Cenni alla situazione medio orientale con specifico riferimento alle interrelazioni israelo – palestinesi
Ciò di cui ora vorrei parlare a proposito della questione ebraica è non più quella a dimensione "geopolitica" ma quella che interessa le vicende ebraiche nell'ambito di quella che è ormai ricordata ma anche a tratti ancora lacerante, come "questione ebraico/palestinese". Spero di suscitare un non lieve interesse. A voi lettori il giudizio.
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La cosiddetta “questione israelo – palestinese” ha costituito nel secolo trascorso una fonte di interesse, a carattere politico, economico e militare per le maggiori potenze internazionali, a cominciare dagli USA, e a seguire Gran Bretagna, Francia, per finire con l’ormai dissolto impero sovietico, interesse che è più che mai vivo ad oggi. Può essere utile considerare, e non soltanto liminalmente, le ragioni per le quali Israele e Palestina costituiscano il movente di tanta attenzione da parte della Comunità internazionale. Senza dubbio un primo ragionamento nel merito potrebbe portare a considerare che la collocazione territoriale in cui si trovano i territori palestinesi costituisca un punto di rilievo geo/strategico sullo scacchiere economico e militare internazionale, di primaria importanza, ciò sia per le risorse naturali, in primis petrolio, di cui è ricca l’area dei territori abitati da israeliani e palestinesi, sia perché Israele e Palestina costituiscono un focolaio di conflitti che sempre si rinnovano, e la cui soluzione, per il tramite di accordi di pace, gioverebbe enormemente all’economia delle potenze occidentali nonché alla stabilità geopolitica dell’area, da cui deriva la ragione fondamentale di codesto interessamento. Ciò per dire che una situazione di relativa pace o per il meno di una decorosa convivenza tra ebrei e musulmani in quell’area del medio oriente, favorirebbe la stabilità dell’intera area mediorientale, contando nel novero dei paesi potenziali beneficiari di tale stabilità Egitto, Siria, Libano, Giordania, Iraq, Iran, Arabia Saudita, cioè tutti quei Paesi con i quali attualmente i rapporti di Israele sono maggiormente compromessi da ostilità che si devono a contrapposizioni a carattere religioso e soprattutto a una serie di conflitti armati assai rilevanti perché privi di soluzione. I musulmani dei sunnominati Paesi sono assolutamente contrari a riconoscere a livello internazionale Israele come referente politico a causa di quello che è il comportamento di Israele nei cosiddetti “territori occupati”, e cioè quei territori posti all’immediato confine tra gli insediamenti delle due etnie che dopo alcuni episodi conflittuali con i Paesi dell’area mediorientale Israele ha occupato militarmente e di cui i Paesi circostanti dell’area, innanzitutto l’Egitto con la penisola del Sinai e la Siria con le Alture del Golan, rivendicano ancora ad oggi la restituzione sempre da parte di Israele. Oltre poi ai motivi di conflitto internazionali esiste un problema annoso e del tutto irrisolto, anche a livello meramente occasionale o provvisorio, che riguarda alcune zone di quei territori, in particolare Gaza e i territori della West Bank, dove Israele persegue una politica demografica che implica un avanzamento sempre più massivo all’interno di quegli stessi territori che i Palestinesi musulmani rivendicano per sé. In altre parole, i motivi religiosi si saldano a motivi a carattere economico e di espansione demografica che interessano entrambe le etnie, ossia gli ebrei e i musulmani. Gli ebrei rivendicano per sé l’intero territorio palestinese per ragioni che fanno riferimento al loro passato “biblico” ossia
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alla promessa fatta a suo tempo dal loro Dio, cioè Jahveh, agli ebrei, di fare loro dono della “terra di Canaan”, un territorio di cui, parola di Jahveh, gli ebrei avrebbero goduto in eterno. Questo territorio, che nei testi biblici viene chiamato “terra promessa” corrisponde grosso modo all’area attualmente occupata da Israele in Palestina. L’idea, da parte degli Ebrei d’Europa, relativa ad un possibile ritorno in Palestina maturò in ambienti intellettuali ebraici solo verso la fine del 1800, con personaggi come Theodor Herzl, e prese corpo, insieme all’appoggio di tutte le maggiori nazioni occidentali solo dopo la fine del II conflitto mondiale, quando, si era nel 1948, fu soprattutto l’opera di “moral suasion” a carattere internazionale di Stati come l’Inghilterra e gli USA, ad avere partita vinta su coloro che, sempre a livello internazionale ritenevano uno sproposito la decisione di riunire tutti i membri del popolo ebraico sopravvissuti all’Olocausto per attribuire loro una nuova “terra di Canaan”. Tuttavia come detto era stato già dalla fine dell’Ottocento che negli ambienti ebraici politicamente avanzati si era accarezzata l’idea di tornare nella “terra dei padri”. Gli avvenimenti del XX secolo, in parte indipendentemente da scelte consapevoli in tal senso da parte degli ebrei, legittimarono, a causa del senso di resipiscenza da parte di molti Paesi europei dovuto all’Olocausto e alla guerra, le pretese ebraiche a fare di quello che era soltanto un insediamento ebraico, come all’epoca ve ne erano tanti, ad esempio in Polonia (ma non con caratteri di entità nazionale), un luogo dove il Popolo di Dio avrebbe potuto risiedere stabilmente e soprattutto un luogo potenzialmente in grado di ospitare una tale moltitudine da essere posto nelle condizioni di diventare un’entità nazionale.
