco Huigo, che ne riconobbe il valore personale e dopo pochi mesi di apprendistato lo ordinò monaco buddhista. In particolare monaco del buddhismo tantrico, che ricerca nell’adepto la consapevolezza che il proprio ego fenomenico non è altro che un aspetto della totalità del Buddha. Una tale consapevolezza però, non la si può ottenere con un ragionamento logico, ma attraverso una conoscenza che si acquista mediante un processo di unione con l’essere supremo e totale. Il ragionamento deve quindi cessare e il suo posto deve essere preso da immagini simboliche che rivelano la realtà dell’unione del singolo

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individuo con l’assoluto. Queste immagini simboliche, dette “mandala” sono per l’appunto simboli che invitano a un movimento psicologico/religioso che condurrà il fedele alla visione mistica dell’assoluto (e alla consapevolezza della propria identità con esso).

Per passare ad altro e parlare del buddhismo nella età Heian, bisogna dire che inizialmente i templi venivano finanziati dallo stato, ma nel tempo la loro situazione cambiò, in quanto diventò abbastanza frequente il caso di imperatori i quali, dopo aver lasciato il trono, si ritiravano in un tempio per dedicarsi alla preghiera e alla letteratura sacra. Il fenomeno divenne frequente anche tra i membri della nobiltà. E’ di questa era il sistema chiamato “insei”: un imperatore rinunciava al trono a favore di un figlio minorenne, si costituiva reggente, si ritirava in un monastero buddhista e da lì governava il paese. Il tempio, divenuto dimora dell’imperatore, ne guadagnava sia in reputazione che in aiuti finanziari. Questo sistema iniziò con l’imperatore Shirakawa che divene “insei” nelll’anno 1086.

Un altro esempio di religiosità genuina era la devozione al Buddha Amida, con la speranza di essere accolti, dopo la morte, nella felicità del paradiso promesso a coloro che invocavano con fede il nome di Amida. Il culto in parola fu diffuso in Giappone principalmente da due monaci cinesi, Kuya e Genshin. Va ricordato anche il nome di Ryonin che fondò una nuova devozione verso il Buddha Amida. Secondo questa devozione, i meriti acquisiti in vita si cumulavano insieme a quelli di tutti gli altri esseri senzienti, cosicché la rinascita di un fedele nel Paradiso di Amida si accompagnava alla rinascita anche di tutti gli esseri senzienti.

Il mappo shiso: escatologia buddhista

Quella in parola è la teoria escatologica del buddhismo. La concezione del buddhismo in merito alla storia è ciclica. La morte del Buddha e il suo ingresso nel Nirvana segnano la fine di un ciclo e l’inizio di un ciclo successivo. All’inizio del nuovo cicolo nascerà un nuovo Buddha che predicherà la salvezza di tutti gli esseri

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viventi. Le sette amidiste in Cina e specialmente in Giappone erano convinte che verso l’anno 1051 il mondo era ormai entrato nel terzo periodo, il periodo detto Heian, la cui letteratura esprime un totale pessimismo nei confronti della società e delle istituzioni umane. Una di queste espressioni è quella del già nominato Genshin, secondo il quale l’unica via di salvezza è quella di affidarsi alla promessa di Amida secondo la quale egli accoglierà nel suo regno di felicità tutti coloro che avranno invocato il suo nome con fede. Questa dottrina di salvezza di basa su tre sutra della tradizione buddhista, strettamente connessi alla teoria della salvezza che, nata in India grazie alle opere di alcuni saggi, penetrò in Giappone grazie alla traduzione esguitane da tre saggi: il già noto Genshin, Honen e il suo discepolo Shinran. A Shinran si deve il pieno e logico sviluppo della dottrina della salvezza mediante la fede in Amida. La sua dottrina è la conclusione logica dello sviluppo della dottrina amidista: gli esseri umani non possono salvarsi con le loro sole forze perché la salvezza richiede un superamento delle loro facoltà umane. Shinran afferma che ciò che impedisce alla creatura umana di salvarsi, non è tanto il fatto che essa pecca, ma il fatto che non può evitare il male: la salvezza è possibile solo grazie alla fede in colui che esiste per sé, cioè colui che non ha cominciato a esistere e quindi non cesserà mai di esistere. L’essere umano deve quindi affidarsi ad Amida Buddha con fede: questa è l’unica via di salvezza. Secondo Shinran quindi, allontanarsi dal male e praticare la carità erano i segni certi che Amida era entrato nei cuori di chi agiva in questo senso, ma era altrettanto chiaro che la forza di evitare il male e di amare il prossimo era un dono gratuito dell’Amida e nessuno poteva procurarsela da sé.

