ISLAMISMO
Una riflessione su basi storico – dottrinali
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Da oltre duemila anni gli arabi attribuiscono alla loro patria il nome che, diffuso anche in Occidente, vuol dire penisola: la sua superficie misura 2.800.000 km quadrati e la sua origine si deve all’avvallamento di una fossa tettonica, in prossimità di quello che sarebbe divenuto il Mar Rosso. Al centro della Penisola si colloca l’Altopiano del Nagad, al cui settentrione si estende per 57.000 km quadrati il grande Nafu dalle dune alte fino ai trenta metri. Malgrado quest’ultimo sia uno dei deserti più aridi del pianeta, non manca, tra l’autunno inoltrato e l’inizio dell’inverno una vegetazione in grado di prosperare a causa della piogge, non abbondanti e tuttavia sufficienti a determinare un fenomeno di rigenerazione della flora locale, con la crescita di piante come Zygophillacea, Salsola, Atriplex, o Euphorbia. A nord dell’Altopiano del Nagad si estende l’antico letto di un fiume disseccato che continua per circa 300 km. Collegato al Nagad dalla Dahna si incontra il Quarto vuoto, notissimo deserto che si allunga nel Nagad, mentre fra Oman e Yemen si colloca la distesa sabbiosa detta ar – Rimal. Affacciata sul Golfo Persico a nord delle regioni omanite e della fertile striscia della Batina,vi è la torrida regione di al – Hasa, oggi provincia orientale. Esistono nondimeno sia nelle zone interne, sia in quelle occidentali numerose regioni della penisola oggetto di precipitazioni anche abbastanza intense.
Per quanto riguarda la temperatura, essa è relativamente sopportabile e in non pochi casi addirittura temperata, tuttavia le forti escursioni termiche, contribuiscono all’avanzata delle zone desertificate, oltre a sconsigliare di pernottare in quei luoghi. Tutto ciò implica che l’intervento umano in materia di canalizzazioni, dighe, invasi, sia stato massiccio già a partire del IV millennio. Nelle regioni meridionali le varie popolazioni – sedentarie o di transito –hanno così lasciato fin dalle età più antiche un prezioso patrimonio, non solo idraulico ma anche linguistico, epigrafico, architettonico e urbanistico, che non mancherà di stimolare e impegnare la crescita della futura società islamica.
Gli arabi
Per quanto concerne l’etimo del termine “arabo”, esso era con tutta probabilità un etnonimo. Alcuni studiosi affermano però che fonti veterotestamentarie vorrebbero
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che il termine in questione indicasse qualcosa come “mescolato” o “miscelato”. Tuttavia tradizionalmente i lessicografi arabi continuano a vedere nell’etimo del termine il significato di “nomade”, “beduino”, “pastore”, “abitante delle tende”.
Per quanto riguarda però lo sviluppo di una lingua vera e propria se ne potrà parlare solo a partire dal III secolo a.C.
Nell’853 a.C. le cronache assire ricordano a una battaglia cui prese parte Ghindb l’Arabo, con la disposizione delle proprie forze militari a favore del re di Damasco Im – Idri, che coi suoi alleati aveva cercato di opporsi al sovrano assiro Shalmanesser III.
Di gruppi arabi parlava anche, nell’VIII secolo a.C. anche il principe Ninunrta – kudduri –usuf di Anat sull’Eufrate, ivi regnante, che si vantava di aver saccheggiato “tutto quanto era possibile desiderare a una carovana di 200 dromedari”. Tutto ciò non era molto differente da ciò che in più occasioni avevano fatto anche i Sabei di cui tra poco parleremo.
Sappiamo che la regina degli Arabi dovette pagare tributo agli assiri, così come la regina Sam si dovette piegare a prendere ordini da un commissario assiro cedendo al vincitore un reparto di 10.000 soldati e le effigi delle proprie divinità restituite poi dopo l’umiliante incisione sulla base di quegli idoli del nome del re assiro e del suo Dio nazionale Assur. Nel 703 a.C. Yati regina degli arabi è punita per aver preso parte alla nuova insurrezione contro i babilonesi di Sennacherib, mentre una quarta regina, Te’l – hunu schieratasi dalla parte dei babilonesi, viene deportata. Troppe regine per poter ignorarle, anche se comunque sia non si può parlare di un matriarcato di lingua araba.
Per quanto riguarda i Sabei la loro protostoria, al di là delle dispute tra gli studiosi in ordine ad una corretta datazione, pare cominciare intorno al 1200 circa a.C. I Sabei giunsero nel Sud della penisola araba probabilmente verso la fine dell’età del bronzo, provenendo dal nord – ovest mesopotamico, ripercorrendo probabilmente
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la stessa via che era stata percorsa già da altre popolazioni. Tra il quarto millennio a.C. e il secolo VIII a.C. pare che le popolazioni dell’area fossero organizzate in federazioni. La più potente di queste organizzazioni su base federativa pare fosse quella dei Sabei. Complessi sistemi murari, opere di carattere militare, palazzi monumentali e raffinati impianti idraulici testimoniano un controllo dell’ambiente che coniugava una grande ricchezza materiale insieme ad un alto livello spirituale. Per quanto riguarda le opere idrauliche va senz’altro ricordato il complesso di dighe costruito per indirizzare le acque nel periodo monsonico verso le terre da coltivare ricavando con tale sistema 9.600 ettari di superficie irrigata e coltivabile. Ovviamente questo grande complesso idraulico andava mantenuto periodicamente, e infatti a livello epigrafico si conoscono almeno quattro importanti restauri. L’ultimo di tali interventi data al VII secolo d.C. dopodiché non vi fu più modo di seguire la consueta procedura di manutenzione e restauro. Da qui la totale rovina del manufatto e la crisi economica e politica, commerciale e idraulica che non mancò di influenzare profondamente la successiva storia arabo islamica. Pare che l’avvenimento costituito dalla impossibilità di utilizzare le terre fertili da parte dei Sabei fosse un avvenimento di tale importanza da indurre una tribù yemenita, i Ghassanidi ad adottare un calendario riferentesi alla “rottura della diga”, cioè a far data da allora. Ciò dimostra che il venire meno del sistema idraulico è più risalente del VII secolo.
Dalla seconda metà del VI a.C. i Sabei abbandonarono la loro titolatura per acquisire quelle di “re”, probabilmente in sostituzione dell’iniziale organizzazione federativa, non più utile perché ritenuta un modo di gestire il potere meno efficiente della concentrazione dello stesso potere nel mani di un singolo individuo.
Una popolazione che strinse rapporti commerciali con i Sabei furono i Minei i quali tuttavia non batterono moneta, quindi si può ritenere che il loro rapporto con i Sabei non fosse del tutto autonomo ma che in definitiva vi fossero comunque sia rapporti commerciali intensi tra le due etnie, nell’intorno delle rispettive capitali, grazie
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all’azione di alti funzionari minei preposti alla cura degli interessi commerciali della madrepatria e delle comunità ad essa facenti capo.
In questo modo i minei sarebbero stati in condizioni di gestire in regime di monopolio il traffico dell’incenso, della mirra, del cinnamomo, della cassia, dell’aloe, del balsamo e delle altre sostanze aromatiche che sempre i minei portavano a settentrione della penisola e poi verso ovest agli empori del vicino oriente mediterraneo di modo che con la Grecia, Roma, la Persia e l’India mantennero a lungo vivace la domanda di tali prodotti.
Il traffico dell’incenso e degli altri aromata conobbe una progressiva diminuzione a partire dal secondo secolo d.C., a causa del decremento della domanda, della corposa concorrenza dell’incenso africano e del declino dei regni sud – arabici, cui non si sottrasse neanche l’Etiopia.
Agli esordi del I secolo d.C. nella regione a meridione dell’attuale città di San’asi si costituiva una nuova entità statale guidata dalla famiglia regale che aveva in Ma’rib la propria capitale e nel palazzo di Raydan la manifestazione più evidente del suo potere. I signori di Raydan strinsero alleanze con i popoli della zona, soprattutto con il regno Sabeo riformato, che con il precedente regno di Saba non aveva molto a che vedere a causa delle peggiorate situazioni economiche e militari. Che Raydan stringesse poi una alleanza con gli Himyariti sta ad indicare sulla base delle fonti una medesima realtà oppure no, sta comunque di fatto che tra il 270 e il 280 d.C. la dinastia di Zafar, dopo aver vinto i suoi nemici di sempre, i Sabei, potrà fare assumere al suo sovrano il titolo onorifico di “re di Saba e dhu Raydan, dell’Hadramawt e dello Yemen”, titolatura che in seguito comprenderà la dicitura “dei loro nomadi, dell’altopiano e della pianura costiera”. L’età Himyarita arrivò a lambire la fine del VI secolo: lunghi anni di scambi commerciali ma anche di rivalità con l’Abissinia, con Roma e con l’Iran partico e poi sassanide.
Un esempio di questi antagonismi fu la spedizione che, nel 24 a.C. l’imperatore Augusto ordinò per mettere le mani direttamente alla fonte delle ricchezze che i
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romani acquistavano di seconda mano subendo i relativi costi. La spedizione era comandata dal prefetto d’Egitto Elio Gallo. L’impresa tuttavia fornì scarsi risultati, e spinse Roma a scegliere di incrementare il commercio con i paesi viciniori come l’Egitto, cosicché le vie di terra furono lasciate a quel fenomeno di progressiva beduinizzazione che durerà fino all’ inizio del VII secolo.
L’Ebraismo e il Cristianesimo penetrarono in Arabia tra il primo e il quarto secolo in connessione l’uno con la diaspora seguita alla rivolta antimperiale di Bar Kochba, l’altro con la presenza in Siria dell’impero bizantino e con la potente monarchia abissina, che profittò a più riprese della sua estrema vicinanza per ingerirsi mediante invasioni a più riprese, negli affari del sud della penisola.
Gli himairiti manifestarono un certo favore per gli ebrei, che nel territorio arabo riuscirono ad attirare a sé molti proseliti. Diverso il trattamento per i cattolici che vennero sterminati in quell’area a causa di un decreto del 523. Si pensava infatti che i Cristiani fossero collusi con il governo aksumita, ma lo sterminio servì anche ad abolire un cospicuo debito con la comunità cristiana.
Il bagno di sangue fornì il pretesto per un intervento della Abissinia che inflisse una devastante sconfitta agli Himyariti per mano del negus Ella Ashbea. Lasciato il paese alle cure di due generali il Negus tornò in Africa, ma nel 530 Abraha si fece riconoscere sovrano di un ricostituito regno Himyarita, cui Costantinopoli chiese aiuto, poiché impegnata in una pluriennale guerra contro i Sassanidi, e di inviare truppe passando attraverso la regione dell’Higaz.
L’azione di Abraha per quanto svogliata, e quelle dei suoi successori convinsero la Persia dei rischi di una alleanza bizantino-aksumita-yemenita. Di lì a poco un nuovo protagonista proveniente dalle regioni arabe più settentrionali avrebbe assoggettato con la forza delle sue idee e delle sue armi le contrade yemenite, non mancando tuttavia di versare un cospicuo tributo agli dei delle regioni sottomesse, che comunque sia erano ancora capaci di instillare, anche nei credenti di altri culti, il senso del sacro e della devozione.
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Le religioni dell’Arabia meridionale
Una classica linea di ricerca propone ancora oggi di ricondurre i culti astrali alla triade Sole-Luna-Venere, in particolare nelle culture religiose emerse in ambito nomade. Le tre suddette nature erano di volta in volta presenti nel pantheon della civiltà araba prima della venuta di Maometto. Si parla ovviamente di culture politeiste, all’interno delle quali il legame che si instaurava tra uno dei popoli pre/maomettani e gli altri si distingueva essenzialmente perché il re o comunque il capo religioso dichiarava di discendere ognuno da una di queste divinità, che come detto erano divinità a carattere solare, lunare, o legate al pianeta Venere di cui probabilmente gli antichi popoli avevano una conoscenza superiore rispetto agli altri pianeti. Ad ognuna delle divinità adorate da questi popoli era dedicato un tempio. La presenza delle divinità rendeva sacri i templi verso cui i fedeli in specifici momenti dell’anno si recavano a portare ossequio e a tributarne il culto. Esisteva altresì un clero che era incaricato della gestione dei luoghi santi e che si poneva come intermediario tra il Dio e la comunità dei fedeli. Il clero poteva avvalersi dell’aiuto di schiavi e di donne per la cura del tempio mentre i terreni incolti all’intorno venivano curati da semplici fedeli, che ne ricavavano una quota sul totale dei frutti, e che erano disposti a consacrare alla divinità non solo i propri beni ma anche sé stessi. Le modalità dei sacrifici erano quelle che tutti i popoli del tempo praticavano ossia non solo prodotti oleo – resinosi ricavati dagli alberi, ma anche animali come ovini, bovini o animali selvaggi, cui potevano accompagnarsi olocausti e libagioni, con l’aspersione dell’altare mediante il sangue della vittima o di altri liquidi alimentari (latte, miele, vino, acqua pura).
Ai sacerdoti competeva elusivamente la funzione cleromantica o oracolare, insieme alla capacità di scrivere testi sacri cui successivamente anche i musulmani si sarebbero dedicati e a cui avrebbero dedicato la stessa devozione. Se è in qualche modo possibile ricostruire un quadro delle attività sacerdotali, non possiamo in alcun modo sapere quali fossero i riferimenti escatologici cosicché dobbiamo
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affidarci alla speranza che nel futuro un nuovo ritrovamento ci aiuti a chiarificare le cose.
I lihyaniti
Le culture del meridione arabico, non hanno lasciato traccia del loro patrimonio letterario, e ancor meno a carattere monumentale. Quel poco che sappiamo ci sopravviene dalla memoria collettiva di quelle stesse genti arabiche, convertite all’islam, che scriveranno numerose memorie di quei tempi, dei quali, pur rimpiangendone gli ideali virili e il modello eroico e avventuroso, ricorderanno il passato idolatrico e polidemonico di ignoranza della vera religione.
E’ evidente che queste testimonianze sono immuni dal sospetto che si sia voluto riscrivere un passato che suscitava non poco imbarazzo, per via di tutti quei compagni di Maometto, gli uomini santi dell’islam, i quali prima di convertirsi avevano vissuto nel paganesimo facendone proprie le pratiche. Nell’indagare le vicende che nel VII secolo d.C. precedettero l’abbraccio dell’islam da parte dei popoli arabi, gli orientalisti sono stati indotti a valutare il debito verso la fede ebraica e in misura minore quella cristiana e zoroastriana. Poco spazio è stato concesso a quelle indigene. Se non si è potuto negare l’evidenza del retaggio sud arabico, sono stati poco numerosi coloro che hanno individuato come dirette ispiratrici del fenomeno islamico le più antiche culture arabiche centro–occidentali e settentrionali che colonizzarono, nei secoli a ridosso della venuta di Cristo, oltre alle regioni sinaitiche e del deserto siriano, quelle dell’altopiano centrale arabico e del versante occidentale peninsulare, fra cui lo stesso Higaz.
Le iscrizioni in caratteri lihyaniti, taymiti (o thamudeni) hasseni o safaiti rappresentano un indispensabile anello di congiunzione fra le culture sud arabiche e quella islamica, consentendo a quest’ultima, un’ascendenza meno casuale ed eccezionale. Dal punto di vista linguistico i lihanyti sono tra le popolazioni in cui più tenue è il ricordo del proprio patrimonio linguistico originario. L’insediamento
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verso il IV secolo a.C. nei loro domini di una colonia minea, non poté mancare di coinvolgere il regno lihyanita, agevolando l’adozione di una scrittura che Dussaud riteneva di derivazione minea facilitando l’assunzione di uno stile di vita improntato a un certo livello di sedentarismo, che implicava l’impegno agricolo e l’intensa attività edile che trova tangibile espressione nella statuaria e nei tempi, ad esempio quello in cui si adorava Dhu Ghaba, nei pressi di Yathrib.
Cosa si sacrificasse non è facile dire ma non sono esclusi sacrifici umani. Fenomeno che non dovette essere poco diffuso nei territori a cultura araba preislamica, relativamente alla quale in quest’ottica vi sono critiche espresse da parte della scrittura coranica, e ciò soprattutto verso coloro che praticavano sacrifici umani. In linea di massima però questa era un’eccezione e infatti i Lihyaniti invece di bruciare grasso e ossa della vittima, si limitavano allo sgozzamento dell’animale, il cui sangue veniva fatto colare sul’effigie del Dio, anche se era praticata l’offerta alternativa di latte, miele e farina o, nel caso di Dhu Ghaba, di vino. Non sappiamo se, così facendo essi mostravano di distinguere i cosiddetti sacrifici di comunione da quelli di espiazione ma pare sia più attendibile l’ipotesi che la distribuzione delle carni sacrificali, a significazione della povera dieta del sacrificatore e dei committenti sacrificanti, sulla falsariga di quanto avverrà al termine dei riti per la dèa highiazena al–Uzzà o per i partecipanti del pellegrinaggio alla Mecca in quell’occasione trovassero un corrispettivo nella preparazione di un tharid, cioè una zuppa con carne e pezzi di pane. Un ruolo non chiarito sembra avessero le donne, tuttavia un dato è certo: esse non potevano avvicinarsi ai luoghi consacrati al culto se non erano in uno stato di purità, ad esempio il divieto valeva per le donne in periodo mestruale.
I Thamudeni
A lungo gli studiosi hanno pensato che i Lihyaniti fossero una branca staccatasi dalla stirpe che definì sé stessa thamudena, prospera per circa un millennio nella zona compresa tra il Golfo di Aqaba e Yanbù. Che sia lecito però parlare di culture
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diverse è dimostrato dalla osservazione paleografica che mostra una innegabile specificità dell’alfabeto thamudeno rispetto a quello lihyanita, malgrado l’appartenenza di entrambi al ceppo sud arabico.
Citati nelle cronache assire dell’VIII sec. a.C. come appartenenti ad una coalizione guidata dal sovrano Tiglat – Pileser III, insediatisi nell’oasi di Tayma, i Thamudeni sono elencati fra le popolazioni sconfitte da Sargon II e come vittime della furia del babilonese Nabonedo che nell’oasi conquistata sarebbe rimasto per un decennio.
Per quanto riguarda le abitudini e consuetudini sociali, è probabile che i Thamudeni fossero in maggioranza allevatori sottoposti alla necessità della transumanza alla ricerca di nuovi pascoli stagionali, ma è poco credibile che non abbiano subito un percorso di sedentarizzazione a causa del contatto con le vicine comunità ebraiche. Nel V secolo d.C. si ha memoria della presenza di un loro contingente nelle file dell’esercito romano stanziato in Egitto, a dimostrazione di una capacità di adattamento alla vita sedentaria, che è chiaramente incompatibile con le abitudini attinenti al nomadismo, cioè l’insofferenza a vincoli e limitazioni.
Ancor più convincente appare la breve descrizione delle genti in parola contenuta nel Corano, che attribuisce ai Thamudeni una grande abilità in materia edilizia e ingegneristica.
Santuari e sacerdoti
Secondo alcuni genealogisti arabi, le popolazioni originarie della Penisola erano scomparse in epoche remote. Le genti residue o posteriori furono distinte in “arabe pure” o arabizzate. Fra queste ultime si annoveravano le popolazioni ismailite ovvero discendenti da Ismail, figlio del mesopotamico Abramo e dell’egiziana Hagar, prosecutore fra le popolazioni d’Arabia della pura fede monoteistica paterna. Una simile classificazione fu evidentemente diffusa in epoca islamica da Arabi yemeniti. Ma se si desse credito a questa interessata ricostruzione si dovrebbe postulare che progressivamente le comunità arabe avrebbero abbandonato l’assetto
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stanziale per ridiventare nomadi. Alcuni studiosi hanno definito sostanzialmente indifferente dal punto di vista religioso l’Arabia preislamica a causa di una corposa tendenza al nomadismo. Questa tendenza la nomadismo contrasterebbe però, col suo interesse per i luoghi di culto, che presuppongono un popolazione stanziale, ad esempio è possibile che sia loro attribuibile il complesso e sviluppato ambito urbano della Higaz e della Tihama. Qui nel VI–VII secolo si palesava una sensibilità che per quanto ruvida, poteva senza altro evolvere verso una forma strutturata di monoteismo, cui già verso il V–VI secolo anelava un sempre maggior numero di coloro che non si ritrovavano nell’ebraismo o nel cristianesimo o nello zoroastrismo.
Il compito realizzato dal Profeta e dai suoi Compagni non sarebbe stato molto più impegnativo di chi estirpa senza sforzo dal terreno una pianta quasi del tutto disseccata. Ben al contrario l’impegno islamico fu grandioso, prolungato e convinto, a fronte di una resistenza vigorosa e non di rado strenua ed eroica, e tale fu l’impegno alla conversione di una popolazione idolatra e sconfitta che neppure a distanza di tempo da quegli avvenimenti, i dottori musulmani ritennero fosse senza rischi descrivere le superstizioni e gli idoli dei loro antenati, e ciò è alla base della manomissione da parte loro di quei testi poetici dove troppo diffusi erano i riferimenti a divinità pagane.
Non è curioso che in questa azione di detrazione del passato pagano dell’Arabia si sia cimentato anche un europeo, il gesuita Lammens, dotato di grande dottrina ma oltremodo condizionato dalla sua militanza nella compagnia di Gesù. In Lammens prevale la tendenza a espungere dalla sua analisi sull’Islam ogni tendenza di tipo pagano.
Alcune osservazioni possono chiarificare il punto. Se col termine Tempio si vuole indicare un fabbricato in cui sia garantito il culto di uno o più dei e se con l’espressione “sacerdote” si intende chi abbia ricevuto una ordinazione sacramentale, allora non potremmo controbattere all’affermazione di vari studiosi
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che parlano di assenza di sacerdozio organizzato nell’Arabia del VI e VII secolo, come non potremmo dissentire dalle affermazioni dello studioso gesuita quando afferma che i sacerdoti erano stati in quel contesto soppiantati da gerofanti, indovini, àuguri, aruspici, addetti ai santuari. Se il concetto di religione è quello delineato dal padre gesuita in parola, allora, sulla base di ulteriori studi indipendenti, bisognerà concludere che in Arabia prima dell’Islam non vi erano religioni propriamente dette. E per religioni propriamente dette si parla di un unico Dio che ha sede in un unico tempio, il cui culto è officiato da un solo sacerdote. Ma ovviamente, dato che il culto propriamente detto necessità di più luoghi di culto, allora necessita di un testo di riferimento, di una gerarchia, e di una chiesa, tutte cose che i culti arcaici o pagani avevano, ma solo in quanto manifestazione del carattere nazionale del popolo pagano che li praticava. Altri studiosi invece ritengono che nell’Arabia pre-islamica vi fossero culti rispodenti alla caratteristiche elaborate dal gesuita Lammens e quindi definibili come religioni o “comportamenti e pratiche religiose”.
E allora l’adorazione, in pellegrinaggio presso la Mecca, dei massi di diverso colore custoditi nella Ka’ba non è altro che un modo per rendere omaggio ai simboli di Allah al quale è impossibile attingere su questa terra se non per opera del Corano, un dio che ha 99 nomi, un dio che ha un volto inconoscibile e irrappresentabile sempre nel mondo sub lunare e quindi non passibile di essere rappresentato in figura umana. Intorno al santuario esisteva di regola un territorio sacro interdetto a chiunque non fosse autorizzato dal custode, quest’ultimo interprete privilegiato dei voleri della divinità. Introdursi nei perimetri più interni del santuario non era lecito se non dopo deferenti soste e rispettose circumambulazioni, e previe meticolose pratiche penitenziali atte a diminuire i rischi generati da un contatto improvvido con la divinità, ad esempio digiuni, lavacri, abbigliamento semplice. Tuttavia era la rasatura dei capelli da parte del devoto a sottolinerarne la totale sottomissione. A questo punto il fedele poteva allora giungere alla celebrazione del sacrificio in cui l’uccisione dell’animale poteva essere accompagnata da libagioni.
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Compito di tutto ciò che presso la ka’ba sostanziava il culto erano esigenze di carattere predittivo in ordine ad prossimo scontro bellico, oppure dirimere problemi giuridici, risolvere casi di omicidio, di furto o di adulterio, esigendo un compenso che si concretava solo una volta avuto l’incarico un buon esito.
Oltre alla divinità anche i jinn, esseri soprannaturali ma meno potenti degli dèi, potevano ispirare parole invasando il malcapitato da essi scelto. L’islam ne ha di molto ridotto la portata e la pericolosità ma in epoca preislamica erano spiriti estremamente violenti e tale violenza si esprimeva in continue aggressioni e uccisioni dei viaggiatori delle vaste lande dell’Arabia centro –settentrionale , oppure a volte nel rendere pazzo qualche malcapitato o costringere i poeti a declamare versi da loro stessi composti.
Al di sotto della Attività di custodia del sacro recinto (sadin), all’invocazione alla divinità (kahin) vi era un terzo elemento religioso, (arif) ossia il veggente delegato a rintracciare oggetti o animali perduti o rubati ricorrendo alla magia induttiva.
Specializzato nella fisiognomica era il hazi mentre il qaif era esperto lettore della pianta dei piedi, astrologo e sapiente cioè il munaggim e attento lettore dei segni sulla sabbia o sul terreno, il katt. Non mancavano ancora chiromanti, rabdomanti e forse ipnotizzatori (raqi). Massimi interpeti rituali del volere divino erano però il sadin e il kahin. Il metodo più affermato per assolvere alla loro funzione era l’estrazione da una faretra di particolari frecce divinatorie, senza punta e impennaggi ognuna decretante un preciso atteggiamento da assumere, anche se a volte le risposte alle domande di rito derivavano dall’esame delle viscere di una vittima sacrificale, o dall’interrogazione di idoli, dotati di capacità ventriloque che si esprimevano in modo impressionante e inaudito, anche per via del rauco tono di voce.
Mecca
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Secondo il Corano i B. Gurhum si sarebbero radicati a Mecca dopo un aspro confronto con i Qatura (altro nome degli Amaleciti). Sarebbero stati i nuovi signori della città a concedere ospitalità alla moglie di Abramo, Hagar, e al loro figlio Ismaele cui il capo dei Gurhum accordò la mano della propria figlia. L’arrivo di nuove popolazioni avrebbe tuttavia la sottomissione dei primi conquistatori, e i nuovi conquistatori furono a loro volta assoggettati da nuovi conquistatori e così via. Che Mecca fosse già in epoca remota importante centro spirituale sembra confermato dalla tradizione che vorrebbe attribuire ad ‘Amr b. Luhayy la primitiva organizzazione della “umra”, il pellegrinaggio diretto al santuario urbano della ka’ba. Il vero rifondatore della città nonché unificatore dei vari gruppi che si riconobbero nel nome Quraysh sarebbe stato però Qusayy b. Kilab, che dopo aver rivendicato dei diritti alla custodia della ka’ba sarebbe tornato dalla Siria avvinado una politica fortemente accentratrice, ma anche un dialogo con le popolazioni sottomesse. Malgrado se ne conosca l’origine settentrionale non è del tutto certo che i Quraysh fossero legati alla stirpe di Kinana da cui avrebbero costituito una tribù separata. Del tutto oscure sono anche le modalità di insediamento nell’area meccana. Il fatto di aver scelto un territorio a fini di colonizzazione fa sospettare che fosse stato scelto in forza di esigenze a carattere militare.
A Qusayy sono attribuite diverse importanti riforme e alcune nuove istituzioni. Se quasi nulla si può dire dei già esistenti istituti politico militari, qualcosa in più si può forse dire sul tipo di compito affidato a Kinana, che ebbe l’incarico di perfezionare il computo calendariale tradizionale aggiungendo un mese ad ogni triennio lunare per far cadere più o meno nella stessa stagione i mesi in cui si svolgevano i pellegrinaggi. Per quanto riguarda l’uso delle armi venne mantenuto a quattro il numero di mesi in cui era interdetto l’uso delle armi per l’adempimento di opere di religione e agevolare le pratiche commerciali. Il fatto però di dover di volta in volta consultare un esperto astrologo al fine di interpretare i moti dei pianeti e delle stelle conferì all’istituto sacerdotale una importanza tale da non poter essere tollerata e quindi da dover essere condannata dall’islam. L’islam mantenne invece gli istituti a
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carattere caritativo cioè concernenti la distribuzione di viveri ai pellegrini poveri che arrivavano alla Mecca, che i pellegrini più ricchi erano ben felici di accollarsi. Il fornire gratuitamente alimenti fu motivo più che sufficiente per attirare dalla propria parte gli assetati e gli affamati beduini dell’Arabia centroccidentale, colpiti da frequenti carestie e costante siccità, per ovviare alle quali i meccani erano tenuti ad attingere alle fonti e ai bacini fluviali siti nelle vicinanze. In tal modo Qusayy attirò a Mecca i nomadi dell’Higaz e un gran numero di Arabi che già si spostavano per prendere parte all’hagg. Tutto ciò che riguardava Mecca era in definitiva legato alla facilitazione dei commerci e al loro incremento.
La Ka’Ba
La Ka’ba è costruzione antichissima sulla cui etimologia non si è del tutto sicuri, malgrado Yakut specificasse che ogni edificio a pianta quadrata è una Ka’ba. Vi erano quindi nei territori arabi molte Ka’ba, tra cui l’edificio meccano, che era il luogo di culto di Hubal, “il signore della Ka’ba”. Il fatto che nel Corano venga più volte condannato il politeismo, potrebbe far pensare che il nome Hubal fosse uno dei nomi di Allah, altri hanno ipotizzato che il nome della divinità meccana potesse rappresentare il nome arabizzato del dio arameo Ba’l. Che però il nome Hubal corrispondesse ad una divinità è fatto acclarato, ed è tanto più acclarato che non si trattasse di Allah. Già nelle culture sud arabiche il nome Ba’l era, secondo varie declinazioni, inteso a definire l’equivalente di “signore o padrone”.
