mercoledì 20 agosto 2025

Parte quarta: considerazioni sull’esistenza dell’anima in San Tommaso d’Aquino.

Introduzione

Giunto a questo punto dello scritto, il lettore potrebbe chiedersi quale sia la ragione che ha mosso lo scrivente a parlare di un qualcosa che nei tempi in cui viviamo, tempi in cui il “materialismo”, fenomeno sociale ed economico che riduce l’essenza dell’uomo al rango di monade indistinta, inibendone la riflessione su ciò che va oltre il consumo di beni e di merci, e che, esso materialismo, è ormai penetrato in ogni ambito della società e persino tra alcuni esponenti delle gerarchie cattoliche, in altro modo, in altre forme, ad esempio con la riduzione della organizzazione ecclesiastica ad una sorta di “comitato d’affari”, direi che la domanda è più che pertinente. E la risposta mi pare essere che per parlare di anima, come già detto nell’intitolazione della presente partizione dello scritto in parola, occorre avere una coscienza, possibilmente non obnubilata da ciò che abbiamo, in quanto uomini e in quanto

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uomini di questo “tempo”, di fronte ogni giorno: la decadenza morale e spirituale che affligge la società dei consumi. Come detto all’inizio del presente lavoro, scopo dello scrivente è risvegliare il senso critico del lettore, e per fare ciò non basta parlare o scrivere di religione o di “religioni” ma occorre fornire al lettore un punto di riferimento che interessa tutti i culti di cui ho scritto finora e anche quelli che la necessità di non dilatare oltremisura le dimensioni del presente lavoro, non mi ha consentito di trarre a oggetto di analisi. Ma vi è una seconda ragione che mi porta a parlare di anima. E la ragione è che non si può definire fenomeni di aggregazione sociale quali sono le religioni senza far riferimento a ciò che di tutte costituisce il sostrato indefettibile, cioè “credere” in qualcosa che non si può vedere, non almeno a partire dalla condizione umana e quindi dalla materialità apparente di questa stessa condizione. E non sto parlando soltanto del Paradiso cristiano/cattolico o degli altri numerosissimi esempi di “regni ultraterreni” propri ad altri culti. Sto parlando invece di tutto ciò che concerne l’uomo come essere “vitale” e della cui vitalità tutte le religioni ravvisano la causa in un elemento non visibile ad occhio nudo e che pure costituisce il principio di detta vitalità. Questo elemento è l’anima.

Poiché peraltro la mia personale formazione intellettuale non è legata alla teologia o alla filosofia, da sempre strumenti di indagine su ciò che razionalmente si può intendere e che sempre razionalmente porta a volte a conclusioni esattamente opposte sulla stessa questione, il che dimostra che spesso il ragionamento speculativo, sia esso meramente empirico o legato al trascendente, può essere fallace, allora mi sono permesso di integrare la presente partizione del lavoro che man mano si dipana e che è vicino alla fine, con un riferimento ad una parte della speculazione metafisica di colui il quale, per l’acume critico e per la saldezza della fede venne detto dai posteri “Doctor Angelicus”, cioè San Tommaso D’Aquino. Ciò che mi propongo, nel contesto della presente partizione è perciò di rendere accessibile, attraverso un commento “a commento” dell’opera accademica di Monsignor Sergio Simonetti – che a suo tempo ebbe la felice idea di scrivere un saggio sul concetto di “anima” come descritto nelle opere di San Tommaso – il

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pensiero sempre del Doctor Angelicus relativamente alla sostanza animica. L’intenzione sarebbe di consentire, attraverso il presente scritto, nel modo in cui si va sviluppando, una facilitazione dell’indagine introspettiva sia a coloro che sono incerti circa l’esistenza dell’anima e della coscienza in essa contenuta e sia a coloro che negano questi due principi e ad essi sostituiscono la concezione empirica per quanto riguarda la vitalità del corpo, e quella strettamente razionalista per quanto riguarda l’origine del pensiero e della coscienza.

Capitolo primo: le fonti

Il mondo greco fu come è noto, soggiogato da quello romano, ma al tempo stesso vale l’”adagio” secondo cui come i greci furono militarmente conquistati dai romani, allo stesso modo e reciprocamente essi greci conquistarono i romani dal punto di vista culturale, e quindi anche per quanto riguarda la filosofia, in tutte le branche che essa filosofia aveva espresso durante la propria fase di maturazione presso l’antica civiltà “ellenica”, il che sarebbe un altro modo per dire “greca”. Relativamente a ciò che costituisce oggetto della presente partizione del lavoro che, una volta concluso, vorrei sottoporre al lettore è, come anticipato poc’anzi nella introduzione, per il meno un tentativo di “commento”, al commento dei passi del pensiero tomista relativi all’anima, commento incentrato sull’opera di Aristotele, come si trova elaborato nell’opera tommasiana.

La domanda che l’Autore del libro in commento si pone, per cominciare la trattazione degli scritti di Tommaso, è: a partire da quale momento nel mondo occidentale non grecizzato si comincia a parlare di “sostanza”? Quest’ultimo è termine di grande rilevanza nella dottrina tommasiana ed è utilizzato per accostarsi ad una definizione esatta, o la più esatta possibile, del concetto di “anima”. Nella cultura latina il termine “essentia” indicava ciò che noi indichiamo col termine “sostanza”. Fu probabilmente Seneca a tradurre il termine in questione dal greco “ipostasi” con il significato di “realtà”. Ma esiste anche un altro termine e cioè “usìa” che potrebbe tradursi comunque con sostanza.

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Ma su tutti, colui il quale ci fornisce la definizione più completa del termine è Platone. In Platone il termine “usìa” ha il significato di: “proprietà o ricchezza”; un qualcosa di reale che esiste indipendentemente da chi lo percepisce; l’essenza di una cosa, il suo aspetto formale; l’essere di ciò che esiste nell’Iperuranio, cioè nel mondo delle idee; l’esistenza reale e la realtà come vengono espresse dalla copula verbale “essere”; i tre livelli dell’essere, cioè le idee immutabili, le realtà intermedie come l’anima, le cose sensibili come i corpi.

