mercoledì 20 agosto 2025

Parte quinta: L’anima in Sant’Agostino

Mi si consenta di concludere il presente lavoro con un tentativo di commento e chiarificazione fondato su due opere giovanili di Sant’Agostino, entrambe aventi come oggetto di riflessione la sostanza animica. Nel prosieguo dello scritto si evidenzieranno le differenze che corrono nella riflessione sull’anima tra San Tommaso e Sant’Agostino, il primo più legato alle categorie aristoteliche, come il lettore che sia giunto a questo punto della lettura non mancherà di osservare; il secondo maggiormente ispirato da Platone e anche in minor misura dalle Enneadi di Plotino. Gli scritti in parola sono intitolati, l’uno all’”Immortalità dell’anima”, l’altro alla “Grandezza dell’anima”. Cominciando col commentare il primo dei due scritti nominati cioè “L’immortalità dell’anima”, occorre dire inizialmente che il ragionamento di Sant’Agostino è meno

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complesso di quello di San Tommaso, ma anche meno chiaro, e che ciò costituisce un ostacolo non indifferente alla comprensione dello scritto in parola. Per quanto i limitati mezzi logici e speculativi di cui lo scrivente dispone lo consentano, tenterò di chiarificare, e in maniera che oso sperare in qualche modo originale, lo scritto in parola. All’inizio del primo scritto di cui tenterò il commento si trova una serie di osservazioni che dovrebbero operare una differenziazione a carattere concettuale tra ciò che sussiste per sé e ciò che non sussiste per sé. Ma vediamole nello specifico. Sant’Agostino comincia con l’affermare che se il novero delle conoscenze umane sta in qualche luogo, se non può star se non in una realtà che vive, cioè nell’intimo di coloro che quella cultura, quel sapere coltivano, allora quel sapere esiste sempre e si trova nell’anima dell’uomo. Appurato ciò Agostino afferma che ciò che vive ed è immutabile come tutto ciò che può essere imparato, cioè la conoscenza, il sapere, presuppone che anche il luogo in cui dato sapere risiede sia immutabile e non corruttibile. Tale luogo non può che essere l’anima, in quanto nessuna cosa che contenga un’altra cosa che esiste da sempre e per sempre, può considerarsi non esistere per sempre. Come l’oggetto del capire esiste sempre e di per sé, allora anche l’anima, la quale soltanto è preposta all’acquisizione di conoscenza, esiste e sussiste di per sé e vive sempre. Ora, mentre il corpo umano è mutevole, la ragione non lo è, cioè la ragione è immutabile. E’ invece mutevole tutto ciò che non è sempre nello stesso modo. Essendo sempre uguale a sé stessa la ragione è immutabile. Quindi, sia che si identifichi con la ragione, sia che sia collegato ad essa e sia che da essa prescinda, l’animo umano è immutabile. Altro requisito dell’animo umano è che esso è fonte di movimento, e tuttavia continua ad essere immutabile, mentre vi sono alcune cose che non sono dotate di

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movimento in sé, cioè da esse stesse originato, e quindi non sono per sempre sussistenti ma corruttibili. Allo stesso modo ciò che può essere diviso in parti non è in grado di essere perfettamente uno e non esiste un corpo senza parti come non esiste un tempo senza intervalli, così occorre che perché l’essere si rapporti a queste realtà passi del tempo, e vi è quindi bisogno di memoria per poterle comprendere, nella misura del possibile. E l’attesa riguarda momenti futuri, la memoria momenti passati. Nulla infatti esiste se non viene percepito nell’attimo in cui compie una operazione, cioè nel presente. Tutto ciò che non esiste nel presente ma o nel passato o nel futuro è un qualcosa di mutevole, e quindi non sussistente per sé ma soltanto nel ricordo e nell’attesa. Da ciò si può inferire che pur muovendo cose mutevoli, l’anima non muta. Quindi se a causa dell’animo che muove i corpi si produce qualche mutamento di essi, non si deve ritenere che anche l’animo muti, e quindi nel tempo si corrompa e muoia. Se infatti nell’animo sussiste qualcosa di immutabile che non può esistere senza la vita, è necessario che all’animo sia riservata una vita perenne. Poiché inizialmente si detto che il sapere, ciò che viene definito da Agostino “disciplina”, è immutabile, se è vera questa proposizione è vero anche che l’”impulso” verso la disciplina e la stessa disciplina risiedono all’interno del soggetto che quella disciplina conosce e attraverso cui modifica la realtà sensibile. Ma se è vero questo allora la disciplina, immutabile, deve risiedere in una parte dell’uomo parimenti immutabile e questa parte è l’anima. Ora l’animo sente di possedere una nozione, solo se essa affiora al suo pensiero. Quindi nell’animo può esservi qualcosa che l’animo stesso non avverte in sé. Quando ciò accade si parla di dimenticanza o incompetenza. Ma poiché quando siamo interrogati da qualcuno, le nozioni che ci occorrono per elaborare la risposta le troviamo in nessun altro luogo che nel nostro animo, è evidente ancora una volta che poiché le nozioni che esso animo trova in sé stesso sono immortali allora lo è