Non va dimenticata in tale contesto la strenua avversione di Maometto per le rappresentazioni immaginifiche di Allah, cioè antropomorfe, mentre ad esempio Hubal si mostrava come idolo dalle fattezze umane con la mano destra d’oro. La capacità mantica di Hubal, espressa attraverso sette frecce estratte dal suo “sadin”, potrebbe non costituire una contraddizione, perché anche l’Islam riconosce lecito il ricorso alla belomanzia, cioè all’arte divinatoria servendosi di punte di freccia. Non va altresì dimenticato che questa contrapposizione di idoli ad Allah suscitò una reazione da parte dei sostenitori e di Maometto stesso, impegnandoli in uno scontro
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in cui ognuno dei due gruppi inneggiavano alla propria divinità di riferimento. All’interno della ka’ba la statua di Hubal sovrastava un pozzo ormai essiccato e che veniva utilizzato sia per effettuare sacrifici sia per contenere un notevole quantitativo d’oro, che per la precisone al momento dell’affermazione dell’islam constava di ben 70.000 once d’oro utili a finanziare la costosa politica conciliatrice del Profeta nei riguardi dei suoi avversari. Per quanto ancora riguarda i pellegrinaggi, se tralasciamo quelli del meridione, i raduni dell’Arabia centroccidentale si dirigevano verso ‘Ukaz, tra Nakhla e Ta’if, dove esistevano rocce intorno a cui si effettuava una circumambulazione, così come avveniva in siti minori. Al termine avevano luogo i grandi riti sacrificali di Mina che caratterizzavano il pellegrinaggio dell’hagg. Nei periodi successivi e in mesi dell’anno ben definiti era invece la “umra” a Mecca a richiamare i pellegrini con le circumambulazioni antiorarie della ka’ba e con gli idoli di Isaf e Naila, posti sulle alture di Safa e di Marwa dove la rasatura dei capelli che interveniva al termine dei riti sacrificali, concludeva le cerimonie.
Nella contigua Mina l’hagg proseguiva con un getto di piccole pietre che l’islam trasformò in rito apotropaico, chiamando i fedeli alla lapidazione di tre steli sovrastanti altrettanti tumuli che rappresentavano il diavolo. A lungo l’atto fu interpretato come antica celebrazione dei defunti ma altri vi hanno scorto un rito utile a rinsaldare i vincoli di alleanza con le tribù vicine. Altri, come Maimonide, ha ipotizzato si trattasse di un residuo di una pratica divinatoria, sulla falsa riga del getto di frecce che in quello stesso sito permetteva di conoscere in anticipo il destino dell’anno che stava per cominciare.
Le differenziazioni liturgiche potrebbero dividersi fra Hums, Hilla e Tuls. Gli Hums si staccano a un certo momento dagli altri due gruppi a causa di una asserita, da parte loro, superiorità devozionale. Gli Hilla invece non potevano effettuare circumambulazioni della ka’ba ed era impedito loro indossare abiti rituali che non fossero presi a prestito dagli Hums, mentre dei Tuls veniva ricordato solo l’obbligo
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di condannare l’infanticidio e di consumare i pasti con gli Hilla, senza mescolarsi agli Hums.
Sul cosiddetto gioco del “maysir” permangono dubbi e interrogativi che non hanno ricevuto finora plausibili risposte. La diffusa pratica di seppellimento anche di bambine non infanti resterebbe altrimenti pratica inspiegabile, se non si pensasse a un misterioso timore da parte del genitore di perdere la propria onorabilità. Ugualmente deludenti sono le spiegazioni per quella pratica che consisteva nell’acquisto di un dromedario da parte di un certo numero di persone e nella successiva ripartizione delle parti dell’animale tirando a sorte, sempre sulla base di una procedura belomantica. Gli esegeti del Corano chiariranno che ad essere biasimata e interdetta nel masyr era l’alea, odiosa perché all’origine del prestito a interesse particolarmente inviso ai ceti meno abbienti. A rendere popolare il masyr a parte le motivazioni alimentari, ci restano oscure quelle ludiche ed è per questo che tale pratica viene ricondotta al mondo pagano, ed è ovviamente condannata dall’islam.
L’egemonia meccana
Prima dell’avvento di Maometto, alla Mecca erano venerate divinità come al – Uzzà, oltre ovviamente al culto di Hubal, che consentiva la pace tra i popoli che in quella città dimoravano, garantendo il sostegno dei Kinana e dei Quraysh. L’attenzione mostrata infine verso Manat garantì infine stretti rapporti con l’oasi settentrionale di Yathribi i cui abitanti erano molto devoti alla dea.
Le cosiddette “tre dee” erano altro oggetto di culto, furono chiamate sorelle e figlie di Uzza’ e non pochi pervennero a ritenere che essere fossero addirittura figlie di Allah. Oltre ai culti ufficialmente presenti e maggiormente diffusi presso la Mecca vi erano anche culti praticati in segreto alla più diverse divinità, i cui simulacri erano in alcuni casi anche oggetto di sdegno e venivano distrutti così volendo fare un torto alla divinità rappresentata nel simulacro.
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Secondo il Corano le fortune dei Quraysh risiedevano nella loro unione concorde, nella loro capacità di intessere alleanze non solo commerciali ma anche dal punto di vista militare, sviluppando in questo ambito una potenza che presto li avrebbe condotti a imporsi in tutta la regione e non solo. La tradizione lega la forte crescita delle attività commerciali meccane al nipote di Qusayy e bisnonno del futuro Profeta dell’Islam, Hashim. Ma anche ad ‘Abd Manaf, che avrebbe ottenuto le necessarie autorizzazioni bizantine ad operare in Siria, dopo essersi guadagnato il favore del basilèus.
Per l’organizzazione delle carovane i mercanti mobilitavano risorse assai ingenti come quelle che erano destinate a retribuire i 200 – 300 uomini chiamati a fungere da scorta e a governare le bestie da soma e quelle destinate alla vendita sui mercati siriani e con cui acquistare le merci che si sarebbero poi vendute con margini di guadagno anche del 100%: oro e argento, pellami, armi d’acciaio provenienti dall’India. A completare il quadro merceologico si aggiungevano essenze, profumi e pregiati tessuti yemeniti, alimenti a lunga conservazione come il pepe, il burro chiarificato, il formaggio, l’orzo abbrustolito, l’uva secca oltre ai datteri, dai quali era possibile ricavare anche una bevanda leggermente alcoolica.
La gioventù di Muhammad
La tradizione islamica vuole che l’esercito di Abraha arrivasse alle porte della Mecca lo stesso giorno in cui avvenne la nascita del futuro profeta dell’islam, cioè all’incirca nel 570 d.C. La data, sebbene oggetto di occasionali controversie è tante volte ripetuta nelle fonti che deve in qualche modo conservare un fondo di verità. Maometto non poté mai conoscere suo padre, il quale venne meno subito prima che il pargolo vedesse la luce il 12 del mese lunare di rabi I. Dato a balia a Halima bt. Abd Allah, da lui sempre chiamata con affetto “madre” visse i suoi primi sei anni di vita da orfano sotto tutela del nonno, che morì due anni dopo, cosicché Maometto passò sotto la tutela del fratello germano del nonno, ‘Abd Manaf. Nella casa di costui l’orfano rimase sino al compimento del 25esimo anno d’età, quando contrasse
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matrimonio con una quarantenne e affascinante ricca vedova, che gli fece carico del lavoro di organizzazione delle carovane per conto di lei. Col matrimonio quest’ultima affidò i propri beni al marito e si dedicò alla cura esclusiva dei figli e della casa. Quando Maometto aveva 35 anni un incendio obbligò a un ennesimo restauro della ka’ba, cui parteciparono tutti i clan più noti della Mecca. Dopo la restaurazione dei lati dell’edificio, ciascuno affidato ad un capo di una delle più potenti comunità meccane, venne il momento di ricollocare la pietra nel posto in cui si trovava inizialmente e questo compito fu affidato al giovane Maometto. Il problema di posizionare sull’edificio un tetto fu risolto grazie alla maestria di un carpentiere reclutato su una nave bizantina naufragata in quel di Gedda.
La rivelazione coranica
Insoddisfatto delle rozze risposte che il paganesimo offriva sui grandi interrogativi, Maometto iniziò a moltiplicare i periodi di ritiro spirituale nei dintorni della Mecca e fu in un recesso del monte Hira, sul far dei quarant’anni nel mese di ramadan, che Maometto ebbe la sua prima esperienza teopatica. Un angelo, Gabriele, dopo averlo salutato come “inviato di Dio” gli impartì la primissima parte della rivelazione coranica. Tornato a casa in preda al terrore, egli raccontò l’episodio alla moglie, la quale gli credette. Ma accettare quell’esperienza non fu facile, egli ebbe infatti il timore di essere diventato pazzo o preda di un jinn come accadeva ai poeti. Tuttavia il flusso delle rivelazioni continuò e con esse pian piano Allah si rese riconoscibile a Maometto, prospettando innanzitutto la veridicità del concetto di “aldilà” che poteva essere buono o cattivo a seconda del comportamento del fedele in vita, cioè sulla base dell’osservanza delle prescrizioni che man mano Dio andava rivelando a Maometto. Sempre sulla base delle rivelazioni, Maometto constatò l’esistenza di un Dio unico di cui egli fu designato messaggero, ad esempio in merito alla condanna del politeismo, con cui Maometto si poneva in contrasto con i precedenti abitanti della regione, soprattutto i quraisciti. L’atteggiamento del Corano non lascia alcun dubbio sulla condanna delle smanie umane di ricchezza e il rimprovero verso i
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ricchi si dirige fin nell’interno della famiglia del Profeta. Un atteggiamento anticensuario che diverrà una costante all’interno dell’islam e che si abbinava al divieto di indossare gioielli o vesti di seta per gli uomini, poiché destinate loro solo in Paradiso, anche se per le vesti di seta furono fatte delle eccezioni, ad esempio per coloro che avevano una qualche patologia legata ai tessuti che portavano, ad esempio una quache forma di dermatosi.
Le rivelazioni del profeta non ebbero immediato seguito, anzi da molti furono ignorate, da altri osteggiate, da altri confutate. Un esito positivo si ebbe tra le popolazioni disagiate, cioè tra i poveri e gli incolti.
Quando Muhammad era passato a predicare pubblicamente, l’elite meccana si rese ben conto di come le parole pronunciate da quell’uomo avessero in sé una carica dirompente. Nel momento in cui la predicazione divenne pubblica le sure (versi, poi incorporati nel Corano) ricevute da Maometto erano circa 70.
L’animosità meccana contro Maometto incontrava un preciso limite nella fondamentale norma che regolava le tribù arabe: la legge del sangue e il senso di forte coesione del gruppo familiare di appartenenza, che potevano portare a vere proprie guerre interetniche, nel caso di assassinio di uno dei componenti.
Per impedire la predicazione di Maometto il fronte coreiscita le tentò tutte: minacce, discredito, lusinghe. Ma se il profeta poteva fronteggiare le minacce altrettanto non potevano fare i suoi seguaci, perciò Maometto inviò un gruppo di fedeli presso il Negus del potente regno di Abissinia, ove essi ricevettero una ricca e benevola accoglienza, cosicché da allora si sparse la voce che presso i cattolici i musulmani fossero più ben visti degli ebrei.
La preghiera, tanto diffusa tra cristiani ed ebrei, era pressoché assente presso i pagani che invece praticavano a fini propiziatori sacrifici e pellegrinaggi. L’islam fece invece della preghiera uno dei suoi più solidi pilastri rendendola obbligatoria più volte al giorno e rendendo obbligatorio per il fedele durante l’orazione, di
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volgersi verso Gerusalemme. Intanto a Mecca due conversioni resero più forte la diffusione della nuova fede. La prima fu quella di uno zio di Maometto, la seconda quella di un giovane che avrà un ruolo importante all’interno dell’islam. Si racconta che dopo un battibecco con la sorella, l’ascolto dei primi 14 versetti lo indusse repentinamente all’abbandono della religione avita.
L’inconscia volontà di ottenere credito fra i suoi avversari fu all’origine di un episodio che fu a un passo dal risolvere la tensione tra politeisti e musulmani. Fu l’episodio dei cosiddetti versetti satanici. Un giorno sempre sotto l’ispirazione dell’angelo Gabriele, il Profeta recitò i seguenti versi:
“Che ne pensate voi di Allat, di al –‘Uzza e di Manat, il terzo idolo? Ecco la Gharaniq, la cui intercessione è cosa gradita a Dio.”
Gabriele avvertì però l’angosciato Maometto, che quelle parole di riconciliazione con il paganesimo non erano state sussurrate al suo orecchio destro ma al suo sinistro e la voce era quella di Iblis, che presso Dio aveva proprio la funzione di mettere alla prova i credenti attraverso i suoi sussurri.
Rinunciare in una sola volta al successo e a tutti i vantaggi che erano stati promessi all’elite meccana nel caso in cui Maometto avesse messo fine alla sua attività sobillatrice più di ogni altra considerazione lo indussero a salmodiare nel modo seguente:
“I nomi di Allat, di al –‘Uzza e di Manat indicano falsi dei, che i vostri padri si diedero in preda a congetture e passioni dell’animo, mentre la guida già giunse dal Signore”.
Poiché i maggiorenti della Mecca cominciarono a tramare contro Maometto a causa dei versetti satanici, si convinsero che strumento più adatto a combattere la nuova fede fosse una pressione economica sotto forma di boicottaggio nei confronti delle famiglie non musulmane per scatenare il loro odio contro il profeta. La tradizione afferma che il bando ossia il boicottaggio durò per due anni e servì a scavare un
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solco fra Maometto e il mondo da cui proveniva. Il bando fu poi revocato ma la morte poco tempo dopo tolse a Maometto Abu Talib e Khadiga. Divenuto capo del lignaggio Abu Lahab, da sempre avverso a Maometto, per un certo tempo egli non si sottrasse ai suoi doveri e al suo onore, addossandosi gli obblighi derivanti dalla sua potestà sul nipote, in quanto suo tutore naturale. Qualcuno però gli chiese maliziosamente quale fosse stata la fine del padre di Maometto, e alla risposta che lo avevano accolto le fiamme dell’inferno perché politeista, Abu Lahab dichiarò di rifiutare di continuare a garantire la tutela a un congiunto quale Maometto che aveva l’ardire di pensare che il più immediato tra i suoi ascendenti fosse meritevole di biasimo da un punto di vista religioso. Maometto pensò allora di allontanarsi dalla città finché non avesse trovato qualcuno che gli garantisse una tutela. Partì quindi per Ta’if dove molti Quraysh erano soliti trascorrere l’estate, in siti posti a grande altitudine che rendevano meno torrido il clima in quella stagione, ma l’azione di Maometto non trovò ricontro presso i Qurayshiti, per cui egli dovette precipitosamente rifugiarsi in una proprietà di Abu Sufyan, il quale pur non nutrendo simpatia per Maometto, non poté rigettare la richiesta di aiuto da parte del profeta, pena la perdita della propria onorabilità. Sulla via del ritorno a Nakhla si vuole che Maometto convertisse alcuni jinn, esseri a metà tra mondo umano e diabolico che si pensava popolassero il deserto e le steppe e la cui malvagità si esprimeva in aggressioni ai viaggiatori e beffe d’inaudita crudeltà. Il messaggio coranico non era nuovo ma antico come l’uomo e da Adamo in poi affidato a un numero imprecisato di nunzi. Sette profeti sono inoltre riconosciuti dalla tradizione islamica, benché non menzionati nell scrittura, tra cui Ezechiele, Geremia, Simone e il misterioso Al – Kidr. Il deperimento nel corso del tempo del messaggio coranico richiedeva una serie continua di profeti che Allah periodicamente inviava sulla terra. Da ultimo per sua insondabile volontà egli inviò Maometto per convertire l’intero genere umano, rendendolo così l’ultimo suo apostolo, il “Sigillo dei Profeti”. Dopo aver trovato rifugio in casa della cugina, scosso nel sonno dall’angelo Gabriele dichiarò di essere montato in groppa ad una mula bianca e alata a metà fra cavallo e
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mulo che dal Tempio Santo di Mecca lo avrebbe condotto a un Tempio ultimo che sarà Gerusalemme, per poi essere ricondotto al cospetto di Dio e infine giungere al giardino di al – Ma’va .
Il racconto di Maometto sconvolse il mondo islamico. La tendenza generale fu quella di considerare il tutto una visione. A distanza di un secolo l’episodio fu dichiarato veridico sulla scia di una convinzione assai diffusa secondo cui il profeta era l’esemplare dell’uomo perfetto.
L’Egira
In margine a un pellegrinaggio del 620 vi era stato un primo contatto a Mecca con un gruppo di sei kharagiti di Yathrib. I sei incontrarono Maometto 2 miglia a est di Mecca, e sensibilizzati dal messaggio islamico promisero il massimo impegno nella opera di conversione dei loro concittadini, sperando così di sottrarre agli Ebrei la loro supremazia culturale e spirituale. Presto si aggiunsero altri cittadini e correligionari. I dodici strinsero col profeta un accordo di collaborazione e mutua difesa.
Al patto del 621 tenne dietro un nuovo e più ampio accordo. Questa volta giunsero altri uomini da una vicina oasi e il patto, solennizzato da un giuramento venne chiamato “patto di guerra”. Qualche tempo dopo gli uomini radunati dal profeta, incluso quest’ultimo diedero inizio a una migrazione detta égira, e per evitare di essere catturati e uccisi per aver apportato modifiche alle pratiche e consuetudini previste dalla legge, per aver spezzato il legame tribale tra lui e i suoi seguaci da un lato, e la legge all’epoca vigente dall’altro.
Il percorso intrapreso da Maometto portò lui e i suoi accoliti nell’oasi che successivamente prese nome Medina (“la Città del Profeta”). Con il loro insediamento ivi, i musulmani cominciarono a gettare le basi di una comunità non più solo di fede, ma di opere, di credenti e anche di politici e di guerrieri.
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Maometto, un po’ per rafforzare la posizione dei musulmani, un po’ per rendere concreto il richiamo alla solidarietà nella fede dei credenti, stabilì che i legami di fede dovessero prevalere sui legami di sangue. E tuttavia gli emigranti non potevano rimanere sempre a carico dei loro ospiti se non altro perché un adagio arabo recita che dopo tre giorni l’ospitalità si muta in pura beneficienza. Occorreva procurarsi autonomamente di che vivere cosicché Maometto chiese l’aiuto dei suoi compagni per riuscire nell’autosostentamento. Ma tutto ciò che questi ultimi erano in grado di fare per vivere era di commerciare, guidare carovane e difenderle. Tuttavia i capitali non erano sufficienti per una impresa commerciale del genere, bisognava quindi come “extrema ratio” razziare coloro che, dei beni di cui Maometto e i suoi erano in cerca, erano dotati in quantità sovrabbondante. Oppure si potevano ricavare le stesse risorse attraverso un accordo con i Medinesi, il quale fu concluso mediante un rescritto indicando i termini di un accordo che avrebbe legato emigrati provenienti dalla Mecca con le tribù e alcuni clan ebraici e arabi di Medina. In questo modo Maometto diventava, anche di diritto il capo di una umma, o “comunità” che faceva riferimento per tutte le questioni al solo Profeta, cioè al suo fondatore. Nell’anno secondo dell’égira un infortunio rischiò di minare la credibilità musulmana. In quell’occasione un gruppo di guerrieri legati al profeta aggredì e saccheggiò una carovana ricca di cuoio conciato, uva secca e datteri. Un carovaniere fu assassinato ma dato che ciò avvenne nel mese di ragab in cui veniva sempre rispettata una tregua d’armi, lo scandalo fu tale da indurre lo stesso Maometto ad accettare inizialmente il quinto del bottino, quota minore rispetto al quarto che in ambiente preislamico era riservato al comandante delle spedizioni.
Si entrava in questo modo in una nuova fase, nella quale Allah autorizzava la guerra offensiva contro i suoi nemici e il Profeta, rassicurato, poté accettare il quinto del bottino spettantegli. Per indicare l’impegno alla guerra di ogni fedele di Allah si cominciò ad usare il vocabolo “gihad” e nondimeno anche la guerra combattuta per estendere la Legge di Allah diveniva un dovere sacro, non però del singolo individuo ma solo della comunità. Un’ulteriore riforma fu quella che spostò
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l’orientamento dei fedeli durante la preghiera da Gerusalemme a Mecca. Questo fatto marcava un deterioramento dei rapporti con gli ebrei medinesi, che dopo un’iniziale fase di curiosità erano ora sempre più colpiti dalla scarsa – a loro dire – conoscenza delle scritture da parte del Profeta. Al fine di allontanarsi sempre più dalle comunità ebraiche che non lo accettavano, Maometto introdusse un nuovo elemento di culto, ossia sostituì l’osservanza del digiuno ebraico del “giorno dell’espiazione” con l’obbligo per i musulmani di digiunare lungo l’arco di un intero mese, quello di ramadan, dall’alba al tramonto conclusivo di ciascun giorno del mese sacro.
Una pratica penitenziale così gravosa trovò pronta ricompensa quando un gruppo di 300 musulmani assaltò una carovana proveniente dalla Siria. A difesa della stessa carovana un migliaio di combattenti provenienti dalla Mecca pose le forze musulmane in stato di minoranza. Tuttavia per i musulmani fu determinante la promessa della vita eterna per coloro che avessero continuato a combattere. Fu così conseguita una netta vittoria.
I Meccani non potevano restare indifferenti a una simile offesa e a distanza di un anno si mossero per fare guerra ai musulmani con un esercito forte di 3.000 armati fra cui 700 muniti di corazze e altri 200 montanti a cavallo. Un numero impressionante, visti i tempi e i non trascurabili problemi logistici. Maometto e i suoi erano per di più ostacolati da un terreno non favorevole, ma ciononostante furono in molti a invocare presso di lui di andare incontro ai nemici, nonostante un esercito forte di soli 700 uomini. Un abile stratagemma dei meccani fu di fingere una ritirata per attirare i musulmani lontano dalla loro posizione fortemente difensiva, ciò che consentì alla cavalleria meccana di prendere alle spalle gli arcieri dislocati da Maometto a protezione della fortificazione. Lo stesso profeta fu ferito e dovette la vita a una doppia corazza. La battaglia, che si concluse con la vittoria meccana era stata accanita. I vincitori non entrarono comunque nell’oasi di Medina.
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Paghi di un successo apparentemente decisivo, preferirono tornare direttamente alla Mecca.
La umma islamica fu comunque a un passo dal collassare. Allah non era stato benevolo verso i Suoi fedeli e non aveva impedito che al suo profeta fossero inferte atroci ferite fisiche. Gli “ipocriti” cominciarono a mormorare che le sciagure abbattutesi su di loro erano la punizione per aver dato ospitalità ai “fuoriusciti” dalla Mecca, e che in futuro i lutti sarebbero cresciuti a dismisura.
Per rafforzare il morale degli Emigrati e ammonire gli ipocriti nel solco di una nuova sura ricevuta, Maometto colpì di nuovo l’elemento ebraico medinese cacciando gli ebrei dalla città.
Intanto i nemici di Maometto preparavano un nuovo attacco, forti di un esercito composto da un numero di fanti che si aggirava tra i 7.000 e i 10.000, 300 cavalli e 1500 dromedari in grado di infliggere un colpo devastante ai 3.000 difensori di Medina. Tuttavia una simile massa di uomini non poteva muoversi inosservata perciò prima che stessa forza attaccasse, i Medinesi erano già al riparo di nuove fortificazioni. Un apparto di difesa che si dice fosse stato concepito da un liberto siriano convertito, Salman che riassumeva in sé la secolare maestria della sua cultura nel muoversi in guerra e nell’attuare tecniche d’assedio. Dopo venti giorni di assedio i meccani realizzarono che assaltare una città in quelle condizioni non era cosa fattibile o almeno altrettanto fattibile che se le fortificazioni non fossero state a tal punto insuperabili.
All’ultimo e più forte gruppo ebraico fu imputato un subdolo e sleale atteggiamento in occasione dell’assedio, motivo per il quale quegli ebrei furono quasi del tutto sterminati. Né meno duro fu il prezzo in termini di vite umane pagato da coloro che avevano tentato di assaltare Medina nell’episodio del fossato. Rafforzato da questa vittoria Maometto aggregò a sé un certo numero di nomadi, cui impose il pagamento di una tassa per ogni maschio adulto e valido.
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Se peraltro i meccani non potevano convalidare l’esistenza di un Dio che non riconoscevano, Maometto mise in atto una provocazione bellica con 1.400 uomini armati e 70 dromedari. Le fortificazioni della Mecca erano però ancora abbastanza forti da scongiurare un attacco medinese. Consapevoli delle rispettive parti, le due città cercarono di giungere ad un accordo, sulla cui base i Meccani davano il loro consenso che per l’anno successivo i medinesi giungessero in città per rendere omaggio al loro tempio. Una tregua decennale segnò il primo e ultimo accordo politico della comunità musulmana con gli idolatri meccani. Ciò determinò da parte islamica alcuni disaccordi e contestazioni, ad esempio da parte di Umar, che a mala pena represse la sua insoddisfazione e fu a un passo dall’abbandono del campo e della fede musulmana che egli legava al comportamento del Profeta.
Tuttavia gli accordi presi con i meccani resero possibile la visita periodica annuale al tempio della Mecca. Nel 629 i seguaci di Quraysh si ritirarono sulle alture circostanti per non incrociare i nemici. Maometto, secondo la cronaca dell’epoca non scese da cammello pur vestendo l’abito del pellegrino e col bastone toccò la pietra nera. Girò sette volte intorno alla Ka’ba, dopodiché si fermo in un punto preciso ed effettuò il sacrificio di un cammello, mentre anche i suoi compagni immolavano le loro vittime. Infine, dopo il rito della tonsura e il forte richiamo alla preghiera il rito si concluse. Dopo aver passato due giorni ancora presso il tempio, i pellegrini si riavviarono verso Medina. La tregua concordata non durò a lungo. Prendendo a pretesto un fatto di sangue, Maometto nel 630 marciò alla guida di 10.000 armati contro la Mecca. In una sola notte le difese dei meccani furono sbaragliate, e coloro che avrebbero dovuto essere ridotti in schiavitù furono affrancati. Direttosi verso la ka’ba Maometto la toccò di nuovo col bastone e cominciò la sistematica distruzione degli idoli contenuti dentro e fuori il santuario, e con altrettanta violenza furono cancellati i dipinti che rappresentavano gli dèi pagani, mentre furono salvate le immagini di Gesù e della madre Myriam. Sempre all’interno fu salvata la formazione rocciosa che i musulmani ritengono fosse servita al patriarca e al figlio Ismaele per la riedificazione della ka’ba distrutta dopo il
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diluvio universale. Tornato poi a Medina il Profeta dichiarò di voler rimanere in quella città fino alla morte, e di cercare rifugio in Allah.
La conquista dell’intero higaz, cioè il territorio tra la mecca e Medina fu un’impresa abbastanza difficoltosa dato il consistente numero di beduini ancora presenti nella regione. Un primo tentativo di oltrepassare la cinta muraria di Ta’if non andò a buon segno, anzi si capì che la città non avrebbe potuto essere espugnata. Maometto ripiegò allora su al – Gi’rana, che però non attaccò militarmente, intrattenendo invece trattative diplomatiche, con grandi elargizioni e regalie ai fini della conversione degli abitanti della città, mettendo in atto una strategia che diede molto frutto.
Una volta conquistate le città nemiche, o con la forza o con la lusinga, Maometto distrusse le divinità beduine e cariscite e costruì al loro posto una moschea.
In tutto ciò il Profeta cominciava ad invecchiare, così organizzò un pellegrinaggio che egli definì “pellegrinaggio” d’addio. Al termine delle pratiche rituali, le stesse di cui abbiamo accennato più sopra, il Profeta chiese alla folla se avesse, a giudizio dei fedeli, assolto bene il suo compito profetico, ricevendone unanime approvazione.
Fede in un Dio uno e unico, e nella missione profetica di Maometto, imposta sulle ricchezze dei fedeli, preghiere cinque volte al giorno, digiuno nel mese di ramadan, pellegrinaggio maggiore (verso la Mecca) e vocazione al gihad (guerra santa) erano ormai i pilastri su cui si fondava la fede islamica.
L’8 giugno del 632 d.C. il profeta moriva in quel di Medina.
L’islam sunnita nel periodo classico
E’ difficile separare la storia dell’Islam in quanto religione dalla storia dell’Islam in quanto stato e società. Il rispetto delle leggi divine si imponeva a tutti i livelli e riguardava la preghiera e il diritto di famiglia, i principi etici generali e l’etica da
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osservare nei rapporti quotidiani, i diritti divini e quelli degli uomini. Persino i maestri della tradizione ultramondana davano la precedenza nelle loro riflessioni all’aspetto mondano tanto da poter affermare che se qualcuno durante un esercizio religioso vedesse un cieco che sta per cadere in baratro dovrebbe senz’altro interrompere la pratica per salvare una vita in pericolo. Si può dire che l’islam non fa alcuna differenza tra aspetti sacri ed esigenze profane della vita. Questo assioma però si può ritenere valido solo nelle prime fasi della vita nella nuova religione, ciò in quanto a un certo momento si verificò una spaccatura fra lo “spirituale” e il “temporale”, che determinò la nascita di due distinte anime all’interno dell’islam, l’una imperiale, politica e mondana, l’altra provinciale comunitaria e devota.
Facendo un passo indietro e tornando alla morte del Profeta, la neonata comunità musulmana si trovò ad affrontare una serie di problemi di non facile soluzione, ad esempio si ebbe la consapevolezza che la morte del profeta avrebbe avuto delle ripercussioni gravi se non si fosse provveduto a consolidare le basi della comunità. Fu Abu Bakr, un musulmano intimo del defunto profeta a prendere le redini della situazione, citando passi del Corano nell’intento di rincuorare i fedeli, e di infondere una senso di serena rassegnazione.
Il pericolo più grave proveniva nondimeno da quelle tribù che avevano abbracciato l’islam per pura convenienza politica e non per vera fede. Morto Maometto molti si ritennero sciolti dall’adesione all’Islam e tesero a riaffermare la propria autonomia. Abu Bakr che aveva ricevuto l’incarico di sostituire Maometto in quanto vicario (Califfo) del profeta non esitò ad ordinare una politica di dura repressione nei confronti di ogni tendenza separatista. Era necessario far comprendere a tutti che l’Islam era passato dall’essere un credo fondato sul sangue e sui vincoli familiari all’essere ora una religione a tutti gli effetti, cioè qualcosa che traeva alimento dalla fede, e ciò doveva essere chiaro anche se per fare chiarezza fossero state necessarie delle operazioni belliche contro le tribù locali allontanatesi della fede. Si può affermare che con Abu Bakr l’univeralità del credo si rafforza tanto da potere
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varcare con le proprie schiere i confini dell’Arabia. E’ in questi anni che venne abbozzato il piano delle grandi conquiste islamiche che verrà continuato ed attuato dai successori di Abu Bakr e portato al suo apogeo dai califfi omayyadi di Damasco.