Come dicevo il problema era che i territori dove gli ebrei, dopo la guerra, si recarono in massa con l’intenzione di rimanervi erano per parte loro già occupati da Palestinesi di fede araba, anch’essi legati alla Palestina da motivi religiosi, e cioè in sostanza la presenza, in quell’area, di Gerusalemme, la terza Città sacra per gli islamici, dopo La Mecca e Medina. Va detto anche che gli insediamenti islamici nella regione risalivano quanto meno alla prima conquista dei territori da parte araba avvenuta alcuni secoli dopo Cristo. La conflittualità tra le due etnie, quella araba
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musulmana e quella ebraica nasce proprio da ciò: l’impossibilità di far valere in maniera esclusiva da parte di ebrei e islamici e rispettivamente, diritti su quei territori sulla base di eventi religiosi o comunque sia sulla base di elementi di fede, poiché ognuno dei due popoli, ovviamente dal proprio punto di vista, poteva e può invocare la sacralità di quei luoghi in virtù della propria storia di fede, da cui derivava la pretesa per ciascuno dei due insediamenti, di essere l’unico in quell’area. Di civile convivenza neanche a parlarne.
Ovviamente una chiara disamina della situazione in parola richiede per l’appunto qualche dato in più. A partire dal 1948, anno di fondazione dello Stato di Israele, la questione del medio oriente arabo e israeliano divenne così importante per gli equilibri internazionali dal punto di vista politico, economico e militare, da riuscire, forse anche inconsapevolmente a condizionare le scelte di carattere soprattutto militare prima che politico, a carattere internazionale. Dapprima durante il periodo della “guerra fredda”, i due blocchi, americano e sovietico, rifornivano di armi e appoggi strategici di volta in volta una delle due etnie della regione e i rispettivi insediamenti, ciò che vorrebbe dire zone a prevalenza araba o ebraica, e successivamente e in ogni caso sempre le potenze internazionali maggiori, cioè sempre ex URSS e USA, continuarono ad beneficiare dei vantaggi economici derivanti dalla situazione palestinese senza che nella sostanza cambiasse il quadro di riferimento, cioè senza che alcuna delle due etnie prevalesse sulla etnia nemica. Come è stato possibile che un territorio la cui superficie è presso a poco equivalente a quelle di Lombardia e Liguria insieme, con una popolazione di soli 6.000.000 di abitanti, assai inferiore a quella di alcune grandi metropoli del mondo, abbia potuto attrarre a sé gli aiuti finanziari più cospicui da parte degli USA, una notevole attenzione mediatica insieme alla costituzione sul proprio territorio di 250 organizzazioni internazionali ivi operanti?
Dovendo valutare la scelta compiuta innanzitutto in ambito europeo di schierarsi con Israele, va detto che l’interesse dell’occidente per Israele va invece che in Europa, collocato in un’epoca e in un paese, quali erano gli USA e non subito dopo
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il II conflitto mondiale ma negli anni Settanta con il governo Nixon e gli avvenimenti di Settembre Nero in Giordania e anche va detto, con la perdita di interesse e referenze geo – strategiche da parte degli USA in Indocina.
Una ulteriore motivazione, questa volta in ambito europeo, per quanto riguarda l’avvicinamento dell’Occidente ad Israele, è dovuta a un movimento a carattere religioso che si diffuse dal mondo Cristiano anglosassone verso il mondo Ebraico e che al mondo ebraico guarda ancor oggi con specifico favore.
Oltre a ciò vi erano come detto e sempre tra USA e Israele affinità a carattere “politico/costituzionale” in quanto entrambi, USA e Israele si erano a suo tempo dotati di ordinamenti costituzionali simili, cioè erano entrambi delle democrazie liberali.
Altri dati devono essere evidenziati: tra il 1948 e il 1998 la popolazione israeliana è passata da 800.000 ad oltre 6.000.000 di unità di cui il 20% è arabo. Metà dell’aumento della popolazione è dovuto a flussi migratori, mentre in particolare quella palestinese ha invece subito un incremento naturale. A parte la contrapposizione tra arabi ed ebrei, anche all’interno di quest’ultimo gruppo esistono lacerazioni e differenze, ad esempio quelle tra aschenaziti e sefarditi, laici e ortodossi, cui si aggiunge una notevole parte composta da ebrei provenienti dai territori dell’ex URSS.