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anche l’animo se è vero che tutti i principi di ragione esistono nel suo interno per quanto esso sembri non possederli o non ricordarli. Tuttavia a ben vedere anche nell’anima esiste un principio di mutamento, il quale si scinde in due modalità di mutamento. L’anima può infatti mutare o secondo le affezioni del corpo o secondo le proprie. Quelle del corpo sono ad esempio gli anni d’età, le malattie, i dolori, i travagli, i malesseri, i piaceri; quelle proprie dell’anima il desiderare e il rallegrarsi, il temere e l’affliggersi, lo studiare e l’imparare. Tutti questi mutamenti però sono soltanto accidenti che non mutano la sostanza dell’anima, anche se possono mutare permanentemente quella del corpo. Così ad esempio la cera da bianca che era può entrare in contatto con un corpo che la rende nera. Ma questo non vuol dire che la cera sia diventata qualche cosa di diverso da ciò che era prima. Ciò vale anche per l’animo. Quindi se l’anima è il soggetto, e se un anima non può essere che un’anima viva, né il sapere può esistere in essa senza la vita, e se il sapere è immortale, allora l’anima è immortale. Passando ad analizzare una parte dell’essere che è simile sebbene distinta dalla sostanza animica, cioè la “ragione”, occorre dire che innanzitutto la ragione è lo sguardo dell’anima, col quale essa fissa il vero legame che interessa l’anima, escludendo quello con il corpo; oppure è la contemplazione stessa del vero, senza il tramite del corpo; o ancora è il “vero” stesso che viene contemplato. Nessuno discute che la ragione nel primo senso sia nell’anima. Il grande problema infatti riguarda il terzo senso, cioè se quel vero che viene contemplato senza l’uso del corpo, esiste per sé stesso o sia nell’animo. Agostino conclude che ciò che è ente di ragione è senz’altro contemplato attraverso l’animo, tutto ciò in quanto intuitivamente l’animo ci fa comprendere che si tratta di oggetti intellettuali e quindi svincolati dalla percezione sensibile. Si potrebbe dire che l’animo si separa dalla ragione e quindi dagli enti di ragione solo se tra realtà che non sono collocate nello spazio possa esservi una reciproca separazione. Se si dubitasse da alcuni che l’anima

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è immortale allora a costoro andrebbe fatto notare che essendo ente di ragione e capace di pensare gli enti di ragione sia la “ragione stessa” a sorreggere l’anima conferendo ad essa l’essere e l’immutabilità. L’animo non può mai essere separato dalla ragione, quindi non può perire. Può tuttavia accadere che proprio l’allontanamento dalla Ragione non possa avvenire se non a causa di un decremento dell’anima, se è vero che il contatto animico con il principio di Ragione rende l’animo perfetto e immutabile. Ora, ogni decremento dell’anima tende al nulla e tendere al nulla vuol dire tendere alla distruzione. Ma non tutto ciò che tende al nulla diviene nulla, anche se si avvicina a quest’ultimo. Il decremento interessa per altri motivi anche il corpo e non solo l’animo. Ma per quanto un corpo possa tendere al nulla esso non lo raggiunge mai, come insegna il paradosso zenoniano di Achille e della tartaruga e come insegna la conoscenza matematica degli infinitesimi. Tanto ciò è vero per il corpo, quanto a maggior ragione è vero per l’anima. Per dimostrare quanto si è detto in merito al corpo assumiamo come punto di partenza il principio secondo cui nessuna realtà crea o genera sé stessa. E’ parimenti necessario che ciò che non è stato creato o non ha avuto origine e tuttavia esiste, sia perenne. Ora poiché il corpo è qualcosa di creato occorre che il creatore abbia qualcosa in più rispetto alla creatura, cioè il corpo. E ciò vale per tutti i corpi esistenti in natura, tanto nel microcosmo quanto nel macrocosmo. E’ cioè necessario che il corpo sia stato creato da una natura sovra/corporale o spirituale. Ora, questa forza, o natura incorporea, creatrice dell’universo corporeo fa sussistere l’universo con una potenza costantemente presente. Ciò che non esiste per sé stesso infatti, verrebbe meno al venire meno della causa per la quale esiste. Tutto ciò non vale per l’animo, il quale anche se creato partecipa di sostanza imperitura e può quindi sussistere anche di per sé, cioè senza che la sostanza di cui è parte lo tenga legato a sé, e per assurdo anche se la sostanza che l’animo costituisce venga meno. Poiché l’anima sussiste per sé ed è quindi eterna non occorre che essa operi per sé stessa