Lo Zen Rinzai

Il sistema di istruzione della scuola Zen Rinzai si basa sul cosiddetto “koan” che letteralmente significa “accordo pubblico, ufficiale, emanato da una autorità”. E’ lo strumento con il quale il maestro istruisce il suo discepolo. Si tratta di espressioni che non seguono la logica comune come per esempio il rumore provocato da una

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battuta di mani: qual è il rumore di una sola mano? Oppure la seguente: come si può bere tutta l’acqua di un lago? Dal punto di vista del senso comune non si può rispondere a tali domande. Il novizio però dovrà pensare e ripensare la domanda che gli è stata fatta. Non si tratta di dare una risposta plausibile dal punto di vista logico/razionale ma di una espressione che, in qualche modo dimostrerà al maestro che il novizio ha superato la logica comune, la quale non potrà mai risolvere il problema ultimo della nostra esistenza. Una volta che il discepolo ha superato questa e consimili prove, gli viene conferito un attestato in base al quale l’ex novizio può a sua volta istruire altri novizi.

Lo Zen Soto

La principale differenza tra questo modello di pratica Zen e quello descritto sopra è che quello in parola rifiuta i metodi dialettici diretti ad a fare in modo da eliminare la logica comune dalla mente del discepolo, perché potrebbe, anziché liberare, fuorviare. La formula dello Zen Soto è la seguente: “sedere diligentemente” evitando ogni ragionamento fino a quando, eliminato ogni discorso logico la mente si aprirà alla verità sopra/razionale. Il maestro sarà in grado di riconoscere l’illuminazione raggiunta dal discepolo che, a sua volta, sarà capace di istruire nella stessa pratica altri discepoli.

Lo Shugen do

La fondazione dello Shugen do si deve ad un personaggio le cui origini e la cui vita si collocano in un contesto non ben definito e definibile. Certo è che egli venne onorato con titolo di primo yamabushi del Giappone. La parola “yamabushi” vuol dire propriamente una “persona che dorme sui monti”. Si tratta di una persona che vive sulle montagne e ne adora gli dèi, attraverso la meditazione e la purificazione. Questa tendenza a vivere sui monti fu coltivata anche dai buddhisti. Un altro termine importante per designare questo movimento, peraltro non riconosciuto dalle autorità secolari del Giappone è “sengaku shinko” che si può tradurre come “fede

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nelle montagne”. Le pratiche degli yamabushi che probabilmente precedettero l’avvento del buddhismo in Giappone, accolsero in seguito la dottrina e le pratiche del Mikkyo, sia nella versione Tindai che Shingon: così sorsero due rami di yamabushi. La meta ideale del yamabushi era, ed è ancora al giorno d’oggi, finire la sua vita meditando sui monti, nel pieno stato contemplativo.

Il buddhismo giapponese durante il periodo di Yedo (1603-1867)

Nell’anno 1654 approdò in Giappone un monaco cinese, Ingen per predicare una nuova variante della dottrina Zen. Le autorità giapponesi gli offrirono un tempio andato in rovina, che Ingen trasformò in una replica di un analogo tempio cinese, sito a Wanfusi. La dottrina di questa nuova setta si era sviluppata in Cina, ed era sostanziata non tanto dalla ricerca dell’Assoluto, come le precedenti scuole Zen, ma solo da pratiche e procedure atte a rafforzare la concentrazione psichica dell’adepto. Ancora oggi la setta è attiva e conta più di cinquecento monasteri.

Sempre nel periodo considerato si affermò la dottrina e la prassi del “danka”, cioè quel sistema teorico e pratico che consisteva nell’affidare la amministrazione di un tempio ad un monaco, quasi sempre sposato e il cui figlio maggiore avrebbe ricevuto l’investitura per la successione. Se il monaco in questione non aveva figli ma figlie, la maggiore d’età veniva data in sposa ad un giovane disposto a succedere al suocero nelle funzioni sacre, che implicavano l’ammaestramento dei fedeli (“danka” sta per “parrocchiani”), e l’espletamento dei passaggi della pratica liturgica, come ad esempio il seppellimento dei morti. Oltre a ciò presso questa istituzione, cioè il “danka”, si svilupparono delle vere e proprie “scuole” nelle quali si insegnava ai bambini a leggere e scrivere. Fu anche grazie a tali scuole che la lotta contro l’analfabetismo fu vinta in Giappone molto prima che nei paesi occidentali.