Passando ad analizzare l’uso del termine in Aristotele, anche per il filosofo di Stagira la parola in questione, o meglio la sua definizione, costituiscono le basi della filosofia. In Aristotele tuttavia il termine “usìa”, sta ad indicare un solo elemento cioè la sostanza. Il filosofo afferma che tutto ciò che costituisce l’eterno problema, l’eterno oggetto di ricerca: “che cos’è l’essere?” equivale a quello “che cos’è la sostanza?”. Quindi anche riguardo all’anima, data per vera la statuizione di Aristotele, occorre interrogarsi su quale sia la sua sostanza, cioè in definitiva quali ne siano gli attributi intrinseci e imprescindibili, se dalla definizione di anima non si vuole passare alla definizione di altro, a causa se non altro di scarsa precisione concettuale. Una volta individuata la sostanza come sostrato di tutto ciò che esiste, Aristotele passa poi a distinguere due tipi di sostanza: un sostanza “prima” e una sostanza “seconda”. La sostanza prima è un “soggetto” che presenta determinate caratteristiche. La sostanza seconda è invece un predicato dell’individuo, cioè del soggetto. Soltanto la sostanza prima è sostanza nel vero senso del termine, ciò che esprime quella cosa particolare che esiste di per sé. Ma come definire in senso metafisico ciò che la sostanza è in realtà? Aristotele utilizza a mo’di qualificazioni della sostanza una serie di attributi che vengono detti, sempre dal filosofo di Stagira, “accidenti” o per meglio dire “categorie”. Ma mentre le altre categorie esprimono i caratteri di un qualcosa che è, esiste una categoria che descrive l’oggetto di definizione in ciò che esso è “per sé”, cioè la sua “essenza”. Dati tali presupposti l’individuo è definito sostanza “prima”, in quanto esso differisce dagli universali perché sussiste indipendentemente da essi, in quanto non è il risultato

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dell’attribuzione ontologica di categorie ma è sussistente di per sé. La sostanza seconda è quindi un predicato della sostanza prima, poiché ne indica quanto meno genere e specie, ma Aristotele specifica che la specie è più sostanza del genere, perché l’individuo sostanziale riesce meglio definito nella sua specie che non nel suo genere. Come dire che l’attribuzione ad un individuo della specie “uomo” conferisce allo stesso individuo un “quid pluris” rispetto all’attribuzione allo stesso individuo del genere “animale” cui egli in ogni modo apppartiene. Tuttavia il postulato fondamentale è che deve senz’altro darsi la sostanza individuale perché sia garantita l’esistenza della sostanza seconda ad essa sottordinata.

Citando il Reale, troviamo le seguenti definizioni di sostanza:

- Può chiamarsi sostanza solo ciò che non si predica di altro, non inerisce ad altro, ma che è sostrato ed inerenza di predicazione di tutti i diversi modi di essere.

- Sostanza può essere solamente un ente che può esistere di per sé o separatamente dal resto, dotato di una forma di sussistenza autonoma.

- Può chiamarsi sostanza solo ciò che è alcunché di determinato; non può quindi esserlo un attributo generale né alcun che di astratto e universale.

- Sostanza deve essere un qualcosa di intrinsecamente unitario, e non un mero aggregato di parti o una qualsivoglia molteplicità organizzata.

- E’ sostanza solo ciò che implica atto.

La sostanza può essere considerata come l’unione di due principi, nessuno dei quali può venire meno senza che la sostanza stessa perda la propria essenza, ossia ciò che essa è in sé. I due principi di cui è composta la sostanza sono forma e materia, la prima definibile come ciò che dà vita e movimento alla seconda. In altre parole è mediante l’atto che la forma accede alla materia, che è mera potenzialità e le dà la condizione di sostanza, che per sé è composta di materia e forma in un tutto inscindibile. La sostanza è quindi una unione di principi, forma e atto da un lato; materia e potenza dall’altro. Tuttavia ciò che sta alla base del sinolo, che lo

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sostanzia senza per questo essere da altro sostanziata è la forma, che sempre il Reale trae a fondamento della sostanza.

Incidentalmente viene in rilievo il problema della “natura” delle cose, cioè la risposta alla domanda: “qual è la natura di questo?” o “che natura ha questa cosa?” Secondo Aristotele la natura è l’essenza delle cose che hanno in sé un principio di movimento, essa è quindi collegata ad attività e movimento.

L’ultimo aspetto da analizzare relativamente alla sostanza è la sua conoscibilità. In effetti le sostanze in quanto tali non sono percepibili dai sensi. Questo perché l’essere precede la conoscenza, ossia le cose esistono in sé prima di esistere per l’uomo. Il modo in cui giungiamo al concetto di sostanza è fatto di astrazione e di induzione e quindi è frutto del mero intelletto senza l’apporto del dato sensorio. Riguardo alla preminenza della sostanza circa tutto ciò che è conoscibile e che esiste, e quindi anche con riferimento all’anima, che è l’oggetto della presente parte del lavoro, Aristotele individua una caratteristica dell’anima che la rende predicabile anche se separata dal corpo, col quale per quanto precedentemente affermato costituisce un tutto inscindibile, ma dal quale può essere resa indipendente, almeno a livello concettuale, attraverso l’azione dell’intelletto. Ma a parte ciò Aristotele si pone il problema di definire l’anima in maniera esatta e lo fa a partire dall’esperienza dei corpi viventi e del loro comportamento. Al termine del suo discorso Aristotele conclude che l’anima è ciò che rende vivo un “corpo” altrimenti privo di vita, che è la sua forma o essenza. Aristotele afferma altresì che l’anima “è il principio delle facoltà ed è definita da esse, ovvero dalla facoltà nutritiva, razionale, sensitiva e dal movimento”. Dice ancora lo Stagirita che l’anima è la forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ora, tale sostanza è atto e pertanto l’anima è atto del corpo, cioè di una quantità di potenzialità materiale. Ovviamente tutto ciò implica che il corpo non possa sussistere in vita senza l’anima. Una volta appurato ciò, Aristotele passa ad analizzare un terzo elemento, dopo aver riflettuto su anima e corpo come unione di forma e materia, atto e potenza.

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L’elemento in parola è dato dalla inferenza secondo cui a seconda della propria specie l’anima assume diverse forme e diverse funzioni, ciò in quanto pur essendo la forma animica sempre uguale a sé stessa, accade che nella pianta, negli animali e nell’uomo la sostanza agisca in maniere differenti, e ciò a causa del tipo di materia cui l’anima dà vita e alle abilità di questa materia, che come detto può essere umana, animale e vegetale.

Detto ciò la parte che Aristotele considera più alta nell’anima è definita, forse sulla scia di Platone, “il luogo delle forme”, che secondo Aristotele e a differenza di Platone, si trovano non in un luogo esterno all’individuo ma nell’anima, che però rispetto alle forme è vista come in potenza poiché pian piano ne acquisisce conoscenza, fino a giungere al punto in cui la conoscenza delle forme si completa e l’anima diviene capace di pensare a sé stessa. Il culmine della filosofia aristotelica è proprio nella capacità del soggetto di pensare a sé stesso nell’atto di pensare e questo avviene nella parte cognitiva dell’anima, che Aristotele considera la più nobile. Per quanto detto Aristotele afferma, riguardo all’intelletto, che c’è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le cose che conosce e un intelletto che tutte le cose produce nel senso di richiamarle alla mente, e questo intelletto è separabile, impassibile e non mescolato perché contiene l’atto per essenza. Nella conclusione finale Aristotele mette da parte il discorso sull’intelletto e torna a parlare dell’anima in quanto sede della conoscenza formulando un principio di importanza capitale: “che in definitiva la conoscenza implica una sorta di compenetrazione tra gli oggetti della conoscenza, cioè la scienza è in certo modo l’oggetto della scienza; la sensazione è in certo modo l’oggetto della sensazione; occorre perciò ricercare come ciò si verifichi”.