Una volta che la comunità musulmana ebbe improntato la propria condotta ad un principio di universalità e col superamento della momentanea crisi, seguita alla morte del Profeta, essa seppe unificare sotto il nome del Profeta tutte le genti arabe, e diede avvio altresì ad una naturale espansione, basata non tanto sulle rivendicazioni militari quanto sulla necessità di diffondere un messaggio, quello del Profeta, che veniva considerato come rivolto a tutti gli abitanti della terra, cioè ai quattro angoli del mondo. Tuttavia nei primi anni in cui l’islam si aprì al mondo sorsero più o meno gravi contrasti di natura politica, i quali però anziché essere fonte di divisioni determinarono una sorta di riassorbimento e di conciliazione all’interno di una collettività che si richiamava al detto “armonia nella diversità”. Il germe di questo atteggiamento liberale va ricercato nell’insegnamento stesso del Profeta, che in molti ricordavano aver accolto tra due principi di fede opposti che gli venivano presentati, la validità teologica di entrambi. E’ in questo contesto di fede nelle parole e negli atteggiamenti del Profeta che assume un’importanza eccezionale l’opinione delle generazioni del passato, vicine al Profeta perché a lui contemporanee, e quindi perché più vicine al suo insegnamento e maggiormente qualificate a diffonderlo. I membri di queste comunità vengono, dal punto di vista giuridico, specificati come “compagni”, cioè tutti coloro che hanno professato l’islam e al tempo stesso hanno visto e frequentato il profeta; con l’epiteto “seguenti”si indicano coloro che non hanno visto il profeta ma ne hanno conosciuto personalmente i compagni; infine sono stati definiti “seguenti dei seguenti” coloro che hanno conosciuto qualcuno dei “seguenti”. Questa classificazione riflette per lo più l’intento di fissare una gerarchia di referenti: maggiore intimità personale o vicinanza cronologica al Profeta, maggiore l’autorevolezza dell’insegnamento trasmesso.
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Ciò ha portato a considerare come compagni e quindi come migliori di coloro che vennero dopo, anche coloro che inizialmente portarono guerra all’islam ma che successivamente si convertirono quando il profeta ebbe soggiogato i meccani e fu tornato da trionfatore a Medina. Tuttavia da un punto di vista pratico è ovvio che l’importanza attribuita alla conoscenza che di Maometto avevano avuto i suoi primi compagni non può essere paragonata a quella dei convertiti dell’ultima ora, per motivi evidenti e cioè la personale intimità con Maometto da parte dei primi seguaci. Queste persone ebbero nella prima stesura per iscritto del Corano un ruolo determinante. In pratica tutta la società islamica si andò delineando in quel periodo sulle linee tracciate dal Profeta, attraverso il ricordo di coloro che, suoi discepoli, avevano tratto beneficio dal suo insegnamento. Naturalmente non sempre vi fu coincidenza tra queste opinioni poiché ciascuno tendeva ad avvalorare come più valido il proprio sforzo interpretativo. Il sunnismo finì per accogliere tutti i punti di vista, facendoli vivere in un contesto armonico che al giorno d’oggi appare molto meno forzato che in principio. Le acquisizioni più recenti della critica sembrano confermare il portato della tradizione, che ad oggi va riappropriandosi del suo ruolo di fonte primaria dell’indagine storica.
Il processo di formazione del sunnismo fu molto lungo tanto che possiamo considerarlo fissato nei suoi punti principali solo nel X secolo. L’esempio del Profeta, cioè Sunna, da cui “sunnismo” servirà a definire la confessione più importante dell’islam, ma il concetto dell’accordo comunitario riveste una importanza altrettanto capitale. Dopo la diramazione che da Maometto si trasmette fino ai Seguenti dei Seguenti e quindi il venire meno del ricordo degli insegnamenti del profeta anche di seconda o terza mano, l’interpretazione del Corano ha avuto sviluppi consistenti nella attribuzione di una certa autorità anche alla comunità nel suo complesso, un sistema che ha consentito l’apertura dell’islam ai più disparati insegnamenti e interpretazioni purché questi beneficiassero del favore della maggioranza della comunità. Il procedimento consisteva nel porre a confronto più opinioni e ove non vi fosse contrasto, nell’accoglierle entrambe e nel farne elementi
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di fede. Anche il profeta aveva asserito: “La migliore delle cose è quella che sta nel mezzo”.
La parola di Dio contenuta nel Corano, l’insegnamento del Profeta, l’accordo prevalente dei saggi: queste sono le tre fonti principali dell’elaborazione dottrinale sunnita.
Il Corano
Il termine che normalmente rendiamo con Corano sarebbe di derivazione siriaca, ma comunque in base all’uso fattone è da ricollegare al verbo “leggere”. I musulmani vi si riferiscono anche con altri termini come “il volume”, “la separazione” o il “discrimine” tra la verità e l’errore, il “ricordo” o la “menzione” o più semplicemente “il libro” per antonomasia.
Uno dei motivi per cui inizialmente i primi seguaci del Profeta si trovarono dinnanzi a traduzioni anche divergenti le une dalle altre è sostanzialmente che il carattere difettivo della scrittura araba, che è composta solo di consonanti che prendono significato attraverso immissione delle vocali, non permetteva una conoscenza diffusa del testo che era accessibile solo a coloro che già ne avessero compiuto la lettura. Il discrimine tra le varie versioni dipese inizialmente dal prestigio di coloro che le avevano redatte. Cioè tanto più una versione del Libro era attendibile quanto più chi l’aveva redatta era considerato persona autorevole all’interno della comunità. Per combattere questo pluralismo, a suo dire dannoso, il terzo califfo della storia dell’islam, Uthman varò un testo unico che si imponesse a tutti i fedeli. Su questa iniziativa vi furono delle riserve dovute all’attaccamento di molte persone alla “propria” versione del Libro. Il testo che infine venne adottato per decisione di una commissione di saggi fu una raccolta di fogli che erano di proprietà del primo dei compagni del Profeta, Abu Bakr, e che si erano trasmessi per generazioni. Non tutti accettarono di buon grado questa iniziativa del califfo, e si rifiutarono di distruggere le versioni del Corano di cui erano in possesso e che conservarono nascostamente di
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generazione in generazione fino al X secolo, cioè per tre secoli dal provvedimento voluto dal califfo al fine di uniformare la lettera del testo sacro. Ma alla fine la versione del Corano fatta redigere da Uthman si affermò come l’unico testo riconosciuto mentre le altre versioni persero importanza e finirono con lo scomparire del tutto.
Non è facile ricostruire a posteriori il contenuto delle versioni del Corano redatte prima di quella definitiva, ma ad un’analisi attenta pare che le versioni non dovessero differire di molto. La fissazione del testo e l’ordinamento ormai definitivo delle sure non furono sufficienti ad eliminare ogni possibile discrepanza, innanzitutto e come detto per il carattere consonantico della lingua araba, che lasciava spazio a diverse pronunce e quindi diversi significati di un solo vocabolo. La grafia araba non conosceva poi i segni diacritici, che servono a differenziare vocali di forma identica. Infine la mancanza di punteggiatura, importante ai fini della comprensione del testo.
Parallelamente ed indipendentemente dalle recensioni testuali di cui abbiamo parlato si diffusero verso l’VIII secolo anche diverse letture o recitazioni, ognuna basata su una tradizione che si faceva risalire al profeta. In questi casi le autorità lasciarono maggiore libertà a causa della consapevolezza della difficoltà di uniformare un linguaggio come l’arabo, a struttura prevalentemente consonantica. Da ciò è derivato il riconoscimento di almeno 14 tipi diversi di lettura. Il numero delle letture canoniche è però di sette, due solo delle quali hanno mantenuto un seguito fino ai giorni nostri. Tuttavia grazie all’edizione a stampa realizzata nel 1923 per iniziativa del re d’Egitto, si può dire che quest’ultima versione si sia affermata in tutti i Paesi islamici.
Per tornare al Corano, esso richiedeva oltre che di essere letto, di essere anche interpretato. Sin dai tempi del profeta si giunse ad un accordo di massima in base al quale del Corano avrebbero dovuto essere interpretati solo i passi di per sé “chiari”,
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tralasciando gli altri, che avrebbero potuto dar luogo a contrasti e a scismi tra i fedeli.
A cavallo tra VIII e X secolo si sviluppò il genere letterario del commento, che ebbe nell’opera di Garir al – Tabari il suo esempio più raffinato: un commentario in trenta volumi che è una sintesi di tutto lo scibile esegetico tradizionale, dal titolo “La sintesi delle spiegazioni a commento del Corano”, un’opera rimasta insuperata per la ricchezza e l’ampiezza delle tematiche in essa formulate.
Da ciò il passaggio alla legittimazione dell’interpretazione sulla base dell’opinione fu abbastanza breve, sicché molte furono le scuole che giustificarono un approccio al Corano non unicamente guidato dalle tradizioni. Le tre correnti di interpretazione del Corano più diffuse furono: quella mutazilita, quella sunnita e quella sufita, che vedrà nel commento basato sull’opinione il modo migliore di accostarsi alla parola di Dio.
La riflessione degli esegeti non si è tuttavia limitata esclusivamente al commento nel senso più usuale del termine. Innanzitutto è da ricordare la “scienza dell’abrogante e dell’abrogato”, cioè in merito alle disposizioni del Corano che possono ancora ritenersi in vigore e altre che possono essere ritenute superate, perché enunciate in tempi troppo risalenti. Di qui la necessità di una rigida consultazione del testo coranico in senso cronologico. Una partizione è tra gli scritti precedenti e quelli seguenti l’ègira, per comprendere su base testuale quali disposizioni dovevano considerarsi abrogate e quali ancora vigenti.
Una scienza coranica affine a quella appena descritta può essere individuata in quella che va sotto il titolo generico “cause della rivelazione”, cioè un tentativo a carattere esegetico – filologico teso a ricostruire i momenti in cui si era verificato il recepimento da parte di Maometto dei versi del Corano.
Altre scuole indagano sulla corretta recitazione del Corano attraverso l’applicazione di scienze come l’ortoepia vale a dire la pronuncia nel corso della recitazione dei
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fonemi simbolizzati nella scrittura dai segni grafici. A quest’ultima è connessa la scienza della conoscenza dei luoghi dell’articolazione, cioè degli “organi fonatori”, che consentono se a ciò educati di pronunciare correttamente il dettato coranico.
Come è facile intuire la recitazione ad alta voce del testo è qualcosa che richiede una grande applicazione e una costante dedizione, tanto che neanche coloro che provengono dai ceti sociali più alti sono spesso in grado di pronunciare esattamente tutte la parole di cui si compone una sura, o un commnento, ecc.
Vasta è la tradizione letteraria su questa disciplina, ed ha anche suscitato nel corso dei secoli ampio seguito, con abbondante manualistica sull’argomento.
Un dibattito sorto in seno alla comunità islamica si fonda sulla maggiore o minore musicalità della pronuncia. L’islam manifesta in genere poco favore nei confronti della musica e della musicalità. Dopo aspre discussioni si è pervenuti ad una vera e propria letteratura musicale, che cioè i testi recitati siano “salmodiati” ovvero recitati con intonazione musicale.
Infine al di fuori del presente contesto del discorso, alcuni nel tempo hanno insinuato che il Corano sarebbe opera di Maometto e non la parola rivelata al Profeta dall’angelo Gabriele. A questa critica si risponde generalmente che se anche un nugolo di linguisti esperti volesse riprodurre qualcosa di simile non vi riuscirebbe, tant’è che ad oggi non esiste un componimento letterario simile anche lontanamente al Corano.
La sunna
La “sunna”, parola che tra i suoi significati ha quello di “comportamento” o “regola di condotta” può essere definita in senso più generale come “tradizione”, nel senso che essa rappresenta tutto ciò che è stato tramandato dei detti e delle azioni del Profeta dell’Islam. Celebre a questo proposito l’affermazione di sua moglie A’isha che ebbe a dire: “La natura del profeta è il Corano”. Allorché una certa affermazione
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o un certo comportamento veniva attribuito al Profeta si era soliti risalire nell’indagine circa la veridicità del detto o del fatto a coloro che, più vicini a coloro che erano stati compagni del Profeta potessero confermare o smentire.
Nasce così l’hadith, termine che significa “notizia”, “nuova”, ma col quale si finì per indicare tutte quelle narrazioni che avevano per protagonista il profeta. E già dopo un paio di generazioni questi racconti avevan raggiunto un numero esorbitante. Il materiale che di generazione in generazione si andava così organizzando veniva distinto in due parti. Da una parte il testo sacro vero e proprio dell’ hadith, dall’altra l’elenco di coloro che erano legittimati a trasmetterlo. Vi era però il rischio della falsificazione. Per combattere questo fenomeno si pose l’accento non tanto sul testo tramandato, ma sull’autorevolezza di colui che lo raccontava. A tal fine nacque una vera e propria disciplina tesa a valutare l’attendibilità del testo storico mediante la ricerca di un riferimento sicuro, sia sotto il profilo storico che morale. Ma la distinzione più notevole fu quella che ordinò l’intero corpus degli hadith in tre categorie di autenticità: sicuro (sahih) fu il detto cui poteva senza altro essere prestata fede, “buono” (hasan) quello di minore attendibilità, ma comunque credibile e “debole” (daif) quello incerto e quindi non attendibile. Si cominciò a redigere delle raccolte di hadith scritte, più sistematiche di quelle con cui era cominciata la vicenda degli hadith. Un tipo di raccolta, definito musnad, consisteva ad esempio nel raccogliere il materiale sotto il nome di colui che lo aveva elaborato e che soprattutto aveva riferito i singoli episodi, tuttavia questo metodo rendeva impossibile una ricerca tematica, che era lo scopo principale di coloro che si dedicavano ala lettura degli hadith. Per questo motivo si cominciò a diffondere una più pratica ripartizione per argomenti (musannaf)e fu a quest’ultimo criterio che si ispirarono maggiormente coloro che si occupavano della raccolta e delle selezione degli hadith, anche se la tradizione successiva adottò altri metodi al fine di verificare l’autenticità degli hadith e la loro idoneità ad essere inseriti in raccolte.
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Il sunnismo è unanime nel ritenere che sia indiscutibile la autorità di cinque raccolte di hadith. Innanzitutto i due digesti autentici di Bukhari e di Muslim seguiti dalle raccolte di Abu Daud, di Tirmidhi e di Nasa’i. A questi si aggiunge un sesto libro sulla cui attribuibilità vi sono però dei dubbi. Altre raccolte definite “minori” sono però molto diffuse in oriente.
Sul testo degli hadith, su cui la critica occidentale è, relativamente alla loro veridicità, piuttosto scettica, si basa la sunna che rappresenta il necessario completamento al Corano in quanto fonte normativa. D’altra parte esistono nel corpus degli hadith anche delle affermazioni antinomiche che mettono il singolo credente nella posizione di scegliere tra l’una e l’altra alternativa. Ecco il motivo della necessità che il sunnismo inglobi entro di sé diversi riti e scuole giuridiche.
La sunna contiene un certo numero di materiali che non fanno riferimento alla legge o alle norme in senso stretto, ma anche alle regole e ai comportamenti a carattere sociale e morale. Fortemente radicato è il senso di imitazione del Profeta, e questo perché è lo stesso Corano ad averlo additato come esempio da seguire, e ciò fin nei minimi particolari della vita quotidiana, dal taglio della barba alla maniera da parte del marito di rivolgesi alla moglie, ecc.
Il concetto di “sunna” si oppone così ad ogni innovazione, perché contraria all’insegnamento e alla pratica di vita del profeta, tanto che il termine “innovazione” presso i musulmani è considerato sinonimo di eresia. Tuttavia una esigenza di adeguamento ai tempi presenti è sempre connaturata ad ogni tipo di società, anche le più tradizionali. Per venire incontro a questa esigenza è prescritto che le disposizioni della sunna siano rispettate solo dal punto di vista religioso e morale. Per tutto il resto il singolo fedele è libero di operare scelte conformi al proprio modo di intendere e di sentire.
Bisogna poi considerare quello che è un problema abbastanza rilevante e cioè come fare per colmare le lacune del Corano e della “sunna”, cioè come regolarsi quando non esistono nel corpus dottrinale o teologale delle risposte ad una singola specifica
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problematica. Ciò che viene ad emergere quando si prospetta un caso del genere è la necessità di progressivo accordo tra le opinioni divergenti. Quando si verifica il lento convergere delle opinioni della comunità su una certa questione allora è buon segno adeguarsi all’opinione prevalente. Questo processo è detto igma’ ed è il risultato della progressiva accettazione da parte dei muslim più radicali della realtà secondo cui, scomparsi coloro che avevano conosciuto Maometto di persona e scomparsi anche i compagni e i compagni dei compagni fosse necessario che la stessa comunità fosse legittimata, e da sé stessa, ad esprimere verità di fede quando il corano o gli hadith presentassero delle lacune. Se però il potere di pronunciarsi sulle lacune fosse riservato all’intera comunità o solo ad una sua parte più autorevole fu però di ardua soluzione, poiché una parte della comunità era favorevole alla prima alternativa, l’altra parte alla seconda. La tesi che affermava la necessità di una cooperazione tra le due entità fu quella che ebbe alfine buon esito. Se poi anche mediante questi strumenti la lacuna persisteva irrisolta, si ricorreva alla analogia, procedimento che però era assistito da precise regole. Ad esempio se il vino era una bevanda proibita presso l’islam occorreva estendere il divieto anche agli altri alcoolici?
Il dibattito sull’uso dell’analogia, cioè il qiyas, riflette una problematica molto ampia. Questa parola araba significa letteralmente “sforzo”, “applicazione” ed è stata usata per indicare lo sforzo di elaborazione normativa operato a partire dalle fonti scritturali. Colui il quale esercita l’igtihad, cioè il mugtahid, è colui il quale mediante l’analogia riesce a colmare il vuoto normativo sulla cui base si estrinseca la sua attività, consistente nel trovare la soluzione condivisa al caso di specie.
Nel X secolo, quando il movimento sunnita sembrò giungere ad una conclusione molti vollero considerare terminato anche l’igtihad. L’anno 300 dell’égira viene pertanto considerato come l’epoca formativa e le ere successive, in cui l’unica possibilità per il credente è nell’adeguarsi al corpus normativo già esistente e consolidato. Tuttavia più di una componente del mondo musulmano ha ignorato il
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raggiungimento di questo traguardo, e pur nel rispetto della tradizione ha continuato nei secoli ad interpretare direttamente le fonti, senza sentirsi vincolato più che tanto a quanto stabilito “ab antiquo”.
Le leggi e le scuole giuridiche
La shari’a è il termine che serve a designare la norma dettata da Dio al suo profeta e che costituisce la legge cui deve attenersi ogni credente. La legge deriva dunque dal principio divino. Il concetto fondamentale che domina la shari’a è dunque quello in prima battuta di “libertà” o “liceità”, cioè a dire che l’uomo non èstato creato da Dio per essere un suo servo né il servo della sua legge, ma le imperfezioni umane richiedono anche che a tale libertà siano posti degli argini, onde essa non divenga arbitrio. La shari’a ha quindi la duplice finalità di salvaguardare i diritti di Dio verso gli uomini e di evitare al contempo che gli uomini manchino nelle loro relazioni sociali all’obbligo del rispetto reciproco e della pace sociale. Tuttavia poiché tra legge morale che attiene al foro interno a ogni singola coscienza e legge sociale che attiene ai rapporti degli uomini fra loro, solo quest’ultima rileva, poiché la condotta morale interessa soltanto a Dio. Si verifica allora dalle epoche più remote dell’islam un processo evolutivo che tende sempre più a formalizzare i rapporti sociali nel senso di definire propriamente shari’a solo i rapporti esteriori tra singoli individui. Lo studio del diritto si articola in due settori, quello dell’ibadat, concernente gli atti di culto e quello delle mu’amalat che regola gli atti fra gli uomini. Tuttavia nell’islam questa distinzione non è eccessivamente evidente in qunato sin dalla nascita ogni musulmano è considerato dalla comunità un mukallaf, cioè soggetto al vigore della legge islamica indipendentemente dall’ambito sacro o profano in cui la stessa legge detta i propri precetti. Tutti gli atti soggetti a censura vengono distinti in 5 categorie:
- Fard. E’ la categoria dell’atto assolutamente obbligatorio, cui nessun credente può sottrarsi. La legge distingue a seconda che si parli di atto individuale o di atto che interessa l’intera comunità.
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- Mandub o mustahabb. Si tratta degli atti desiderabili ma la cui mancata attuazione non è passibile di sanzione.
- Mubah o ga’iz. E’ un atto facoltativo che cioè il credente ha facoltà di scegliere se compiere o no.
- Makruh. E’ il novero delle azioni riprovevoli quindi vietate ma il cui compimento non comporta sanzione.
- Haram. Si tratta dell’atto illecito o vietato, punibile in qualsiasi circostanza, privo di attenuanti e tassativamente interedetto.
Ovviamente questo è uno schema di massima che vede contrapporsi scuole che hanno un punto di vista personale su una o più delle categorie indicate, ma ciò non importa conflitto giacché l’islam, per ammissione degli stessi credenti costiuuisce una dottrina abbastanza elastica da adeguarsi alle singole fasi storiche e quindi al mutare di usi e costumi.
E’ infine doveroso un cenno sulle origini del diritto islamico, soprattutto civile e commerciale, origini che hanno dato luogo a svariate e contrastanti ipotesi. Alcuni studiosi hanno infatti ipotizzato che la shari’a non sia un prodotto originale della cultura islamica, ma piuttosto il risultato di apporti stranieri; altri considerano prevalente la componente autoctona.
I quattro riti
La formazione del sunnismo può dirsi compiuta con la nascita e l’affermarsi delle prime scuole teologico–giuridiche . Quando si parla di scuole giuridiche si deve intendere comunque qualcosa che va al di là della giurisprudenza strettamente intesa, in quanto ricomprende in sé non solo le norme legali vere e proprie ma anche ciò che riguarda la sfera dei rapporti fra il credente e Dio e i principi essenziali del credo.
Le scuole giuridiche iniziarono a formarsi verso la fine dell’VIII secolo. La prima in senso cronologico è quella che si rifà alla figura di Habu Hanifa al – Numan. Costui
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può essere considerato come il massimo esponente del pensiero islamico. La sua scuola è in realtà il prodotto di un’elaborazione collettiva, dovuta anche all’opera dei suoi discepoli. Molti contemporanei criticarono l’impostazione di metodo di questa scuola a causa del fatto che, trascurando gli hadith, la sua speculazione era incentrata sull’opinione personale. Una conseguenza di questo uso è che gli hanafiti fanno largo ricorso all’analogia. Inoltre altra caratteristica della scuola hanafita è quella della “approvazione” che si basa sulla maggiore rilevanza di ciò che un dottore ha detto in merito ad una questione di diritto. Oggi la scuola hanafita è la più importante e diffusa scuola islamica del diritto, comprendendo la metà della comunità sunnita mondiale. Questo successo è in parte dovuto alle genti turche che hanno imposto il metodo halafita in tutti i territori conquistati. Contemporaneamente alla scuola halafita si andò formando un’importante centro culturale ispirato all’opera di Anas ibn Malik, caratterizzato da una straordinaria devozione nei confronti della tradizione, soprattutto la tradizione medinese. L’attenzione per le tradizioni non impedì tuttavia alla scuola in parola di adottare criteri legati alla opinione, come l’analogia. Le opere principali della scuola sono “La via appianata”, e il Digesto, trascrizione delle opere del maestro compilata dai suoi principali discepoli.
Il terzo fondatore delle scuole islamiche del diritto fu al – Shaf’ii, che può essere considerato autore di un tentativo di conciliazione tra le altre due scuole, propugnando un ritorno alle tradizioni che tenesse comunque conto dei risultati raggiunti col metodo speculativo. La scuola sciafiita è attualmente la seconda come numero di aderenti ed è abbastanza diffusa in alcuni paesi del mondo islamico. Con la forte personalità di Ahmad Ibn Hanbal si chiude il ciclo di formazione delle principali scuola giuridiche. Gli ambaliti propugnarono fortemente un ritorno alle fonti dottrinali in un periodo in cui all’interno della comunità vi era una forte confusione, in cui le eresie si moltiplicavano. L’opera maggiore di Hanbal è il Musnad, voluminosa raccolta di tradizioni che ha goduto e gode ancora di grande considerazione in tutto il mondo musulmano. La rigidità della scuola Hanbalita ha
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fatto però sì che tale trattato sia il meno diffuso tra quelli delle quattro scuole giuridiche.
Oltre alle scuole giuridiche ora menzionate l’islam ha conosciuto altri raggruppamenti giuridici oggi scomparsi. Ma a parte le degenerazioni settarie vi è la possibilità, consentita dai quattro riti maggiori di ricondurre alla legalità, secondo una delle diverse scuole, un comportamento altrimenti non lecito facendo riferimento all’insegnamento di altra scuola e così rendendo lecito un atto che altrimenti non lo sarebbe. Questo atteggiamento di cui vengono ricordati anche alcuni esempi ha favorito il nascere di una scienza che si occupa in modo comparativo delle divergenze tra i riti e che tra i suoi obiettivi principali ha proprio quello di informare gli “utenti” della giustizia sulle innumerevoli opzioni loro disponibili.
Tuttavia sulla base della parola di Mometto l’islam deve tendere alla semplicità ed è così possibile spiegare un atteggiamento costante di limatura e di semplificazione tramite il quale, a prescindere dai quattro riti, si è reso meno pesante il corpus normativo stratificatosi nei secoli, atteggiamento cui si sono dedicati molti giuristi e che è stato oggetto di molti trattati.
Gli atti del culto
La prima delle grandi articolazioni della legge è quella riguardante gli atti del culto. Si tratta delle azioni rituali che i credenti, singolarmente o collettivamente, sono tenuti ad adempiere nel loro rapporto con Dio. In particolare come abbiamo già ricordato si tratta innanzitutto di osservare e praticare i cinque pilastri della predicazione maomettana e cioè l’unicità di Dio, l’esecuzione della preghiera, l’elargizione dell’elemosina, l’adempimento del digiuno nel mese di ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca, che ospita la “casa di Dio”.
Per quanto riguarda la professione di fede essa si condensa in una breve formula, cioè: “Attesto che non vi è divinità all’infuori di Dio e attesto che Maometto è
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l’inviato di Dio”. La professione di fede o “shahada” viene considerata alla stregua di un rito formale in assenza del quale il credente non è in grado di dare il suo assenso alle verità di fede. Solo recitando questa frase alla presenza di due testimoni è possibile che una conversione all’islam sia considerata davvero effettiva.
Si dice spesso nei manuali che l’islam è una religione senza dogmi, nel senso che non esiste nell’islam una autorità sovraordinata che sia legittimata ad affermare una verità di fede obbligatoria per tutti i fedeli.
Per quanto riguarda le modalità della preghiera, essa implica due tipi di preghiera, quella spontanea, che non viene regolata dalla legge e quella formale che deve obbedire a delle regole. Il Corano peraltro si limita a dettare l’obbligo della preghiera, ed è quindi alla sunna cioè alla comunità dei fedeli che bisogna riferirsi per conoscere le precise regole che presiedono alla preghiera. Elemento fondamentale del rito della preghiera non è tanto il rispetto formale della liturgia ma è soprattutto l’”intenzione”. Se cioè il fedele compie il rito senza concentrazione ma in maniera puramente esteriore, non si può affermare che la preghiera giunga a Dio.
Ma molto più della preghiera individuale è degna di lode la preghiera di gruppo in cui un imam guida gli altri credenti nella retta esecuzione del rito. Bisogna ricordare che l’imam non è un’autorità ma è semplicemente qualcuno che all’interno della comunità è più addentro alle cose di fede, che conosce le fasi del rito meglio di altri ecc. Nei paesi musulmani l’ora della preghiera viene scandita dall’appello che richiama i fedeli al loro dovere religioso. Il richiamo alla preghiera viene eseguito sulla base di un hadith, che narra dell’incontro tra Maometto e un fedele che consigliò al profeta di adibire a questa incombenza un fedele particolarmente versato nella recitazione del “richiamo” alla preghiera. Questo fedele viene ancora oggi definito “muezzin”. Una volta stabilito l’oraro di inizio della preghiera in base al percorso del sole, ogni preghiera ha un lasso di tempo in cui può essere recitata.
Un altro requisito della preghiera è rappresentato dalla purità rituale. La legge distingue due tipi di impurità: l’impurità interiore e l’impurità esteriore.
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Quest’ultima è percepibile se il fedele ha ad esempio avuto un contatto con sostanze che possono provocare contagi o malattie, come vino, sangue, urina, ecc. Le prime, quelle invisibili sono determinate da varie cause: l’impurità minore è causata dal sonno, dai bisogni fisiologici, dalla perdita di sangue, dall’assunzione di bevande o alimenti proibiti, dal contatto con sostanze impure; mentre l’impurità maggiore è causata per le donne dall’atto sessuale, dalle mestruazioni e quella che segue per quaranta giorni il parto.
L’impurità viene rimossa provvedendo ad uno specifico rito di abluzioni. Per rimuovere l’impurità minore occorre un abbondante lavacro con acqua di tutte le parti del corpo. Per l’impurità maggiore, al fine di rimuoverla è richiesto infine un lavaggio completo mediante acqua, e che interessi il corpo nella sua interezza cioè dal capo ai piedi, lavando il tutto con un unico getto d’acqua.
Oltre all’individuo deve essere esente da impurità anche il luogo dove si compie il rito sacro e ciò vuol dire che in moschea come nelle case private non si fa uso delle scarpe ma si utilizzano alla bisogna stuoie e tappeti. Una volta purificato il credente deve volgersi in direzione di Mecca, la quale nei paesi dell’islam è indicata da una nicchia, mentre nei paesi non musulmani la direzione deve essere calcolata con una bussola. In passato, al contrario, la procedura era più difficile, pertanto oggi maggiore è la tolleranza delle autorità: ad esempio tramite l’abbracciare la Mecca nel proprio campo visivo e in assenza di riferimenti ulteriori la preghiera è comunque valida.
Inizialmente il fedele aveva l’obbligo di orientarsi verso Gerusalemme, ma in seguito, e cioè 17 mesi dopo l’égira. Maometto si volse nella preghiera verso La Mecca, e da quel momento La mecca fu il punto di riferimento durante la preghiera. All’interno della preghiera esistono un complesso di gesti rituali che vengono detti rak’a:
- Pronunciare la formula “Allah akbar”.
- Recitazione della prima sura del Corano.
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- Inchino.
- Ritorno alla posizione eretta.
- Prostrazione.
- Breve intermezzo in posizione seduta.
- Seconda prostrazione.
Le procedure della preghiera qui descritte presentano, anche se obbligatorie, delle eccezioni. Il viaggiatore può eseguire un numero ridotto di preghiere. Oltre all’obbligo di preghiera individuale è possibile poi espletare i propri obblighi di fede il venerdì di ogni settimana con la preghiera collettiva.