Dal 1948 ad oggi i progressi economici di Israele sono stati notevoli. Un paese prevalentemente agricolo è passato da questa condizione ad una di paese fortemente industrializzato e in molti aspetti simile ai Paesi occidentali, con un reddito pro capite paragonabile a quello della Gran Bretagna. Tuttavia le differenze di reddito tra le classi più ricche e quelle più povere non trova per quanto è accentuato, alcun termine di paragone in occidente.
Relativamente al contesto Palestinese arabo va detto che la questione ad esso riferibile ha dato luogo, sempre a causa delle esigenze da parte dell’Occidente di proteggere Israele, ad un progressivo allontanamento dei Paesi islamici e innanzitutto di quelli al confine con lo Stato ebraico dai Paesi occidentali, in quanto
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l’ostilità verso Israele ha determinato una serie di inibizioni a carattere commerciale tra i Paesi islamici e l’Occidente, ciò che ovviamente anziché risolvere va ad aggravare il problema dell’instabilità dell’area.
Anche i Paesi produttori di petrolio presenti nell’area e nonostante l’importanza strategica di questa risorsa per la regione e per gli stessi Paesi produttori, nonché per gli Stati esteri, che pure hanno a suo tempo comminato sanzioni economiche a causa principalmente delle guerre del Golfo, si trovano in una situazione di grave instabilità interna, afflitti da analfabetismo, pressione demografica ed endemiche carenze idriche.
Il processo di pace dovrà occuparsi senz’altro anche di questi aspetti. Si può dire che le due tendenze più rilevanti ad oggi nel mondo arabo siano, da un lato un fenomeno di stagnazione del processo di modernizzazione dei costumi, dall’altro un progressivo avvicinamento alle nuove tecnologie, cioè un atteggiamento favorevole da questo punto di vista al fenomeno della globalizzazione, con tratti simili a quelli occidentali.
L’Occidente e quindi anche l’Europa sono chiamati a svolgere un ruolo di delicata intermediazione, innanzitutto dal punto di vista culturale, per far fronte e risolvere le problematiche cui ho accennato.
Per tornare alla situazione della fede e del popolo ebraico nel XIX secolo, mentre in Europa, a seguito della chiusura dei ghetti, le comunità ebraiche manifestarono una certa inclinazione verso l’integrazione con le popolazioni dei paesi di appartenenza, diversa era la situazione nell’Europa orientale, dove, sempre nella metà del XIX secolo vivevano circa tre milioni di ebrei, cioè quasi il 75% della popolazione ebraica. In Russia le condizioni erano piuttosto precarie data la arretratezza del paese.
Tuttavia un movimento di idee simile all’Illuminismo occidentale, pure vi fu nella cultura e nella società ebraiche del tempo, manifestando anche attraverso i canali mediatici, i prodromi della riscoperta del lavoro nei campi che tanta parte ebbe nella creazione del movimento sionista laburista. Vi fu anche una riscoperta dell’ebraico
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da parte dei ceti elevati, in quanto anch’essi nei discorsi colloquiali usavano prevalentemente l’yiddish. Per quanto riguarda, come detto, gli ebrei russi, va ribadito che la situazione del paese era abbastanza instabile anche a causa della politica repressiva avviata dallo zar Alessandro III per colpire tutti coloro che potevano essere considerati gli assassini del defunto padre, morto in un attentato nel 1881, repressione che colpì innanzitutto le minoranze e quindi anche la minoranza ebraica.
Tuttavia dalla fine degli anni ’60 del XIX secolo si erano diffuse in Russia numerose associazioni culturali ebraiche, dette degli “Amanti di Sion”, che erano però prive di una direzione e di una linea politica unitarie. Fu in questo contesto che emerse la figura di Leo Pinsker, un medico di Odessa, leader del primo movimento sionista della storia, che attrasse verso sé sempre più numerosi i membri delle comunità ebraiche del tempo. Nel 1884, per evitare le persecuzioni in terra di Russia, Pinsker convocò a Khattovitz in Germania tutte le associazioni ebraiche di cui rivendicava la leadership, stipulando il primo accordo in ordine alla sovvenzione di alcuni insediamenti ebraici in Palestina. Il movimento avviato da Pinsker non ebbe grossi risultati e tuttavia tredici anni più tardi a Basilea venne convocato il primo congresso sionista, grazie all’importante figura di Theodor Herzl, dando le basi a quell’insieme di idee che nel secolo successivo avrebbero portato alla nascita dello stato israeliano.