Le nuove sette buddhiste

Nel 1631 il governo emise un regolamento che proibiva l’erezione di nuovi templi e cercava, per quanto possibile di eliminare quei templi che non fossero necessari. In

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altri termini l’Autorità si impegnò in una sorta di censimento di tutti i monasteri Zen presenti sul territorio, e allo stesso modo dettò una serie di prescrizioni che avrebbero dovuto regolare la amministrazione dei templi e il comportamento dei monaci. Questo era il contenuto delle prescrizioni:

- Severità, rigidità, e imparzialità nell’esame delle qualifiche necessarie per la nomina del superiore, dell’abate e la rpibizione di nuove teorie;

- Rispetto per le cerimonie e i riti eseguiti sia nella casa madre che nei monasteri dipendenti;

- Libertà di fede per coloro che frequentavano il tempio;

- Proibizione ai monaci di formare partiti, bande e fazioni;

- Proibizione di dare asilo a persone che avevano contravvenuto alle leggi dello stato;

- Restrizione alle riparazioni e agli abbellimenti dei monasteri;

- Proibizione di compravendita dei terreni appartenenti al tempio;

- Proibizione di dare e prendere i beni in pegno;

- Limitazione di accordi e promesse fra maestro e discepolo.

Conclusioni

Le sette buddhiste sopra nominate sono ancora presenti e attive nel Giappone moderno. La maggior parte dei monaci cinesi si dà molto da fare per aiutare il proprio danka cioè come detto la comunità che vive la propria vita intorno al tempio. Si tratta di centri attivi anche nella ricezione di turisti, ai quali si presentano in maniera dimessa e spiegano il significato di tutto ciò che attiene al sacro, compresi i simulacri e l’interno dei templi. Tra i libri più venduti in Giappone primeggiano quelli che trattano del buddhismo. Ogni setta ha almeno una università con molte facoltà, una delle quali ha ad oggetto lo studio approfondito del buddhismo. Si deve in definitiva ai bonzi attuali, ma anche e soprattutto ai monaci buddhisti del vicino e del lontano passato, l’aver preservato e tradotto in varie lingue tutto il corpus letterario delle opere sul buddhismo, secondo quando più possibile

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fosse esatta la resa di ciò che quelle dottrine portavano con sé in termini di significato e importanza per il culto.

Il buddhismo contemporaneo nello Sri Lanka e nel Sud-Est asiatico

La corrente conservatrice nota come “Buddhismo Theravada” è scomparsa dalla sua terra d’origine nel XIII secolo, ma sopravvive ad oggi in Sri Lanka, in Birmania, Cambogia e nel Laos. In Sri Lanka il buddhismo fu diffuso grazie alla predicazione del monaco Mahinda, ivi inviato dal re Asoka. A cominciare dal XVI secolo si insediarono sull’isola le potenze coloniali, prima i Portoghesi, poi gli Olandesi e gli Inglesi. Nel 1815 tutta l’isola fu riunita sotto il dominio dei britannici, che cessò solo nel 1948.

Il sangha (comunità monastica) buddhista si diffuse in Sri Lanka con la conversione del re nel III secolo d.C. Nel corso dei secoli vennero alla luce tre diverse varianti della dottrina buddhista, che furono infine riunificate sotto il regno di Parakramabau I. Tutti i monaci furono obbligati a seguire la dottrina propugnata dalla scuola del Mahavihara.

In epoca medievale la comunità monastica dello Sri Lanka si diede un’organizzazione gerarchica. L’ordine fu suddiviso in due sezioni al cui vertice era un Mahathera. Questi dignitari venivano eletti da assemblee formate dagli anziani più stimati dell’ordine, ma l’elezione doveva ricevere i benestare del re. Le due suddette sezioni erano costituite dalle comunità dei monaci del villaggio l’una; dei monaci della foresta, l’altra. La comunità dei monaci della foresta aveva come fine un ritorno alle pratiche medievali attraverso un ripristino della prassi buddhista della meditazione in monasteri distanti dai grandi centri abitati. Tuttavia nel corso del tempo le due sezioni si sono riunificate sempre più nello stile di vita e nelle regole. Mentre nella parte meridionale dell’isola era diffuso il buddhismo

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Theravada, nella zona costiera occidentale si erano introdotte altre forme di buddhismo, ossia il Mahayana e il tantrismo.

In Birmania il sovrano decretò che il Theravada fosse considerato religione di Stato. Tuttavia una invasione dei mongoli dalla Cina condusse alla fine della dinastia Pagan e alla distruzione di molti templi. Tuttavia il Theravada rimase la forma di buddhismo più diffusa in Birmania. Vennero instaurati durevoli contatti tra Sri Lanka e Birmania, soprattutto a carattere religioso e culturale. Nel corso del XIX secolo la Birmania fu annessa gradualmente all’impero britannico, annessione che terminò nel 1885 con la conquista della Birmania settentrionale sempre da parte dei britannici.

Per quanto riguarda la Cambogia, i suoi primi abitanti erano stati influenzati dapprima dall’Induismo, in seguito dal Buddhismo del Theravada. Verso il 1300 si concluse il processo di affermazione graduale del secondo, che sostituì completamente il primo. I missionari del Theravada colmarono un vuoto culturale dato dal fatto che per secoli in Cambogia unico Dio il cui culto fosse ammesso era il monarca. I missionari Theravada fecero in modo che la loro dottrina fosse accolta dalle grandi masse; al tempo stesso essi traevano la propria autorità dal fatto che provenivano in massima parte dagli strati popolari della società. A partire dal XIV secolo il Theravada divenne in Cambogia la religione dei re e del popolo.