Più solenni sono le preghiere che si svolgono durante le festività maggiori dell’islam, la “festa dei sacrifici” e quella di “rottura del digiuno” che cade al termine del mese di ramadan.
Ma la devozione del musulmano non si ferma qui. Esiste tutto un novero di pratiche rituali suppletive che, pur non essendo obbligatorie, vengono di fatto osservate dai fedeli. A tal riguardo e a causa dell’ampia diffusione di queste preghiere si è individuata una categoria giuridica di poco inferiore nella coattività, all’atto obbligatorio: quella del necessario, mentre molto forte è l’esigenza di pregare pronunciando le parole di quelle preghiere cui il profeta annetteva particolare importanza.
Un ultimo cenno meritano quelle devozioni suppletive che nessun musulmano ometterebbe dopo la preghiera. Dovunque nell’islam si possono incontrare usi particolari ma i “pilastri” della fede sono sempre gli stessi.
L’elemosina rituale (zakat)
Il principio fondamentale su cui è basata l’obbligazione di elargire parte dei propri beni in elemosina è evidenziato dal termine arabo “zakat”, il cui etimo rimanda a qualcosa di simile a “mondare”, o “purificare”. Per questo la zakat non è
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un’elemosina nel senso consueto a noi occidentali, ma piuttosto una vera e propria tassa, calcolata su specifici parametri e soggetta a una complessa normativa. Il valore spirituale della zakat risiede nel porre un freno ala capudigia e all’avarizia degli uomini, ispirate da Satana. La zakat è un obbligo per tutti i musulmani e deve essere eseguita pubblicamente, a differenza di quanto avviene per la semplice donazione, che può essere fatta anche in segreto. La zakat deve essere versata solo tramite beni di cui il soggetto abbia disponibilità in eccesso, mentre ne sono esentati i beni di uso personale e tutto ciò che è funzionale alla vita di tutti i giorni. Esiste il calcolo di un imponibile minimo. Nel regno animale è soggetta a tassazione la proprietà di camelidi, bovini, ovini, mentre ne sono esclusi gli animali da lavoro, i cavalli e gli animali domestici. L’imposta è modulata in base alla quantità di animali che si possiede in proprietà.
Nel regno vegetale sono soggetti a imposta tutti i prodotti nutritivi presenti in una data regione. Nella categoria rientrano grano, orzo, miglio, fave, riso, frutti, olive ecc.. Nel regno minerale sono tassabili l’oro, l’argento, e i metalli solitamente commerciabili e le mercanzie che non sono includibili tra minerali e vegetali. Non sono tassabili gli oggetti anche di un certo pregio che hanno carattere e funzione di beni personali.
Gli introiti della zakat raccolti da appositi esattori sono distribuiti secondo le disposizioni del profeta a:ai poveri, ai miseri, per riscattare schiavi e debitori, per la causa di Dio e per il viandante.
Il digiuno
La prescrizione del digiuno è entrata a far parte dell’islam in un preciso momento storico. La tradizione colloca tale istituzione nel secondo anno dell’égira per volontà di Maometto. Il digiuno obbligatorio è come sappiamo quello da osservare nel mese di ramadan. Numerosi sono i vantaggi che la legge assegna al digiuno: di carattere sociale, fisico e soprattutto spirituale. I digiuni vanno però cadenzati, poiché un
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digiuno eccessivamente lungo potrebbe fiaccare eccessivamente il fisico. Ramadan è uno dei mesi più importanti nel corso dell’anno islamico, nel quale lo scopo del digiuno è quello di un più intenso rapporto col divino, attraverso le pratiche devozionali come la lettura del Corano, oppure la pratica di riunirsi ogni notte in moschea per pronunciare collettivamente un trentesimo del Corano così da poter concludere la lettura del libro sacro il trentesimo giorno del mese. Altra pratica diffusa è quella del ritiro spirituale che si può compiere ogni giorno dell’anno e consiste nel praticare opere di devozione e letture di carattere religioso evitando tutto ciò che ha a che fare con la mondanità, o le attività normalmente quotidiane.
Per tornare a parlare del ramadan esso ha inizio ad ogni fase di luna crescente. Se uno soltanto dei fedeli vede la luna crescente il ramadan inizia in quel momento. Viceversa la fine del mese è da collocare nel momento in cui almeno due fedeli degni di fede riosservano la luna crescente.
Una volta iniziato il mese tutti i credenti devono astenersi da ogni sorta di cibo, bevanda e atti sessuali dall’alba al tramonto, dopodiché è prescritto di rompere l’astinenza ad esempio mangiando qualche dattero, per poi dedicarsi alla preghiera e solo successivamente concedersi un pasto. Non solo è vietato mangiare e bere ma anche il fumare, inspirare profumi, il toccare alimenti anche senza mangiarli o l’inghiottire una quantità eccessiva di saliva. Tutti questi atti possono invalidare il digiuno.
Se per qualunque motivo sia stato omesso un giorno di digiuno, quest’ultimo deve essere recuperato il prima possibile, con anessa una riparazione consistente o in una somma di denaro o in due pasti giornalieri per 60 persone. Per mettere in atto la pratica del digiuno bisogna ovviamente essere spiritualmente preparati perché altrimenti si potrebbe morire di fame e di sete. Il rito non viene invalidato solo ingerendo del cibo ma anche quando si dà atto a comportamenti come “la menzogna, la calunnia, lo sguardo lascivo e il falso giuramento”.
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Il pellegrinaggio
Il pellegrinaggio sebbene nominato per ultimo non lo è in ordine di importanza. Le origini del pellegrinaggio vengono fatte risalire ad un episodio narrato nel corano, cioè quando Dio fece scendere su Adamo una tenda del Paradiso, custodita da una schiera di angeli. La tenda, di forma circolare discese in una località che si trova vicina alla Mecca e gli angeli vi si disposero in circolo allontanando le potenze del male. Questo tempio venne in seguito distrutto dal diluvio, a seguito del quale Dio ne ordinò la ricostruzione ad Abramo e a suo figlio Ismaele. Anche questo tempio andò in rovina a causa dell’incuria degli uomini ma venne più tardi ricostruito per una terza volta quando il profeta aveva 35 anni. I riti islamici riflettono la consapevolezza di un patrimonio religioso di culti e di luoghi sacri da ripristinare cioè da sottrarre alla decadenza con il pellegrinaggio verso la Mecca. In più occasioni il credente è tenuto a mimare gli avvenimenti della storia sacra che riguardano la storia di Dio sulla Terra e in particolare quelli che si riferiscono ad Abramo a sua moglie Agar e al loro figlio Ismaele. Per tornare al pellegrinaggio alla Mecca, esso è un rito che, in quanto si compie almeno una volta nella vita, è certo dotato di un sovrappiù si sacralità ed è per questo che la preparazione del pellegrinaggio è molto difficile e richiede tempo. Tuttavia l’elasticità della religione di Maometto vuole che il pellegrinaggio sia fatto solo da chi ne ha la possibilità economica. I giuristi pertanto hanno individuato diverse forme di compensazione per chi non sia nella condizione di adempiere al viaggio sacro.
Vi sono differenti modi di compiere il pellegrinaggio. La distinzione fondamentale è quella fra la cosiddetta “visita” e il pellegrinaggio vero e proprio ovvero tra piccolo e grande pellegrinaggio. Il primo implica, una volta giunto il fedele alla Mecca, l’espletazione di un numero limitato di gesti rituali. Il secondo comporta l’esecuzione completa delle procedure rituali. Una volta accostatosi al rito il fedele può optare fra tre possibilità distinte: il qiran consiste nell’unificare le due procedure; il tamattu permette, pur rimanendo nel terreno sacro di desacralizzarsi
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sfuggendo temporaneamente alle interdizioni; ed infine l’ifrad col quale il fedele decide di attenersi al solo hagg senza compiere la preliminare umra.
Riassumendo, il pellegrinaggio nelle sue varie fasi si svolge nel modo seguente: giunto in prossimità del luogo sacro il pellegrino sceglie di assumere lo stato di sacralizzazione, cioè abbondanti abluzioni su tutto il corpo e la vestizione con uno speciale abito a due pezzi di stoffa non cucita; le donne non sono tenute ad uno speciale abbigliamento ma in genere indossano un abito bianco. Una volta sacralizzato il pellegrino subisce un serie di divieti. All’arrivo alla Mecca i pellegrini compiono sette giri rituali nella grande pista o sagrato che circonda la ka’ba tenendo sempre l’edificio alla loro sinistra e salutando ad ogni passaggio la pietra nera. Questa prima serie di giri viene chiamata “circumambulazione dell’arrivo”. Subito dopo i fedeli compiono un’ altra corsa mimando con essa la corsa disperata di Agar, abbandonata nel deserto con suo figlio Ismaele, mentre quest’ultimo stava morendo di sete. La tradizione narra che a un certo momento Dio fece sgorgare l’acqua necessaria al bambino da una roccia nel deserto ed è a bere quell’acqua che i pellegrini si recano poiché si crede che la fonte miracolosa si trovi all’interno delle ka’ba. Questi riti costituiscono il “piccolo pellegrinaggio”. Una volta compiuto i pellegrini si recano fuori dalla città santa per iniziare il “grande pellegrinaggio”.
L’8 del mese di Dhu ‘l – higgà la folla si reca a Mina dove un tempo si facevano le provviste di acqua in prossimità di un viaggio. All’alba successiva i fedeli ripartono per raggiungere la località di Arafat, un vasto altopiano circondato da piccoli rilievi . La sosta nella grande spianata è utile ai fedeli per compiere atti di devozione, senza una regola precisa. Al tramonto il corteo prende la via del ritorno e il mattino del 10 compiono una nuova sosta a Mina, dove vengono compiuti sacrifici in parte alla divinità in parte attraverso la consumazione da parte degli officianti il culto. A Mina si compiono altri due riti essenziali: la lapidazione simbolica di una statua di Satana, e la rasatura del capo che indica una parziale uscita del pellegrino dallo stato di
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sacralizzazione. Il corteo riprende il suo corso e si arresta finalmente alla Mecca. Prima di abbandonare il teritorio sacro tra Mina e la Mecca il corteo compie la cosiddetta circumambulazione dell’addio. Benché il solo pellegrinaggio alla Mecca sia obbligatorio, nessun arabo lascerebbe la propria terra senza aver compiuto la pia visita alla città di Medina, dove si trovano la tomba del Profeta e quelle di suoi numerosi compagni.
Per tornare al pellegrinaggio alla Mecca, esso rappresenta in definitiva per il singolo credente un avvicinamento alle grazie che Dio concederà ad ogni vero credente in un Paradiso che solo i veri osservanti, nel proprio foro interno e in quello esterno, del Corano potranno sperare di raggiungere. Estremamente importante è anche il valore sociale del pellegrinaggio. Nella casa di Dio tutti sono uguali. I riti compiuti in prossimità dei luoghi santi fanno delle tante sette islamiche un tutto unico e organico. Da ciò probabilmente deriva il senso di coesione in battaglia, che nei secoli successivi alla morte di Maometto garantirà all’islam la conquista di un impero vastissimo e di lunghissima durata.
Altri precetti religiosi
Numerose sono le prescrizioni di fede che un islamico deve osservare, oltre i cinque pilastri dettati da Maometto. La Sunna prescrive una serie di pratiche cui un padre deve prestare osservanza entro le prime tre settimane dalla nascita di un figlio. Il padre provvede innanzitutto a sussurrare le due forme dell’appello alla preghiera rispettivamente all’orecchio sinistro e all’orecchio destro del neonato per ricordargli sin dai primi giorni di vita il suo dovere religioso principale. In seguito il padre mastica un dattero e lo infila nella bocca del figlio, strofinandogli leggermente il palato. A questa procedura segue la attribuzione del nome, con il taglio di una ciocca di capelli del bambino che viene pesata e a cui segue una donazione di oro o argento dello stesso peso come atto di elemosina. Si procede infine al rito più importante cioè il sacrificio di un ovino o di un altro animale per ringraziare Dio
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della nuova nascita. Parte della carne va consumata dalla famiglia del nuovo nato e parte va data in beneficienza.
Una pratica che non viene citata nel Corano, ma che la Sunna ha imposto come obbligo di fede, è la circoncisione. Essa concerne i minori maschi e può essere effettuata fin dal momento della nascita, ma la pratica più diffusa si colloca nel periodo della pubertà. In alcuni paesi questa pratica dà luogo a festività e cerimonie, a celebrazione dell’ingresso del giovane all’interno della comunità degli adulti. Anche il matrimonio è occasione di solennità particolarmente intense che variano da paese a paese. La Sunna prevede esclusivamente l’offerta di un pasto, che spesso è accompagnato da forme di ritualità assai colorite che arricchiscono questa festività con cerimonie che risentono di altre culture e altri usi.
Più uniformi sono i riti funebri. Al momento dell’agonia si è soliti ricordare al moribondo la professione di fede, perché su ciò, una volta rimasto solo nella tomba, sarà interrogato dagli angeli Munkar e Nakir. Se le sue risposte non saranno soddisfacenti il defunto comincerà a provare dolore fisico e ciò durerà fino al giorno del giudizio finale. Una volta avvenuto il decesso gli occhi del defunto vanno chiusi secondo la prescrizione del Profeta secondo cui quando l’anima abbandona il corpo il defunto la segue con lo sguardo. Il cadavere viene quindi sottoposto a lavaggio completo cui segue la profumazione e l’avvolgimento in un sudario. La preghiera funebre viene si solito recitata prima dell’inumazione, dopodiché il morto viene sepolto con il corpo poggiato su un fianco, quello destro con il volto rivolto verso la ka’ba. E’ bene collocare una pietra o una stele funeraria per indicare la sepoltura. Il lavaggio del cadavere è obbligatorio in tutti i casi a meno che per i morti in combattimento cioè per i martiri di Allah. Il gihad, che è uno sforzo sulla via di Dio, comporta l’uso delle armi quando la sicurezza o la stessa esistenza della comunità musulmana sono messe in pericolo. Lo stesso Profeta, al ritorno da una spedizione militare affermò: “Siamo tornati dalla piccola alla grande guerra”, ad indicare che più meritoria della guerra combattuta fisicamente è la guerra combattuta
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interiormente contro le passioni dell’anima e l’attaccamento ai beni di questo mondo.
Un altro aspetto della fede musulmana riguarda le prescrizioni alimentari. E’ proibito mangiare la carne del maiale, di animali morti per cause naturali, di muli o di asini, di ogni carnivoro munito di canini, di uccelli rapaci e di animali domestici. La cacciagione è lecita, ma non per puro divertimento; è permessa la pesca di tutti gli animali del mare, tranne alcune specie ben definite. E’infine vietato mangiare polvere, terra e insetti.
Affinché però la carne degli animali commestibili possa essere mangiata occorre rispettare delle regole ben precise di macellazione: l’uccisione deve essere dichiarata come fatta in nome di Allah; deve avvenire per sgozzamento e con un completo versamento del sangue; bisogna colpire la bestia in precisi punti del corpo per non cagionarle eccessivo dolore.
Fra le bevande è proibito il vino e tutti i liquidi alcoolici. Su ciò però la giurisprudenza è divisa tra coloro che ritengono lecito il solo vino e coloro che ripudiano ogni bevanda alcoolica. Per quanto attiene all’abbigliamento, la legge prevede una serie di norme tese a salvaguardare la morale e la decenza. Per gli uomini è obbligatorio coprire il corpo dall’ombelico alle ginocchia, ma l’abbigliamento tradizionale del musulmano copre anche le altre parti del corpo. Le donne sono soggette a prescrizioni più rigide: esse debbono coprire tutte le loro parti belle potendo mostrare in pubblico solo volto mani e piedi. Il velo sul viso in occidente viene considerato un segno distintivo. Le restrizioni all’abbigliamento non valgono nell’ambiente domestico. Agli uomini è vietato indossare oggetti preziosi o vesti di seta, ma queste prescrizioni non valgono per le donne.
Le relazioni fra gli uomini
La legge islamica comprende sotto il nome di mu’amalat tutti i negozi che regolano i contatti degli uomini fra loro. Non essendovi una netta separazione tra l’ordine
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spirituale e l’ordine temporale, il diritto provvede a definire anche le regole sociali. In senso stretto la mu’amalat serve ad individuare le norme del diritto civile e commerciale ma in un senso più esteso essa si allarga fino a ricomprendere nel proprio ambito il diritto familiare e quello delle relazioni politiche.
Per quanto riguarda più nello specifico la famiglia, il cardine su cui essa è fondata è il matrimonio. Dopo l’avvento dell’Islam il matrimonio fu considerato come non lo era mai stato prima, cioè come un dovere religioso e sociale. Il Corano istituì il diritto della donna a percepire la dote o dono nuziale e mitigò con norme apposite la durezza del ripudio unilaterale, imponendo un tentativo di conciliazione preliminare e assicurando alla moglie ripudiata precise tutele giuridiche ed economiche. D’altra parte il Profeta aveva sempre condannato la pratica del ripudio, ed è quindi con l’Islam che la donna diviene un soggetto indipendente dal punto di vista legale, in quanto ad essa è riconosciuto il diritto alla proprietà e all’eredità. L’islam si mostrò infine molto rigido nei confronti dell’infanticidio femminile che era pratica piuttosto diffusa soprattutto nei tempi antecedenti alla rivelazione coranica.
Il matrimonio islamico è un contratto che viene stipulato in presenza di due testimoni, dall’uomo e da un rappresentante della sposa (spesso un parente) il quale da quel momento ne cura gli interessi. Per essere pienamente valido il matrimonio deve osservare alcuni requisiti fondamentali: innanzitutto la dote che viene percepita dalla donna al momento della stipulazione dell’atto nuziale e della quale la sposa può disporre liberamente. E’ poi in genere considerato elemento essenziale il consenso delle parti che può essere liberamente esercitato da entrambe a meno che non si parli di nubenda vergine, nel cui caso può valere la volontà del padre anche in contrasto con quella della promessa sposa; ulteriori requisiti sono la consumazione, senza la quale il matrimonio è considerato nullo, la coabitazione dei coniugi e la proibizione in capo alla donna di sposare un uomo non islamico, mentre l’uomo può sposare donne di altre fedi purché non le idolatre o le politeiste.
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Infine carattere peculiare all’islam è la poligamia. Un uomo può sposare fino a quattro donne contemporaneamente. Il trattamento delle moglie deve essere paritario non solo in senso morale e affettivo, ma da tutti i punti di vista, quindi anche per quanto riguarda il tempo trascorso con ciascuna moglie e sotto il profilo economico. Tuttavia attualmente nei regimi islamici è sempre più diffuso il matrimonio monogamico, mentre quello poligamico è sempre meno praticato. Il matrimonio può essere sciolto tramite ripudio unilaterale da parte del marito, per scioglimento consensuale o riscatto, cioè con pagamento da parte della moglie di una somma di denaro e naturalmente per decesso di uno dei coniugi. Un uomo può risposare la stessa donna dopo averla ripudiata ma non più di tre volte.
Quale che sia la causa della separazione fra i coniugi la donna deve osservare un periodo legale di tre o quattro mesi durante il quale non può contrarre un nuovo matrimonio, ciò per evitare che la donna in questione sia incinta di altro uomo. I figli nati dal matrimonio sono sotto tutela del padre, che esercita una patria potestas notevolmente ampia, ma relativamente alla quale la legge è piuttosto rigida e proibisce ogni genere di maltrattamenti e sevizie.
Alla madre è invece affidata la custodia dei figli, una sorta di tutela che dura per i maschi fino alla pubertà e per le femmine fino al matrimonio. In caso di separazione i figli restano sotto la potestà del padre, a meno che si tratti di casi in cui l’età del bambino sia troppo tenera per sottrarlo alle cure materne. Da parte dei figli poi la legge prescrive di avere un obbligo di rispetto assoluto nei confronti dei genitori, che ove disatteso configura un peccato dei più gravi.
La comunità dei credenti
Se prima dell’avvento dell’Islam i rapporti tra gli uomini erano estremamente frammentati, in base al censo, alla discendenza familiare, tribale, agli usi e alle consuetudini, l’Islam realizza sotto questo punto di vista una vera rivoluzione, in quanto la “comunità islamica” deve essere nelle intenzioni del Profeta un corpo
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omogeneo, nel quale tutti gli elementi concorrono alla perfezione e all’armonia. Non solo ogni credente è idealmente fratello degli altri, ma la solidarietà e la mutua assistenza tra i membri della “umma” sono un obbligo giuridico cui nessuno può sottrarsi. Il concetto di umma non si limita però ad esprimere la compattezza interna della comunità, ma ne implica allo stesso tempo la proiezione all’esterno in quanto è suo compito primario quello di compiere il bene e resistere al male. Il capo effettivo di questa comunità è Dio, legislatore, arbitro e giudice. Non esiste perciò una gerarchia ecclesiastica, nessun clero poiché ogni credente è sacerdote di sé stesso e risponde solo ed esclusivamente a Dio. Ovviamente dopo la morte del Profeta la comunità ha sempre avuto bisogno di un capo, il quale peraltro non ha compiti specifici tranne quello di custodire la legge, e di difenderla.
Le varie componenti della sunna nel corso dei secoli (giuristi, teologi, teorici della politica) hanno trattato la questione della unicità del messaggio profetico in maniera di volta in volta differente, non pervenendo mai ad una definizione univoca ma la maggior parte delle correnti concordò su alcuni elementi essenziali, che possono essere considerati patrimonio comune del pensiero sunnita.
L’accordo è unanime sul fatto che la comunità debba avere una guida e che la guida designata debba rispondere ad un preciso messaggio religioso, così come che la guida debba essere una come una è la legge che essa è chiamata a custodire.
Un versetto coranico invita i credenti ad obbedire a Dio, al Suo Messaggero e a coloro che tra loro “hanno l’autorità”. Ovviamente nel sottinteso che l’autorità debba essere riconosciuta come tale dal popolo. Tuttavia l’espressione popolo è molto più generica di quanto fosse possibile all’epoca concepire. Ed allora il detentore della autorità non è scelto da “tutto il popolo” ma soltanto da quella parte di maggiorenti della comunità che prestavano all’eletto un giuramento di fedeltà a nome di tutto il popolo che si impegnava per parte sua a osservare e a fare osservare la legge, ad amministrare la giustizia e a promuovere il benessere generale. Più volte nella storia successiva tale principio venne sostituito nei fatti da una scelta ereditaria
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da parte del sovrano regnante, ma la comunità , almeno in linea di principio, rimase elemento centrale.
La giurisprudenza ha individuato un numero variabile di requisiti, anche fisici e morali, che il capo politico deve possedere affinché la sua autorità sia pienamente valida. Tra i tanti requisiti vi è quello concernente la discendenza del sovrano. I trattati stabiliscono che capo della comunità debba essere scelto tra i Quraisciti cioè in quel grande gruppo familiare cui apparteneva anche il profeta. In via subordinata si accetta anche una persona dal sangue genericamente arabo. Il problema nei secoli perse di importanza ma si impose anche in vivaci dispute ogni qual volta l’autorità non era esercitata per discendenza da Maometto, ad esempio durante la lunga dominazione ottomana. I sunniti hanno attribuito nel tempo al sovrano una titolatura che si basa su tre appellativi: Khalifa, imam, amir al – mu, ‘minin. La prima trae origine dal Corano, ed è riferita ad Adamo e Davide, indicati come “vicari” (è questo il significato letterale di khalifa. La parola imam (“guida”, “preposto”) ha soprattutto carattere di guida religiosa anziché politica. Infine il titolo di “amir al –mu ‘minin” (“capo principe dei credenti”) poneva inizialmente l’accento sul carattere di guida militare della comunità, e per estensione indica l’amministrazione civile della comunià.
Le relazioni con i non musulmani
Lo spazio si divide per l’islam in due categorie nettamente distinte: da una parte vi è il territorio in cui l’islam afferma la propria autorità e la propria legge, definito come “casa dell’islam” e dall’altra le terre ostili dove l’islam e la sua legge non hanno mai attecchito, definite la “casa della guerra”. Con quest’ultima non vi può mai essere una vera pace poiché compito dell’islam è di rimanere in uno stato di belligeranza permanente nei confronti degli infedeli, anche se in tempi più recenti la legge ha adottato la soluzione di una coesistenza relativamente pacifica . Diverso è l’atteggiamento da tenere all’interno del territorio posto sotto dominazione musulmana, dove il messaggio dell’islam è diffuso e praticato e dove esiste una
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relativa tolleranza per tutti coloro che appartengano ad una religione fondata su un testo di riferimento, ad esempio gli ebrei o i cristiani, non a caso designati come “Popoli del Libro”. Solo agli idolatri non viene in genere riconosciuto alcun diritto di conservare le proprie credenze e per loro l’unica alternativa alla morte è la conversione all’islam.
Affinché una fede possa conservare i propri dogmi e le proprie pratiche sotto il dominio islamico essa si deve porre sotto la sua protezione con un atto di sottomissione formale. Questo diritto all’esistenza comporta anche il riconoscimento della superiorità dell’islam e numerose sono le norme che ricordano ai non musulmani la loro condizione di “vassallaggio”. Essi devono innanzitutto pagare una tassa annuale di protezione. Una volta assolto l’obbligo di pagamento delle tasse, una sulla persona, e una sui beni immobili di questa, la comunità in discorso può ottemperare alle proprie regole di fede sempre però senza turbare le credenze e le pratiche musulmane. Non tutti i “protetti” sono però tenuti a queste limitazioni. La legge distingue tra coloro che hanno combattuto e sono stati sconfitti cosicché il loro territorio è stato annesso all’islam e coloro che si sono volontariamente sottomessi, i quali ultimi sono destinatari di diritti più ampi. Quale compenso alle restrizioni i “protetti” godono anche di alcuni diritti come quello di intervento da parte islamica contro i loro nemici esterni ogni volta che sempre i “protetti” ne facciano richiesta.
La teologia e il sufismo
Origini e primi temi della riflessione dogmatica
Se la legge islamica non presenta identità in tutto il territorio ad essa sottoposto, a livello di regole morali invece, nel corso dei secoli si sono affermate varie correnti di pensiero, in merito allo studio e all’elaborazione dei principi dogmatici. Si formava così la “scienza del discorso su Dio”, cioè l’elaborazione di una teologia che faceva uso di strumenti come la logica o la dialettica, mutuati da altri contesti
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culturali in prevalenza di carattere ellenistico o ellenizzante. Non si deve però fare confusione e pensare ad una filosofia o una teologia svincolate dal riferimento alla rivelazione perché neanche coloro che più fecero uso degli strumenti di pensiero mutuati ad esempio dalla civiltà greca negarono la realtà e i caratteri della rivelazione o tentarono di sostituire parte di essa attraverso l’elaborazione di teorie filosofiche o teologiche del tutto indipendenti.
Il tema che possiamo considerare centrale nel primo dibattito teologico fu quello riguardante la fede e i rapporti di quest’ultima con le opere. Ad esempio come rispondere al quesito: un musulmano che si rende colpevole di una grave trasgressione può ancora essere considerato musulmano? Oppure: la fede può essere svincolata dalla legge? E’concepibile che il compimento di azioni buone o cattive faccia rispettivamente aumentare o diminuire la fede?
Alla prima domanda la tendenza kharigita rispose in maniera estrema affermando che il trasgressore dovesse essere escluso dall’islam se non addirittura ucciso. Al contrario i cosiddetti murgiti non erano favorevoli ad applicare all’ipotesi in parola una sanzione umana ma preferivano rimettersi alla giustizia divina. La fede, secondo i murgiti, consiste nella conoscenza e nell’affermazione di Dio, e questi due elementi garantiscono l’appartenenza all’islam a prescindere dalle opere. I murgiti furono inizialmente solo un orientamento di pensiero, non una tendenza organizzata sistematicamente, e tuttavia successivamente col passar dei secoli divennero una tendenza ufficiale dell’ortodossia sunnita.
Altra disputa teologica, più vicina quelle dell’Occidente, fu quella sul libero arbitrio che per buona parte dell’VIII secolo occupò un posto di rilievo nelle riflessioni religiose. I due termini della disputa erano: da un lato la sottomissione a Dio e quindi l’indifferenza per il potere temporale; dall’altro la libera volontà dell’uomo, che poteva anche giungere ad un atteggiamento di opposizione ad una realtà politica percepita come ingiusta. Il Corano sembrava autorizzare entrambi i punti di vista, in
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quanto, sulla base della riflessione sui passi del Libro si riusciva a enucleare un uguale numero di versetti, quindici per parte, che avallavano entrambe le posizioni.
Ciò favorì la nascita di due scuole teologiche: quella dei qadariti e quella dei giabariti. I primi trassero il loro nome dal termine arabo che sta per “decreto” cioè “a contrario” la negazione della legge divina a favore di una maggiore libertà del singolo individuo. I giabariti dal canto loro traevano nome dal concetto di “gabr” che significa “costrizione” e che dunque alludeva alla loro posizione sostanzialmente restrittiva e deterministica.
Entrambe le scuole avranno vita breve, ma le due tendenze continueranno a sussistere a lungo e a confrontarsi duramente, sino alla sintesi operata dalla ortodossia.
I mu’taziliti
E’ nel’ambiente dei kadariti che si formò la prima vera scuola teologica dell’islam definita come del “mutazilismo”. Uno dei punti più rilevanti della speculazione dei mutaziliti consistette nella singolare posizione assunta dalla scuola sulla natura del peccatore: i mutaziliti ritennero che il reo di un grave peccato non potesse essere considerato né credente né non credente ma appartenente alla categoria degli “empi”.
Fu soprattutto sotto il califfato degli Abbasisi di Baghdad che i mutaziliti raggiunsero l’apice della loro affermazione teorica e politica. E’ ad oggi indubbio che la dinastia abbaside abbia trovato proprio nel mutazilismo un sostegno nei momenti più delicati e che anzi il mutazilismo abbia addirittura consentito agli abbasidi in molte circostanze di dare un fondamento al proprio sostrato religioso. La commistione tra religione e politica fu tanto intensa che i sovrani abbasidi giunsero ad istituire un organismo preposto a garantire il rispetto rigoroso della dottrina mutazilita. Si trattava di un qualcosa di simile alla nostra inquisizione. Se alcuni tendono a sminuirne la portata definendo questo organismo come puramente
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rappresentativo, altri tra gli studiosi, attribuiscono ad esso un più pervasivo agire, fatto di imposizioni, vessazioni, torture e pubbliche esecuzioni.