Capitolo II. La natura dell’uomo: anima e corpo

Relativamente al termine “sostanza” Tommaso prosegue affermando, sempre in nota ad Aristotele, che il termine sostanza si può intendere in due sensi. Nel primo si dice sostanza la quiddità di una cosa, cioè sempre il “che cosa è in sé”, che viene

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espresso attraverso le definizioni, di fatto diciamo che la definizione costituisce l’essenza delle cose, cioè la sostanza; e ancora che questa sostanza che per i Greci ha nome “usìa”, noi possiamo chiamarla essenza. Secondo, si dice sostanza il soggetto o supposto che esiste nel predicamento della sostanza, ossia ciò che inerisce ad una determinata sostanza pur non essendone l’elemento costitutivo. La sostanza viene designata anche con tre nomi che esprimono la realtà naturale, la sussistenza e l’ipostasi secondo tre diversi aspetti che la sostanza può assumere quale realtà concreta. Cioè in quanto sussiste in sé stessa e non in un altro soggetto si dice sussistente. In quanto fa da presupposto ad una natura presa nella sua universalità si chiama “realtà naturale”, e in questo senso il singolo uomo rappresenta la realtà naturale della natura umana. In quanto infine fa da supporto agli accidenti si dice “ipostasi” o “sostanza”.

Bisogna però notare che mentre per Aristotele la costituzione metafisica dell’ente è data da materia e forma, o da atto e potenza, per San Tommaso l’essere è composto anche da essentia e actus essendi. Se l’originalità di Tommaso è indiscutibile bisogna però ricordare che già un Boezio sostenne che l’essere ideale astratto non esiste; però l’essere esiste, realmente distinto, nel sinolo id quod est, in cui l’id quod riceve sopra di sé la essendi forma, cioè partecipa dell’essere.

Se si opera poi un confronto tra la dottrina tomistica dell’anima e quella attribuibile ad esempio ad un Sant’Agostino, si nota che per quest’ultimo l’anima è “una particella di ragione” strutturata nel senso di “reggere un corpo”, il che sarebbe come dire dare ad esso la vita e la vitalità.

Tornando ad Aristotele questi, per spiegare il processo di conoscenza distingue un intelletto attivo da un intelletto passivo lasciando così problematico il rapporto così concepito con l’anima che è forma del corpo. Poiché questo passo dello stagirita è ambiguo, fiorirono nel corso dei secoli possibili soluzioni alla problematica che sempre lo stagirita aveva lasciato irrisolta, ad esempio la soluzione proposta da Alessandro di Afrodisia, ma anche quella di Temistio, risalente al IV secolo d.C.

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Se dai Greci passiamo ai commentatori di lingua araba, come Avicenna, possiamo affermare che costui sostenne che l’intelletto sarebbe una sostanza eterea, quindi invisibile e indipendente dal corpo. Rileva in particolare la seguente affermazione del filosofo musulmano, il quale afferma che l’oggetto dell’intelletto non è l’universale o “gli” universali, ma una serie di oggetti non divisibili, e tuttavia rispetto all’intelletto infiniti perché se si passa da ciò che è universale e quindi “uno” alla potenzialità leggibile dall’intelletto attivo, il risultato è l’infinità degli oggetti, infinitamente conoscibili proprio perché infiniti. In definitiva Avicenna conclude che l’anima umana, in quanto capace di conoscenza grazie all’intelletto, è legata al corpo da una affectio ossia affinità o per meglio dire “aderenza volontaria” che la porta ad avere cura del corpo e a governarlo.

Questo modo di intendere Aristotele da parte di Avicenna fu però criticato duramente da un altro grande commentatore arabo, cioè Averroè. Per Averroè l’intelletto materiale, cioè in potenza, poiché è assolutamente incorporeo ed indipendente dal corpo non è la forma del corpo umano ma una sostanza separata unica per tutta la specia umana. Tuttavia San Tommaso si era reso conto del fatto che ipotizzare l’esistenza di un inteletto capace di conoscere e discernere, che fosse separato dal corpo, poteva condurre a negare il comportamento morale dell’uomo. Se infatti quest’ultimo avesse dovuto addebitare ad un qualosa di esterno al “sinolo”, cioè all’unione inscindibile di forma e potenza, di atto e materia, la propria capacità di conoscere e discernere, allora anche i comportamenti peccaminosi non avrebbero potuto essergli attribuiti, e quindi l’uomo avrebbe perso il proprio senso morale, divenendo impossibile, a causa della propria irresponsablità, attibuire all’uomo meriti o demeriti.

E’ per questi motivi che l’Aquinate non accetta l’interpretazione di Averroè e di altri. Secondo Tommaso l’anima umana è pura forma, non un composto di materia e forma. Per giustificare questa affermazione Tommaso richiama Aristotele, attraverso la mediazione di Avicenna e dice: il principio intellettuale che chiamiamo

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spirito o intelletto ha un’attività a cui il corpo non partecipa. Non può operare per sé se non ciò che sussiste per sé. Si noti come dal punto di vista teologico il problema è di vitale importanza in quanto se l’anima sussiste per sé si può ipotizzare che sia immortale; se non sussite per sé essa ricade nel mondo della materia e dunque è soggetta alla morte al pari del corpo, cui peraltro dà vita. Il problema fondamentale che San Tommaso si pone rispetto all’anima è dimostrare che essa è capace di susssistere anche indipendentemente dal corpo. Al fine di dimostrare che l’anima abbia una sua sussistenza, un suo essere che, pur legato al corpo non si risolva in esso, Tommaso torna ancora una volta a consultare lo Stagirita. Così: “Bisogna che l’anima intellettiva operi per sé, in quanto dotata di propria attività, senza nulla di comune col corpo. E poiché ogni cosa opera secondo ciò che è in atto, bisogna che l’anima intellettiva abbia un essere autonomo che non dipende dal corpo”. In conclusione: forma e sostanza possono dirsi ambedue a proposito dell’anima in quanto le due parole definiscono aspetti diversi di questa. “Forma” in quanto fonte della vita e quindi datrice di essere, “sostanza” in quanto fonte e sede dell’operazione intellettiva che è tipica della specie umana.

Se è vero che in natura a volte si può trovare un ente privo di potenza ma interamente atto, è altrettanto vero che un ente, cioè qualcosa capace di movimento autonomo, privo di atto ma esclusivamente in potenza non è dato esistere in natura. E da ciò si può concludere che l’atto puro perfetto è solo Dio. Questi non ha determinazioni che lo limitino: è solo atto, puro essere, il solo vero “essere”. Nella gerarchia della Creazione un atto è perfetto quanto più vicino a Dio. Ma fra tutte le creature si avvicinano maggiormente a Dio solo le sostanze spirituali. Queste ultime ovviamente non hanno necessità di un “sostrato di materia prima” poiché sono interamente spirituali, poiché questa è la loro natura. Questa è la natura non solo delle sostanze eteree come gli angeli, ma anche di parte dell’uomo, cioè dell’anima e dell’intelletto. Ma se l’operazione e la cosa intelletta sono entrambe spirituali, come accade nella intellezione/incontro di una sostanza angelica, allora anche il luogo dell’intellezione è spirituale. Così l’intellezione di Dio o “atto primo” è

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possibile solo all’anima, cioè soltanto ad una forma di essere che è puramente atto. Afferma l’Aquinate che tutto ciò che esiste, dunque dopo il Primo Ente, cioè Dio, non possedendo il proprio essere, riceve quest’ultimo per emanazione. E così in una qualsiasi realtà creata, una cosa è la natura della realtà, che partecipa dell’essere; altra cosa la natura dell’essere che viene partecipato dalla realtà e che di quest’ultima, direbbe Sant’Anselmo d’Aosta, è la causa prima e incausata, cioè Dio.