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alcun movimento poiché è nella sua natura “dare” movimento senza però partecipare di quello stesso movimento. Poiché perciò l’anima dà movimento al corpo, a tutti i corpi, occorre pensare non solo che l’animo sia migliore del corpo ma che non possa mai accadere né che l’anima cessi di essere anima né che il corpo cessi di essere corpo a causa del venire meno dell’anima. Da tutto quanto detto si può ricavare che tutto ciò che partecipa dell’anima partecipa della vita, mentre tutto ciò che manca di anima è ciò che chiamiamo inanimato cioè privo di vita, intendendo per vita il movimento autogenerato dall’anima presente in un corpo. Si tenga presente che l’animo non muore a causa della morte del corpo che lo contiene, sebbene legato ad esso da un nesso inscindibile che tiene in vita il corpo attraverso l’anima. L’anima è la stessa vita del corpo, anche nel momento in cui abbandona il corpo, senza però condividerne la stessa sorte, ossia la morte.  Come forse qualcuno potrebbe pensare l’anima non fa parte della costituzione di un corpo, ma è qualcosa di inalterabile. Niente a che vedere ad esempio con le pratiche ascetiche, che tendono ad influenzare l’anima così come potrebbero in qualche modo e con certe pratiche rendere il corpo immune al dolore fisico. Se ciò non fosse non sarebbe possibile all’anima allontanarsi dal corpo alla morte di quest’ultimo. Quindi la buona costituzione del corpo è nel corpo stesso e non nell’anima altrimenti alla morte il corpo abbandonerebbe sé stesso, mentre è vero il principio che nessuna sostanza abbandona sé stessa. Ciò che determina la morte di un corpo è l’anima, nel momento in cui questa abbandona il corpo. Per passare ad altro si ipotizzi che l’animo sia costretto a diventare un corpo contro la propria volontà e contro la propria natura. Da chi potrebbe esservi costretto? Senza’altro da un’ente che fosse più potente dell’animo, ad esempio da un certo tipo di corpo. Ma logica e realtà vogliono che nessun corpo possa mai essere più potente di un’anima. Se poi si trattasse di un animo più potente, questi sarebbe in grado di sottomettere solo qualcosa che è già sottomesso al suo potere. E’ infatti necessario che, qualunque animo ne abbia un altro in suo potere, intenda e voglia esercitare il