In Thailandia il buddhismo Theravada fu accolto dal sovrano dopo che i thailandesi si erano resi indipendenti dai kmer cambogiani. Stessa cosa per il Laos. I laotiani hanno assunto il buddhismo del Theravada dalla Cambogia, il cui buddhismo è ancora ad oggi la religione più praticata in Laos.

In Vietnam, accanto ad altri culti è presente anche il buddhismo, ma non bisogna dimenticare che esso deve necessariamente convivere con confucianesimo, laoismo, taoismo e cattolicesimo.

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Il buddhismo del Theravada è stato caratterizzato fino ad oggi da una tradizione abbastanza unitaria. Tuttavia alla fine del XV secolo esso era quasi del tutto scomparso dall’India meridionale. I seguaci di questa forma di buddhismo, ove ancora diffuso, si attenevano nondimeno e costantemente alla norma fondamentale di non mutare assolutamente la dottrina insegnata dal Buddha e le regole di vita monastica, insieme alle opere fondamentali costituenti il canone riconosciuto della letteratura buddhista. Tuttavia anche i seguaci del Theravada, nonostante il loro atteggiamento conservatore non sono rimasti alieni da alcuni mutamenti. Una delle ragioni di tali mutamenti è stato senza dubbio il contatto dei monaci cinesi con i Paesi del Sud Est asiatico. I testi del Theravada, contrariamente ad alcuni insegnamenti del Buddha, ritengono che si possa ottenere la liberazione anche attraverso le opere di carità. Mentre il raggiungimento del Nirvana attraverso la cancellazione e il superamento delle passioni sono appannaggio di pochi adepti, la gran parte della popolazione buddhista è chiamata ad una religiosità che trae alimento dal retto comportamento morale, dal conoscere la via del Buddha e dall’accumulare meriti religiosi, per poter pervenire ad una buona rinascita. La credenza che la fondazione di monumenti religiosi possegga una efficacia salvifica ha portato alla costruzione di imponenti edifici cultuali, soprattutto in Birmania. I monaci assumono diversi compiti per la cura spirituale dei laici, anche se tale rapporto è privo della personalizzazione che caratterizza invece ad esempio il Cristianesimo, in cui tra credente e religioso è possibile instaurare un rapporto personale. Compito dei monaci buddhisti è invece quello delle proclamazioni, delle prediche e delle esortazioni. Elemosine elargite agli ordini monastici e ai templi, regolari feste che si svolgono nei templi, con processioni in cui si portano in giro le reliquie del Buddha o di santi buddhisti, la liberazione di animali catturati, l’osservanza di particolari norme di astinenza sono altrettante espressioni del normale culto buddhista e nello stesso tempo consentono ai fedeli l’opportunità di acquisire dei meriti. Uno dei riti più significativi della tradizione Theravada è il “paritta”, destinato a proteggere contro i pericoli e i mali. Durante la celebrazione i

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monaci recitano alcuni testi del canone “pali” e compiono determinati rituali. I testi in discorso fanno parte di una tradizione consolidata e sono ampiamente commentati.

Uno dei punti di maggiore diversità tra la pratica buddhista nello Sri Lanka e quella negli altri territori del Sud-Est asiatico è la cosiddetta “ordinazione temporanea”. Questa prassi consente che i giovani entrino in un monastero e si sottopongano alle regole monastiche per un tempo limitato, dopodiché tornino nel mondo. A loro viene attribuita la “ordinazione minore”, ma eventualmente anche quella “maggiore” che li rende monaci a pieno titolo. Questa prassi è però come dicevo assente in Sri Lanka, dove la decisione di entrare in un monastero è per lo più definitiva, benché le regole consentano all’iniziato di poter uscire dalla comunità monastica in ogni momento, liberamente, senza che la precedente condizione monastica possa costituire un ostacolo all’inserimento sociale o in un qualsiasi contesto lavorativo.

Per tutte le tradizioni buddhiste assume un’importanza rilevante la meditazione. La meditazione tradizionale dei buddhisti del Theravada si fonda su canoni molto antichi e assai venerati nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni.

Nella prassi religiosa buddhista sopravvivono anche elementi della religiosità pre/buddhista. Essi sono stati adattati alle dottrine del buddhismo privandoli di alcune pratiche cultuali, per esempio con l’abolizione dei sacrifici cruenti. Gli antichi culti popolari sono stai integrati nel canone buddhista. Poiché i vari popoli che si sono convertiti al buddhismo hanno conservato alcuni elementi fondamentali della loro antica religione popolare, innestata poi sull’architrave del buddhismo, in tali paesi esiste un quadro molto variegato di culti che coesistono con il buddhismo quando non ne costituiscono un elemento intrinseco.