Al termine di queste controversie ciò che si impose fu il movimento dell’ortodossia sunnita. Dal punto di vista della dottrina i dogmi essenziali della teologia mutazilita unanimemente accettati da tutte le correnti furono:
- L’unità di Dio. Dio è un tutto unico che nega ogni forma di pluralità. Tutte le affermazioni sui caratteri di Dio devono pertanto essere considerate come delle pure allegorie; in quest’ottica anche il Corano è parte di Dio con cui costituisce un tutto unico.
- La giustizia divina. Dio non può compiere atti ingiusti e quindi necessariamente opera in conformità con quella che è la convenienza e quello che è il benessere umano. Le difficoltà della vita sono volute da Dio ma solo allo scopo di garantire ai credenti gioie maggiori delle sofferenze patite. Dio retribuisce i patimenti con gioie e benefici nella vita futura; Dio consente all’uomo una certa libertà, ma secondo alcuni mutaziliti il libero arbitrio, come nelle concezioni “liberali” deve avere un limite e il limite è la volontà di Dio.
- Dio deve necessariamente mantenere le promesse di premi e castighi, ed agire di conseguenza. Dio come scritto anche nel Corano, non può venire meno alla parola data. I mutaziliti negano quindi che il castigo infernale possa essere temporaneamente limitato.
- L’empio o peccatore non convertito è come detto una categoria intermedia fra quella del credente e quella dell’infedele, in ottemperanza ai criteri di equità cui Dio è deciso ad attenersi.
- Ordinare il bene e punire il male, precetto che i mutaziliti intesero in senso molto rigoroso, come un obbligo a cui la comunità è tenuta anche a costo di violare la legge, essendo la ricerca del bene altresì un dovere per ogni credente.
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L’evoluzione del mutazilismo contiene in sé anche l’adesione a dottrine soprattutto elleniche come quella degli atomi, della costituzione dei corpi, delle leggi di causa-effetto, delle sostanze e degli accidenti, tutti temi che si mescolavano alla speculazione teologica. Tuttavia rimanevano centrali nella scuola le questioni teologiche in senso tradizionale, motivo di polemiche che avrebbero avuto una durata superiore a quella della stesa scuola, perché non suscettibili di soluzione condivisa.
La teologia ortodossa: ash’ariti e maturiditi
Il declino del mutazilismo non aveva del tutto compromesso la sopravvivenza della speculazione teologica, ma si assiste ad ritorno rigoroso alla dottrina e alle prescrizioni del Corano così come alle asserzioni di fede della Sunna. Era evidente la necessità di una sintesi. Essa fu compiuta da Abu‘l – Hasan al – Ash’ari. Ashari morì a Baghdad nel 935 e lasciò un insieme di scritti teologici che pian piano si affermarono come dottrina teologica dominante in ambiente arabo. Molti furono ed eccellenti, i seguaci di questa dottrina teologica. Bisognerà però attendere una nuova generazione perché l’islam produca il suo più grande dottore, Abu Hamid al Ghazali che fondò una scuola teologica di grandissimo rilievo e poderosamente fondata anche attraverso l’uso dei meccanismi di ragionamento occidentali.
Un’altra scuola che merita di essere ricordata è quella fondata da Abu Mansur al Maturidi. Egli era nativo di Samarcanda e la sua dottrina si diffuse prestissimo tra i Turchi, e in ragione di ciò insieme alla convergenza con molte scuole dottrinali ortodosse divenne una delle scuole di teologia più diffuse nel mondo arabo. L’ecumenismo della scuola perdurò fino al XIV secolo quando i suoi seguaci presero ad essere designati con l’appellativo “Maturiditi”.
Gli elementi essenziali del credo ortodosso
L’ortodossia islamica deriva dall’incontro e parzialmente dalla fusione delle due principali tendenze teologiche dell’islam ossia l’asharismo e il maturidismo. Il tratto
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di maggior rilevanza dell’islam ortodosso è felicemente evidenziato in un dialogo tra Ash’ari e il suo maestro, il mutazilita Gubba’i. Il primo avrebbe interrogato il secondo sulla sorte ultraterrena di tre fratelli, l’uno credente, l’altro empio e il terzo morto bambino. Il mutazilita avrebbe risposto che il primo andrà in paradiso, il secondo all’inferno e l’ultimo godrà di una salvezza inferiore a quella che si ottiene in paradiso. Ma, obiettò Ash’ari, cosa si potrebbe rispondere al bambino se pretendesse questa più intensa beatitudine, dato che non è colpa sua se è morto bambino? Dio, rispose Gubba’i, sapendo che il bambino sarebbe diventato un peccatore, lo ha fatto morire in tempo per evitargli il castigo infernale. Ma a questo punto, concluse Ash’ari, Dio non avrebbe potuto usare la stessa misura nel giudicare l’empio facendolo morire in tenera età? Gubba’i sarebbe rimasto interdetto e non avrebbe dato risposta. In questo dialogo, anche se in termini semplificati e aneddotici, è pienamente evidenziato il limite del mutazilismo, cioè quello di concepire un Dio che sia confinato entro una normativa razionale e prevedibile. Per gli ortodossi è invece il principio per cui Dio potrebbe se lo volesse, premiare il malvagio e punire il buono e secondo cui non occorre cercare delle responsabilità alle cose che accadono in questo mondo. L’intera opera sunnita si incentra sullo sforzo di rispettare l’assoluta libertà divina, pur analizzandola con l’uso di principi razionali.
Anche tra le teologie dei giabariti da un lato e i mutaziliti e i qadariti dall’altro la teologia ortodossa opera una sorta di conciliazione, sostenendo che gli atti umani sono creati da Dio, ma che la responsabilità degli stessi va attribuita a coloro che li mettono in atto.
Nasceva così la teoria della “acquisizione” secondo la quale ogni atto dell’uomo, anche quello più volontario, non nasce da un suo autonomo potere, ma è una creazione divina che l’uomo si limita a riferire a sé stesso. Alcuni autori musulmani moderni hanno criticato questa dottrina considerandola come una pesante restrizione della libertà umana ma è indubbio per chiunque ammetta l’esistenza di un Dio unico
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e creda nel Corano come parola di Dio che non vi è altra possibile posizione che quella sunnita. Peraltro teologi posteriori si dedicarono con particolare cura a ribadire più chiaramente la responsabilità umana e i maturiditi introdussero il concettto di “entratura” o “cooperazione” per sottolineare ancor meglio che l’uomo è compartecipe nella creazione dell’atto.
Anche a proposito dello statuto del peccatore, l’ortodossia ha finito per sintetizzare le posizioni estreme. Il musulmano reo di una grave colpa non è per ciò stesso un infedele come volevano i carigiti, né un empio come avevano proposto i mutaziliti, ma mantiene il proprio stato di credente perciò se egli dovesse pentirsi prima di morire Dio è libero di premiarlo con la beatitudine eterna, ma in caso contrario non possiamo accertare il suo stato che dipende comunque dalla volontà divina.
Altro quesito che venne posto questa volta ad Abu Hanifa, fu il seguente: se un uomo uccide il padre, lo decapita, ne usa il capo a mo’di coppa per bere del vino e infine fornica con la madre, costui è da considerarsi ancora un credente? La risposta affermativa da parte di Hanifa turbò gli animi dei presenti che però alfine dovettero convenire che la fede non dipende dalle opere, e tuttavia la posizione ortodossa sottolinea ancora l’importanza delle opere che se non aumentano la quantità di fede possono incidere sulla sua qualità. Se infatti la quiddità della fede è unica e indivisibile gli atti di devozione e il rispetto della legge divina possono renderne più lucida la consapevolezza e quindi farla più perfetta.
I veri fedeli sono dunque i musulmani, in senso etimologico, cioè coloro che sono “sottomessi” alla volontà divina. Sul concetto di “salvezza”, quest’ultima è sempre possibile a patto che vi sia una volontà di Dio in tal senso. E a questo proposito la teologia ortodossa ha introdotto il concetto di “intercessione” che il giorno del giudizio il Profeta eserciterà presso Dio a favore di coloro che hanno creduto nel suo messaggio.
Il sunnismo afferma anche che i credenti godranno in paradiso della visione di Dio, e questo concetto è stato sempre difeso da coloro che lo consideravano soltanto una
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metafora e cioè un’espressione figurata. I teologi sunniti hanno invece insistito sulla realtà concreta di questa visione, pur asserendo che tale percezione non si può paragonare alla percezione ordinaria delle cose.
Il giudizio finale consisterà in una pesatura delle opere effettuata ponendo su due piatti di una bilancia da una parte le azioni cattive e dall’altra quelle buone. Gli uomini dovranno allora passare per un ponte, “più tagliente di una spada e più sottile di un capello” il cui attraversamento riuscirà facile ai probi mentre gli iniqui precipiteranno nel vuoto. Il paradiso è descritto come un giardino, dove i credenti potranno riposare su dei letti posti in un luogo ombroso, e godere di acque correnti, di frutti perenni, di un liquore che non inebria e di fanciulle dai bellissimi occhi. Ovviamente queste immagini sono allegoriche, cioè reali ma solo nel tentativo di descrivere in termini umanamente comprensibili le bellezze del paradiso. Di qui la tendenza, tipica dell’Asharismo a non indagare in modo umano sulle realtà del simbolo divino, perché le uniche due posizioni intellettuali cui tale speculazione può portare sono solo da una parte il concepire il paradiso e Dio in termini antropomorfici e dall’altra allegorizzare ogni sua descrizione.
Passando poi all’indagine teologica sugli angeli, possiamo cominciare dai quattro arcangeli, cioè Gabriele, Michele, Serafiele, e Azraele, ciscuno con un proprio compito nei riguardi dell’umanità. Ognuno di questi arcangeli ha alle sue dipendenze altri angeli minori tra i quali esiste una gerarchia. Fra questi abbiamo già ricordato Munkar e Nakir, gli angeli che giudicano le azioni delle anime dei trapassati, gli angeli che sorreggono il trono di Dio, gli angeli che governano inferno e paradiso, gli angeli “perduti d’amore” che si dedicano esclusivamente all’adorazione e alla lode di Dio.
Iblis è invece l’angelo caduto perché all’inizio dei tempi rifiutò di inchinarsi ad Adamo e per questo atto d’orgoglio fu cacciato dal paradiso e divenne il supremo tentatore e nemico dell’uomo, per questo viene spesso identificato con l’appellativo “avversario”. Nella sua opera al servizio del male Iblis è assistito da una corte di
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dèmoni e di jinn. La credenza nei jinn è caratteristica dell’islam: i jinn non sono necessariamente malvagi, abitano la terra da prima dell’uomo, sono normalmente invisibili ma possono manifestarsi agli esseri umani e interferire nella loro vita; hanno un comportamento simile a quello dell’uomo, condividendone passioni e credenze e a volte convertendosi alla vera fede. Si narra che il Profeta ne abbia convertiti alcuni.
La profetologia è un altro articolo di fede. Secondo l’islam Dio dall’inizio dei tempi ha inviato sulla terra una folta schiera di messaggeri, dei quali solo alcuni vengono citati nel Corano, ma che la tradizione ha fissato in ventiquattromila. Si tratta dei profeti, benché l’islam consideri profeti anche coloro i quali non sono considerati tali da ebrei e cristiani. I più importanti sono Adamo, Abramo, Mosè, Davide e Gesù che insieme a Maometto fanno parte del novero degli inviati divini dotati di “ferma risoluzione”, ma ricorrenti sono anche altri personaggi biblici come Noè, Ismaele, Isacco, Salomone, Esdra, Zaccaria, Giovanni il Battista.
Tutti costoro sono dall’islam divisi in categorie, due le principali: quella degli inviati e quella dei profeti in senso più ristretto. Alla prima categoria appartengono coloro che hanno portato una nuova rivelazione o hanno scritto un libro per volere di Dio. I secondi sono quelli che si sono limitati a ribadire il messaggio dei primi. Fra tutti gli inviati un posto di rilievo è ovviamente riservato a Maometto, considerato come il Sigillo della tradizione profetica, nel senso che dopo di lui non vi saranno altri inviati da Dio.
Quanto al contenuto del messaggio che i profeti hanno continuamente riaffermato per l’islam esso consiste nella proclamazione della unicità di Dio. Il peccato più grave consiste perciò nel politeismo. Tutta la dogmatica islamica ha sempre inteso preservare questo principio. La stessa interpretazione allegorica della scrittura aveva avuto tra i suoi scoi principali l’allegoria funzionalizzata a rendere attraverso immagini da considerare non letterali una qualche intelligibile visione dell’aldilà.
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Nella concezione ortodossa quindi Dio è innanzitutto Uno ed Unico. La sua essenza è infinita, esistente di per sé, incorporea, immateriale, non soggetta alle condizioni del tempo e dello spazio, illimitatamente libera nella sua volontà. Un’adagio molto popolare in terra islamica recita che Dio non è né lui né altro da lui, insieme ai suoi attributi: sono attributi suoi in quanto le sue creature operano fino a un certo punto autonomamente; non è altro da lui perché dotato di unica Essenza, la quale è intrinsecamente differente da quella degli uomini. In altre parole se affermiamo che Dio è Sapiente, questa sua qualità non coincide nell’essenza, con la sapienza umana che non riesce a rendere per intero ciò che Diò è; e tuttavia la Sapienza è attributo divino perché Dio è anche Sapiente e tuttavia in maniera incommensurabile per gli uomini, anche se Profeti.
I teologi hanno elaborato una serie di attributi principali dell’Essenza detti anche attributi personali. Le sette qualità che vengono riconosciute tradizionalmente a Dio sono: vita, scienza, potenza,volontà, udito, vista, parola. A questi attributi a volte ne vengono aggiunti altri come il “perdurare”, mentre i maturiditi considerano come ulteriore attributo della divinità il “fiat creativo”. Simili agli attributi sono i bei nomi, cioè i nomi con cui Dio è definito nel Corano. La tradizione ne fissa 99, ma dice anche che ne esista un 100esimo che non è conosciuto.
Riguardo al Corano esso è la parola di Dio, il Verbo eterno, rivelato al Profeta in brani e tempi successivi ma parola eterna perché lo stesso Dio è eterno. Essa parola iniziò ad essere rivelata a Maometto nel giorno corrispondente alla fine del Ramadan cioè il 27 del mese.
Origini, correnti e dottrine del sufismo
Ciò che di solito viene chiamato sufismo o mistica dell’Islam è un fenomeno di non facile definizione. Il termine “mistica” può infatti dare luogo ad equivoci, perché si tende spesso a valutare questa disciplina secondo criteri occidentali che non giovano alla chiarezza della nozione per come essa è intesa nell’islam. Ad esempio il
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sufismo generalmente definito “deteriore” si avvale di un potente apparato speculativo che invece il vero sufismo non conosce. Esso è infatti fondato sulla semplicità e la spontaneità e su uno scarso apparato dottrinale, e tuttavia non è questa l’impostazione corretta. E’ anzi proprio nel suo apparato dottrinale che il sufismo ha il proprio centro e la propria ragion d’essere. Al termine mistica è preferibile quindi quello di “sufismo”. Per quanto riguarda l’etimologia della parola essa viene di frequente riferita al sostantivo “lana” che alluderebbe all’abito portato dai primi asceti, ma altri fanno derivare il termine sufi dalla parola “purezza”. Ad ogni modo già sul finire dell’VIII secolo abbiamo la prima attestazione del significato del termine sufi che vorrebbe indicare un devoto di Kufa e nel IX secolo la diffusione dell’uso di definire con questa espressione coloro che si dedicavano alle discipline spirituali. Di poco successiva è l’espressione “tasawwuf” per indicare la professione del sufismo. Se comprendere la parola “sufismo” e le sue origini è semplice, meno agevole è comprendere ciò che la parola vuole esprimere. L’islam ha sempre ritenuto il sufismo qualcosa di estraneo all’islam, mentre in occidente si sono svolte ampie discussioni che hanno ricondotto il sufismo a volte al monachesimo cristiano d’oriente, a volte al pensiero neoplatonico, a volte allo gnosticismo o alle antiche religioni persiane e finanche al Vedanta Indù. La critica più recente ha rivisto le teorie sul sufismo riconducendolo ad una matrice islamica, nella fattispecie la meditazione sul Corano e l’insegnamento del Profeta. Quanto alle fonti della dottrina sufi esse sono le stesse che per la teologia o la legge, cioè il Corano e la sunna.
Dopo l’apparizione sulla scena dell’islam di una serie di figure, anche femminili, che tentarono di gettare i fondamenti dell’atteggiamento e della dottrina del sufismo, dirozzandolo concettualmente e presentandolo come disciplina indipendente sia da quella del giurista, sia da quella della meditazione teologica, già nel IX e X secolo si ebbe la fioritura all’interno del movimento di grandi figure e grandi opere, ma la trattatistica sufi giunse alla sua piena maturità durante la seconda parte del X secolo quando a Baghdad si manifestarono i più notevoli sviluppi speculativi del sufismo,
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ad esempio con la figura di mistico e teologo di Al Gunayd. Altra figura di grande spessore culturale fu al Hallag. I contemporanei di costui non accettarono le sue idee considerandole estranee all’islam e ciò determinò uno scisma all’interno dell’elite intellettuale dell’epoca in area islamica. Dopo vari tentennamenti dovuti al fatto che il suddetto teorico del sufismo non aveva commesso reati, ma aveva soltanto espresso le proprie opinioni, le autorità lo condannarono esprimendo un giudizio particolarmente severo. A partire da questa vicenda si accentuerà nel sufismo la tendenza a marcare una maggiore distinzione fra ambito profano e ambito proprio ai soli iniziati, così da non dare luogo a episodi simili alla condanna del loro correligionario.
Per definizione il Sufismo non è una disciplina esclusivamente speculativa: la pratica ha in esso un posto di assoluto rilievo e non è separabile dall’aspetto teoretico. L’insegnamento dei maestri sufi non ha mai confuso l’ambito della speculazione teologica con lo studio della realtà sociale. Teoria e rivelazione sono quindi due momenti dello stesso processo.
Il concetto dell’adab, delle “convenienze” o delle “buone maniere” da osservarsi in materia spirituale, nel sufismo assume il carattere di una vera e propria normativa cui il discepolo deve attenersi nei rapporti con il maestro. Il maestro rappresenta infatti l’uomo perfetto, ciò che vale a dire la rappresentazione di quelle qualità interiori che ne fanno più di un semplice individuo umano. Il maestro è in questo senso un “sostituto” del profeta e il rispetto e l’amore che il discepolo prova nei suoi riguardi deve essere completo. Gli aspetti rituali del sufismo, che mai devono entrare in collisione con i principi dell’islam sono numerosi e piuttosto complessi, ma quello fra essi più rilevante e centrale è senza dubbio il dhikr, parola che al contempo vuol dire ricordo di Dio e menzione del suo nome. Menzionando il nome di Dio ripetutamente si accende nell’uomo la consapevolezza della presenza divina all’interno di sé e si ripristina quello stato che fu precedente all’esistenza umana temporale, allorché tutti gli esseri stipularono il loro patto con Dio. Il dhikr, nella
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sua formula più comune (ma ve ne sono molte) è quello costituito dalla ripetizione del nome di Allah.
A partire dal XII secolo iniziano a prendere forma diverse vie che gradualmente porteranno i sufi a divenire veri e propri ordini strutturati secondo le relative dottrine. A capo dell’organizzazione sta lo Shaykh che è l’ultimo anello di una catena che risale fino al profeta, il cui insegnamento si crede trasmesso su base orale da più generazioni. Un aspetto importante di questa strutturazione è quello delle deleghe di potere, da parte dello Shaykh ai suoi discepoli al fine di far fronte a determinate esigenze. La rottura del rapporto tra un maestro e un discepolo, non è sempre del tutto volontaria ma necessitata dall’esigenza, ad esempio di estendere l’insegnamento, o di creare una nuova organizzazione nominando un nuovo Shaykh, così favorendo la moltiplicazione delle scuole sufi.
L’islam della transizione
Le periodizzazioni storiche cui siamo abituati nel mondo occidentale non sono applicabili ad altre culture se non in maniera forzata. Anche nel caso dell’islam occorre trovare delle periodizzazioni interne che rispecchino i ritmi storici dell’islam. L’islam che può essere definito “classico” può essere esteso fino al XVI secolo, periodo nel quale la elasticità della cultura islamica è sempre stata capace di adattarsi ai tempi nuovi. Con lo scadere del millennio questo sistema sembra denunciare i primi segni del proprio logorio. Per quanto riguarda la percezione del tempo, quelli che avanzano una decadenza dell’islam non conoscono il tipo di rapporto con il tempo che caratterizza la cultura islamica, non sono a conoscenza del fatto che ad esempio il passaggio da un millennio ad un altro costituisce una mutazione irreversibile della storia. Il millenarismo non ha conosciuto nell’islam i caratteri con cui si era manifestato nella civiltà cristiana nel medioevo. Il passaggio dal X all’XI secolo dell’égira rappresenta per i musulmani una mutazione e un cambiamento irreversibili della storia, un avanzamento verso la fine della civiltà conosciuta che già Maometto aveva predetto.
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Ciò non ostante, un’altra tradizione del profeta ricordava che Dio, ad ogni scadere di secolo, avrebbe inviato qualcuno che avrebbe rinnovato la religione. Questo rinnovamento secolare fu ovviamente più avvertito con il passaggio del primo al secondo millennio dalla égira, quando cominciamo ad assistere al diffondersi sempre più ampio dell’idea del rinnovamento, per molti ormai non più procrastinabile, vista la disgregazione politica in cui versava il mondo musulmano. E’ per questa ragione che se si vuole in qualche modo periodizzare l’islam occorre effettuare un riferimento proprio al secondo millennio dopo l’égira, perché è a questo punto della storia dell’islam che si possono vedere i segni di una civiltà che tramonta e di un nuovo modo di vedere le cose che comincia a sorgere. Ma tutto ciò comporta anche un’opera di restaurazione dei valori più autentici dell’islam. La necessità di quest’opera è tuttavia declinata in maniere differenti, tra almeno due tendenze. Da una parte vi è chi ripropone un ritorno al passato, dall’altra chi ritene doveroso accettare dottrine che nei secoli si sono commiste al pensiero islamico in generale con l’obbligo però di eliminare alcune sviluppi deleteri che col tempo si sono consolidati. I primi hanno dalla loro parte il peso della parola coranica e il messaggio del profeta, presenti in ogni elaborazione dell’islam. I secondi intendono ribadire il valore del “consenso” che l’islam classico aveva considerato la base di ogni suo sviluppo. E siccome il consenso era spesso determinato dallo “sforzo intepretativo” cioè dalla capacità dei sapienti di elaborare un’opinione prevalente sulla base dei dati della tradizione rivelata, anche questo sforzo fu dichiarato come definitivamente esaurito da parte dei più rigoristi, ed ancora operante da parte di chi continuava a condividere l’atteggiamento duttile e pragmatico dell’islam classico. Tuttavia nel corso dei secoli i tentativi innovatori e estremisti si erano più volte manifestati ma avevano trovato nella comunità una forte ostilità e una conseguente riconduzione nell’ambito della ortodossia. E’ singolare il fatto che proprio una scuola del sunnismo tradizionale, quella hanbalita, abbia finito per diventare il punto di riferimento del nuovo fondamentalismo che si sviluppa a partire dal XVIII secolo. L’ispiratore del neohanbalismo fu il teologo Ahmad Ibn Taymiyya, ostile soprattutto
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al sufismo, ciò che gli alienò le simpatie della popolazione e delle autorità. Più volte imprigionato morì in un carcere di Damasco. Fu solo all’alba del XVIII secolo che il suo pensiero venne riproposto organicamente e poté riscuotere quel successo che i suoi contemporanei gli avevano sempre negato.
Il Wahhabismo
Il movimento wahhabita deve il suo nome al teologo Muhammad ibn al Wahhab, nato nel 1703 in un piccolo villaggio del Nagd, regione d’Arabia che da sempre si porta dietro la fama di luogo rude e selvaggio rispetto ai centri più civilizzati della penisola. Egli ritenne a coronamento di una serie di profondi studi della problematica in commento, che la comunità sunnita dovesse immancabilmente ritornare alle origini. L’impero ottomano, già in preda a numerose difficoltà gli appariva incapace di contrastare efficacemente le crescenti affermazioni sciite in Iran, così come le devianze dottrinali e morali sempre più frequenti negli stessi territori governati dal sunnismo. Fu per questo che per diffondere le proprie idee indipendentemente dal giudizio che su di esse aveva espresso la sunna, egli ricercò un appoggio politico, che trovò in Muhammad Ibn Saud, emiro di Dar’iyya, una piccola oasi nel Nagd. Con un celebre patto di alleanza i due compagni si giurarono eterna fedeltà allo scopo di far trionfare i principi del Wahhabismo. Di qui in avanti le vicissitudini della ideologia wahhabita non potranno più essere disgiunte dalle fortune della gente saudita. Il successo politico e militare del nuovo stato, non certo istantaneo ma comunque progressivo e duraturo non fu accompagnato da una contemporanea affermazione dell’ideologia. Ciò in quanto ai wahhabiti venivano attribuiti eccessi di vario genere, quali la demolizione dei monumenti funebri dei grandi personaggi dell’islam, l’avversione per il culto dei santi, l’eccessiva venerazione per il fondatore del movimento. Per quanto riguarda i rapporti con le altre correnti dell’islam l’ideologia wahhabita si è di fatto definita come un settarismo intemperante, pronto a scomunicare tutti quelli che non avevano le stesse idee. Ecco ad esempio una testimonianza di un fedele d’India ricordando il suo
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pellegrinaggio alla Mecca nel 1928 poco dopo che i sauditi si erano impossessati dei luoghi santi: “Le genti del Nagd sono discepoli di al Wahhab e considerano tutto ciò che egli dice come rivelazione divina. La dottrina in parola è terribile e si può definire nel modo seguente: “Tutti i musulmani del mondo sono politeisti ed è lecito ucciderli. La distruzione che hanno compiuto dei luoghi santi e delle tombe dell’Higaz sono opere sataniche.”
Giudizi come questo ci spiegano perché il Wahhbismo per lungo tempo sia stato considerato un movimento scismatico. Vari fattori tuttavia ci impediscono di collocarlo fra le eresie dell’islam. Innanzitutto a differenza di altre dottrine il Wahhabismo prende a base una delle scuole principali del sunnismo. In secondo luogo, l’aquisizione da parte dello stato saudita di una eccezionale rilevanza economica e l’assunzione di un ruolo sempre più moderato negli affari internazionali hanno reso col tempo fisiologica una maggiore presenza dell’orientamento Wahhabita in varie istituzioni della della cultura islamica mondiale, garantendo alla dinastia araba di Ryad l’immagine di promotrice e garante dell’islam in sede internazionale. Infine il Wahhabismo può essere visto come una semplificazione dell’islam e questo pare essere un altro motivo del suo successo. Il movimento ha infatti messo in discussione il sistema delle scuole giuridico religiose, considerate causa non ultima del declino dell’islam. Pian piano i wahhabiti hanno eliminato le differenze tra le scuole e la logica del ragionamento per differenziazione, almeno per quanto riguarda il sunnismo. A questa tendenza è stata funzionale la trattatistica per così dire minuta che con semplici libretti, responsi giuridici e opuscoli si è fatta man mano strada tra i ceti minori, generalmente estranei alle scuole tradizionali. In tutte le opere wahhabite, antiche e moderne è evidente la consapevolezza di trasmettere un islam puro ed emendato dalle inutili innovazioni che il sapere tradizionale aveva elaborato nei secoli. E oggi anche gli scritti di quei divulgatori che non si sentono aderenti al Wahhabismo sono permeati del suo spirito: cioè riportare l’islam alle fondamenta e presentare il vero e autentico
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messaggio che Dio aveva inviato tramite il suo profeta, prima che le generazioni successive si sovrapponessero, modificandolo nel suo portato essenziale.
Il mondo delle confraternite
Sul versante diametralmente opposto al wahabismo si muovevano organizzazioni vicine al sufismo, un movimento capillarmente diffuso all’interno della realtà islamica, con il quale qualsiasi tentativo di riforma era tenuto a fare i conti. Fra il XVII e il XVIII secolo il mondo delle confraternite, cioè di queste organizzazioni, cominciò a manifestare delle possibili devianze. L’eccessivo potere di alcune di esse e la venerazione di alcune tra le loro autorità, ne facevano talvolta dei piccoli stati nello stato, autocratici e a gestione ereditaria del potere, così da renderle delle vere e proprie dinastie in grado di reclutare eserciti, di sollevare movimenti e di controllare il consenso popolare. Tutto ciò, se da un lato contribuiva a rafforzare l’immagine delle confraternite come baluardi difensivi dell’islam, d’altro canto aveva spinto alcune di esse a tradire i valori originali e a trasformarsi da organizzazioni dedite in primo luogo al perfezionamento spirituale in organismi politici continuamente alla ricerca di una espansione della propria influenza. Alla degenerazione politica si aggiungeva poi un diffuso lassismo morale che era forse ancor più preoccupante. Nei primi anni del XVII secolo un maestro sufi, nell’India musulmana, denunciò la corruzione morale di molti movimenti che si allacciavano al sufismo, ponendosi come incontestate autorità spirituali, addirittura sottratte per decreto divino alla legge e alla morale. Per non parlare delle degenerazioni popolari che in alcuni casi avevano trasformato alcuni seguaci della scuola sufi in saltimbanchi, fachiri, incantatori di serpenti, dediti alla danza sui carboni, al raggiungimento di estasi artificialmente procurate. E in effetti nel corso del XVIII secolo, vediamo emergere in tutti i territori retti dall’islam un’esigenza di ordine che fu volta a ripristinare i valori più profondi ed antichi del sufismo. In alcuni casi la riforma è poco avvertita in quanto pone l’accento sulla continuità con il passato. E’ il caso di al Darkawi che garantì alla sua predicazione un enorme successo: dopo la sua morte la Darqawiyya,
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cioè la scuola che prese nome dal suo fondatore, acquisì un peso politico non indifferente e fu quasi considerata una confraternita nuova e indipendente.
A causa di una rivelazione avuta, secondo la tradizione dallo stesso Profeta, l’algerino al Tigani fondò nella seconda metà del secolo una scuola che si connota come più distaccata dal recente passato. Benché il suo apprendistato sia avvenuto all’interno delle confraternite convenzionali, la Tiganiyya emerge in tal modo come un ordine in certo modo atipico, perché si discosta dall’uso comune di attribuire ad uno dei discepoli di un maestro sufi il potere di fondare una nuova confraternita, facendo risalire, a causa di una presunta rivelazione, la sua istituzione direttamente a Maometto. I tigani si ritengono i restauratori di una sufismo più simile a quello delle origini. I primi maestri della scuola si pongono dunque in atteggiamento rigido nei confronti della civiltà circostante, al punto di proibire ai propri aderenti ogni contatto con le altre organizzazioni dello stesso tipo o di tipo diverso. Qust’ultima restrizione doveva servire per contrastare quei fenomeni di eccessiva pietà popolare che spingevano le confraternite verso un sincretismo che andava contro la restaurazione che i tigani propugnavano. Nonostante il suo rigore , il successo della Tiganiyya fu notevole. L’ordine si diffuse rapidamente sia nell’Africa sahariana che in alcune zone al sud del Sahara, dove ancor oggi la sua presenza si fa avvertire in modo incisivo.