La nascita del sionismo provocò reazioni contraddittorie, innanzitutto tra le comunità ebraiche, anche in America, ma non in Russia, paese al quale apparteneva la maggioranza degli aderenti al movimento sionista. Quanto a Herzl egli deve essere ricordato per il suo attivismo più che per le sue capacità di elaborazione teorica, anche dato il fatto che le sue iniziative nel breve periodo e finché egli restò in vita non ebbero alcun risultato di un certo rilievo all’interno del movimento. Se però si considera la sua attività nel lungo periodo, bisogna attribuirgli il merito di aver dato consistenza internazionale all’istanza sionista, sino a che quest’ultima cominciò ad essere discussa anche tra le diplomazie europee. Dieci anni dopo la
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morte di Herzl, avvenuta nel 1904, il sionismo era divenuto un movimento politico a tutti gli effetti trasformando gli aderenti in una forza sociale e culturale significativa.
La situazione in Palestina
La Palestina nella seconda metà dell’Ottocento si sottraeva alla dominazione ottomana per ritornare a rivestire un ruolo sulla scena internazionale. Tralasciando gli avvenimenti a carattere bellico e coloniale che interessarono la regione va detto che in Gran Bretagna era divenuto popolare un ramo di quel Pietismo evangelico che considerava gli ebrei come esuli indebitamente a suo tempo cacciati dalla Terra santa. Si diffuse anche la convinzione che un nucleo ebreo in Palestina avrebbe potuto favorire l’Europa. La Palestina era all’epoca divisa tra due provincie ottomane, la Siria e il Libano, e caratterizzata da un forte disordine interno a causa del rivalità tra “pachas” che erano a capo di orde di beduini stipendiati per combattere ciascuno per la propria fazione di riferimento. Si trattava di territori assai impoveriti a causa delle tasse, di un commercio minimale, di invasioni di locuste, di arbitri da parte del potere. La popolazione alla metà del XIX secolo era di circa 400.000 persone. La presenza ebraica nella regione era all’epoca di circa 6.000 persone, alla metà del secolo 17.000 individui che nonostante le esenzioni fiscali previste per gli stranieri, vivevano sotto la soglia di povertà.
La prima ondata migratoria che si ebbe nella regione, si registrò tra il 1882 e il 1903 quando 25.000 ebrei entrarono in Palestina. Alcuni di essi erano realmente sionisti, altri socialisti, ma la maggioranza intendeva semplicemente sfuggire alle repressioni zariste. Per quanto riguarda il modello produttivo esso era duplice: da un lato una agricoltura di sussistenza, basata su coltivazioni come cotone, tabacco, ulivo e grano; dall’altro un sistema basato sulle conoscenze acquisite dagli ebrei d’Europa, e quindi su una tecnologia evoluta. L’applicazione di questo modello si diffuse grazie agli emolumenti del barone Rothschild, che aveva preso a cuore la questione israeliana. Nel complesso il modello produttivo era lontano dai principi di solidarietà che avevano spinto gran parte degli emigranti ad abbandonare l’Europa. Agli inizi del XX secolo solo 5.000 dei 50.000 ebrei residenti in Palestina erano
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impiegati nelle fattorie agricole. Dinanzi al fallimento delle sue scelte in favore delle comunità ebraiche palestinesi, Rothschild riattivò la “Jewish colonization trust”, nata per volere di Herzl e da cui derivò la Anglo/Palestinian Company, la prima istituzione bancaria nella regione.
In quegli stessi anni, dopo la rivoluzione ottobrista del 1905, per sfuggire ad una ennesima ondata di pogrom si verificò un nuovo flusso di profughi ebrei verso la Palestina. I profughi erano intrisi di idee socialiste, ciò che creò notevoli problemi al loro inserimento. A causa della carenza di posti di lavoro, dell’ostilità dei datori di lavoro e della mancanza d’esperienza, più dell’80% delle 30.000 persone che tra il 1905 e il 1914 arrivarono in Palestina, fece ritorno in Europa o continuò il viaggio verso le Americhe. Questa nuova ondata migratoria fu importante sotto l’aspetto culturale, in quanto a scapito delle convinzioni religiose introduceva in Terra santa concetti come lotta di classe, coscienza storica ed enfatizzava il ruolo del lavoro. I propugnatori di queste nuove idee, come Ben Gurion e Ben Zevi concordavano con la critica marxista che negava agli ebrei lo status di nazione e intravvedevano nell’agricoltura la possibilità di un nuovo riscatto per il popolo ebraico.