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suo potere solo su quell’animo e non su un corpo. Infine questo presunto animo che costringe o è l’animo di un corpo animato oppure è privo di corpo. Ma in quest’ultimo caso fa parte di un’altro mondo e se è così, è sommamente buono e mai vorrebbe indurre in un altro animo, quest’ultimo privo di corpo, una tale ignobiltà. Ma, si domanda Agostino, un’anima può essere trasformata in un corpo? Per quanto il corpo occupi uno spazio, l’anima si unisce ad esso non spazialmente, ma in relazione all’ordine gerarchico delle due nature: quella del corpo e quella dell’anima. Da ciò si può capire che la forma per cui il corpo “è” gli viene conferita dall’essenza suprema per il tramite dell’anima. Ed è per questo che la funzione dell’anima non è diventare corpo ma dare vita al corpo. E non si trova nulla, se non l’anima vivificante che sia tra la vita suprema, che è Sapienza e Verità inalterabile, e ciò che da ultimo viene vivificato, cioè il corpo. Esiste in sostanza, dice Agostino, una sorta di “scala dell’essere” alle cui sommità stanno gli esseri superiori che trasmettono una quantitativo di forma agli esseri immediatamente inferiori, e questi ultimi a quelli ancora inferiori e così via nella catena dell’esistenza. Ed è interesse di tali esseri che l’anima o forma sia anima e forma e che i corpi rimangano corpi senza che le due nature si sostituiscano l’una all’altra. E’ per questo motivo, come per gli altri che abbiamo addotto a sostegno della immutabilità della forma animica, che l’anima dà vita a un corpo anziché essere un corpo; e che oltre a ciò l’anima ha una natura immortale che le consente di sopravvivere al corpo. A questo punto del discorso e terminata la sintesi del primo dei due scritti agostiniani di cui mi ero prefissa la trattazione, passerò al secondo, intitolato come detto alla “Grandezza dell’anima”. La peculiarità di questo scritto di Agostino è che esso si svolge in forma di dialogo tra lo stesso Agostino e il suo amico Evodio, con chiaro riferimento al modo di procedere platonico.

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Evodio è il primo dei due protagonisti del dialogo a prendere la parola e a rivolgere ad Agostino alcune domande riguardo all’anima e cioè: da dove l’anima derivi, quali siano i suoi attributi; quanto sia grande; perché sia stata data al corpo; quali trasformazioni subisca una volta entrata nel corpo e una volta che se ne sia allontanata.  Agostino finge di non aver capito e domanda a sua volta se Evodio voglia conoscere il luogo in cui l’anima si trovava prima di prendere possesso di un corpo oppure quale sia la sua sostanza. Poiché Evodio dice di voler sapere entrambe le cose Agostino risponde che la dimora, o patria dell’anima è Dio stesso, dal quale essa anima è stata creata. Non si potrebbe invece dare un nome alla sua sostanza, poiché la sostanza dell’anima non rientra tra le nature conoscibili, cioè essa non è fatta né d’aria, né d’acqua, né di fuoco. Poiché Evodio critica Agostino dicendo che, se l’anima è stata creata da Dio, essa deve per forza di cose avere una sostanza conoscibile, Agostino risponde che pur sapendo che la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco sono state create da Dio non se ne può definire la sostanza. Così è per l’anima. Non del tutto convinto da questo ragionamento, ma desideroso di approfondire, Evodio chiede ad Agostino quali siano gli attributi dell’anima, al che Agostino afferma recisamente che attributo dell’anima è l’immortalità, in quanto creata direttamente da Dio che è di per sé immortale. E alla domanda successiva sul perché l’uomo non sia capace di creare cose immortali Agostino risponde che l’uomo non può creare cose immortali poiché egli stesso non è immortale. Alla domanda relativa alla grandezza dell’anima Agostino risponde chiedendo a sua volta se intento di Evodio sia sapere le “dimensioni” fisiche dell’anima oppure la sua grandezza intesa come “virtù”. Poiché Evodio vuole conoscere entrambe le cose, Agostino comincia col dire che la “dimensione” dell’anima, cioè l’insieme

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delle sue misure è inconoscibile, in quanto l’anima non è un corpo, perché se anche quest’ultimo è materiale, l’anima non lo è. Per rafforzare la propria spiegazione sull’assenza di dimensioni nell’anima, Agostino conduce Evodio a riflettere sul fatto che se si paragona una sostanza materiale, come è un albero ad una sostanza non visibile come l’idea di giustizia, non si può dire che l’albero esista in quanto corporeo ma ciò non valga per l’idea di giustizia. Poiché Agostino dimostra inconfubilmente ad Evodio che un corpo non necessariamente è dotato di anima, e che quest’ultima è una prerogativa che, in natura compete solo agli uomini, allora Evodio tenta di accostare l’anima ad una qualcosa di immateriale che pure esiste in natura senza che si possa definire secondo le proprie dimensioni e che non di meno sia fatto della stessa sostanza immateriale di cui è fatta l’anima. Questo qualcosa è definito da Evodio come corrente d’aria o più semplicemente vento. Pur ammettendo che quest’ultimo è un corpo Agostino afferma che esso potrebbe essere accostato all’anima in quanto non ha dimensioni, ma è al contempo differente dall’anima in quanto è un fenomeno che appartiene alla realtà percepibile con i sensi mentre l’anima non lo è. Quanto alla sua dimensione l’anima ha la dimensione o le dimensioni del corpo che la ospita. A questo punto è Agostino a porre una serie di domande a Evodio per consolidare il discorso sulle proprietà dell’anima. Agostino chiede perciò ad Evodio se egli ricordi la città di Milano. Alla risposta affermativa di Evodio Agostino evidenzia che l’anima ha la capacità di ricordare e che tale capacità, cioè la memoria si trova nell’anima, ossia solo l’anima possiede questa facoltà. Ma, domanda ancora Evodio, come può l’anima avere conoscenza di tutti i luoghi che ha percepito esistere attraverso i sensi e che percepisce se essa è priva di dimensioni? Per rispondere alla questione sulle dimensioni Agostino parte dal considerare ciò che nella realtà sensibile può essere considerata una linea, ad esempio il filo di ragnatela prodotto da una ragno. Se di quel filo si può dire che esso è in qualche modo lungo largo e profondo lo stesso non si può dire degli enti di ragione che