Il Buddha storico era, come è noto, cittadino di una repubblica aristocratica ed era membro di una famiglia di governo. Secondo la tradizione indiana dopo la sua fuga dal mondo egli rimase estraneo a ogni intromissione negli affari politici. Solo

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quando il sovrano Asoka si convertì al buddhismo si crearono dei legami istituzionali tra il culto buddhista e lo Stato. Asoka intraprese un’ampia riforma delle regole della comunità buddhista la qual cosa fu di beneficio alle comunità fondate sul buddhismo in quanto queste ultime poterono intrattenere rapporti di reciproco vantaggio con il regno di Asoka e con tutti i suoi successori, ma tali rapporti non sopravvissero alla caduta della dinastia Maurya. Tuttavia nel periodo precedente i rapporti tra buddhismo e autorità erano caratterizzati da una ingerenza di quest’ultima nelle questioni interne ai monasteri, ad esempio escludendo i monaci o le monache che avessero trasgredito ai dettami della regola monastica. L’intervento dello stato era bene accetto alle comunità buddhiste in quanto ove si verificasse una infrazione alle regole i tribunali religiosi non disponevano di una forza coercitiva sufficiente a dare seguito alle proprie decisioni e pertanto si doveva fare ricorso al potere politico. Nella storia del buddhismo queste situazioni di trasgressione delle regole si erano verificate più volte, tanto da indurre i monaci rispettosi del canone a riformare il c.d. “sasana”. Il sasana era in origine l’insegnamento del Buddha, ma il termine passò presto a designare coloro che trasmettevano questo insegnamento, e quindi tutto quanto l’ordine buddhista e le sue istituzioni. La riforma del sasana fu avviata innanzitutto dai cosiddetti concilii buddhisti, l’ultimo dei quali fu concluso nel 1961. I concilii prevedevano due incombenze: la prima era trasmettere fedelmente il contenuto delle scritture sacre, e la seconda era espellere dalla comunità i monaci indegni, favorendo così un maggiore rispetto delle regole. Si può tranquillamente affermare che le regole monastiche la cui applicazione era garantita dallo Stato fossero alla base dei rapporti tra Stato e comunità monastiche e non deve sorprendere che, a un certo momento in alcuni paesi del Sud Est asiatico il buddhismo sia diventato religione di Stato. Tuttavia in paesi come Sri Lanka e Birmania questa proficua collaborazione tra autorità civili e autorità religose fu interrotta dall’ingresso delle potenze coloniali. L’ordinamento giuridico che, nei paesi dell’area, regola l’istituzione delle comunità, ove comunità buddhiste legate alla tradizione originale dell’insegnamento del

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Buddha siano presenti, è molto diverso da comunità a comunità. In Sri Lanka ad esempio in epoca coloniale l’ordinazione si fondava su regole che erano in definitiva di diritto privato, regole introdotte dal regime coloniale. Lo stesso valeva per la Birmania.

Il modernismo buddhista

All’inizio del XIX secolo il movimento buddhista mostrava segni di grave impoverimento e decadenza, soprattutto nello Sri Lanka, dove il colonialismo aveva introdotto con un certo successo il cristianesimo, il quale aveva quasi del tutto sosituito il culto buddhista. Tuttavia nella seconda matà del XIX secolo alcuni riformatori riuscirono a bloccare questo processo di disintegrazione e ad attuare in seno al buddhismo un rinnovamento spirituale. Essi dovettero però scendere a patti con la cultura moderna, per preservare e arricchire ciò che del buddhismo tradizionale era rimasto, col risultato di una mescolanza che potrebbe essere definita, in quanto fenomeno all’epoca del tutto nuovo, come “modernismo buddhista” o “protestantesimo buddhista”. Si tratta ovviamente di definizioni elaborate da studiosi occidentali per indicare un fenomeno che per lo più era loro estraneo e comunque poco conosciuto. Uno dei caratteri più rilevanti di queste correnti religiose è l’accentuazione degli elementi razionali del buddhismo: la dottrina del Buddha in quanto fondata sull’intelletto si contrapporrebbe al Cristianesimo, in quanto quest’ultimo fondato su idee irrazionali e non dimostrabili razionalmente. Ne derivò all’epoca una contesa tra sostenitori del cristianesimo e adepti al buddhismo di nuova concezione. Per molti fautori del modernismo buddhista, la dottrina del Buddha non rappresenta una fuga dal mondo terreno ma è un invito a trasformarlo e a migliorarlo. Il movimento di riforma del buddhismo si caratterizza anche per un deciso impegno sociale, che ha portato alla fondazione di scuole buddhiste e di istituzioni a carattere sociale.