Il nuovo corso dovuto alla Jewish Colonization Association ebbe inizio con la messa a coltura di nuove piante come le mandorle e gli alberi da frutto. Vi fu anche una ridistribuzione degli appezzamenti. L’associazione favorì anche la costruzione di scuole, sinagoghe e la diffusione dell’assistenza medica. Le condizioni della popolazione migliorarono e alla vigilia della guerra mondiale in Palestina vivevano circa 85.000 ebrei su un totale di 600.000 individui, costituendo la maggiore concentrazione del mondo. Se l’agricoltura dava buoni risultati non si può dire lo stesso dell’industria, che in Palestina e da parte ebraica non fu mai competitiva a causa della mancanza di infrastrutture, della carenza di finanziamenti e della competizione con le più efficienti imprese europee; infine a causa delle guerre che interessarono l’impero ottomano tra il 1911 e il 1913. Ben presto l’agricoltura ebraica divenne così sviluppata che la Anglo Palestinian Company ne prese le redini, sottraendo agli arabi della regione una notevole quantità di profitti.
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Una volta raggiunte dimensioni abbastanza cospicue, le colonie ebraiche espressero l’esigenza di una rappresentanza politica. A tale scopo dal 1914 si erano organizzate due federazioni, una facente capo agli aschenaziti, l’altra ai sefarditi. Durante il conflitto esse federazioni organizzarono prestiti finanziari ed evacuazioni dalle aree minacciate dai combattimenti più duri. Insomma durante e dopo la guerra l’importanza internazionale delle varie comunità ebraiche palestinesi era cresciuta in maniera esponenziale. Intanto in prossimità della fine della guerra le grandi potenze occidentali e mediorientali tentavano di negoziare l’assetto internazionale successivo alla cessazione delle ostilità. L’intesa tra Francia e Inghilterra nota come Accordo Sykes – Picot prevedeva la spartizione del rettangolo arabo costituito da Arabia, Siria e Mesopotamia. L’intesa divideva la regione in cinque parti, una sotto il controllo della Gran Bretagna, una sotto il controllo della Francia e altre due in concorrenza tra Francia e Gran Bretagna. Rimaneva la parte centrale della Palestina che prevedeva un condominio alleato che avrebbe previsto la presenza anche italiana. Tuttavia l’interesse per la regione della Palestina centrale da parte britannica andava a contravvenire un principio di diritto internazionale enunciato anche dal presidente americano Wilson, cioè il principio di non acquisizione dei territori occupati. Tuttavia e a differenza di molte nazioni europee, la Gran Bretagna non considerava il sionismo con particolare sfavore e trasse dalla presenza degli ebrei in Palestina una forte argomentazione diplomatica, nel senso di sostenere sempre da parte della Gran Bretagna che una forte presenza ebraica nell’area avrebbe garantito ad esempio il canale di Suez, contro le ambizioni di altre potenze. Una volta reso noto l’accordo Sykes – Picot, gli ebrei di Palestina accettarono di collaborare. Per cementare l’alleanza tra britannici ed ebrei fu siglato il documento noto come “Dichiarazione Balfour” in cui la Gran Bretagna si impegnava a favorire in Palestina la nascita di un governo parastatale e nel contempo a riconoscere i diritti degli altri popoli della Regione.
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A guerra finita e durante i negoziati, tenuti presso la Conferenza di Parigi, emerse da parte delle potenze che avevano partecipato al conflitto, un atteggiamento favorevole ad una collaborazione economica con gli ebrei. Tuttavia incomprensioni reciproche tra Gran Bretagna e Francia da un lato e musulmani dell’area palestinese interessata dall’altro, compromisero le relazioni con la parte araba. Perciò una volta iniziato il mandato sui territori suddetti, il premier Lloyd George pensò bene di nominare un alto commissario ebreo per la regione, cioè Herbert Samuel. Intanto la Palestina a sud del Giordano, che era stata promessa agli Arabi in sede internazionale, era stata lasciata in mano ai predoni. Nel 1921 Churchill propose di offrire il territorio in questione agli ottomani rappresentati da Abdullah, cosicché anche quella parte dell’area diveniva indirettamente una sorta di protettorato inglese, amministrato secondo mandato, con la promessa ad Abdullah che in un futuro da definire, anche la Palestina a sud del Giordano, cioè la Transgiordania avrebbe ottenuto la indipendenza.
Per ricostruire un’area devastata dalla guerra, Herbert Samuel avviò una riforma fiscale e favorì una espansione delle esportazioni agricole del 40% in cinque anni e costruì importanti infrastrutture.
La politica internazionale della Gran Bretagna era tuttavia ambivalente: da una parte l’esigenza di salvaguardare le relazioni con le popolazioni arabe, dall’altra di rispettare gli accordi presi con gli ebrei dell’area. Due problemi erano preminenti: la regolazione del flusso di immigrati ebrei e la gestione economica della Palestina.
Dagli inizi degli anni ’20 fino al 1939 vi furono alcune ondate migratorie che interessarono la Palestina: una fu la conseguenza della rivoluzione russa del 1917. Tra il 1919 e il 1923 circa 37.000 ebrei raggiunsero la terra promessa. Infine dopo il 1924 e fino al 1928 si ebbe la terza massiccia ondata migratoria. La gran parte degli immigrati arrivò dalla Polonia, a causa di un precaria situazione economica interna.