Per tornare alla concezione dell’anima in San Tommaso, quest’ultimo specifica che l’anima è una forma particolare che si differenzia dalle altre in base alla propria sostanzialità. Così: “La forma accidentale si differenzia da quella sostanziale perché quest’ultima fa sì che una realtà sia qualcosa di concreto, mentre la forma accidentale sopravviene in una realtà che già esiste come qualcosa di concreto.” Ancora: “La differenza tra un corpo non dotato di anima e uno animato non deriva infatti, dall’avere l’individuo animato una forma, sotto cui sta quella sostanziale del corpo, ma è dovuta al fatto che l’individuo animato ha una forma più perfetta, che gli consente non solo di sussistere e di essere un corpo, ma anche di vivere; l’altro invece ha una forma più imperfetta, per cui non raggiunge il livello della vita ma solo quello della sostanza corporea”.

Sul problema della materialità o immaterialità del processo del conoscere Tommaso afferma che perché l’uomo sia quello che è deve poter pensare, conoscere, ma affinché questo avvenga è necessario che l’operazione intellettiva, non avvenga nella materia ma solo nell’intelletto, dato che l’operazione fondamentale dell’intelletto consiste nell’apprendere gli universali. Questi ultimi poi, essendo immateriali, non possono essere nella materia del corpo, ma solo nell’intelletto. Pertanto l’operazione propria dell’uomo, cioè il conoscere, non può che essere anch’essa immateriale e svolgersi in un luogo anche esso immateriale quale l’anima. Ma il problema di come collegare l’intelletto ad un individuo determinato rimane. A questo proposito San Tommaso fa riferimento ad una distinzione: quella tra “conoscere in atto” e “conoscere in potenza”. Per Tommaso la facoltà conoscitiva si

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radica nell’anima e concorre a determinarne la qualità, il “che cos’è”. Ancora Tommaso afferma che l’essere dell’anima trascenda la materia corporea e non ne sia totalmente inglobata ma tuttavia in qualche modo sia in contatto con essa.

L’anima peraltro sussiste per sé medesima, cioè la capacità di sussistere in sé e non in altro. Ma gli enti che propriamente sussistono nel mondo sensibile sono naturalmente composti di materia e forma. In un solo caso le cose stanno diversamente, in quello cioè della sostanza uomo, in cui il soggetto della sussistenza non è il composto, il sinolo, ma unicamente la forma che può sussistere di per sé. L’uomo così descritto è dunque il punto di incontro tra mondo della materia e mondo immateriale, il luogo in cui la prima entra in contatto con il secondo e da questo riceve la vitalità e la vita.

Ad un certo punto della propria attività speculativa, sempre relativamente all’anima, Tommaso si interroga sulla questione se l’unione tra anima e corpo abbia bisogno di un intermediario. Il tema principale della riflessione tommasiana su questo punto è infatti la modalità dell’unione dell’anima con il corpo. La conclusione per Tommaso è che l’anima è unita al corpo senza necessità di intermediari. Infatti ogni forma è unita a una materia o soggetto. Ogni cosa infatti è una sola per lo stesso motivo per cui è ente. In quanto invece l’anima è la causa dei movimenti del corpo, essa sola o massimamente una per ogni corpo, ciò impedisce l’esistenza di molte anime cioè di molti intermediari in un solo corpo: è evidente infatti che l’anima muove le altre membra attraverso il cuore e anche che attraverso lo spirito muove il corpo.

Sempre interrogandosi sulla sostanza animica Tommaso giunge alla conclusione che “di un individuo concreto non vi è altra forma sostanziale che l’anima razionale e grazie ad essa l’uomo non soltanto è uomo, ma anche animale, vivo, corpo, sostanza ed ente. Il che si può così argomentare: la forma è impronta di agente nella materia”.

La conclusione di tutta la precedente riflessione di Tommaso è che:

- L’anima esiste come sostanza spirituale.

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- E’ intimamente collegata al corpo.

- Non necessità di intermediari tra essa e il corpo.

In fine alla riflessione tommasiana sui rapporti dell’anima con il corpo si può operare, come da parte di Tommaso, un’ultima distinzione, quella tra tre principi che presiederebbero al rapporto tra l’anima e il corpo. Il primo principio è quello relativo al livello quantitativo, “non attribuito alle forme se non accidentalmente, per cui le forme che richiedono una grande estensione delle parti corporee possono non avere tale estensione e tipo di totalità”.

Un secondo tipo di totalità si rinviene in rapporto alla perfezione dell’essenza, alla cui totalità corrispondono le parti dell’essenza stessa, fisiche, nelle cose composte, la materia e la forma, ovvero logiche, il genere e la differenza.

Il terzo tipo di totalità riguarda per Tommaso la capacità operativa, per cui noi diciamo che è Socrate che mangia e non solo la sua bocca.

Nell’analizzare i tre modi di rapportarsi alla totalità, Tommaso esclude sicuramente il primo, dato che l’anima non ha una estensione materiale ed esclude il terzo perché la capacità operativa dell’anima eccede la capacità del corpo. Pertanto non rimane che la seconda soluzione: “non rimane dunque che la si possa dire tutta intera in ciascuna parte del corpo semplicemente secondo la totalità della sua essenza”.

L’essenza, che ci dice ciò che una cosa è, non può che essere nel corpo secondo una totalità che rimanda alla sua perfezione, riconoscendo che essa eccede le possibilità del corpo e che c’è un “resto”, una parte dell’anima, che trascende il corpo.

Capitolo III. La sostanza

In questo capitolo lo scrivente tenterà di analizzare, sulla scia delle considerazioni di Monsinor Simonetti, necessariamente propedeutiche alla riflessione sull’anima in San Tommaso, quale differenza corra tra i due termini “anima” e “sostanza”, che sono già stati nominati e in parte definiti nel presente lavoro. Poiché oggi il termine

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“sostanza” ha significati molto diversi da quelli usati nella metafisica medievale, o non è usato per nulla, bisogna ricordare che per San Tommaso, come per Aristotele prima di lui, la sostanza è l’oggetto dello studio della metafisica e che esso termine specifica ciò che i latini chiamavano “ens” cioè “essere”. La distinzione tra essere ed “essenza” è la caratteristica propriamente originale del pensiero di Tommaso rispetto a quello di Aristotele. L’Aquinate divide concettualmente la sostanza in “sensibile” e “immateriale”, in questo modo ponendo una distinzione tra “cosa reale” e sua “essenza”. Su queste basi Tommaso conclude che da un lato l’essenza non si identifichi con l’oggetto corporeo cui dà vita e movimento, e che di conseguenza in una sola entità essere ed “essenza” coincidono, cioè in Dio, il quale per parte sua non ha un corpo, ma è essenza allo stato puro, e quindi mancando in Dio un sostrato materiale si può dire che la nozione di sostanza non sia idonea a descriverlo.