Idee in qualche modo analoghe ispirarono a Oriente, l’opera dell’indiano Khwaga Mir Dard, che pur all’interno del movimento delle confraternite intese ribadire che l’insegnamento e la via più autentici rimenassero quelli del Profeta.
Un altro sufi di Dehli, Ganganan invocò un ritorno del movimento sufi alla sua funzione di salvaguardare l’islam senza però cedere al fondamentalismo. Il suo atteggiamento di apertura anche verso altre culture, come l’induismo gli attirò contro un fanatico induista che lo assassinò.
Il personaggio di maggiore rilevanza di questo periodo è Shah Wali Allah. Aderente a diversi ordini sufi, egli propugnava un ritorno alle fonti in modo da compiere
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quegli adattamenti dottrinali che la realtà contemporanea rendeva irrinunciabili poiché aveva dimenticato la retta dottrina che le fonti più antiche dell’islam contenevano e che a suo parere non erano più seguite a cusa del mutare dei costumi e degli usi dell’”età moderna”. Non solo quindi una revisione del sufismo ma anche un profondo ripensamento di tutte le discipline islamiche, quali la giurisprudenza, la teologia, l’esegesi scritturale. La sua traduzione del Corano in persiano fu il primo coraggioso tentativo di tradurre il testo sacro in una lingua diversa dall’arabo. Wali Allah fu figura rilevante soprattutto nella dottrina sufi, attraverso la lente della quale egli volle sempre considerare l’islam. Egli fu certamente moderno ma non senza essere avulso dal suo contesto, che fu quello del sufismo tradizionale.
Tornando di nuovo ad occidente ci imbattiamo nell’ultimo grande riformatore del secolo, Ahmad ibn Idris di Fez. La sua proposta di riforma si intende mossa dall’interno del movimento sufita, un sufismo emendato da ogni eccesso ma comunque fedele alle sue origini e pronto a riaffermare il suo ruolo centrale all’interno dell’islam. Ibn Idris, oltre che per la confraternita che di lui porta il nome, va ricordato anche per le due confraternite che attinsero al suo insegnamento per assumere poi atteggiamenti del tutto differenti. La prima scuola, i Mirghani fondò una sorta di potentato in Eritrea, mentre i Sanusi rappresentarono in Libia una vera e propria potenza, che si oppose alla colonizzazione italiana e che dopo la II guerra mondiale costituì una monarchia ufficiale e riconosciuta, sebbene effimera.
Verso il mondo contemporaneo
Tra l’epoca appena descritta e quella contemporanea esistono dei caratteri intermedi che consentono di saldare le due epoche, la moderna e la contemporanea che altrimenti sarebbero prive di collegamento.
Quel che si è convenuto di chiamare “modernismo” è il risultato del confronto dell’islam con i paesi occidentali. Già a partire dall’epoca dell’impero ottomano l’islam aveva dovuto confrontarsi col proprio ritardo nei riguardi dell’occidente, se
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non altro dal punto di vista economico e tecnologico. Il modernismo non è stato un fenomeno isolato, ma ha incontrato notevoli difficoltà nel dialogo con l’occidente. Non si è trattato di una vera e propria esigenza di conoscere un interlocutore di cui poco si sa, ma di far fronte a nuove sfide lanciate anche al mondo islamico dai tempi moderni. Gli stessi termini “modernismo” e “fondamentalismo” sono etichette di matrice occidentale che poco hanno a che vedere con la realtà. Realtà vuole che ad esempio alcune figure carismatiche all’epoca della colonizzazione si opponessero con veemenza a coloro che considerarono degli invasori. L’immobilismo apparente del mondo musulmano non è certo privo di vitalità. Molti sono ancora oggi i musulmani che pur seguendo mentalmente una tradizione lunga di secoli, sono parte attiva nei movimenti di riforma dell’islam.
Gli studiosi occidentali hanno concesso maggiore attenzione a quei fenomeni che più facilmente potevano rientrare negli schemi loro familiari, passando sotto silenzio ciò che a quegli schemi non era riconducibile.
In sostanza nella società musulmana appaiono chiaramente quegli orientamenti non ben definiti solo perché sfuggono al quadro degli schemi occidentali ma che sono i veri eredi di quelle operazioni messe in atto dalle società islamiche, con i loro modi e i loro tempi, per attingere alla modernità.
L’islam contemporaneo
Le mutazioni socioculturali e le tensioni spesso contraddittorie che attraversano l’islam risalgono ad un quadro che dalla fine del Settecento in poi ha avuto l’occidente come punto di riferimento nella formulazione delle proprie iniziative politiche. Islam e occidente sono protagonisti di una unica storia e cioè quella dell’ingresso nella modernità.
In Europa l’interesse scientifico per l’islam è anteriore almeno al 1539 con l’istituzione della prima cattedra di lingua araba al Collegio di Francia di Parigi, e mentre l’impero ottomano diventa sempre più potente si assiste alla nascita di nuove
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scuole e istituzioni che si richiamano all’islam. Sul piano storico l’ingresso dell’islam in occidente può farsi coincidere con l’invasione dell’Egitto da parte della Francia di Napoleone Bonaparte.
Il movimento romantico in Europa con Goethe, Lamartine e altri tentò di avvicinare se non altro il modo di sentire europeo a quello islamico. L’islam era noto come fede monoteista, ma si sapeva ancora poco sul funzionamento delle società rette dalla sharia. Il processo di trasformazione delle società occidentali interessa anche in parte quelle islamiche. Del tutto estraneo al “movimento dei lumi”, si può capire l’atteggiamento di chiusura di fronte ad una spedizione come quella di Bonaparte. Durante tutto il XIX secolo convivono in Europa due letture dell’islam. Quella romantica e quella degli orientalisti e filosofi, secondo cui non ci sarebbe nulla di romantico nell’islam ma soltanto un’assenza patologica di progresso e libertà.
La difficile emergenza della modernità
Il primo paese islamico a ricercare un contatto con l’occidente è l’Egitto del khedivé, che inizia una politica di riforme. L’inviato in Francia, Rifa’a Rasi al Tahtawi, durante la permanenza in quel Paese scrive un diario di viaggio col quale intende rispondere a tre esigenze della propria società di provenienza: studiare, imparare, riprodurre. Il termine che identifica questo periodo è la parola “scienza”: non solo perché essa è vista come fattore di modernizzazione, ma soprattutto perché la parola “scienza” evoca il periodo d’oro dei fasti della cultura musulmana. A partire dall’inizio del XIX secolo si era creata una mentalità che era partecipe di una visione mitizzata della storia dell’islam, che in alcuni casi diveniva apologetica. Nella mentalità musulmana le città capitali – Baghdad, Damasco, Cordova – non sono solo luoghi fisici, ma luoghi comuni ch rievocano l’apice della cultura e della civiltà islamica, un passato da resuscitare nel presente.
Il turbamento dell’ordine delle società musulmane ad opera dell’occidente, attraverso le imprese coloniali, ha modificato le condizioni di esercizio del pensiero
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nell’islam. Gli sconvolgimenti storici del XIX e XX secolo generano una serie di reazioni: imitazione, eclettismo, rigetto. Il confronto tra avvenimenti politici e avvenimenti culturali dimostra la difficile emergenza sul piano intellettuale e politico della modernità e la costante oscillazione tra riforme e tradizione. L’incertezza tra il dare prevalenza alla dimensione umana piuttosto che a quella divina o viceversa costituisce la ragione principale dell’attuale ritardo.
Gli autori musulmani, che da Tahtawi in poi hanno guardato alla modernità come a qualcosa di meccanicamente riproducibile in qualsiasi tipo di società, hanno frainteso la natura della problematica, anche a causa di una lunga cesura instauratasi tra i tentativi umanisti dell’islam classico (XI–XII secolo) e la paralisi di queste società in epoca contemporanea.
La distruzione di Baghdad ad opera dei Mongoli nel 1298 ha segnato in un certo senso la fine di una cultura cosmopolita, profondamente urbana e aperta a influssi eterogenei. Questo evento segna una involuzione di una società che a partire da un periodo di splendore urbano, viene sostituita da un islam di tipo rurale e regionale. Riemerge l’aspetto segmentario dell’islam, venendo meno la cultura cittadina.
Nel corso del XIX secolo le elite urbane individueranno nell’islam delle confraternite sufi un motivo e una causa di decadimento della civiltà islamica. Una volta cominciato il processo di decadenza è subentrata una cultura molto più frammentata, certamente più complessa e che si rivolge ad autorità locali e non più centrali. Attorno alla metà dell’800 riemergono nell’islam i due registri della cultura: uno di matrice urbana, che vuole riconquistare una perduta unità politica, e l’altro che rappresenta l’islam segmentario di tipo clientelare e più legato al passato arcadico.
Anche se in alcuni casi questi due aspetti dell’islam hanno convissuto la visione più esatta delle interazioni tra le due componenti è quella dicotomica, se non addirittura manichea, della società islamica. Dalle confraternite deriverebbe la degenerazione dell’islam. Se infatti la riconquista della grandezza perduta si fondava sull’anelito ad
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una ricompattazione politica, cioè ad un movimento centripeto, l’azione delle confraternite era quella tesa a decentralizzare e ad agire localmente, cioè nell’esercitare una forza centrifuga. Il ritorno dello stato/nazione si accompagna necessariamente ad un esplicito contrasto alle confraternite mistiche. I riformisti musulmani dirigono perciò i loro sforzi verso la eliminazione delle confraternite. Ad esempio la nascita, nel 1925 dello stato laico della Turchia di Mustafa Kemal si accompagnò alla chiusura dei monasteri dervisci. Dalla metà del XIX secolo sino alla metà del XX si assiste a un urto quasi frontale tra confraternite e riformisti musulmani. I riferimenti ideologici di questi ultimi derivano da un pensiero teologico strettamente dogmatico, che propugna un islam forte, uno stato dirigista e intransigente che corrisponde alla necessità di un formalismo gerarchico e di una concezione centralizzata dello stato. In questa prospettiva la cultura delle confraternite è posta agli antipodi di quella dei riformisti, si tratta di due culture che si escludono a vicenda. Nel XX secolo la condanna delle confraternite interesserà anche l’ambito politico, perché molte di esse saranno accusate di collaborazione col potere coloniale. Tra Ottocento e Novecento la convergenza tra istanze laiciste e istanze riformiste si è tradotta nella nascita di un pensiero nazionalista. Questo cambiamento non poteva non minare la struttura stessa delle confraternite, perciocché si assiste alla rinascita dell’islam urbano a scapito di quello rurale. La sopravvivenza delle confraternite è assicurata dal loro stesso cambiamento e dallo spostamento nelle città e quindi nello stato. Alcune di esse diverranno partito politico come in Libia e in Sudan.
Ci si può chiedere in quale misura le imprese coloniali abbiano influito sul dibattito all’interno del pensiero islamico. Il colonialismo rappresenta per l’islam la modernità e c’è chi sostiene che solo la modernità può garantire il riscatto dalla decadenza. Nelle società islamiche oggetto di colonizzazione si confrontano islam e occidente, modernità e tradizione. In Occidente i teorici della colonizzazione e i loro oppositori condividono la stessa immagine del mondo arabo e dell’islam.
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Quando Karl Marx si recava in Algeria per curare una broncopolmonite egli si limitava a contestare il razzismo provocato dalla società coloniale: neanche una parola sulla società araba. La convergenza tra Marx ed Engels sull’idea che il colonialismo comprenda anche una missione civilizzatrice provoca nell’islam un meccanismo di auto/rappresentazione che si fissa in una immagine contraddittoria; del resto i musulmani vedono l’occidente nel duplice aspetto dell’oppressione e dell’ideale politico della modernità come meta da raggiungere.
Quando nel 1929 Hasn al Banna fonda l’associazione dei Fratelli Musulmani affermando che “l’islam è dogma, culto, patria, e nazionalità, religione e stato, spiritualità e azione, Corano e sciabola”, abbiamo tutte le premesse di un sostanziale ritorno al passato, se non da un punto di vista politico senz’altro da un punto di vista ideale e religioso. Lo scontro tra modernisti e tradizionalisti vede l’impossibile confronto tradursi in un ambivalente rifiuto dell’occidente. Ripercorrere le tappe della questione della modernità nell’islam attraverso i suoi principali protagonisti permette di mettere in luce le contraddizioni interne e l’interazione di fattori storici e politici.
E’consuetudine osservare il periodo dell’avvicinamento da parte dell’islam all’occidente mediante le figure di tre protagonisti principali: Gamal al dn al Afghani, Muhammad ‘Abduh e Rashid Rida. La nascita del panislamismo e del modernismo in quanto movimento di rigenerazione del pensiero islamico è strettamente legata alle tre figure indicate e alla loro personalità e attività. Ma il rinnovamento del pensiero musulmano va anche di pari passo con il formarsi di una visione nazionale panislamica.
La prima delle figure cui ho accennato e cioè al Afghani, aveva la particolarità di essere molto geloso delle proprie origini, così geloso da non rivelarle mai. Gli storici si sono interrogati su questa ritrosia e sono giunti a due possibili soluzioni: la prima è la seguente, cioè che al Afghani era sciita e all’epoca gli sciiti non godevano di una situazione favorevole, poiché i sunniti li consideravano eretici. Così gli sforzi di
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un riformatore sciita tesi a realizzare l’unione di tutti i musulmani, sarebbero caduti nel vuoto o peggio, se egli avesse rivelato le proprie origini e le proprie tendenze religiose. Perciò se la riunificazione dell’islam fosse stata predicata da un sunnita, ad esempio un afghano, avrebbe avuto maggiore successo. Una seconda spiegazione del suo dichiararsi afghano, deriva dal fatto che in tal modo egli poteva rivendicare le proprie istanze presso l’Inghilterra, che all’epoca costituiva un impero potente e pronto ad aiutare le comunità nazionali in difficoltà. La sua attività di propagandista di un islam unito lo portò a viaggiare molto prima in Egitto, poi a Parigi, confrontandosi con Ernest Renan sul problema della possibilità di conciliare islam e scienza. Intanto i suoi viaggi continuavano, portandolo in Turchia, in Inghilterra, in Persia, in Afghanistan. Anche in Afghani convivono due registri: da una parte egli guarda all’islam come origine e come legame comunitario e politico; dall’altro cerca di superare il momento religioso per puntare tutto sull’elemento politico. Al-Afghani morirà nel 1897 all’età di 59 anni: molte delle sue idee sono alla base del dibattito che ancora oggi accende l’islam contemporaneo.
La seconda delle figure indicate fu Muhammad Abduh, che fu un eminente teologo che ebbe contatti con la cultura francese in un periodo di esilio. Abduh è stato considerato e definito come “il maestro guida”. I due momenti della sua critica all’islam tradizionale sono costruiti sulla riflessione relativa al “fatalismo”, sulla imitazione sterile, sull’indebolimento della facoltà di giudizio, sulla ricerca della verità interpretativa. Abduh insiste sul rapporto tra ragione e rivelazione e cerca, attraverso altri scritti, di superare l’antinomia tra i due termini. Il suo ruolo di pensatore è tuttavia indissociabile da quello di educatore e critico della società.
Le idee riformiste di Abduh infatti hanno non solo un versante teologico ma anche politico che sfocia nel pensiero nazionalista: nell’Egitto di Abduh l’idea di nazione è in ascesa perché vista come strumento di rovesciamento del dominio turco-ottomano. Abduh ottenne il posto di amministratore della Università di Al-Azhar dove porrà in atto una serie di riforme filo-occidentali. Nel 1899 è nominato gran
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muftì d’Egitto con l’incarico di interpretare la Shari’a e di applicarla. In questo periodo compie molti viaggi. Nel 1905 a causa di polemiche legate alle proprie idee, Abduh dà le dimissioni dal consiglio di amministrazione di Al azar e si ritira a Eliopoli, dove muore nello stesso anno. Il suo insegnamento verrà assimilato e proseguito da due suoi allievi: Rashid Rida e Alì Abd al-Raziq.
Rashid Rida, a differenza del proprio maestro si colloca su posizioni conservatrici e in sostanza su un ritorno all’islam delle origini. La finalità di Rida è comunque un adattamento dell’islam al mondo moderno, facendo perno sulla convinzione sempre presente nell’islam che i momenti di crisi e di regressione possano essere superati, anche con un approccio al mondo moderno, ma sempre facendo riferimento alla dottrina maturata quando ancora il profeta era in vita e tuttavia adattando tale dottrina al momento presente.
Anche Rashid Rida lavora su un doppio binario: da un lato predica un ritorno alle origini, e quindi alla predicazione del Profeta e dei suoi primi quattro compagni, eliminando tutte le innovazioni intervenute nel frattempo. D’altro lato lotta contro un modernismo che rende succube l’islam alle idee anche religiose propagandate dalle nazioni coloniali d’occidente. Nel 1924 Rida assiste al crollo dell’impero ottomano, e per porvi rimedio, cioè per porre rimedio alla caduta di un sistema di potere non più in grado di sostenersi, comincia a predicare un avvicinamento alla democrazia occidentale. Ad esempio comincia a parlare di assemblee decisionali anche se sotto la autorità incontrovertibile di un califfo scelto tra i discendenti di Maometto. Dopo la morte di Rida nel 1935, numerosi saranno i movimenti che si richiameranno alla sua idea: soprattutto il riformismo in Algeria e il fondamentalismo di Hasan al Bannah.
I pensatori musulmani dell’India rappresentano l’altro lato della riflessione sull’islam, quello del versante non arabo. Con la colonizzazione inglese e quindi con l’avvicinamento all’occidente, anche i musulmani indiani si sono posti il problema di una rilettura dell’islam più adatta ai tempi presenti e del rapporto tra occidente e
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induismo; e induismo e islam. Anzitutto va detto che la penetrazione islamica in India non differisce poi molto da quella inglese, e si fonda sulle confraternite sufi per controllare capillarmente i territori conquistati, i quali a conquista avvenuta sono considerati territori facenti parte del Dar al islam, cioè del mondo islamico, in cui le confraternite rimanevano subordinate al sultano. L’espansione musulmana comincia già nell’VIII secolo attraverso le dinastie turco/afghane e poi Moghul. Con la penetrazione in India l’Inghilterra si sostituisce gradualmente al dominio Moghul.
Ancora ad oggi, tuttavia, nonostante le vicissitudini del colonialismo britannico si confrontano due grandi tendenze nell’islam indiano. La prima corrisponde alla stretta osservanza della shari’a. La seconda tentenza può sembrare più eclettica, perché parte dal presupposto che i caratteri geografici e antropologici locali determinino un certo tipo di approccio religioso.
Uno dei primi pensatori islamici in India di orientamento riformista è Shah Wali Allah al Dihlawi, il quale vive in un periodo in cui si consuma la rottura fra islam e induismo. Egli si rende conto che l’islam è in India una religione di minoranza. Per introdurre una maggiore conoscenza del Libro tra quella gente si dedica alla traduzione del Corano in lingua persiana. La sua preoccupazione principale è di rinnovare l’islam sulla base di un ritorno alle fonti, Corano e Sunna. La grande novità introdotta da questo pensatore è il fatto che, elaborando il concetto di “circostanze della rivelazione” egli introduce il criterio dell’adattamento dei contenuti della rivelazione ai mutamenti e alle evoluzioni della società. L’islam di Wali Allah tenta di instaurare una interazione tra sistema castale indù e egualitarismo musulmano sul presupposto ma anche nella consapevolezza che l’uno è il contrario dell’altro. Da ciò l’insistenza dello studioso in parola sul concetto di “virtù” anziché su quello di “guerra santa” come mezzo di diffusione dell’islam.
In India molti studiosi, istituzioni accademiche e movimenti si richiameranno alle idee Wali Allah, sia per abbracciarle sia per contestarle. Sul piano politico il
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“Khilafat movement” recepì le idee ecumeniche di Wali Allah, ma scomparve nel 1928 dopo la caduta dell’impero ottomano.
Altra personalità notevole è quella di Sayyd Ahmad Khan, che nasce a Delhi nell’Ottocento, tempo in cui la capitale indiana assiste al declino Moghul e della civiltà indo-musulmana. Dal punto di vista politico Ahmad Khan afferma la necessità per l’islam indiano di accettare la dominazione britannica e di collaborare con essa. Dal punto di vista religioso egli è considerato il fondatore del modernismo religioso in India, cercando di far combaciare attraverso l’uso dell’allegoria i versetti coranici che sarebbero altrimenti incompatibili con la situazione di assoggettamento coloniale. Come in molti intellettuali musulmani dell’epoca, la contraddizione tra scienza e rivelazione è pensata i termini ideologici più che in termini veritativi. Ahmad Khan si colloca tra i pensatori che vedono nell’islam la possibilità di elaborare un pensiero scientista. Questa visione è influenzata dal positivismo ottocentesco e permea a tutt’oggi una parte del pensiero islamico. Ma la teologia di Akmad Khan si realizza soprattutto nel confronto che egli instaura tra la Bibbia e il Corano. Egli è il primo pensatore musulmano ad aver accettato l’autenticità della Bibbia.
Muhammad Iqbal è il pensatore probabilmente più conosciuto in tutta l’area islamica. Il suo pensiero, si fonda su tre concetti: filosofia, poesia e spiritualismo. Alla base del suo pensiero sta l’idea di una possibile sintesi tra islam e occidente. L’idea di un creato in continua mutazione nel pensiero di Iqbal associata a quella di un vicario “sulla terra”, un luogotenente che garantisca la prosecuzione dal sé dell’umano al sé del divino. Iqbal era antimarxista perché vedeva in marxismo e islam due messaggi in competizione tra loro nel modellare un nuovo tipo d’uomo. La predicazione di Iqbal più che scritta è orale, e questa oralità caratterizzerà sempre in futuro le forme di comunicazione, anche teologica in tutto il mondo islamico.
Dopo la caduta dell’impero ottomano la cultura politica islamica dovette confrontarsi con l’elaborazione di una idea di nazione che era riferibile da un lato ad
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una ricompattazione ed una fortificazione insieme ad una modernizzazione dell’islam politico; dall’altro ad un sottrarsi al movimento coloniale. Diversamente che in occidente, dove il concetto di nazione era associato ad uno spazio politico, in islam essa nazione era concepita sulla base della religione. Come scrive Abdallah Laroui nella “Crisi degli intellettuali arabi”, la cultura politica nel mondo arabo non deriva da una frattura fra ragione divina e ragione politica ma da una subordinazione della ragione politica rispetto alla ragione divina in quanto tutti i regimi islamici si richiamano all’islam in quanto legittimazione dello stato nazione. Storicamente lo stato islamico si è fondato attraverso un ideologia di tipo aggregativo fondata sia sull’islam che sulla specificità araba. La difesa della autenticità arabo/islamica è stata usata come un muro contro le influenze occidentali. Il trinomio stato/partito/ nazione è alla base di ogni società musulmana odierna. Ma è proprio quando questo trinomio si incrina che l’identità islamica si rafforza a scapito di quella araba, più moderna e occidentale.
Nascita dell’islam militante
La tradizione del diritto nelle società islamiche è un esempio di come la figura di letterato abbia sempre avuto una funzione che è quella di garanzia nei confronti delle istanze di autorità e di potere nell’islam classico. La tradizione del diritto ne è un caso esemplare: un vasto sistema di norme socio/etiche che costituisce l’archetipo sociale della coesione comunitaria nell’islam.
L’islam militante si inserisce nella continuità di un modello socio/etico di base; così si spiega l’insistenza con la quale i manuali e gli opuscoli degli islamisti parlano di ritualità delle preghiere, della coerenza del comportamento e distinguono un buon musulmano da uno cattivo.
Emergono nel mondo musulmano a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo due tipi di letterati, uno legato al corpus e alla cooperazione dei dotti, l’altro autodidatta legato a una trasmissione del sapere che si avvale di strumenti mediatici.
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Alla fine degli anni Settanta, un periodo di modernizzazione che ha interessato tutti i paesi islamici, i protagonisti del fondamentalismo di tipo classico continuavano ad avere una formazione di tipo tradizionale. I centri di diffusione del sapere rimangono ancora legati alle strutture tradizionali di insegnamento: madrase, università di Al-Azhar, ecc.
Sono le politiche di sviluppo nate dopo i movimenti di indipendenza che innescano processi di rottura tra il dotto e letterato dell’islam garante della società sul piano etico giuridico; e l’intellettuale contestatore, ingegnere, medico o tecnico ma militante dell’islam. L’insieme delle tendenze politiche e culturali si inserisce nel quadro delle ideologie di indipendenza e autonomia, tradotte nelle politiche del non allineamento degli anni sessanta. Ma nei paesi islamici la modernità si è tradotta in un puro calco dei modelli occidentali. Il consolidamento dello stato si è trovato vittima della contestazione islamica. Il maggior accesso delle nuove generazioni all’istruzione di tipo universitario ha formato nuovi gruppi potenzialmente contestatori, mentre nella moschea si radicalizzava il discorso religioso. Lo stesso discorso dell’islam radicale è centrato non più sul culto ma sullo stato. Ne consegue che gran parte del linguaggio dell’islam radicale concerne l’economia e il governo ed è finalizzato alla creazione di uno stato islamico, tale fin dalle fondamenta, quindi fin dalle basi della società.
La costruzione ideologica degli islamisti si fonda sul rigetto di tutto ciò che viene temporalmente prima e dopo il Corano e quindi anche dei valori dell’occidente secolarizzato.
E’ con Mawdudi, eminente figura di studioso e intellettuale che l’islam politico diviene eversivo, opponendo alla dialettica democratica un programma che si ispira direttamente all’islam. Il primato del politico implica la rinuncia alla soggettività: l’individuo è completamente assorbito nella finalità del progetto politico e quindi scompare. Ma per arrivare a ciò è necessario dimostrare la superiorità di questo sistema su ogni altro possibile al punto che la scelta non si ponga nemmeno, poiché
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il sistema islamico secondo Mawdudi è superiore a tutti gli altri. L’affermazione in quegli anni di un nazionalismo pakistano portò Mawdudi a concentrare la sua attività politica nella creazione di una costituzione islamica e di un diritto costituzionale che avrebbe dato origine ad una società e a un ordine politico/culturale puramente islamici.
Si trattava di convincere l’elite occidentalizzata della Lega Musulmana della possibilità di applicare la shari’a anche in una società moderna. Mawdudi presenta il suo programma in quattro punti:
- Che noi pakistani crediamo alla sovranità suprema di Dio e che lo Stato amministri il paese come fosse il Suo agente.
- Che la legge fondamentale del Pakistan sia la shari’a islamica, che proviene dal nostro profeta Maometto.
- Che tutte le leggi esistenti in contrasto con la shari’a sono abrogate.
- Che lo Stato del Pakistan, nell’esercizio dei suoi poteri non abbia alcuna potestà di trasgredire i limiti posti dall’islam.
Mawdudi comprende che se nel momento attuale non è possibile attuare una rivoluzione transnazionale, allora occorre strumentalizzare lo stato come vettore dell’islamizzazione. Lo stato e la nazione sono soltanto momenti storici che dovranno portare a una rivoluzione totale. Da questo momento in poi l’attivismo di Mawdudi lo porta a passare dei periodi in prigione ma dopo varie peripezie e una condanna a morte, nel 1955 egli esce di prigione, e l’anno successivo il Pakistan adotta una costituzione di tipo islamico. I cambiamenti in Pakistan coincidono per Mawdudi con un periodo di viaggi di ricerca che lo porteranno a scrivere la sua opera più nota: “Esegesi coranica”. Si rafforzano le sue relazioni con l’Arabia saudita, dove viene incaricato di scrivere il programma del’Università islamica di Medina. Il contesto internazionale risente della guerra fredda e delle mire terzomondiste e marxiste di alcuni paesi arabi. Nel 1962 Mawdudi pronuncia un discorso sull’eguaglianza sociale che prelude alla nascita della più grande
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organizzazione musulmana: la “Lega del mondo musulmano”. Le tendenze conservatrici si affermano sempre più nel pensiero di Mawdudi, e la radicalizzazione di queste tendenze porterà in Pakistan allo scontro con le correnti progressiste dal quale esce vittorioso il generale Zia ul Haq. Mawdudi muore nel settembre del 1979 avendo visto nel realizzarsi del governo tradizionalista del generale un potere conforme alla sua visione dell’autenticità islamica.
Come traspare da quanto detto, una delle caratteristiche dell’islam è che le formulazioni politiche e la realizzazione dei progetti dipende strettamente dalla personalità e dalle vicende del leader che a un certo punto tenta, con maggiore o minor successo, di far coincidere il proprio progetto ideologico con la realtà e la prassi politica. Ciò è dovuto alla natura carismatica del potere negli stati neopatrimoniali. Debolezza della società civile, processi di acculturazione, modernizzazione accelerata: i processi di pensiero non possono che riflettere questo tipo di realtà, cioè la sempiterna contrapposizione tra bisogno di autenticità e di innovazione, cioè tradizionalismo contro riformismo.
La dottrina politica di Mawdudi che si basa sul ruolo fondatore del Corano, afferma l’assoluta unicità di Dio, la sua maestà sovrana e assoluta su tutto l’essere. L’uomo occupa una posizione di assoluta dipendenza nei confronti di Dio e quindi non può essere padrone del proprio destino: è per essenza carente e imperfetto. Per limitare le sue tendenze negative, l’uomo ha bisogno di un Dio cui deve obbedienza e abbandono. Riconoscere Dio significa elevare la posizione dell’uomo, che perciò deve gestire gli affari del mondo secondo il volere di Dio, e il suo potere non deve in nessun modo oltrepassare i limiti posti da Dio stesso.