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dimorano nell’anima, cioè le linee e le figure astratte dalle loro concretizzazioni reali. La domanda ulteriore che Agostino rivolge ad Evodio è se si possa ottenere una qualche figura se si conduce all’infinito una linea da uno o entrambi i versi. Poiché Evodio ammette che per ottenere una figura sono necessarie almeno tre linee, che, ammette Evodio, nella loro disposizione a formare un triangolo sono esteticamente più belle se tutte della stessa lunghezza, cosicché ogni linea sia posta di fronte ad un angolo, Agostino domanda: se poi si aggiungesse alla figura un angolo ulteriore cosa si otterrebbe, qualcosa di migliore o di peggiore? La risposta di Evodio è che la figura così ottenibile sarebbe migliore della precedente perché maggiormente dotata di uguaglianza. Ma se si volesse indagare quale sia la figura dotata di maggiore uguaglianza e quindi più perfetta, questa non sarebbe certo il quadrato. E neanche lo sarebbe il triangolo. Allora la figura più perfetta è quella che non è composta di linee rette, angoli o diagonali, ma soltanto la lunghezza la quale a differenza della larghezza risulta prevalente in quanto non può essere divisa come non lo può una linea retta, se non per il lungo. Dopodiché Agostino invita Evodio a considerare se vi sia un ente di ragione che non ammette divisibilità. Questo ente è il punto. Il punto non ha dimensioni, non ha lunghezza, né larghezza, né profondità. Ma se tutti gli enti di ragione che ti ho indicato, dice Agostino, esistono solo in quanto concetto mentre non esistono nella realtà, allora è vero o non è vero che essi possono essere percepiti solo dall’anima, che è ente di ragione essa stessa? Ma se l’animo non è né corpo né cosa corporea, allora cos’è?, domanda Evodio. Agostino risponde paragonando l’anima a un qualcosa di più perfetto degli enti di ragione, poiché se gli enti di ragione, prima fra tutti la linea, non ammettono divisibilità o, al pari della linea la ammettono minimamente, deva allora per forza e a maggior ragione esistere un qualcosa che sia più perfetto della linea perché del tutto indivisibile. Questo qualcosa dice Agostino, è l’anima. Alla domanda se l’anima sia legata al corpo nella crescita, se cioè cresca come cresce il corpo di un infante che diventa uomo, Agostino risponde attraverso alcuni esempi che l’anima in quanto è la più perfetta creazione della divinità, cresce sì, ma non in quantità, cioè non in