Non è casuale che il modernismo buddhista si sia sviluppato anzitutto a Ceylon. Con l’occupazione europea, prima da parte dei Portoghesi, poi con gli Olandesi e infine

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con gli Inglesi, questo paese era venuto in stretto contatto con le idee europee mentre nell’interno prevaleva ancora il credo buddhista. Grazie al movimento di riforma e alla fine del colonialismo, sorsero alcuni centri come la città di Matara, che alla metà del XIX secolo è diventata un centro di risveglio delle tradizioni letterarie buddhiste, insieme ad una attività di ampio contrasto dialogico, attraverso “dispute pubbliche” tra i seguaci dell’uno e dell’altro credo. Queste dispute furono messe per iscritto da un uditore europeo e una volta diffuse in occidente suscitarono l’interesse degli studiosi e anche della Società Teosofica.

L’apparato scolastico della tradizione monastica buddhista si era già rinnovato tre decenni prima con una nuova fondazione, situata presso la città di Colombo, la quale costituì il primo passo verso la istituzione di due università monastiche. Durante tutto il periodo coloniale vennero istituite nuove scuole, restaurati antichi templi, fondate associazioni dichiaratamente buddhiste che ebbero contatti diretti e fondati su un piano di parità anche con i movimenti religiosi occidentali, riscuotendo un notevole successo. Tutto ciò per quanto riguarda Ceylon.

In Birmania lo sviluppo più recente del buddhismo è caratterizzato da maggiori conflitti rispetto a quello verificatosi a Ceylon sotto il dominio coloniale inglese. Il governo Birmano dovette infatti cedere agli inglesi ampie parti del loro territorio per cui sino al 1885 solo l’interno del Paese rimase indipendente. Dopo la fine del dominio coloniale, si verificò anche in Birmania una “rifondazione” del buddhismo, che diventò nuovamente una religione a carattere nazionale. Non deve tuttavia essere tralasciato il fatto che il dominio inglese cessò ufficialmente solo nel 1948. Prima di allora coloro che non tolleravano la colonizzazione britannica e che volevano restaurare il buddhismo, indecorosamente soppresso a beneficio dell’anglicanesimo, si ribellarono più volte alle autorità straniere, colpevoli del progressivo deperimento della comunità monastica buddhista e dei suoi seguaci.Il regno Thailandese è l’unico stato sud orientale ad aver conservato la propria indipendenza all’epoca del dominio coloniale. Ciò si deve soprattutto alla abilità dei

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re della dinastia Chakkri, uomini coltissimi e profondamente legati alle tradizioni del Paese di cui erano a capo. Essi favorirono lo sviluppo del buddhismo a tutti i livelli, scrivendo opere ispirate all’insegnamento del Buddha, restaurando luoghi di culto da tempo abbandonati e sviluppando un certo talento per quanto riguarda i rapporti con l’occidente. I re in parola riuscirono a rendere il buddhismo religione di Stato, creando una serie di istituzioni e curandone l’attività. Una legge del 1902 diede nondimeno maggiore sostanza alla direzione autonoma del Credo Buddhista nei rapporti con lo Stato, e tuttavia i dignitari del culto erano ancora di nomina regia.

La Cambogia e il Laos nel XIX secolo passarono sotto il dominio coloniale francese ma si trattò di una dominazione indiretta che permise alla monarchia tradizionale di sopravvivere indisturbata. La situazione dei rapporti tra potere religioso e potere politico fu modellata in questi due Paesi secondo il principio per cui il potere politico si fa garante del potere religioso, allo stesso modo che in Thailandia, il cui ordinamento servì da modello ai due Paesi in discorso.

Il buddhismo nel Sud Est asiatico nel XX secolo

Va innanzitutto ricordato che tutti i paesi dell’area Sud Orientale del continente asiatico ottennero l’indipendenza dai colonizzatori europei, approssimativamente negli stessi anni, cioè intorno alla fine della prima metà del XX secolo. Per quanto di relativo all’atteggiamento nei confronti della religione buddhista, in tutti i Paesi di cui più diffusamente abbiamo parlato più sopra si verificò un risveglio della fede, che però fu sottoposta a quello che potremmo definire un “retaggio” acquisito durante il periodo coloniale, cioè la sottomissione della religione allo Stato e la tutela, ma anche il controllo, della prima da parte di quest’ultimo. Per quanto i rapporti tra religione e Stato fossero impostati in questo modo, cioè su un piano di reciproco rispetto, i Paesi in questione dovettero fronteggiare e a volte subire sommovimenti istituzionali e soprattutto popolari, dovuti a disaccordi di carattere religioso, i quali andavano ad investire anche la gestione del potere politico. Sul piano politico si tentò per lo più di costruire sistemi di stampo socialista, ispirati alla