Per Mawdudi il messaggio profetico è sempre lo stesso attraverso la storia: ricondurre gli uomini dalla notte verso il giorno. Per l’umanità esistono solo due vie da seguire: quella che considera Dio il sovrano e legislatore unico e quella che rifiuta o ignora questa strada accettando qualsiasi tipo di governo: quest’ultima è la via della gahilyya, cioè un concetto che per Mawdudi è sovra/storico, valido anche
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per tutte le altre società; è un attitudine permanente che prende forme diverse a seconda dei tempi e dei luoghi e contro la quale hanno lottato tutti i profeti, e devono lottare tutti coloro che sono guidati dal loro messaggio. Questa lotta si realizza nello gihad, che è sempre rivoluzionario perché contrasta tutte le forme di sottomissione tranne quella verso Dio e ha per fine ultimo la realizzazione del governo di Dio sulla terra, la realizzazione della sua volontà nella totalità della vita. In Mawdudi si riscontra un concetto di lotta eminentemente politico: egli si inserisce nella linea dei pensatori e di una certa tradizione islamica che hanno visto nel concetto di unicità divina un principio ordinamentale in grado di influenzare la comunità umana secondo per l’appunto il concetto di lotta. Il pensiero di Mawdudi non si incentra tanto sulla questione dell’esistenza di Dio, quanto su quello della sua sovranità che esclude tutti gli altri tipi di sovranità. Tale sovranità rappresenta un modo di vivere, di essere, di situarsi nel mondo e nei confronti del mondo. Tale visione del tema religioso introduce la rottura innanzitutto tra Mawdudi e l’occidente e in secondo luogo tra Mawdudi e il clero tradizionale, gli “ulama”. L’esistenza di una gerarchia religiosa infatti introduce una separazione tra il sacro ed il politico, concetto che implica un venire meno alla islamizzazione integrale, che ha come conseguenza che tutti sono ugualmente in grado di parlare e di giudicare in nome dell’islam.
Questa concezione, questo modo di vedere l’islam sarà ripreso più tardi dall’egiziano Sayyid Qutb. Egli affermerà in una sua formula che Allah “è tutto, Allah è un modo di vita”. Ciò per dire che l’islam non può essere diviso, spezzato: si deve ammetterlo per intero o rifiutarlo per intero, e lo Stato islamico non può avere altri principi che quelli derivati dalla shari’a. Il postulato di Mawdudi è semplice: una vita guidata da Dio è superiore a una vita scelta dall’uomo.
Nel vocabolario degli islamisti la civiltà occidentale assimilata all’idea della decomposizione, le cui condizioni sono la mercificazione degli esseri, la morale puramente utilitaristica, il comunismo sfrenato ed egoista; sul piano politico la
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divisione degli uomini in nazioni antagoniste, contraria alla nozione di fratellanza universale. Mawdudi appare come uno dei principali punti di riferimento dell’islamismo moderno. Il tentativo di Mawdudi parte dalla sua volontà di rifondare l’insieme della vita umana e di ricostruire uno stato islamico nuovo a partire dal crollo della civiltà occidentale. Egli mette sullo stesso piano le elite occidentalizzate e gli ulama, partigiani dell’islam secolare e del suo retaggio. L’islamità per Mawdudi e costituita unicamente dal Corano e dalla tradizione profetica (Sunna): è solo per mezzo di essi che si può giudicare la civiltà moderna e il patrimonio storico dell’islam.
L’islam contemporaneo e l’ideologia islamista hanno pensato il diritto entro un quadro concettuale in certo senso nuovo: lo stato. L’islamismo torna a considerare lo stato come il luogo deputato all’aggregazione dei musulmani tra loro. Per l’islamismo lo stato deve coincidere con la comunità. Tuttavia poiché la struttura portante dell’islam rimane il Corano insieme alla shari’a, allora lo stato può esservi solo se può in qualche misura contribuire, attraverso il monopolio della applicazione della shari’a, alla nascita di una società perfetta. Ed ecco spiegata la preminenza che nei paesi islamici si attribuisce al diritto penale, che attiene preminentemente al comportamento e quindi alla morale, piuttosto che alle altre branche del diritto, sempre attraverso la mediazione della shari’a. Nell’islam infatti non esiste il concetto di peccato originale pertanto la religione legittima gli sforzi per creare qui, sulla terra una società ideale.
Il dibattito intorno alla shari’a nel mondo islamico si concentra nello scontro tra islamismo radicale e conservatorismo di stato. Nell’ambito dell’islamismo radicale parlare di applicazione della shari’a vuol dire legittimare una scissione tra politico e religioso. Lo si vede nella “shariatizzazione” del diritto penale, o anche come strategia da parte dello stato di cedere alla shari’a sull’etica, anche se non sul resto. Per l’islamismo radicale la shari’a non deve introdurre una linea di confine tra
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spazio modernizzato e diritto di ispirazione religiosa: la shari’a è tutto e vuole porsi a base giuridica di una società completamente islamizzata.
Le maggiori preoccupazioni derivano dal fatto che il progetto ideologico dell’islam radicale si fonda sulla volontà di islamizzare lo Stato moderno. E’ il ragionare sulla società a partire da presupposti islamici che porta l’islam radicale a criticare fortemente nei paesi islamici occidentalizzati istituti come i ministeri o il primo ministro, ecc. Questo atteggiamento di repulsione nei confronti di tutto ciò che può rappresentare l’occidente si nota ad esempio nel tipo di trattamento riservato alla donna, che per fondamentalisti islamici deve svolgere funzioni materne e familiari; mentre per l’islamismo moderato e laicista la donna è legittimata a condividere un proprio spazio politico, ad esempio, anche se essa porta il velo, può essere medico, ingegnere, parlamentare, ecc. Entrambe le tendenze possono ovviamente essere fatte rientrare nel campo dell’islam, fondamentalista o moderato che sia.
Fondamentalismo e neofondamentalismo: approccio dell’islam militante e movimenti islamici contemporanei
Nel 1929, quando Hasan al Banna decide di fondare il movimento dei Fratelli Musulmani le società musulmane sono attraversate da diverse correnti di idee che traducono il ruolo da attribuire all’islam, e in molte delle quali l’occidentalizzazione è vista come una minaccia al ruolo strutturante dell’islam.
Sin dall’inizio l’ideologia della Fratellanza musulmana si sviluppa su due registri, uno politico, che si batte per la ricostituzione del califfato, e l’altro a connotazione pedagogica e missionaria. Per al Banna la critica verso l’occidente è una critica contro i costumi, contro la perdita di identità; egli affida alla “da’wa” il compito di reislamizzare dal basso la società. In particolare ciò che costituisce per i membri della fratellanza musulmana un indice del grado di occidentalizzazione delle società islamiche è il ruolo della donna, che secondo il livello di emancipazione che ha
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raggiunto, può denotare una maggiore o minore occidentalizzazione dei costumi nella società di riferimento.
Le circostanze storiche e il quadro internazionale del medio oriente si riflettono nel progetto ideologico dei Fratelli Musulmani,che sin dal 1936 difendono la Palestina araba e sposano la causa nazionalista nei confronti della presenza britannica nella valle del Nilo. In seguito l’organizzazione di al Banna prenderà parte alla rivoluzione del 1952 che si concluse con la presa di potere da parte di Nasser. Tuttavia il ruolo sempre più sanguinario assunto dall’organizzazione determinerà la condanna a morte di al Banna da parte delle autorità.
Dopo la morte di al Banna, Siyyd Qutb appare come l’autore più importante. Dopo un soggiorno negli Stati Uniti, tornato in patria, scrive alcuni articoli in cui critica il Paese che ha visitato, suscitando le ire di coloro che negli USA vedevano un esempio di modernità. Nel 1954 una serie di contrasti all’interno del gruppo dirigente al potere, conduce Qutb e altri all’incarcerazione. Durante la permanenza in prigione scriverà la sua opera maggiore, dal titolo “All’ombra del Corano”. Nel 1964 pubbica una epistola dal titolo “Segnali lungo la via”. Accusato di sedizione viene condannato e impiccato nel 1966. Qutb risulta molto importante per l’islam politico e rivoluzionario, perché egli concettualizza l’idea di lotta politica e di movimento sulla base di una lettura del Corano e di un trasferimento del suo contenuto nel pensiero politico moderno.
Ma l’innovazione più spettacolare è il ruolo attribuito allo gihad. E’nello gihad che per Qutb sono contenute le premesse dell’ideologia della lotta. Il rovesciamento epistemologico che si realizza in Qutb nella lettura del Corano corrisponde alla nascita del radicalismo islamico dal punto di vista teorico, e alla nascita di gruppi e di leader che ad esso si richiamano dal punto di vista strutturale.
Dopo la morte di Qutb due personalità si faranno interpreti della diffusione dell’islam di matrice sunnita all’interno della cultura sciita. Entrambi moriranno assassinati. Essi sono Muhammad Baqir Sadr, iracheno, e Ali Shariati, iraniano.
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La prima delle due figure nominate, dopo aver vissuto gli anni giovanili compiendo studi approfonditi, si schiera contro la penetrazione delle idee occidentali in Iraq, e anche contro il clero sciita del suo paese di nascita, sempre l’Iraq. Di fronte a dinamiche sociali che vedono da un lato la diffusione di idee comuniste, dall’altro la chiusura su sé stesso del ceto degli sciiti, Sadr adotta un atteggiamento equidistante. In seguito egli risponde alla ondata comunista e socialista con le sue opere maggiori, “La nostra filosofia” e “La nostra economia” in cui presenta l’islam come filosofia non solo superiore a marxismo e capitalismo ma anche ad ogni altra. Dalla critica all’individualismo capitalista, che rende l’uomo una monade riducendolo a semplice consumatore, Baqr costruisce il concetto di economia islamica. L’opera “La nostra economia” si presenta come un manuale di economia islamica, e ne elenca i pilastri, come quello della “doppia proprietà” per cui sono considerati legali sia il modello di proprietà pubblica sia quello di proprietà privata. Egli delinea i limiti della libertà economica, concettualizza il rapporto tra economia e religione, definisce il ruolo dello stato. Dopo aver pensato in termini islamici l’economia, Sadr sviluppa la tematica politica in termini costituzionali. Egli affidò a tale scopo alla comunità sciita la missione di elaborare un testo costituzionale. In effetti la entrata dello sciismo nel politico è il risultato di una lunga trasformazione storica ma soprattutto religiosa. Lo sciismo “duodecimo” è legato alla scomparsa del dodicesimo imam nell’anno 864 d.C., e questa scomparsa viene chiamata “occultamento” per l’imam in questione, il quale non sarebbe morto ma solo scomparso e tornerà sulla terra alla fine dei tempi per ristabilire pace, giustizia e verità. La scomparsa del dodicesimo imam a confronto con la scomparsa di Maometto fu anche definito come “occultamento minore”: esso durò sessantasette anni ma permise la continuità dell’interpretazione coranica attraverso agenti chiamati wakil attraverso i quali l’imam nascosto continuava a comunicare i propri messaggi. La morte dei wakil coincise con la fine dell’invio dei messaggi. Iniziò così nella scuola sciita il periodo detto dell’”occultamento maggiore” o “grande occultamento”. Il vuoto istituzionale causato dalla scomparsa del dodicesimo imam
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e dalla morte dei suoi messaggeri riportò la comunità sciita nella stessa situazione politica dei musulmani di Medina quando il Profeta Maometto scomparve nel 632.
La situazione era nel campo sciita effettivamente quella di un vuoto di potere, problema che solo dopo la costituzione di stati nazionali sciiti, ad esempio l’Iran, sarà risolto sul piano dottrinale. Ma anche così la questione dell’occultamento minore rimarrà all’origine di violente dispute ideologiche. Per risolvere il problema nacquero due scuole di pensiero: da una parte quella degli Akbari tradizionalisti, secondo cui la comunicazione con l’imam scomparso era rimasta occlusa sin dall’epoca del suo occultamento; dall’altra parte si collocavano gli Usuli, che affermavano l’obbligatorietà dell’interpretazione anche se sganciata da un perlaltro rigido tradizionalismo, confinante con il mito puro e semplice. Furono gli Usuli a vincere nella disputa. La differenza tra le due scuole sul piano strutturale era che mentre per gli Akbari il gudizio religioso per essere valido doveva basarsi sulla tradizione sciita dei dodici imam, per gli Usuli lo sforzo interpretativo e innovativo era la garanzia della validità dei giudizi emessi che dovevano essere imitati e seguiti dai credenti.
Il clero sciita che nel XIX secolo era divenuto molto potente ebbe come direttrice, sia in Iraq che in Iran e in Libano la risocializzazione delle masse sciite prive di risorse. A tale scopo essi non mancaron di costruire scuole, ospedali, associazioni che hanno permesso un inquadramento della popolazione, rafforzato da un forte simbolismo religioso e da manifestazioni collettive.
Ma è proprio sulla idea di stato e costituzionale che Sadr e l’ayatollah Khomeini dovevano scontrarsi. Khomeini, facendosi interprete della evoluzione storica e del concetto di stato propugnato da Mugtahid Marga (il più autorevole tra i teologi) lo radicalizza affermando che potere temporale e potere spirituale devono essere delegati al più autorevole tra i teologi o in assenza di esso a un gruppo di teologi e studiosi, ciò ovviamente in assenza dell’imam nascosto.
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Khomeini riuscì nell’intento di fondare uno stato sciita proprio perché aveva in qualche modo laicizzato le credenze delle popolazioni sciite, perché aveva abituato il clero islamico sciita a parlare di politica.
I rapporti sempre più stretti dell’Ayatollah Sadr con l’Iran sciita e con gli sciiti del Libano, le sue prese di posizione contro Khomeini mentre gli iracheni sunniti perdevano sempre più il controllo delle componente sciita della loro società rendevano la sua posizione critica di fronte al governo iracheno. Più volte imprigionato, Sadr viene arrestato e assassinato insieme alla sorella nel 1980. Altro assassinio illustre in quegli anni fu quello di Sadat, presidente dell’Egitto, che fu giudicato colpevole di aver firmato gli accordi di Camp David con Israele e di non applicare la shari’a in Egitto e venne ucciso per questo. Era il 1981.
L’islam contemporaneo fra contestazione e rinnovamento
Nell’epoca presente due sono i problemi che interessano l’islam. Il primo è la nascita di un islam in Europa come conseguenza dell’immigrazione e della deterritorializzazione dell’islam tradizionale. Il secondo è la collocazione dell’islam della contestazione nei confronti degli stessi stati islamici, arabi e non. Riguardo al primo elemento, si potrebbe ipotizzare che l’islam, staccato dal suo contesto d’origine, potrebbe dare luogo ad un processo di “aggiornamento teologico”. Ma si rimane nel novero delle congetture. Un aggiornamento teologico richiede infatti uno spazio in cui porre in essere detto aggiornamento, e una società in grado di accoglierlo. Per il momento in Europa questo spazio è insesistente e per di più non c’è possibilità di confronto tra i corsi di studi in islamologia delle università europee e i centri di formazione degli imam, presso cui vengono formati i teologi musulmani che nei paesi d’origine sono istruiti dallo stato. Si tratta di una situazione paradossale: se da una parte le comunità musulmane in Europa sono il risultato di una deterritorializzazione, cioè di un abbandono pianificato dei paesi d’origine, dall’altra la percezione dell’islam rimane legata a quella dei paesi d’origine. Il fatto di rappresentare in Europa una minoranza, sia pure in forte crescita, pone comunque
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il problema per l’islam europeo di confrontarsi con nazioni secolarizzate come quelle europee. Ciò spiega la difficoltà con cui in Europa gli stessi musulmani strutturano le proprie comunità: se lo stato islamico è assente, manca il nesso tra territorio e sua rappresentazione politica.
Il tratto minoritario appare poi come una situazione sociologica nuova che nelle prossime generazioni implicherà una nuova funzione dell’islam, perché per necessità di sopravvivenza, esso dovrà adattarsi alla natura dello stato in Europa, dunque dovrà privilegiare le vie che permettono la sua esistenza, e la parità nei confronti di altre religioni. L’islam in Europa interagisce con una società marcatamente individualista, in cui anche il fatto religioso è un fatto individuale, non comunitario come invece nei paesi islamici da cui gli immigrati provengono. Si può ipotizzare dunque che ne prossimi vent’anni si prospetti per i musulmani una religiosità più incentrata sull’individuo che sulla società. Si tratta ancora una volta di un pradosso: l’invidualismo nascente è un individualismo antropologico, sociale, non supportato da una riflessone teologica che è assente o bloccata. Occorrerà quindi accompagnare la progressiva integrazione degli islamici in Europa attraverso un nuovo approccio teologico che sia, almeno inizialmente il più vicino possibile a quello dei paesi di provenienza degli esuli. L’esempio del conflitto nella ex Jugoslavia insegna proprio questo: non basta essere secolarizzati, come nella ex Jugoslavia, se una volta caduta la sovrastruttura edificante i sopiti odii religiosi riemergono in tutta la loro violenza. E’ per questo che nel percorso tra l’oggi e la definitiva integrazone degli islamici immigrati in Europa, il diritto sarà chiamato a incentivare la dimenione individualizzante e di interiorizzazione del fattore religioso che oggi non è ancora possibile perché ciò di cui i musulmani in Europa sentono preminentemente la mancanza è un territorio su cui la religione abbia una dimensione comunitaria.
L’oscillazione costante che ha caratterizzato l’islam del XX secolo tra un islamismo ideologizzato e un fondamentalismo che l’ha di fatto ridotta a una serie di divieti ha
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bloccato qualunque tipo di riflessione teologica o di interpretazione nell’islam. Ciò che caratterizza l’islam contemporaneo è dunque il blocco della riflessione, un blocco epistemologico che ha condizionato il discorso dell’islam ufficiale. L’origine di tutto ciò risiede probabilmente nella debolezza della società civile, nel mondo musulmano, ma anche nel fatto che la ricerca di legittimità politica si è accompagnata, nei paesi musulmani, a una dinamica difficile tra Stato e contestazione islamica: per venire incontro alle esigenze della società lo Stato si è spesso atteggiato a garante dell’islamità, attraverso l’inserimento di precetti islamici all’interno del corpus legislativo statale. Ad esempio nell’Egitto di Sadat, nel 1980, dopo gli accordi di Camp David, il presidente introdusse, per frenare la contestazione islamica, un emendamento costituzionale nel quale la shari’a era considerata norma fondamentale dello Stato. Ciò non impedì l’assassinio di Sadat da parte di un gruppo di terroristi, nel 1981.
A parte l’islam ad esempio turco, il nazionalismo nei paesi islamici non ha mai rimesso in questione la funzione dell’islam nell’arena politica. L’assenza di separazione tra sfera pubblica e sfera privata nei paesi musulmani ha implicato che essi dovessero trovare altrove un modello di nazione, cioè a dire un modo per separare la sfera pubblica dalla sfera privata, tutto ovviamente a causa della colonizzazione e della successiva liberazione dal dominio coloniale.
Si prenda in considerazione il caso dell’Iran. La società iraniana appare divisa fra una tendenza conservatrice e una più incline all’aperura verso l’occidente, non viene però toccato il ruolo dell’ayatollah. La contestazione in quel paese è incentrata essenzialmente sulla ricerca di una maggiore flessibilità riguardo alla funzione dell’ortoprassia religiosa nella società.
Per tornare ad un dicorso più generale in riferimento alle società islamiche, va detto che ad oggi la contestazione da parte degli estremisti nelle stesse società di cui parliamo si svolge all’interno dei singoli ambiti statali. Il caso più tipico di una forte intensità del conflitto è attualmente l’Algeria dove stato e movimenti islamisti si
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scontrano frontalmente. Altri paesi come l’Arabia saudita e l’Egitto si trovano in situazioni simili. L’Arabia saudita fonda la propria legittimità su un forte simbolismo religioso, una dottrina dello stato ricalcata sul wahabismo, e un sistema giuridico e istituzionale fondato sul Corano e la Sunna. Ciononostante l’Arabia è attraversata da una contestazione islamica di tipo conservatore da parte delle stesse elite religiose che ha prodotto. Tutto ciò per contrastare una tendenza alla modernità che le elite arabe hanno sempre coltivato.
L’Egitto, a partire dalla metà degli anni ’90 ha visto crescere la contestazione islamica, che cerca lo scontro frontale con lo stato mendiante assassinii e attentati. Viceversa una situazione di debole intensità del conflitto sia ha quando, per motivi strutturali e tradizione culturale lo stato non è l’unico elemento strutturante della società perché al suo interno permangono altre logiche, di tipo tribale o confessionale. E’ il caso del Libano, in cui la contestazione islamica è diluita nella società, ed anche a causa dell’approccio multi religioso del paese, cioè del pluralità di religioni in esso presenti. Inoltre la molteplicità delle appartenenze confessionali all’interno dell’islam – sunniti, sciiti, drusi, ismailiti, ecc. – implica strategie di lotta politica diversificate da parte di questi movimenti contestatori.
In altri paesi l’ingresso della contestazione islamica si è verificato all’interno dell’arena politica. E’ questo il caso della Giordania, dove la Fratellanza musulmana, entrata in Parlamento negli anni ’90 ha avuto la funzione di mediare tra ideologia contestatrice e movimenti eversivi. Sembra che il Marocco presenti la stessa situazione. Ma questi due paesi hanno caratteri precisi: in ambedue il potere ha una legittimità estremamente forte, perché sia il re del Marocco che il re di Giordania discendono direttamente dal Profeta.
Ultimo esempio è quello della Turchia e della Siria. Qui il gioco tra stato e contestazione islamica ha implicato una strategia di totale espulsione della seconda. Lo stato interviene in queste situazioni come garante di un limite non valicabile fra istituzioni e contestazione.
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Nel sucontinente indiano e in Pakistan, cioè nell’islam periferico, si possono osservare due fenomeni: la reislamizzazone post/coloniale e il processo di etnicizzazione della nazione cioè lo smembramento dello stato a favore della organizzazione clanica e tribale.
Per concludere il discorso, oggi la umma non appare più come aggregazione delle differenze etniche e nazionali nel discorso della contestazione islamica, ma sotto certi aspetti essa è universale perché legata a una visione ideologica comune. La umma rappresenta oggi una comunità più che reale, virtuale, perché in alcune zone del mondo, priva di territorio, come ad esempio in Europa. Si spiega così il fatto che ad oggi fra gli obiettivi dei terroristi non vi siano più simboli religiosi ma stazioni o aeroporti, supermercati ecc. Il profondo mutamento delle società islamiche può, come detto, essere verificato nel binomio Stato/contestazione islamica: si tratta del processo di democratizzazione che interessa anche quelle società.
Il problema delle divisioni nel mondo musulmano
Quasi tutte le fratture all’interno delle comunità musulmane hanno visto le due componenti, quella religiosa in senso stretto e quella civile, combinarsi in modo spesso non chiaramente distinguibile. In senso generale, possiamo dire che la causa politica ha prevalso su quella religiosa, o almeno l’ha preceduta cronologicamente. Ciò però non significa che le cause teologiche derivino o siano derivate da precedenti dissidi politici perché alcune linee di diverse visioni all’interno dell’islam, come abbiamo visto, cominciano a manifestarsi già in epoca molto antica.
Alla morte del Profeta, la comunità è composta da tutti coloro che ne erano i compagni, cioè che l’avevano personalmente conosciuto e con ruoli diversi avevano assistito con lui al trionfo della fede. Una volta scomparso il Profeta si poneva il problema della successione. I punti di intesa non mancavano, poiché si riteneva, dato che Maometto era stato l’ultimo profeta, che nessun altro avrebbe potuto
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succedergli. Tuttavia sulla base di un versetto del corano lo stesso Maometto consigliava ai fedeli di rivolgersi in caso di difficoltà a chi “deteneva l’autorità”. Le divergenze sorsero sui modi di individuare questa suprema autorità. Il criterio e i modi con cui i più influenti dei compagni del profeta scelsero come successore e come califfo Abu Bakr, uno dei primi seguaci del profeta, furono dettati certamente dall’amicizia che più di tutti Abu Bakr poteva affermare nei riguardi del profeta. Alcuni però cominciarono ad obiettare che la nomina di Abu Bakr era avveuta così repentinamente da porre la comunità islamica davanti al fatto compiuto e senza alcun tipo di partecipazione alla scelta, sempre da parte della comunità. Altri obiettavano che l’elezione era avvenuta all’insaputa di alcuni stretti familiari del profeta, per i quali la scelta caduta su Abu Bakr era ingiusta, in quanto il califfo avrebbe dovuto essere scelto tra i membri della famiglia del Profeta. La disputa si ridusse ad essere dibattuta tra coloro che proponevano un criterio basato sul merito e coloro che invece pretendevano che la scelta cadesse su un membro della famiglia del profeta. Più precisamente , tra i vari figli del Profeta nessun maschio gli era sopravvissuto, a parte alcune figlie femmine. Tra queste Fatima era andata in sposa ad Alì, cugino carnale di Maometto, il quale Alì si trovò così ad essere doppiamente imparentato col profeta e ne assicurò la discendenza familiare, nella quale discendenza i sostenitori della linea “di sangue” vedevano la continuità nella guida della comunità. Il partito di Alì si andò sempre più rafforzando non tanto per un mancato riconoscimento di natura spirituale nei confronti della famiglia di Maometto, quanto per la lesione dei diritti politici che le veniva inferta non riconoscendole la priorità nella successione. L’avvenimento che senza dubbio più ha influito sul contrasto tra Alì e i suoi oppositori, in senso positivo, è senza’altro la sconfitta del movimento sciita da parte di Alì e degli altri discendenti di Maometto.
La geografia islamica tradizionale aveva, su ispirazione di quella greca, suddiviso il mondo in vari climi che caratterizzano ciascuna regione non solo in senso fisico ma anche culturale. L’estensione raggiunta dalla cultura islamica in un tempo relativamente breve era di un’ampiezza straordinaria, e abbracciava province
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d’Africa, d’Asia e anche d’Europa. Era inevitabile che questa ampiezza, considerata anche la sola influenza climatica, desse vita a esperienze religiose diverse, pur nella unità della fede. Negli studi sulla filosofia e sulla scienza islamica si va sempre più facendo strada l’idea che nonostante gli incontri con altre civiltà, le assimilazioni culturali e gli scambi reciproci, anche a carattere religioso, cionondimeno lo studio della cultura dei primi secoli dell’islam avvenuto negli ultimi decenni ha rivelato che alcuni fondamenti, ad esempio filosofici eranno presenti all’interno del mondo islamico dapprima che esso mondo avesse un qualche contatto ad esempio con il mondo ellenico o ellenistico.
Ancora più emblematico è il caso degli studiosi che sottolineano lo stretto legame esistente fra il mondo religioso sciita e quello persiano, quasi che l’Iran fosse responsabile degli atteggiamenti religiosi che lo sciismo ha assunto nel corso della sua storia. Tuttavia a prescindere dal fatto che lo sciismo attecchisce in qualche modo in Iran solo a partire dal XVI secolo sono scarsi gli appigli che consentono di affermare che una particolare tendenza sciita abbia delle solide origini persiane. E quanto detto vale in generale per tutte le vicende di commistione a carattere religioso tra islam e altre fedi. Più ci si sposta verso la perifria delle terre islamizzate più si tende a vedere una assimilazione da parte dell’iran di elementi teologici ad esso estranei, ma ovviamente si tratta di parvenze superficiali che non vanno ad intaccare il messaggio teologico di fondo che è sempre uguale a sé stesso.
Per passare ad altro e come già anticipato, il movimento sunnita nacque nei primi decenni di vita dell’islam e rappresentò in origine il tentativo di affermare i diritti politici della famiglia del profeta. Secondo alcuni esponenti del sunnismo, questi diritti erano stati lesi eleggendo, come capo supremo, Abu Bakr il quale benché suocero di Maometto non aveva con lui diretti legami di sangue. La stessa avversione venne manifestata dagli sciiti, le cui masse andavano sempre più ingrossandosi, nei confronti dei califfi successivi. In tutto il mondo islamico si manifestavano segni di dissidenza contro gli attuali reggitori della “Casa
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dell’Islam”. Il califfo Uthman, terzo califfo scelto tra i Compagni del Profeta, fu assassinato nella sua residenza mentre come si dice, era intento alla lettura del Corano. Fu allora che il massimo rapresentante del califfato Omayyiade, ritenne che Alì e i suoi seguaci fossero colpevoli di quell’assassinio, se non altro moralmente. Queste affermazioni accesero gli animi e portarono alla guerra fratricida e allo scisma. Tuttavia il comportamento dei primi sciiti non fu del tutto omogeneo. Nel partito della dissidenza molti esitavano ad imbracciare le armi, mentre le frange più radicali non esitarono a praticare la violenza. La storiografia successiva ha suddiviso per questo motivo la fazione sciita in tre componenti: una moderata, una media e una estrema.
Per tornare ad una argomento già oggetto di questa sintesi sull’islam occorre accennare ancora ai karihgiti, che non possono essere considerati sunniti nel senso pieno della parola, cioè nel significato di “seguaci di Alì”, poiché una volta ponderato il carattere e le rivendicazioni implicite nella causa del discendente di Maometto, non esitarono ad allontanarsi da lui o addirittura a combatterlo. Ciò che importava davvero ai Kharigiti non erano le questioni dinastiche o di successione, ma soltanto il retto comportamento, da chiunque venisse dimostrato.
Il termine Kharigiti vuol dire “coloro che escono”. Molti autori in seguito utilizzeranno questo nome per indicare il carattere scismatico del movimento; altri lo hanno messo in relazione con l’uscita da Kufa di molti dissidenti che andavano a raggiungere il campo dei secessionisti. Pare però con maggiore probabilità che essi definissero sé stessi con questo nome per indicare la loro militanza a difesa della fede. Essi infatti “uscivano in battaglia” distinguendosi positivamente da coloro che rimanevano nelle proprie case.
Il kharigismo primitivo si identificò in effetti con la lotta armata. Dopo l’uccisione di Uthman, il califfo terzo in linea di successione dopo il primo, cioè Abu Bakr, Alì era stato finalmente nominato califfo. Il parente più prossimo dell’ucciso però reclamava vendetta. Ne seguì un periodo di tensioni che sofciò in una guerra tra le
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due fazioni, la quale ebbe luogo nella piana di Siffin, sul medio Eufrate. Prima del conflitto però i capi militari rifletterono sulla possibilità che non si ponesse mano alle armi e si tentasse una conciliazione. Si giunse così alla proposta di fare riscorso a un arbitrato in cui i rappresentanti delle due parti avrebbero potuto accordarsi, con reciproca soddisfazione.
Dopo il tentativo di accordo, che non andò a buon fine, i partigiani di Alì ritennero di essere stati ingannati nelle trattative e ciò aumentò il loro risentimento in riferimento alla parte avversa. Una volta constatata l’inutilità di qualsiasi accordo essi scesero di nuovo in battaglia, ma il rifiuto di Alì di far ricorso alle armi determinò una vera e propria scissione nella quale si ebbe la deposizione di Alì. Il movimento kharigita, come forza politica e militare non ebbe lunga vita. Sconfitto in battaglia nel 658 d.C. venne di fatto annientato, e ciò che ne rimase fu qualche periodico segnale di rivolta, tutto ciò finché non divenne così frammentato in gruppi e gruppuscoli da non rappresentare più un pericolo.