Se in una ipotetica scala distinguiamo ciò che è più distante dal totalmente reale, l’”ens rationis”, che non ha alcuna esistenza nella realtà, e ponendo questo per primo, in senso discendente e in secondo luogo viene l’ente in potenza che può essere condotto alla realtà in un processo del divenire e ai piedi di questa ipotetica scala sta l’ente accidentale che non esiste per sé ma sussiste in altra cosa. Il grado più alto dell’ente è quello della cosa che esiste per sé. La sostanza è prima nella “scala” dell’essere ed è semplicemente ente “per sé”. Dice l’Aquinate: ”Il nome sostanza non significa soltanto essere “di per sé” poiché l’essere, come si è visto non può essere di per sé un genere: sostanza indica appunto l’essenza a cui compete di essere in tale modo, cioè di esistere per sé. Tuttavia questo essere non è la sua essenza medesima”.

La sostanza dunque è ciò che, esistente di per sé, è interessato dagli accidenti, questi ultimi non sussistenti di per sé ma soltanto attributi transeunti della sostanza. Ovviamente se si parla di sostanza per indicare un qualcosa che potrebbe in altro modo essere definito “anima” o principio vitale, la sostanza in questione non è

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direttamente conoscibile ad occhio nudo perché la visione attiene all’ordine della “conoscenza sensibile” mentre l’anima o sostanza fa parte dell’ordine di ciò che è, cioè del dominio dell’essere. In altre parole le cose esistono in sé e per sé prima di esistere per l’uomo.

Se poi si cerca di capire la differenza tra uomo e sostanze meramente spirituali, come gli angeli, ci si rende conto che queste ultime sono prive di essere, in quanto sono costituite soltanto dalla propria essenza, non vi è alcuna composizione di materia e forma, in quanto in esse è presente soltanto la forma. Tuttavia questo esistere privo di materia solo per le forme separate, ovvero gli angeli, è motivato dalla constatazione che nelle sostanze immateriali non vi è alcuna composizione di materia e forma, come invece per l’uomo.

Questa concezione metafisica ha avuto delle conseguenze fondamentali in teologia a proposito della natura di Cristo, che nella versione ufficiale della Chiesa è un unico soggetto dotato di due nature: l’umana e la divina. Dalla controversia nestoriana sulla natura del Cristo nacque l’attenzione su cosa costituisce l’essere di una persona. Secondo l’interpretazione tomista “il fatto di essere una persona e di possedere un’esistenza sussistente si aggiunge all’essenza individuale in modo tale che essa diventi un soggetto che esiste per sé e esercita l’esistenza come sua attività fondamentale”.

L’argomento specifico di San Tommaso nella spiegazione della congiunzione dell’anima sensitiva e intellettiva dell’uomo è molto semplice: “E’ proprio dello stesso uomo che percepisce di capire e di sentire: e il sentire non avviene senza il corpo”. Cioè diremmo noi, senza l’anima sensitiva che governa il corpo.

E, vorrei aggiungere, è per questo che l’anima non può essere vista ictu oculi ma soltanto definita per via indiretta, ad esempio in quanto fonte del movimento. Altra riflessione tommasiana sulla differenza ma anche complementarietà tra anima e corpo è che, sebbene tutte le anime siano uguali quanto agli attributi innati di ciascuna, esse si differenziano solo relativamente al preciso corpo in cui sono

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presenti, il che rende l’unione dell’anima con un determinato corpo, un sinolo inscindibile ed anche un qualche cosa di irripetibile.

Dalla critica fatta dai suoi detrattori alla dottrina di Tommaso sull’anima, secondo cui il concetto di causa formale non esiste nei filosofi precedenti, scaturisce l’affermazione seguente: “Ogni realtà naturale ha la “sostanza”, ossia la forma della parte; e l’essenza, vale a dire la “quiddità”, che è la forma del tutto. La forma è il principio dell’essere e del sussistere; l’essenza il principio del conoscere, dato che con essa si sa cosa sia davvero “la cosa”.”

Relativamente al confronto con Aristotele, in Tommaso l’uso del termine “sostanza dell’anima” e “forma” riferito all’anima è differente dall’uso dello stesso termine in Aristotele, in quanto Tommaso, a differenza di Aristotele, attribuisce all’anima la definizione di “forma” e “sostanza”. Tommaso utilizzerà spesso il termine “sostanza” riferito all’anima. Nella sua opera scritta in polemica con Averroè, “Unità dell’intelletto contro gli averroisti”, Tommaso critica la concezione dell’intelletto umano propria di Averroè, il quale sosteneva che l’intelletto umano passivo, che lui chiama materiale perché le sue operazioni entrano in contatto con il mondo sensibile, non può essere una facoltà dell’anima in quanto quest’ultima è solo forma del corpo. L’intelletto quindi per Averroè non giacerebbe nell’ anima ma sarebbe qualcosa da essa anima separata.

Analizzzando le parti dell’anima in ordine alla corruttibilità Tommmaso riconosce che solo l’intelletto ha un genere diverso dalle altre parti dell’anima, per sé stesse corruttibili, così accogliendo in parte ma non nella sua totalità, l’obiezione di Averroè, ma anzi modificando i principi di quella riflessione per renderli adatti a quanto sostiene a proposito dell’anima. Scrive quindi Tommaso:” L’intelletto sembra essere qualcosa di perpetuo, mentre le altre parti dell’anima sono qualcosa di corruttibile. E poiché corruttibile e perpetuo non sembra possano appartenere ad una unica sostanza, pare che solo l’intelletto, tra le parti dell’anima, possa essere separato, conservando una propria corruttibilità non certo dal corpo ma dalle altre

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parti dell’anima, pur non potendo appartenere all’unica sostanza dell’anima, che è, come detto, la forma animica.