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lezione del Bhudda, ma tali esperimenti ebbero scarso successo, come dimostrano due episodi in particolare che denotano le profonde difficoltà di introdurre un governo di stampo occidentale in Paesi dove la religione riveste un ruolo per lo più esclusivo. Il primo episodio di cui vorrei parlare riguarda la Birmania ed è relativo alle consultazioni elettorali avvenute in Birmania nel 1988, che videro vincente la fazione socialista capeggiata da Aung San Suu Kyi, ma che diedero luogo ad un colpo di stato da parte dei militari che, dopo aver assunto il potere con la forza, confinarono la signora San Suu Kyi agli arresti domiciliari. Altro episodio ricorrente che denota le tensioni politiche presenti in Paesi poco avvezzi ad adottare sistemi o perfino abitudini di stampo occidentale è quello che si verificò con una certa frequenza, presso i templi buddhisti, l’accesso ai quali era subordinato all’obbligo di togliersi le scarpe prima di fare ingresso nel luogo di culto in questione. Ovviamente questa regola, imposta a tutti, occidentali laici e appartenenti a ordini monastici, era spesso fonte di tensione, una tensione che dimostrava la viscerale ostilità dei monaci buddhisti a tutti i tentativi di introdurre consuetudini in contrasto con le proprie, e soprattutto considerate scarsamente rispettose di luoghi che per i monaci in questione erano e sono ad oggi, la rappresentazione del trascendente, cioè del Divino.

Il buddhismo in Occidente

Il buddhismo nel mondo occidentale si caratterizza per la sua natura molteplice. Mentre in Asia si trovano spesso in un Paese una sola scuola buddhista ovvero diverse scuole nell’ambito di una sola corrente, in Occidente si trovano in un solo Paese molte scuole e tradizioni diverse provenienti dall’Asia. E’ pertanto un qualcosa di abbastanza difficile descrivere l’intero fenomeno della diffusione del buddhismo in Occidente, ove non si operi una selezione delle tendenze più significative all’interno di contesti culturali ben definiti, anche a livello cronologico.

Fin dal XVII secolo i racconti dei missionari e dei viaggiatori avevano suscitato un certo interesse per l’Oriente. Il movimento romantico, verso il 1800, giunse ad una

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vera e propria esaltazione dell’Oriente. Si pensava di poter riscoprire in India e nei testi sanscriti una spiritualità originale, che in Europa era andata perduta. Va attribuito senza dubbio al filologo parigino Eugene Burnouf il merito di aver presentato per primo in forma sistematica i numerosi dati che erano pervenuti dall’India sin dall’inizio del XIX secolo e in particolare quelli relativi alla storia e alla dottrina del buddhismo. Gli anni ’50 dello stesso secolo videro un vero e proprio boom di traduzioni e di studi. Frattanto la filosofia di Arthur Shopenauer aveva suscitato negli ambienti accademici e artistici un grande interesse per il buddhismo. Schopenauer, e come lui gli orientalisti e gli uomini di cultura avevano conosciuto e descritto solo quel buddhismo che si trovava contenuto nei testi. In Europa e in America del Nord si venne a contatto solo con la forma scritta del buddhismo. Restò fuori dell’orizzonte la realtà vissuta dell’Asia, con le sue usanze popolari e i suoi riti legati alla realtà locale.

L’interesse maggiore per il buddhismo si ebbe in Francia, in Inghilterra e in Germania. Fu la Società Teosofica, a cui abbiamo già accennato, a rafforzare ancor più il crescente interesse per la spiritualità indiana. A cominciare dagli anni ’80 e ’90 fecero la loro apparizione in Inghilterra e Germania i primi esponenti di confessione buddhista. Poco dopo la fine del secolo sorsero a Lipsia e a Londra le prime società espressamente buddhiste.

Diversamente dall’Europa, negli Stati Uniti i primi buddhisti furono degli immigrati asiatici che provenivano dalla Cina e dal Giappone.

In Australia e Sud Africa, tra fine del XIX e inizio del XX secolo solo poche persone si erano convertite al buddhismo. Tuttavia nel censimento del 1911 risultarono in Australia 3269 buddhisti e in Sud Africa 436, di cui 394 di origine asiatica.

Per quanto riguarda il fenomeno delle numerose conversioni al buddhismo da parte occidentale negli anni della sua massima diffusione furono determinanti nel processo di conversione due fattori, oltre ovviamente all’intreresse intellettuale.

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Innanzitutto molti buddhisti occidentali provenivano da ambienti esoterico/spiritisti. Il secondo fattore può essere considerato di carattere e di “ispirazione romantica”. I romantici condividevano la posizione critica nei confronti della civiltà industriale, tipica del romanticismo e speravano di poter raggiungere col buddhismo una rigenerazione dei valori europei. Con l’aiuto del buddhismo la la civiltà europea si sarebbe liberata dall’oscurità che all’epoca si prospettava all’orizzonte e avrebbe recuperato la sua grandezza e la sua gloria originarie. Nonostante tali grandi aspirazioni, i gruppi e le società buddhiste non furono molto numerosi. I buddhisti furono prevalentemente visti come persone esotiche e strane. Molti occidentali considerarono il culto come qualcosa di simile a un passatempo, un “hobby” o semplicemente una “moda”.