Infine la quarta migrazione di massa si ebbe tra il 1933 e il 1939, come conseguenza dell’ascesa al potere da parte di Hitler.
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Dal censimento del 1922 risulta che la popolazione Palestinese ammontasse a 650.000 individui, 85.000 ebrei, 75.000 arabi cristiani. Il reddito pubblico alla fine del primo decennio del Mandato britannico era sostenuto per il 45% da arabi. Il 70% dei musulmani però viveva in campagna, e il 30% era costituito da fellahin, mezzadri, che raramente possedevano appezzamenti di una qualche estensione e che erano continuamente indebitati con i latifondisti da cui subivano prelievi tra il 30% e il 50% del raccolto. Questa situazione non venne modificata da Samuel, che però procedette ad una redistribuzione delle terre incolte tra arabi e musulmani. La offerta di terreni ne stimolò l’acquisto da parte degli ebrei dai padroni terrieri arabi, gli effendi, che fecero in questo modo favolose speculazioni. Ovviamente il cambio di proprietà comportò che quelle terre fossero affidate a coltivatori ebrei, mentre contadini e pastori arabi ne vennero espulsi.
Tuttavia nonostante le difficili condizioni di convivenza tra arabi ed ebrei, le condizioni della Palestina erano migliori rispetto a quelle di altri Paesi arabi limitrofi tanto che furono circa 100.000 gli emigranti arabi che si trasferirono nella regione durante il periodo di mandato britannico, e concomitantemente crebbero in maniera esponenziale tra il 1922 e il 1936 la popolazione e il livello di scolarizzazione, quest’ultimo passando dal 2% al 13%. La stessa velocità di espansione interessò sia da parte araba che ebraica le attività commerciali. Tuttavia la ricchezza degli ebrei era nel complesso maggiore di quella della popolazione araba, tanto che quest’ultima subì l’egemonia ebraica in alcuni settori.
Nacque da tali premesse un movimento nazionalista arabo, fomentato e costruito da Egitto e Siria, e soprattutto grazie all’impegno di due potenti clan o famiglie arabe, cioè gli Husseini e i Nashashibi. Nel 1921 Samuel, nell’intenzione di sopire i contrati tra le due famiglie, favorì la nomina del Gran Muftì di Gerusalemme, nella persona di Haj Muhammad Amin al – Hussein, che venne eletto anche presidente di una sorta di corte suprema, che avrebbe deciso gli affari interni e quelli religiosi. Il Gran Muftì non fu però come invece avrebbe voluto Samuel, una figura “fantoccio” poiché quando negli anni trenta si verificarono disordini interni ai territori,
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soprattutto tra le famiglie più ricche e influenti egli seppe magistralmente mediare gli interessi in conflitto.
Durante gli anni immediatamente precedenti il II conflitto mondiale anche le forze dell’Asse e cioè in sostanza Mussolini e Hitler cominciarono a muovere in seno alla comunità internazionale rivendicazioni sui territori ebraico-palestinesi.
Ben presto, si era nel 1936, i musulmani scesero in strada allestendo uno sciopero di dimensioni colossali la cui posta in gioco era la creazione di uno stato arabo in Palestina. Nel 1939 si tenne una conferenza a Londra con la partecipazione di Arabi ed Ebrei. Gli arabi chiesero la fine del Mandato britannico e uno stato arabo nei territori. Gli ebrei citarono passati accordi internazionali in loro favore. Al fine di venire incontro alle pretese di entrambi i popoli la Gran Bretagna si impegnò a ridurre l’incremento demografico israeliano e a dare il proprio appoggio ad uno stato arabo di futura costituzione. Tutto ciò però non bastò né agli arabi né agli ebrei, che disattesero le clausole dell’accordo di mandato e le pattuizioni su cui si era raggiunto un accordo in sede di conferenza a Londra.
Con lo scoppio del II conflitto mondiale gli ebrei misero da parte le proprie rimostranze in sede diplomatica e appoggiarono risolutamente la Gran Bretagna contro le potenze dell’Asse, mentre queste ultime si allearono a molti Paesi del mondo arabo, cioè con Egitto e Iran principalmente, dove però il governo filo-nazista venne deposto nel 1941; non così nella Siria, posta sotto l’influsso della Repubblica di Vichy. A guerra conclusa, cioè nel 1946, in seguito alle rivendicazioni egiziane sul canale di Suez, la Palestina diventò l’unica base del Mediterraneo orientale utile alla Gran Bretagna per controllare la regione.