Sempre in polemica con Averroè, che come abbiamo detto sostiene la materialità dell’intelletto, Tommaso sostiene che ciò che opera è tutto il composto, a causa della forma poiché, se non vi fosse forma non vi sarebbe movimento, ma neanche la forma è per sé stessa in quanto affinché via sia la vita occorre che la forma si leghi alla materia inerte. Tuttavia c’è un caso particolare: l’anima. Questa è una forma speciale. Si tratta non di una forma comune ma di una forma sostanziale che possiede l’essere per sé stessa e non grazie al composto “materia/forma”. E’ poi una forma particolare perché è il principio dell’essere sostanziale. Così l’anima ha l’essere di per sé ed è in grado di attualizzare il corpo. Andando oltre quanto appena detto diciamo che per Tommaso, come per Aristotele, la forma, come atto della sostanza materiale può assumere due modalità, nettamente distinte: una modalità permanente e fondante, che pone la sostanza entro una determinata specie e una modalità variabile ed effimera e allora si tratta di una forma accidentale. Come già accennato in Tommaso la dottrina aristotelica viene ripresa quasi integralmente ma con alcuni aggiustamenti che fanno dell’opera di Tommaso un qualcosa di originale. In particolare la forma viene definita atto della materia. Questo atto della materia è detto “atto primo”, mentre gli atti secondi sono le operazioni. Ogni carattere è collocato nel proprio genere o nella propria specie dalla forma. Il motivo dunque dell’affermazione che l’anima è una forma speciale, è che l’anima e le sue operazioni nella parte più alta trascendono la corporeità, nel senso che nella parte più alta non hanno più a che fare con la materialità. In altre parole se è vero che nella norma la forma sostanziale dà l’essere in modo assoluto e corrisponde all’atto primo, nell’anima dà luogo anche all’atto secondo che Aristotele riteneva svincolato dalla forma in quanto puro atto materiale del conoscere la realtà secondo i sensi. Ora l’atto secondo, cioè la forma materiale o accidentale appartiene allo stesso dominio sostanziale dell’anima, ciò che non potrebbe avvenire se l’essere fosse soltanto un aggregato di atto e materia, inscindibile grazie alla forma. Questa concezione

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dell’anima come forma speciale, cioè indipendente dal corpo e sussistente anche al di là dell’unione di forma e materia, di atto e potenza, porta però ad un grande interrogativo del sistema tomistico, cioè come può conoscere e pensare un’anima staccata dal corpo a causa della morte di quest’ultimo? Tommaso risolve il problema facendo riferimento alle sostanze angeliche, il cui modo di intendere e di ragionare è simile a quello dell’anima privata del corpo. L’errore degli averroisti è secondo Tommaso quello di ritenere la facoltà dell’“intendere” come connesso ad un principio universale trascendente, mentre l’anima è un princpio immanente, il primo non concepibile al contrario del secondo.

Per tornare alla questione della definizione dell’intelletto passivo ricordiamo che secondo la filosfia aristotelica, esistono nell’anima due forme di intelligenza. Una è quella recettiva che astrae dalla realtà i concetti, l’altra è quella attiva, che astrae le forme intelligibili dalle immagini sensibili prodotte dalla fantasia. Aristotele definisce queste due forme di intelletto l’una “intelletto possibile”, l’altra “intelletto agente”. Tuttavia la facoltà sensoriale è più del corpo che dell’anima. Nell’anima a differenza dell’intelletto non può esservi nulla che non le appartenga. L’intelletto possibile è dunque solo una delle capacità dell’anima razionale, quella che la fa essere in potenza relativamente agli intelligibili. Esiste come detto un’altra capacità, chiamata intelletto agente, che ha un compito specifico, cioè rendere possibile l’operatività del corpo.

Ricapitolando i vari passaggi, tutto comincia dalle sensazioni, cioè dalle percezioni sensoriali delle cose. Tutto ciò che è filtrato dalla coscienza viene a collocarsi in quel tipo di facoltà detta “senso comune”. Questa facoltà riunisce in un solo oggetto tutte le svariate percezioni dei sensi esterni. L’oggetto così unificato passa alla facoltà immaginativa che ne produce un’ immagine. In questa immagine è presente l’intelligibile. Il passaggio successivo è quello della prima astrazione, il primo atto dell’intelligenza, chiamata apprensione semplice, con cui l’intelletto astrae un nuovo dato, che non fa più parte dell’esperienza sensibile: è l’essenza stessa delle cose,

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quella che rende unica ciascuna di esse. L’ultimo passaggio è quello che porta dalle idee astratte al vero e proprio concetto. Questo è anche il compito dell’intelletto agente.

Il discorso di Tommaso prosegue sposando la tesi aristotelica, ed egli afferma che le essenze non sussistono di per sé, come invece sosteneva Platone, e risiedono in un mondo ultrasensibile, ma derivano dall’anima che le astrae per via dei passaggi che abbiamo descritto, dallo stesso mondo sensibile.

Un’altra caratteristica dell’essenza dell’anima è che, sebbene essa non faccia necessariamente parte del corpo, tuttavia l’anima per sua essenza ha un rapporto col corpo, in quanto le è essenziale l’essere forma di un corpo. E’ per questo che nella definizione dell’anima si pone il corpo.

Per quanto riguarda più nello specifico il rapporto tra inteletto passivo e intelletto agente, ciò che preme a Tommaso è definire, a questo punto del discorso, gli attributi dell’intelletto agente. L’intelletto agente riceve da quello passivo un’immagine e con una operazione di astrazione trae fuori dall’immagine l’essenza intelligibile. Al di là di questo intelletto – la dimostrazione della cui esistenza è palese in Tommaso ma tralasciabile in questa sede per esigenze di brevità – intelletto puro, perfetto e immobile, identificato con una sostanza separata, sta la concezione di essere “per partecipazione”, nella sua applicazione all’intelletto.

Il fatto che due intelletti si rapportino agli stessi intelligibili in due modi diversi, l’agente come atto e il possibile come potenza esclude la loro coincidenza con la sostanza dell’anima. L’intelletto agente viene identificato con l’intelletto separato o comunque partecipa di esso intelletto.

Il ragionamento di Tommaso è chiaro: il nostro essere è un essere per partecipazione, ma deve esistere una partecipazione anche a livello dell’azione tipica dell’intelletto, il pensare, l’intelligere. L’intelletto, sia come possibile, sia come agente è una partecipazione dell’intelletto divino da cui è separato

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cronologicamente, mentre ontologicamente, essendo forma di un corpo che esercita autonomamente l’atto d’essere, partecipa della natura dell’essere che sussite per sé stesso, cioè Dio.

L’intelletto agente, così pur nella sua partecipazione è parte integrante dell’anima, di ogni singola anima, pertanto è molteplice come sono molteplici le anime. Insieme all’intelletto passivo, l’intelletto agente concorre alla definizione di cosa sia anima. Si dice “concorre” perché è parte, non è tutta l’anima dato che alla definizione di questa concorre anche il corpo.

Per continuare con il nostro commento delle questioni tommasiane va ricordato che Tommaso attribuiva all’essere umano dotato di anima due prerogative: la prima è quella di essere incapace di far coincidere l’essenza, cioè l’anima con l’operatività dell’essere nel mondo sensibile, ma che tale coincidenza opera solo in Dio. Solo nell’essere completamente in atto, si identifica l’essere con l’essenza e questa con l’operare. Negli altri enti l’essere non coincide con l’operare in quanto la realtà è prima conosciuta e poi modificata, secondo la successione di “forma percipiente” e “corpo operativo”. Il problema è dato dal fatto che il pensare e il volere non sono semplici accidenti ma sono connaturati all’anima razionale. Oltre a ciò l’anima conosce gli “accidenti”. Per accidente si intende ciò che non è in sé ma risiede in un'altra cosa che funge da soggetto. Fatta questa premessa occorre dire che per la sostanza “anima” Tommaso parla di qualcosa di intemedio tra la sostanza e l’accidente, vale a dire il predicato sostanziale e quello accidentale, ed è il predicato proprio. Quest’ultimo è simile ad una terza realtà tra sostanza ed accidente, in quanto ha in comune con la sostanza il fatto che è causato dai principi essenziali; ha qualcosa dell’accidente perché è qualcosa in parte estraneo all’anima o essenza.