Tra il 1918 e il 1945 in Inghilterra e Germania i buddhisti iniziarono ad attribuire un valore vincolante alla dottrina che accoglievano. Sorsero vere e proprie comunità buddhiste. In Germania si formarono dei gruppi autonomi attorno alle persone del Dott. Georg Grimm, giurista e del Dott. Paul Dalke, medico. Agli incontri e alle conferenze promosse dai due fondatori si recava un quantitativo di persone non disprezzabile. I due capi del movimento giunsero addirittura alla costruzione di un “tempio” ricalcato su quelli buddhisti in India. Tuttavia l’avvento del nazionalsocialismo, a partire dal 1933 rese più difficile l’operato del buddhismo che si estinse completamente con la seconda guerra mondiale.

Diversamente dall’Europa occidentale, in Russia il buddhismo poté contare su una lunga tradizione secolare. I Buriati e i Calmucchi professavano un buddhismo mongolico/tibetano giungendo perfino ad edificare un monastero buddhista nella capitale, San Pietroburgo, monastero poi distrutto durante la Rivoluzione russa. Dopodiché il buddhismo, fra gli anni ’20 e gli anni ’40 del XX secolo, fu quasi del tutto dimenticato, per risorgere all’attenzione pubblica solo dalla metà degli anni ’80, con il tramonto del marxismo/leninismo.

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Negli Stati Uniti, negli anni ’50 e ’60 il movimento Beat accentuò la spontaneità dello Zen di Rinzai, di cui abbiamo già detto, perché quel tipo di buddhismo rifiutava le categorie intellettuali e la spinta alla sistematizzazione razionale della realtà. I poeti Jack Kerouac e Allen Ginsberg su tutti inventarono il Beat Zen. Solo nei tardi anni ’60 l’interesse per il buddhismo Zen si riversò in Europa. Tuttavia il buddhismo tibetano mise piede in Europa pubblicamente a Berlino nel 1952. Fu nondimeno a cominciare dagli anni ’60 che in Europa prese a diffondersi un’altra corrente del buddhismo, il Soka Gakkai. Il Soka Gakkai non operò solo tra gli Giapponesi, ma tra il 1960 e il 1990 fu in grado di ottenere l’adesione di un certo numero di adepti europei. Non abbiamo però incluso l’Italia dove grazie alla popolarità del calciatore Roberto Baggio si pensa che negli anni ’90 circa 18.000 italiani abbiano aderito al soka gakkai.

Lo sviluppo del buddhismo in Australia è in certo modo simile alla ricezione che se ne è avuta in Europa all’inizio del XX secolo. Come negli altri paesi del mondo occidentale giunsero anche qui numerose tradizioni buddhiste assieme al buddhismo Zen.

A cominciare dagli anni ’60 negli Stati Uniti il recepimento del buddhismo assunse un orientamento diverso. L’interesse per il buddhismo cominciò a derivare dalla pratica della meditazione. Si voleva sperimentare il buddhismo come un nuovo stile di vita, con nuove sensazioni nel corpo e nello spirito. Il “Siddartha”, l’opera di Hermann Hesse del 1922, fu tradotta in molte lingue. Vennero fondate, in molti paesi europei, centri, associazioni e fondazioni ispirate al buddhismo, a volte anche da parte di “maestri” non occidentali ma per l’appunto provenienti dall’estremo oriente.

Negli anni ’80 al boom dello Zen in Europa segue il boom del buddhismo tibetano. Dalla metà degli anni ’80 il buddhismo tibetano ha assunto una organizzazione stabile in Nord America, in Australia, Inghilterra, Francia, Svizzera, Olanda, nella Repubblica Federale Tedesca e infine in Sud Africa.

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Negli anni ’90 il buddhismo in Occidente presenta un quadro vario e molteplice. Il buddhismo possiede una base organizzativa molto forte e gran parte del suo sviluppo è dipeso da questo fattore, ma anche dalla capacità di questo culto di ricevere ed accogliere in sé tendenze spirituali e religiose anche molto lontane tra loro, sia a livello di dottrina sia a livello di pratiche rituali.

In tempi più recenti si sono sviluppate nuove forme e interpretazioni del buddhismo, che intendono adeguare il culto alla situazione delle società industrializzate e urbanizzate dell’Occidente. Con l’espansione mondiale del buddhismo nel XX secolo, il dialogo con i valori e la spiritualità occidentale, la ricerca di un’intesa tra le varie tradizioni, la religione del Buddha sembra essere entrata in una nuova fase della sua storia.