Dal punto di vista della dottrina il movimento kharigita, soprattutto agli inizi, fu un movimento piuttosto a carattere popolare e quindi poco interessato ai dibattiti speculativi. Ciò non significa però che il kharigismo non abbia anche espresso una propria dogmatica che fu anche molto apprezzata in alcuni ambienti colti, attratti dal radicalismo delle sue idee, ambienti che fornirono anche un contributo intellettuale alla migliore formulazione di quelle stesse idee.
Tra teoria e prassi rimane comunque il fatto che i Kharigiti furono prevalemente un movimento di azione più che di pensiero. Vi sono comunque alcuni punti che possiamo considerare caratteristici di tutto il loro movimento. La dottrina Kharigita è incentrata su quella del capo legittimo. Contrariamente ai sunniti, che condannano i primi tre Califfi, Abu Bakr, Umar e Uthman, essi li considerano legittimi, mentre considerano Alì positivamente sino all’accordo con gli oppositori degli sciiti.
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Dopo di ciò l’unica guida degli sciiti può trarsi solo dal migliore dei musulmani, chiunque egli sia. Anche se la contrapposizione tra sunniti e sciti non era all’epoca ancora sorta, i kharigiti si schierarono contro gli uni e gli altri.
I kharigiti vincolarono strettamente la fede alle opere, nel senso che la fede viene a mancare se il credente commette un atto contrario alla legge, e colui che lo ha commesso merita la morte, insieme a tutti coloro che si oppongono o non riconoscono la causa kharigita.
Non tutti i kharigiti mostrarono però questo estremo rigore, infatti a parte un nucleo di irriducibili, pian piano le posizioni del movimento si addolcirono, anche perché quest’ultimo venne in contatto con altre tendenze religiose a carattere più moderato che costituivano al maggioranza dei cultori della dottrina. Questo atteggiamento da parte dei kharigiti implicò: rifiuto dell’assasinio politico, rinuncia al terrorismo, regolamentazione della posizione giuridica dei non aderenti al movimento.
In conclusione le uniche nozioni certe che possediamo in merito alla dogmatica teologica kharigita ci provengono dal ramo ibadita, il più moderato e aperto alle altre espressioni dell’islam. Non sappiamo se le dottrine ibadite, fissate nel XII secolo, riportino le origini del pensiero Kharigita. Se fosse così dovremmo concludere che la dottrina Kharigita ha dato un notevole impulso a quella che sarà la grande sintesi operata dal mutazilismo, attraverso la definizione di concetti come: natura creata del Corano, escatologia, impossibilità della visione di Dio, interpretazione allegorica del testo sacro. Dato che furono proprio i Kharigiti ad avviare e a stimolare uno dei dibattiti più centrali nella speculazione teologica musulmana, quello sul rapporto fede/opere, non vi è dubbio che anche su altri punti rilevanti la loro riflessione abbia costituito lo spunto per successive, più mature elaborazioni.
La “shi’a” media imamita
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Lo sciismo imamita rappresenta ad oggi il gruppo maggioritario dell’islam dissidente rispetto al mondo sunnita. Il termine “imamita” vuole alludere alla figura dell’imam, termine che gli sciiti hanno sempre usato contrapponendolo a quello di califfo, per definire la figura del capo temporale e spirituale della comunità. Gli imam vengono frequentemente indicati nei testi arabi come “quelli dei dodici” a indicare che è con tale numero che essi fanno terminare la serie degli imam legittimi; i loro avversari usano l’epiteto peggiorativo rawafid, cioè “coloro che ripudiano”, poiché non ammettono l’autorità dei tre califfi precedenti Alì.
La codificazione dell’imamismo, è quasi sempre avvenuta in negativo, allo scopo di differenziarsi dalle correnti che i fedeli della famiglia del profeta andavano di tanto in tanto creando. Le tendenze all’estremismo e quelle alla moderazione trovano un punto di incontro nella linea mediana costituita da Alì e dai suoi discendenti. L’origine dello sciismo va ricercata come detto nel mancato riconoscimento di Alì come successore del profeta. I fautori di Alì sostengono che la volontà di Dio e del Profeta fu a questo riguardo espressa in manera inequivocabile e tuttavia la malafede della parte maggioritaria della comunità ha ignorato tali esplicite indicazioni. I più tardi polemisti sciiti si sono dedicati ad individuare una quarantina di versetti coranici che implicitamente dichiarerebbero l’eccellenza di Alì tra tutti i compagni del profeta, cui verrebbero poi attribuiti numerosi hadith che designano ancor più marcatamente Alì e i suoi discendenti alla guida della comunità. Un esempio particolarmente ricorrente nei testi sciiti è il “detto dei due beni preziosi” secondo il quale il profeta avrebbe affermato: “Lascio tra voi, due beni preziosi, se vi atterrete ad essi non sarete mai sviati: il Corano e le genti della mia casa”.
Quale che sia la realtà di questi fatti, negati o intepretati in maniera differente dalla comunità sunnita, questi detti suscitarono ovviamente contrasti in seno alle due comunità. E quando Alì, dopo l’uccisione di Uthman assunse finalmente la carica di califfo la situazione si era compromessa al punto da non poter considerare questo evento come un passo decisivo. Infatti il califfato di Alì venne turbato da tensioni
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continue. L’opposizione kharigita da una lato; dall’altro quella del partito omayyiade costrinsero Alì e i suoi seguaci a una lotta per la sopravvivenza che si concluse quando Alì venne pugnalato a morte da un fanatico kharigita, che a quanto sembra intendeva vendicare la morte durante un conflitto della famiglia di sua moglie. Con la morte di Alì, Hasan rinunciò ai propri diritti di successione. Uscito di scena il nipote del profeta si verificò la nomina a califfo del sunnita Mu’awiya, che inaugurò quella dinastia degli Omayyadi che governerà l’islam per quasi un secolo e che contrasterà il pericolo derivante dalla famiglia del profeta con particolare durezza. L’episodio di maggior rilievo del secolo omayyade è indubbiamente il fatto di sangue avvenuto a Karbala. Morto Mu’awiya, il califfato passò nelle mani del figlio Yazid, ma Husayn, fratello minore di Hasan, ed ora capo della famiglia dopo la morte di quest’ultimo, rifiutò di riconoscere questa successione così rinfocolando le speranze degli sciiti. Partito dalla Mecca per raggiungere i suoi simpatizzanti a Kufa, Husayn venne aggredito da una forza armata inviata dagli Omayyadi, e ucciso presso Karbala, una località irachena, insieme ai suoi famigliari il 10 ottobre del 680. Dopo Karbala, per varie generazioni i discendenti del profeta si succedettero senza dar vita ad alcuna forma di opposizione. La situazione cominciò di nuovo a farsi tesa con il movimento degli abbasidi, che per rovesciare la dinastia sciita fomentarono la ripresa del malcontento dei sunniti. Una volta giunti al potere, però, gli abbasidi inaugurarono una nuova dinastia e si disfecero dei loro scomodi alleati sciiti. L’azione degli abbasidi consisteva nel controllo dell’operato della famiglia del profeta dopo che questa, grazie al loro apporto era giunta al potere. Gli ultimi discendenti di Alì e di Fatima ripresero così la loro vita di semiprigionia, praticamente reclusi in un campo di Samarra, città irachena che per breve tempo fu la capitale degli abbasidi. Il numero degli imam riconosciuti da questa corrente maggioritaria dello sciismo si arresta a dodici. Spesso gli sciiti non si trovavano d’accordo sull’esatta successione tra l’uno e l’altro imam il che accrebbe alcune divisioni. Gli imamiti hanno più volte affermato che ciascuno degli imam da loro riconosciuti ha formalmente designato il proprio erede con una investitura per
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iscritto. Si ritiene, ma è materia di fede, da parte degli imamiti, che la designazione dell’imam successivo sia opera divina, anche dopo la morte del profeta anzi a cominiciare da allora.
La nozione di scomparsa o occultamento dell’imam non era nuova nella storia del movimento sciita. Non è agevole determinare il motivo per cui verso la fine del IX secolo anche gli sciiti più scettici accettarono la teoria dell’imam scomparso, tanto da farne una delle loro più peculiari caratteristiche. Al momento della vera o presunta scomparsa dell’imam occulto la situazione era ancora piuttosto confusa, e contrastanti teorie circolavano nell’ambiente sciita. Solo agli inizi del X secolo tutti gli imamiti accettarono l’”occultamento dell’imam” come verità di fede. Il successo di questa teoria si deve all’opera del primo grande teologo imamita, Abu Sahl al Nawbakhti, secondo il quale l’imam scomparso si era rifugiato in un pozzo o cisterna adiacente alla grande moschea di Samarra e da allora non poteva essere visto se non da alcuni luogotenenti, tramite i quali egli continuava a governare i destini della propria comunità. La tradizione sciita è propensa a far durare questa modalità di esistenza dell’imam, definita come occultamento minore, fino al 940, anno in cui sarebbe cominciato l’occultamento maggiore, periodo che dura tuttora e durante il quale l’imam è celato a tutti indistintamente. Gli appellativi che vengono rivolti all’imam in parola sono molteplici: egli è anzitutto il mahdi, cioè il guidato; è poi il signore del tempo; egli è infine il resurrettore perché spetterà a lui presiedere al momento finale dell’umanità.
Il X secolo che è quello della definitiva fissazione della dogmatica imamita, assiste alla rinascita politica del movimento sciita. I Buyidi, una stirpe di guerrieri sciiti provenienti dal Mar Caspio si impadronirono della Persia occidentale e dell’Iraq, minacciando così il califfato abbaside. Nel 977 il califfo fu costretto ad incoronare re un esponente della famiglia buyda, il quale pur non abolendo il califfato sunnita ne divenne di fatto l’arbitro e il tutore. Il dominio sciita sul califfato non durò a lungo, ma fu nondimeno significativo perché diede nuovo vigore alle aspettative
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dello sciismo imamita e gli permise di consolidarsi a livello dottrinale proprio quando sembrava avviarsi al declino e cedere il passo alle correnti sunnite più estreme.
Si dovette però aspettare fino al alla fine del XV secolo quando Ismai’l, appartenente alla famiglia Safavide, coltivò la rinascita di una forte potenza sciita e trovò terreno fertile per la sua iniziativa soprattutto in Iran. Nel 1501 Isami’l si proclamò re dall’Iran e diede allo sciismo imamita la possibilità di creare un proprio stato, retto dalla dinastia in nome dell’imam scomparso. L’imamismo conobbe sotto i Safavidi una delle sue stagioni più floride. Anche dopo la caduta della dinastia safavide lo sciismo rimase la confessione ufficiale di tutti i sovrani successivi, confermando così la separazione del paese dal mondo sunnita.
Negli altri paesi in cui è presente, lo sciismo imamita ha continuato la sua secolare lotta per la sopravvivenza in ambienti ostili. Le sue comunità più consistenti si trovano oggi in India, in Libano e in particolare in Iraq.
Per quanto riguarda l’aspetto dottrinale dell’imamismo, essi seguono in sostanza la dottrina ideologica mutazilita, assai popolare all’epoca in cui l’imamismo si andava consolidando e la cui impostazione allegorica si adattava perfettamente alle idee sciite che erano sempre in via di formazione. Il credo sciita considera fondamentali 5 elementi: unicità di Dio; giustizia di Dio; profezia; imamato; escatologia.
Secondo l’imamismo è teologicamente impossibile che Dio, dopo la morte del suo Profeta, abbia abbandonato a sé stessa la comunità dei fedeli: la bontà divina implica un’autorità spirituale che continui a guidare gli uomini sulla retta via. Dopo il ciclo della profezia si apre il ciclo dell’amicizia o “santità” rappresentanto dai familiari del profeta. L’imam degli sciiti, avente funzioni analoghe a quelle del califfo sunnita in quanto capo dei credenti e “custode della legge” assume al tempo stesso delle valenze più squisitamente spirituali rispetto a quelle meramente temporali. In riferimento al rapporto con gli imam si sono fronteggiate nel tempo come accennato, due tendenze: una, quella sunnita, secondo cui la devozione agli
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imam si deve mantenere entro un ambito limitato e convenzionale; un’altra tendenza, quella sciita che ne ha fatto il nodo della propria ideologia religiosa, concentrando il loro attaccamento sprituale alla figura degli imam. Ad esempio gli imamiti attribuiscono una grande importanza all’episodio dello stagno di Khumm presso il quale il profeta enuncia le proprie intenzioni in merito alla successione. Ancor più signficativo è l’episodio dell’ordalia. Un versetto coranico consiglia al profeta, per dare maggior forza all’affermazione della natura umana e non divina di Gesù, di invocare contro i suoi obiettori cristiani il giudizio divino con una reciproca ordalia in cui entranbi i contendenti attirano su di sé la maledizione divina se sono in errore. I comentatori concordano nel far risalire questo episodio all’anno decimo dell’égira, durante una controversia teologica tra il profeta e alcuni cristiani. Il profeta non riuscendo ad avere la meglio propone un’ordalia per l’indomani mattina. I cristiani rinunciarono all’ordalia, ma intanto si era preparata la scena sulla quale tanto insisterà la tradizione sciita successiva: su una duna rossa avvolto al riparo di un mantello nero fatto stendere tra due alberi, il profeta era accompagnato da coloro che aveva scelto come ostaggi del giudizio di Dio: Alì e la figlia Fatima, insieme ai nipoti Huasyn e Hasan. E allora si scatana una potente teofania. E’questa per i sunniti la consacrazione dei cinque puri, i cinque compagni del mantello. Questo episodio della vita del profeta fa parte del calendario sunnita e ne costituisce un ricorrenza.
Fra le caratteristiche dei discendenti del profeta riconosciute dall’imamismo, molto importante è quella della infallibilità, che se non fosse riconosciuta ai discendenti di Maometto non potrebbe garantire alcuna esattezza nella interpretazione del messaggio divino, che prosegue per il tramite dei discendenti del profeta. In questa accezione, cioè di strumento per la conoscenza delle verità di fede, la infallibilità ha come suo corollario che gli imam sono i depositari della scienza divina e gli unici intepreti qualificati del Corano, nel senso che per loro tramite i credenti vengono guidati sulla retta via. Tuttavia la dottrina dell’infallibilità è stata rielaborata trasformandola in una dottrina di più ampia portata: i dodici imam, insieme al
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profeta e alla figlia Fatima sono immacolati e infallibili perché rappresentano la manifestazone nel nostro mondo del pleroma metafisico dei quattordici impeccabili che si manifesta anche in altri piani di esistenza e che è stato associato a dottrine gnostiche.
Si è accennato alla qualifica degli imam come interpreti del Corano. La loro infallibilità si esplica nel fatto che essi sono gli unici depositari della conoscenza e della scienza del Corano a parte il Profeta. Il Corano ha per gli sciiti lo stesso valore che gli attribuiscono i sunniti, ma con differenze non secondarie. Innanzitutto gli sciiti sostengono che il testo coranico quale era all’epoca di Uthman sia stato alterato con tagli e aggiunte posticce. Nell’impossibilità di accedere all’originale, ormai perduto, gli sciiti accettano comunque la vulgata corrente, attribuendo però uno spazio particolare alla intepretazione simbolica del testo, ed anche ad una attività di riconduzione del significato del testo ad un livello quanto più vicino possibile al quello che sarebbe derivato dall’interpretazione del testo originale. Esiste in merito una suddivisione tra testo esteriore e testo interiore, attingibile solo attraverso la pratica allegorica. Sempre legata alla figura dell’imam è la dottrina del Corano creato. Per giustificare la teoria del “Corano creato”, si è consolidato il pensiero secondo cui se il Corano non fosse una creazione divina allora non avrebbe senso la funzione dell’imam, il quale è già di per sé una manifestazione del Verbo.
L’imamismo ha poi elaborato una serie di criteri propri per determinare l’autenticità degli hadith. Le uniche narrazioni attendibili sono per essi solo quelle elaborate da Alì e dai membri della famiglia del Profeta. Invece sono per gli sciiti fonte scritturale anche gli insegnamenti degli imam, che vengono inclusi in poderose raccolte, ciò che costituisce una prassi antica.
Ciò detto va aggiunto che sono sempre gli imam ad avere la legittimazione richiesta dal Corano per l’interpretazione degli hadith, e ciò sia che lo sforzo intepretativo sia rivolto ad una pedissequa “sequela” delle tradizioni, sia che si manifesti più
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liberamente con un uso più ampio delle fonti. Quanto detto vale per il mondo islamico sciita.
Per quanto riguarda i sunniti la possibilità di elaborare una dottrina accedendo liberamente e autonomamente alle fonti è piuttosto ristretta. Gli sciiti invece, proprio in virtù della garanzia rappresentata dal magistero dell’imam fanno dell’interpretazione degli hadith e del Corano il loro punto di riferimento costante. Poiché però in ultima istanza l’autorità suprema dello sciismo è l’imam nascosto, allora il messaggio per il cui tramite continua la interpretazione del Corano viene trasmesso, potremmo dire “di seconda mano” da “trasmettitori” o “ruwat”, categoria che in seguito ha finito per coincidere con i mugtahid, cioè con i dottori della legge tout court. Si diventa mugtahid quando le proprie intepretazioni giuridiche e religiose abbiano ottenuto un consenso abbastanza ampio. L’imamismo più recente si è di molto istituzionalizzato ma l’ultima parola rimane alla comunità d’appartenenza. Un ultimo elemento che dal punto di vista dottrinale contraddistingue lo sciismo è quello cosiddetto della “dissimulazione”, peraltro osteggiata dalle altre organizzazoni di fede. Questa pratica ha consentito agli sciiti di dissimulare il proprio odio per la famiglia di Alì e di comportarsi con la prudenza che le condizioni storiche suggerivano, fino al punto di autorizzare la falsa testimonianza e lo spergiuro. Oltre a ciò le usanze che essi ricavano dal Corano, anche quelle che fanno riferimento ai cinque pilastri della fede, vengono intrerpretate e praticate in modo personale, ad esempio parte dello loro liturgia prevede la visita periodica presso i sepolcri degli imam deceduti, ovviamente tenendo fermi gli insegnamenti e le pratiche impartite dal profeta.
Altro punto di divergenza dalla pratica sunnita è che nel diritto di famiglia gli sciiti accettano il matrimonio a tempo che consiste in un contratto matrimoniale che ha un inizio e una fine prestabiliti. I sunniti condannano aspramente questo istituto paragonandolo ad una vera e propria forma di prostituzione legalizzata.
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A parte le differenze che caratterizzano maggiormente e che differenziano i modi della fede all’interno dell’islam esistono correnti così radicali che non sono riconosciute neanche all’interno dell’islam. Nonostante le difficoltà per gli studiosi di estrapolare le caratteristiche di questi movimenti, si può dire del primo di questi movimenti in ordine cronologico. Durante il califfato di Alì, un ebreo convertito avrebbe sostenuto Alì con tale calore da considerarlo quasi una divinità fino a costringere il califfo a mandarlo in esilio. Per nulla scoraggiato, questo ebreo di nome Ibn Saba avrebbe sostenuto in seguito che Alì non era affatto morto ma era stato sottratto alla vista degli uomini.
A partire da questo primo episodio di ultradevozione, e di estremismo, l’elenco dei movimenti e delle personalità eretici all’interno dell’islam o all’esterno ma con riferimenti sempre all’islam potrebbe continuare. Ad esempio con la descrizione del più importante capo scismatico all’interno del moviemnto sciita e cioè Abu ‘l Khattab al –Asadi. Molti eresiografi lo considerano il padre dell’Ismailismo, ma è più prudente ritenere che la sua figura e la sua attività ideologica più che “fondare” preparino la nascita dell’ismailismo. La sua attività si esplicò nell’ambiente in cui operava il cosiddetto sesto imam dello sciismo, Ga’far al-Sadiq. Pare che uno dei figli dell’imam, Ismail, non fosse rimasto insensibile alle idee di al Khattab. Fu dalla morte di Ga’far e dalla diatriba sulla sua successione che prese le mosse quello che possiamo definire senz’altro il movimento scismatico più importante nell’ambito dello sciismo estremo, cioè l’ismailismo. Il termine di ismailiti viene attribuito normalmente a tutti coloro che, alla morte di Ga’far ritennero suo successore il figlio Ismail. Sembra fuori dubbio che Ga’far avesse designato per iscritto questo suo secondo genito, e tuttavia la morte di Ismail prima di quella del padre avrebbe generato numerose discussioni. La maggioranza optò per un altro figlio di Ga’far, Musa al Kazim che divenne così il settimo imam, tra quelli riconosciuti dal movimento. Alcuni ritennero che sebbene non più in vita Ismail avesse avuto il tempo di lasciare in eredità la successione a suo figlio, Muhammad ibn Ismail. A parte tutto ciò che riguarda le “beghe di palazzo” , il movimento ismailita appare
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dalle fonti nel IX secolo come movimento rivoluzionario che si diffonde rapidamente in quasi tutti i paesi dell’islam. Due sono le correnti che sembrano uscire dal nulla ma che fanno riferimento al movimento ismailita: quella dei carmati e quella dei fatimidi, che avranno vicende indipendenti da quelle del culto di derivazione. I carmati giunsero a sottrarre la pietra nera, restituita solo vent’anni dopo a prezzo di laboriose trattative. La setta si estinse solo sul finire del X secolo. Quanto alla sua ideologia suo obiettivo era sradicare dall’islam tutte le credenze che la setta riteneva superstizioni, ma in definitiva la sua attività traeva alimento da quelle che erano le sue istanze rivoluzionarie.
Il movimento dei fatimidi si presenta con caratteristiche assai diverse. I fatimidi rappresentano un momento di frattura nello svilippo dell’ismailismo. Anziché attendere un capo essi si fanno portavace della continuità della linea degli imam dopo la morte di Ismail. Un abile propagandista, di nome Abu ‘Abd Allah, dall’Algeria approdò in Maghreb dove si mise a capo di un’insurrezione con la quale abbatté i sovrani locali e fondò un grande stato ismailita che abbracciava tutta l’Africa del Nord. Egli scelse come titolo regale al Mahdi. L’impero raggiunse il massimo dell’estensione nel X secolo, con la edificazione di una nuova citta, il Cairo in Egitto.
Vanno quanto meno ricordati i “fedeli fino alla morte” del movimento di Alamut. La cultura occidentale li ricorda come gli “assassini”, probabile deformazione del termine arabo che deriva da hashish, droga della quale gli aderenti alla setta erano accusati di fare uso. La leggenda nera degli Assassini diffusa sia nell’Islam sia nel mondo occidentale, è in parte frutto di una esagrazione. La letteratura ha indugiato con troppa compiacenza sugli eccidi compiuti e sul fanatismo dei fida’iyyun. Resta però che gli ismailiti di Alamut fecero del terrorismo politico e religioso una delle loro armi più temibili, tanto da creare a lungo nei loro avversari, una vera e propria psicosi. L’ultimo degli imam, Sinan e la caduta della rocca di Alamut, espugnata dai mongoli misero fine al movimento ismailita. La storia del movimento successivo si
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riduce ad una complicata serie di scissioni che riduce l’intero movimento a una frammentazione e polverizzazione che ne decretò di fatto la fine, a parte i territori occupati, ad esempio in India, da alcuni irriducibili, che comunque erano ormai ridotti all’impotenza. Quanto ai nizari, altro movimento scismatico, ma di scarso peso, continuarno a vivere indipendentemente in Persia, in Siria e in India. La fazione persiana riuscì a mantenere una certa importanza, tentando anche di riconquistare la piazza forte di Alamut. Nel 1834 il loro capo ricevette dallo scià il titolo Agha Khan (“principe signore”) che da allora viene trasmesso per via ereditaria. Nel 1842 il centro della setta fu trasferito in India. Gli Agha Kahn successivi, piuttosto popolari anche presso il pubblico occidentale, hanno continuato a guidare una schiera di fedeli sparsi in prevalenza in India, Pakistan e Afghanistan.
La dottrina ismailita
La ricostruzione della dottrina ismailita è notevolmente difficile, sia perché il carattere esoterico del movimento impedisce di accedere a testi che potrebbero aprire uno spiraglio di luce su questo culto, ma anche perché le informazioni di cui disponiamo provengono dalla consultazione di testi redatti da autori che erano ideologicamente in contrasto con l’ismailismo. Tuttavia grazie alle testimonianze successive, sia di partigiani che di avversari possiamo affermare che alcuni capisaldi della dottrina, già prima dell’epoca fatimide, fossero stati raggiunti. Ovviamente sono molte le sette che nel corso dei secoli si sono definite ismailite, ciascuna con un proprio pensiero e proprie tendenze teologiche, ma alcuni fondamenti possono essere considerati come le basi essenziali della dottrina in parola. In primo luogo va ricordata la differenza tra essoterico e esoterico. A livello esoterico gli ismailiti avevano consolidato la loro idea di un imam tutto spirituale, di un essere trascendente, anzi di un vero e proprio principio le cui vicende terrene e la cui apparenza fisica non erano che illusioni. Tutto diviene oggetto di intepretazione simbolica e le stesse sorti terrene del movimento non sono che la rappresentazione di un drammma che si svolge in divinis e quindi fuori dal tempo. Di qui l’insistenza
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sulla dottrina dei cicli cosmici, secondo cui la storia non è un continuo avanzamento, ma uno svolgimento di cicli che riflettono il processo soteriologico delle anime. Ogni imam è la tipificazione di Adamo, che periodicamente si manifesta in questo mondo per “convocare” gli esseri e trascinarli verso il pleroma metafisico delle loro origini. Ai cicli di occultazione si alternano cicli di svelamento tra l’uno e gli altri dei quali si interpone la resurrezione, concepita più come un fatto storico, come un fatto interiore. Questa serie di cicli avrà termine con la resurrezione delle risurrezioni che porrà fine al grande ciclo e ripristinerà le anime umane nella loro condizione primigenia. Il numero sette ha un’importanza straordinaria nella dottrina ismailita. Basandosi sul fatto che la loro scissione dagli imamiti è iniziata con il settimo imam, spesso essi vengono definiti nei testi arabi come “quelli dei sette” o “settimani”. Ma tale numero ha una rilevanza prevalentemente speculativa.
La numerologia in generale ha poi un posto di primo piano nelle speculazioni ismailite, tanto da farne una delle più articolate espressioni della legge dei numeri, che è anche scienza delle lettere. Dato il carattere esoterico di queste dottrine, nell’ismailismo diviene centrale la questione dell’insegnamento iniziatico. L’autentico magistero spetta in principio solo all’imam, che è l’unico a detenere davvero le chiavi della gnosi. Sembra di poter ipotizzare che l’ismailismo abbia dieci gradi di iniziazione, tre superiori e sette inferiori. Ignoriamo praticamente tutto delle pratiche rituali di questi raggruppamenti segreti.
Gli zaiditi o Shi’a moderata
Coloro che vengono oggi definti zaiditi, costiuiscono un movimento che prende le mosse da una rivolta di modeste proporzioni che nell’VIII secolo riguardò la città di Kufa e che ebbe per protagonista tale Zayd ibn Alì, figlio del quarto imam, il quale a conclusione della sollevazione venne ucciso nella moschea mentre era in preghiera. La particolarità di coloro cui la rivolta faceva capo era nella ideologia professata, e cioè che un qualsiasi discendente del profeta potesse fare ricorso alle armi per rivendicare i propri diritti.
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Un movimento successivo, definibile come zaidita, quello degli Zang, era costituito da schiavi neri ribelli che per una quindicina d’anni minacciarono l’esitenza stessa del califfato di Baghdad. Essi, conquistati dalla predicazione di Alì ibn Muhammad si sollevarono apertamente contro il califfato abbaside. La ribellione venne infine domata ma solo dopo molti anni, poiché nel frattempo masse sempre più consistenti si erano unite al movimento.
Per restare ai movimenti zaiditi principali va ricordato uno stato zaidita fondato in Yemen che durò fino al 1963.
Gli elementi che hanno caratterizzato le forme più estreme del movimento sciita, hanno più volte messo in difficoltà le autorità sunnite benché queste ultime si siano sempre dissociate dai movimenti estremi. Rare volte le stesse autorità in parola si sono pronunciate nel senso della rilevazione di errori dogmatici da correggere oppure addirittura della proclamazione della scomunica, ritenendo quelle dottrine come eretiche. Tuttavia i movimenti più eterodossi hanno finito per separarsi essi stessi dal corpo dell’islam per formare raggruppamenti teologicamente autolegittimatisi e quindi estranei all’islam.
Il più antico fra i gruppi eterodossi sopravvissuti fino ai nostri giorni è quello dei “nusairi” le cui origini possono essere fatte risalire alla metà del IX secolo, quando un certo Ibn Nusayr si proclamò rappresentante dell’imam Ali al Naqui ed è proprio a partire da questi due nomi che i membri di questa corrente sono stati definiti “nusairi” o “alauiti” anche se essi si sono sempre riferiti a loro stessi come ai “credenti”. Una delle convinzioni più eterodosse dei nusairi è quella nella reincarnazione delle anime secondo sette gradi ascendenti e sette discendenti.
Altro movimento eretico è quello dei Drusi, derivante direttamente dal culto ismailita, e che cominciò a delinearsi ai tempi del califfo al Hakim. Si tratta di una setta fortemente esoterica che, chiusa all’esterno, considera ad essa appartenenti solo coloro che sono nati all’interno di essa, finendo per costituire nel corso dei secoli una vera e propria etnia. I Drusi sono anche convinti che quando, alla fine dei
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tempi il loro fondatore al-Hakim, compirà il ritorno messianico, le anime dei seguaci primtivi, cioè coloro che si sono renincarnati più volte, otterrano finamente la guida del genere umano e otterranno posizioni più o meno vicine alla divinità a seconda della relativa evoluzione spirituale. Al che i Drusi quindi accettano il dogma dell’incarnazione e della reincarnazione delle anime.
Gli yazidi costruiscono un altro caso di raggruppamento religioso, che a causa della propria chiusura verso l’esterno si è trasformato in un vero e proprio popolo. Gli yazidi si attengono infatti ad una rigida endogamia. Una leggenda che riguarda questo gruppo vuole che Adamo ed Eva in una sorta di competizione per affermare ognuno la propria superiorità abbiano deposto i propri semi in due anfore lasciandoli in gestazione per nove mesi. Al termine del periodo dall’anfora di Eva uscirono solo dei parassiti. Da quella di Adamo uscì il primo degli yazidi. La struttura sociale degli yaziti consiste in una tribù patriarcale suddivisa in svariati clan e famiglie. La loro lingua è il curdo anche se con varianti fortemente dialettali, o addirittura arabismi, che denotano la frammentazione di questa setta.