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dimensioni ma in virtù, la quale ultima è quanto di meglio si possa ricercare attraverso le facoltà intellettuali che l’anima rappresenta. Non quantità dunque, ma valore. L’anima infatti, ad esempio, dice Agostino, imparando un’arte o acquisendo cultura, non cresce in dimensioni ma cresce in valore, in potenza, in competenza. Per passare ad altro e definire ciò che in rapporto all’anima è la sensazione, Agostino la definisce come la consapevolezza da parte dell’anima di ciò da cui il corpo è affetto. Cominciando il discorso dalla sensazione visiva Agostino chiede a Evodio da che cosa è affetto il suo corpo mentre parla con Agostino. Evodio risponde che la visione del volto di Agostino è una sensazione, o meglio sollecitazione degli occhi, perché se tale sollecitazione non vi fosse essi occhi non vedrebbero nulla. Ma Agostino rintuzza Evodio chiedendo quale sia questa sollecitazione, al che quest’ultimo risponde che la sollecitazione visiva interessa la vista. E quindi dice Agostino chi gioise subisce gioia. O no? Ovviamente no, perché sempre Agostino afferma che le affezioni del vedere e del sentire fanno parte del corpo cui l’anima inerisce. Ma le affezioni dell’animo, poiché a quest’ultimo rispondono, si possono avere della cosa vista e sentita anche a distanza quando la stessa cosa non è presente, attraverso la memoria. Per quanto riguarda la dottrina delle definizioni Agostino la spiega nel modo seguente. La definizione è un insieme di parole logicamente collegate che servpono a descrivere le caratteristiche di un soggetto. Una delle regole che sottostanno alla definizione è la regola della “conversione”. Cioè se la definizione viene ripetuta in diverso ordine sintattico ma contiene gli stessi termini definitori si può dire che le due definizioni coincidono, sempre però che abbiano una qualche realtà. Ad esempio non si può dire: “l’uomo è un animale quadrupede” ma si deve dire “l’uomo è un animale bipede”. Se si vuole applicare con profitto la regola della conversione di deve dire: “tutti gli uomini sono bipedi” e “un animale bipede può

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essere chiamato uomo”, essendovi tra le dette proposizioni niente di logicamente e ontologicamente incongruente. Per quanto riguarda ancora le affezioni corporee, alcune di esse, dice Agostino, derivano dai sensi, altre possono solo essere congetturate. Un esempio è il confronto tra una bestia e un essere umano. Anche la bestia è suscettibile di affezione al pari di un uomo, ma essa non fa uso della ragione per discernere le affezioni che derivano dai sensi, in quanto è priva di ragione. Sempre per rimanere al tipo di rapporto che in questo senso corre tra una bestia e un uomo va detto che la scienza è un qualcosa di prettamente umano perché l’uomo è dotato di anima razionale e quindi un animale non potrebbe ragionare sulle proprie affezioni così da trarne dei principi di sicenza. L’uomo infatti è consapevole di una affezione del corpo tramite il ragionamento sulla affezione stessa, ragionamento che alla bestia è precluso. Nel dialogo tra Agostino e Evodio si pone poi una questione singolare. Se cioè il suono di una parola, suddvisa una per una in tutte le lettere che la compongono e che corrispondono ad altrettanti suoni, perda il proprio significato. E’ sicuramente vero che il significato della parola è dato dall’insieme delle sue lettere unite e pronunciate l’una di seguito all’altra. Ma cosa si può dire di un anima il cui corpo venga diviso in parti? La stessa cosa, per analogia che si può dire per le parole private della successione delle lettere. Si è persa l’anima della cosa così come quella del corpo, anche se il corpo continua a muoversi, o parte di esso, come accade quando si tagli la coda ad una lucertola. Esistono però parole che, anche se divise non perdono del tutto il proprio significato ma piuttosto ne acquistano altri: Agostino fa l’esempio della parola “lucifer”, che se divisa in sillabe suona luci (cioè dativo latino di luce) e fer (che è l’imperativo del verbo portare), ciò a dire che a volte un residuo di vita, se l’esempio fatto vale anche per gli uomini, può rimanere fissato al corpo anche se l’anima lo ha abbandonato.

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Dopo aver disquisito in maniera sofistica, cioè usando gli stessi artifici dei sofisti, Agostino fa un lungo discorso circa l’anima e il proprio destino terreno e ultraterreno, descrivendo quelli che lui chiama “gradi” dell’ascensione dell’anima verso Dio. Si tratta di un discorso a carattere teologico non molto originale, che è più simile ad una omelia che ad un discorso filosofico e i cui dettagli credo possano essere tralasciati, per evitare di tediare il lettore col commento di un discorso che si può ascoltare in qualunque funzione liturgica e che è volto non ad indagare i principi di natura ma ad elogiare la propria fede e i dogmi su cui questa è fondata. Tutto ciò che di attinente all’anima è contenuto nell’opera in commento è stato sintetizzato e riassunto anche attraverso l’aggiunta di considerazioni personali da parte dello scrivente. Credo che non sia necessario aggiungere altro.