Capitolo IV

Nella sua lettura di Aristotele Tommaso opera una analisi coerente con i principi dello Stagirita e cerca la comprensione dell’essere umano attraverso il suo

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comportamento, il suo operare. Nel pensiero tomista, che si distanzia sia da Avicenna che da Averroè, esistono due piani dell’essere degli enti creati o di natura: l’essere propriamente detto e l’essenza. L’essenza si compone di forma e materia. La forma ha due funzioni: dà la specie ed è artefice dell’unità con il corpo. E ciò porta alla nozione di anima, che non inerisce alla materia ma è creata e sussistente. Il motivo per cui è necessario che l’anima, come forma, abbia una sua sussistenza autonoma, è da ricercare nel fatto che le forme il cui essere dipende dalla materia non hanno una attvità per sé, il che sarebbe a dire che sono prive di movimento e non operano nella realtà. A differenza di Platone Tommaso afferma che l’anima non è un qualcosa di estraneo al corpo che a un certo punto entra in esso corpo, ma è connaturata al corpo in quanto pricipio del movimento corporeo.

Ne conseguono alcune proposizioni:

- L’anima è ciò per cui il corpo vive.

- L’anima e la vita sono l’essere del vivente.

- L’anima è ciò per cui il corpo ha l’essere/vita in atto.

- L’essere in atto è la forma.

- L’anima è la forma del corpo.

Afferma ulteriormente Tommaso:” L’anima è qualche cosa di concreto capace di sussitere per sé, non nel senso che abbia in sé la specie completa, ma nel senso che essa è, in quanto forma del corpo, la piena determinazione della specie umana”. E ancora: “Si può conoscere il modo di essere dell’anima umana dalla sua attività. In quanto essa ha un’attività che trascende le cose materiali e il suo essere si eleva al di sopra del corpo e non dipende da questo”. In ultimo Tommaso afferma anche: “Le forme degli elementi che sono le più basse e le più vicine alla materia non hanno alcuna operazione che vada al di là delle qualità attive e passive. Al di sopra di queste ci sono le anime umane che somigliano alle sostanze superiori anche nel genere di conoscenza, poiché possono conoscere le realtà materiali attraverso il pensiero”.

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Per quanto poi l’anima sia in parte “materiata” in quanto forma legata alla materia del corpo, Tommaso ci dice che l’anima non si lascia mai abbracciare totalmente dalla materia. Ed è per questo motivo che l’essere “uomo”, composto di corpo e anima è qualcosa di eccezionale, nel contesto del creato. Se è vero che l’anima è atto del corpo e non può esserci in essa materia, tuttavia, a causa della sua eccezionalità, troviamo che essa si lega al corpo. Così è comunque possibile che l’anima sia forma del corpo ma potenza rispetto ad un altro ente, e ciò in quanto essa, insieme al corpo, costituiscono un qualcosa di irripetibile, conservando le stesse caratteristiche. Tommaso afferma anche che, ciò che si corrompe a seguito del decesso non è né la materia né la forma ma il sinolo, cioè il composto. Inoltre essendo l’uomo pensante a volte in atto, altre volte in potenza, vi è la necessità di dedurre che in esso vi sia un principio che gli consente di essere in potenza, cioè dotato della facoltà di conoscere le cose intelligibili della realtà. Questo principio è definitio dall’Aquinate “intelletto possibile”.

Si pone poi la questione se l’”intelletto possibile” sia uguale per tutti o se ogni ogni anima abbia un proprio intelletto possibile. Tommaso risponde alla questione affermando che l’intelletto possibile non può essere unico ma, poiché condivide con il corpo un unico essere sarà unito al corpo, cioè alla materia. Quindi, inerendo singolarmente ad ogni corpo anche l’intelletto possibile sarà molteplice.

Anche l’anima è molteplice, una per ogni essere vivente, e ciò in quanto, afferma Tommaso, pure essendo l’anima completamente atto essa realizza pienamente sé stessa soltanto in unione con il corpo. Non è perciò possibile pensare un’anima concreta ed individua, senza che sia unita insieme a un corpo. E’allora possibile affermare che l’anima è “una in sé stessa” ma molteplice in ragione della relazione con corpi diversi.

Ritornando al binomio già trattato tra intelletto possibile e intelletto “agente”, vale per quest’ultimo quanto già detto, cioè che non è sufficiente il solo intelletto possibile affinché l’anima possa acquisire la conoscenza della realtà. Insieme

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all’intelletto possibile l’anima compie due operazioni sulla realtà: da un lato è in potenza a tutte le specie intelligibili in virtù dell’intelletto possibile; dall’altro l’intelletto agente rende possibile la conoscenza attraverso una operazione simile a quella della forma che tramuta la potenza in atto.

Si pone poi la questione se l’anima sia composta da materia e forma, questione che Tommaso risolve attribuendo all’anima una totale spiritualità. Per dimostrare ciò l’Aquinate introduce il principio della localizzazione, e cioè il principio secondo cui solo ciò che è suscettibile di localizzazione è veramente corporeo e materiale. Ma l’anima ha una capacità di importanza fondamentale. Se infatti consideriamo l’anima nella sua totalità dobbiamo escludere una composizione di materia e forma, infatti se anche l’anima condividesse una natura materiale, anche solo in parte, allora essa non potrebbe dar vita alla materia, cioè al corpo, in quanto essa sarebbe come quest’ultimo soltanto materia e quindi “potenza” anziché essere forma e quindi atto.

Inoltre nelle sostanze composte di materia e di forma, come il corpo umano, noi troviamo tre componenti, vale a dire la materia, la forma e l’essere, il cui principio è la forma. Nulla quindi impedisce che vi sia una forma legata al proprio essere, anche se quest’ultimo è in qualche modo legato alla materia. Insomma Tommaso parla di una essenza materiale cui l’essenza formale dà vita e movimento. E in ciò l’Aquinate paragona l’essere umano alle sostanze angeliche.

E tuttavia Tommaso nega che vi sia un’identità di specie tra angelo e anima. Infatti se l’anima è una sostanza incorporea, per il fatto di essere legata al corpo differisce dalla sostanza angelica in quanto quest’ultima non ha un corpo materiale. Al pari però dell’anima, non visibile ad occhio nudo e quindi definibile soltanto per via di negazione, anche le sostanze angeliche, non visibili, non possono che essere definite attraverso una serie di negazioni.

Pur affermando, per tornare alla definizione e alla operatività dell’anima, che essa si lega al corpo senza intermediari, Tommaso ipotizza però una terza forma o elemento che consenta 

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l’unione dell’anima al corpo e il principio di movimento. Si tratta di un qualcosa che Cartesio identificò con la ghiandola pineale, e che oggi molti competenti identificano con il cervello, considerando quest’ultimo una sorta di “interfaccia” tra l’anima e il corpo. Accedendo alla definizione aristotelica di “natura”, Tommaso usa il termine natura in relazione all’anima, in vari significati: 

- Natura come principio di movimento e quiete.