Per tutta risposta gli ebrei eseguirono un terribile attentato al King David Hotel di Gerusalemme, mentre le due conferenze di Londra tese a ricondurre la situazione ad una sostanziale pacificazione non ebbero esito. E allora la Gran Bretagna chiese l’intervento dell’ONU. La soluzione scelta fu la spartizione dei territori anziché la creazione di uno stato federale. Il piano iniziale assegnava allo stato arabo la Galilea, le colline centrali ad esclusione di Gerusalemme, più una striscia costiera
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meridionale. Il territorio ebraico avrebbe incluso il resto. L’intento rimaneva però quello di favorire la nascita di uno stato unitario, sebbene sostanziato da due entità politiche. I componenti dell’assemblea del’ONU preposta a dirimere la questione suddivise i territori in zone di influenza e di popolamento. Le ragioni di ciò vanno ovviamente ricercate nelle esigenze dell’Occidente, in primis degli USA, che avevano un forte bisogno di petrolio, e per averlo necessitavano di una relativa pace nell’area, perché ovviamente le rivendicazioni degli arabi palestinesi erano a loro volta appoggiate dai maggiori produttori di petrolio tra i paesi dell’area. Ciò che però fece esprimere gli USA nel senso di un appoggio ad Israele fu una forte popolazione ebraica sul loro territorio, cioè negli USA, di circa 5.000.000 di individui che avrebbero avuto un peso notevole alle elezioni presidenziali. Il timore di una guerra con i paesi dell’area dissipò gli ultimi dubbi. Per questi ed altri motivi che possiamo tralasciare il 29 novembre del 1947 la soluzione proposta in seno all’ONU ebbe 33 voti favorevoli contro 13 contrari. Un forte segnale derivò dal voto
di quasi tutti i Paesi di religione araba. Gli astenuti furono dieci tra cui la Gran Bretagna.
Se si volesse fare un bilancio dell’esito dell’accordo in sede ONU si dovrebbe dire che gli ebrei beneficiarono del senso di colpa da parte occidentale per i massacri nei lager, mentre gli arabi furono penalizzati nelle trattative dal loro pregresso appoggio a Hitler e alla sua politica di sterminio.
La nascita dello stato di Israele
La dichiarazione di nascita dello Stato di Israele fu emanata il 14 maggio del 1948. L’invasione araba iniziò otto ore più tardi con gli eserciti di Siria, Egitto, Iraq, Libano, Giordania coalizzati. La prima tregua fu imposta dalle Nazioni Unite l’11 giugno, una seconda il 18 luglio. Gli israeliani, dopo aver riorganizzato l’esercito chiesero aiuto all’Europa per il rifornimento di armi e rifiutarono qualsiasi trattativa di pace con la Lega araba. A partire dal gennaio 1949 i governi arabi sconfitti firmarono l’armistizio con Israele. Le possibilità relative alla creazione di uno stato di Palestina tuttavia non si concretizzarono, a causa delle rivalità tra i vari leaders
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arabi. L’opposizione ad Abdullah, accusato di aver tradito la causa palestinese crebbe sino al punto che egli fu vittima di un attentato il 20 luglio 1951 a Gerusalemme ad opera di un fanatico palestinese. L’ONU stimò il numero dei profughi provenienti dai territori controllati da Israele intorno alle 650.000 persone ovvero il 70% della popolazione araba della Palestina. D’altra parte furono circa 480.000 gli ebrei che negli anni successivi fuggirono dai paesi arabi.
Nonostante la vittoria Israele pagò duramente la propria guerra sia sul piano delle esportazioni verso la Palestina, sia dal punto di vista dei danni all’economia interna. Fu in queste condizioni che Israele si preparò ad accogliere un flusso migratorio senza precedenti. Nei mesi successivi all’indipendenza arrivarono in Israele circa 340.000 ebrei, mentre dopo il 1953 la popolazione raddoppiò. Si trattava di persone vittime dei campi di concentramento tedeschi e sovietici che giungevano in Israele per trovare un posto sicuro in cui ricominciare. Altri profughi provenivano dai paesi arabi dell’area. In particolare lo Yemen, l’Iraq, la Siria e il Libano. In Egitto gli ebrei furono costretti ad emigrare dopo il colpo di stato messo in atto da Nasser e la sua giunta militare. Flussi di immigrati arrivarono anche dalla Turchia e dall’Iran, che erano Stati antisemiti e avevano appoggiato i nazisti durante la guerra. In altri casi come la Libia o i Paesi del Maghreb, il flusso migratorio dopo gli anni Cinquanta diventò il più numeroso.
Tutti i nuovi arrivati, spesso privi di istruzione, ignoravano la funzione di istituzioni come il kibbutz, la logica capitalista e come i libici spesso provenivano da regioni in cui era diffuso il nomadismo. Ovviamente i primi anni furono i più difficili. La svolta si ebbe con Ben Gurion nel 1952 quando venne inaugurato un nuovo periodo politico, con svalutazione della moneta, imposizione di prestiti forzosi sui depositi bancari e abolizione del mercato nero. Lentamente grazie ai debiti di guerra pagati dalla Germania, al sostegno statunitense e alla rimesse degli ebrei dall’estero l’economia si riprese, e l’edilizia pubblica si espanse.