- Natura come essenza delle cose.

- Se non c’è attività di movimento non c’è natura.

- Natura può venire detta di tutte le sostanze che possono nascere.

- Natura è il principio guida dell’universo.

Per continuare il discorso va detto, mi pare, che Tommaso introduce, sempre nel suo sforzo di definire l’anima, la seguente definizione: “Il corpo è disposto ad essere perfezionato dall’anima mediante l’azione di quest’ultima, che è causa efficiente del corpo”. E’ infatti l’anima ciò che determina le caratteristiche fisiche di un determinato essere corporeo. Ovviamente il concetto di causa “efficiente” è mutuato da Aristotele, ma se è vero che ogni anima ha un corpo, è più giusto porre il problema in questi termini piuttosto che dire che ogni corpo vivente, cioè dotato della facoltà di muoversi autonomamente, ha un’anima. Sulla questione poi, se l’anima sia in tutto il corpo interamente o solo in una o alcune sue parti, l’Aquinate risolve il problema attraverso il concetto di unità o essenza spirituale che non può, per la stessa definizione ad essa data di causa del movimento e quindi della vita di un corpo, trovarsi in una parte soltanto del corpo di cui è “ospite” ma che permea il corpo nella sua totalità. In questo senso Tommaso contesta anche il concetto di anima platonica, in quanto Platone pensava che l’anima sia unita al corpo solo come causa di movimento e non come forma, paragonando la sua presenza nel corpo a quella del marinaio sulla nave. Contro Platone Tommaso afferma: ”Poiché il genere è un predicato

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sostanziale, la forma secondo cui la sostanza individuale riceve la predicazione di genere, deve essere sostanziale. Così è necessario che l’anima sensibile sia una “forma sostanziale”, che si mescoli pertanto alla materia di cui il corpo è composto e che lo pervada in ogni sua parte, tutto ciò in forte polemica con Platone che riteneva l’anima una entità distinta dal corpo sebbene in esso contenuta. Per passare ad un’altra questione, Tommaso si interroga ulteriormente sui rapporti tra anima e corpo, giungendo a considerare quest’ultimo finanche un “accidente” dell’anima. Così ad esempio pur essendo l’anima una e uguale alle altre, potrà accadere che essa pervada un corpo stupido oppure intelligente, di salute cagionevole o dotato di robustezza e così via. Insomma il sussistere dell’anima non dipende dalle caratteristiche accidentali del corpo. Nel continuare la disamina delle caratteristiche operative dell’anima, Tommaso è costretto a riconoscere che nell’anima esistono dei “valori” potenziali, che sono mediati dall’intelletto agente e da quello passivo. Il processo intellettivo vede in questo modo una catena per cui dal senso, eccitato dall’oggetto, si risale alla astrazione della forma. E’ quindi proprio dell’anima comprendere l’essenza delle cose attraverso i sensi. Andando oltre nella speculazione, San Tommaso si domanda se l’anima sia immortale e questa domanda presuppone una soluzione al problema della dualità/unità intrinseca della persona umana, composta di anima e corpo e di come allo scioglimento dell’unione l’anima possa persistere. La conclusione cui il filosofo giunge è che possedendo un essere proprio, l’essere dell’anima non può corrompersi proprio in virtù di questo possedere un essere non legato al composto anima/corpo. Ma quale sarà il modo di conoscere dell’anima distaccata dal corpo? La risposta è che la conoscenza dell’anima fuori dal corpo è quella stessa delle sostanze separate: gli angeli. La caducità che interessa il corpo interessa anche gli accidenti, i quali non sono fatti della stessa sostanza animica ma sussistono in virtù di questa. In conclusione Tommaso giunge ad asserire che il principio intellettivo mediante cui

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l’uomo pensa, cioè l’anima attraverso la mediazione dei due intelletti di cui abbiamo parlato, è indispensabile che sia incorruttibile, altrimenti vi sarebbe assenza non solo di movimento negli esseri vitali, ma anche di un movimento razionalmente organizzato e operato. Relativamente ai rapporti tra anima e “sensi”, Tommaso afferma che, benché l’anima sia potenzialmente in grado di conoscere ogni cosa, essa deve comunque fare riferimento nell’atto del conoscere alle immagini filtrate dai due intelletti. Nella ipotetica condizione di separatezza dal corpo, Tommaso afferma che l’anima potrebbe conoscere allo stesso modo delle sostanze angeliche, il cui modo di conoscere la realtà e l’essere ci resta però ignoto. Proseguendo nella sua analisi della capacità conoscitiva dell’angelo e dell’uomo Tommaso afferma:” Circa la conoscenza delle cose singole l’intelletto dell’angelo e quello dell’anima si comportano in modo differente. La capacità intellettuale dell’anima separata non è proporzionata all’universalità delle forme infuse, perché lo è piuttosto alle forme tratte dalle cose, per cui è naturale all’anima essere legata al corpo”. Ciò che ovviamente non vale per le sostanze separate o angeliche, le quali sono più atte dell’anima a conoscere gli “universali”, anziché, come l’anima, i particolari. Si pone allora la questione se l’intelletto angelico possa conoscere i singolari. In proposito Tommaso afferma che è la materia a rendere peculiari, cioè “particolari” le forme nella maniera in cui esse sono saldamente legate. Ed è per lo stesso motivo che le sostanze angeliche avrebbero la facoltà di conoscere le sostanze universali anziché quelle particolari. Altra questione relativa alle sostanze angeliche è se l’angelo conosca insieme le cose materiali e le cose nel Verbo. Dice Tommaso: ”L’operare infatti non è attribuito propriamente alla potenza, ma alla realtà sussistente che opera mediante la potenza, in modo che la stessa potenza dell’intelletto non è operante nell’intendere, ma è piuttosto il principio dell’operazione; ora, come la potenza intellettiva diventa principio di intellezione per la stessa sostanza, così la specie intelligibile diventa il

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principio dell’intellezione per la stessa potenza: per cui come un’unica sostanza può avere diversi atti secondo potenze diverse, come l’anima insieme vuole e intende, così da un’unica potenza intellettiva possono uscire insieme atti diversi, se vengono uniti insieme a specie intelligibili diverse. Tommaso si domanda infine se l’anima sia una creazione di Dio oppure venga dal seme dell’uomo. La conclusione è che soltanto il corpo proviene dalla generazione naturale mentre l’anima è direttamente creata da Dio e infusa nel corpo. Oggi diremmo, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, che dalla mutazione dell’embrione umano, quando quest’ultimo è pronto a riceverla, l’anima viene infusa nell’essere direttamente da Dio. Quando l’embrione, a seguito del proprio sviluppo accrescitivo, raggiunge una piena ricettività, in esso viene infusa da Dio la “anima razionale”, la più perfetta fra le tre tipologie animiche definite da Aristotele, e cioè “anima vegetativa”, “anima sensitiva” e “anima razionale”, la presenza della quale ultima nell’essere umano non esclude la presenza delle prime due.