All’interno dello stato di Israele erano all’epoca presenti 156.000 arabi, cifra che si consolidò quadruplicandosi negli anni successivi. Israele non ebbe una legge che ne
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regolamentasse la presenza fino al 1950 quando con la “legge del ritorno” si consentì a tutti gli ebrei immigrati di accedere alla cittadinanza. In questo modo si escludeva la popolazione araba, poiché per ottenere tale status di cittadinanza il richiedente doveva dimostrare di vivere in Israele da almeno tre anni, di conoscere l’ebraico e di rinunciare alla doppia cittadinanza. Nei confronti degli arabi furono applicate le misure previste da “Defence Emergy Regulation” regolamento adottato dagli inglesi nel 1945, cioè limitazioni riguardanti gli espropri, l’uso del coprifuoco, deportazioni ed evacuazioni. L’impegno da parte dell’ONU a non espropriare le terre in proprietà araba venne meno quando il governo provvisorio emanò le prime leggi per impedire il ritorno degli arabi fuggiti durante la guerra sui terreni di loro proprietà. In meno di due anni il 40% delle terre regolarmente appartenenti ad arabi venne confiscato. Il colpo economico subito dalla comunità palestinese fu pesantissimo e produsse anche interminabili cause con le autorità amministrative israeliane, senza che però cambiasse qualcosa.
Le premesse della guerra del 1956
Il Consiglio di sicurezza dell’ONU con l’accordo di Rodi aveva sancito una pace precaria, che non teneva conto delle istanze delle parti coinvolte. Innanzitutto occorreva dare una dignitosa sistemazione ai profughi palestinesi che nel 1954 rappresentavano il 10% della popolazione libanese e il 30% di quella Giordana.
Dal punto di vista geografico, Israele era particolarmente vulnerabile con più di 600 miglia di confine indifendibili in profondità, pertanto i tre quarti della popolazione erano concentrati tra Haifa e Tel Aviv. Le minacce provenivano dalla Siria, che dalle alture del Golan dominava con le proprie artiglierie i confini settentrionali e il porto di Eliat, sul mar Rosso che poteva essere compromesso da un blocco navale egiziano. In Egitto la rivoluzione socialista degli Ufficiali liberi di Nasser alimentava una generale euforia.
Nel tentativo di ridimensionare le mire geopolitiche occidentali, i Paesi arabi si mobilitarono per isolare Israele economicamente. Questa strategia prevedeva anche
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il blocco da parte egiziana del canale di Suez, cioè uno scalo commerciale di primaria importanza per Israele.
Sul piano della politica internazionale Israele tentò di mantenere un’equidistanza diplomatica tra USA e URSS, tuttavia la crescente dipendenza economica di Israele dagli USA, iniziata negli anni della crisi economica, non lasciò a lungo inalterata la situazione, che sfociò nella dichiarazione di condanna da parte israeliana nei confronti della Corea del Nord quando questa invase la parte sud della Regione Coreana. In questo modo Israele si alienò i favori dell’URSS.
Sta di fatto che mentre in quegli anni, successivi alla guerra, che videro in tutto il mondo verificarsi una serie di sommovimenti che interessarono tutti o quasi i popoli ex coloniali, Israele non prese alcuna posizione, tanto che quando nel 1955 alla conferenza afroasiatica gli Arabi posero il veto alla presenza israeliana, nessuno si oppose. Gli USA da parte loro negarono l’ingresso di Israele nella Nato, mentre la Francia si mostrò vicina grazie alla condivisione dell’orientamento socialista, e alla ostilità condivisa dai due paesi per il sostegno nasseriano ai ribelli algerini, ciò che garantì agli israeliani le prime forniture di armi.
Con l’inizio vero e proprio della guerra fredda USA e URSS si disinteressarono inizialmente della questione di Israele e della Palestina. Tuttavia l’URSS non poteva rimanere inattiva sullo scacchiere mediorientale in quanto dopo la rivoluzione del 1952 era salito al potere in Egitto Gaml Abd al Nasser, un uomo forte e soprattutto una fonte di minacce sia militari sia economiche . Dopo la rottura con Israele dovuta sempre alla guerra di Corea, l’URSS manifestò un esplicito appoggio a paesi arabi come Siria ed Egitto. Con il patto di Bagdad il capo egiziano tentò di coinvolgere l’URSS nella costruzione della diga di Assuan, dopodiché tentò di affermare la propria influenza commerciale nazionalizzando il canale di Suez. Per reazione Francia e Inghilterra schierarono imponenti forze presso il canale coinvolgendo anche Israele. Le ostilità iniziarono nel 1956, il 29 ottobre. L’esercito egiziano si mostrò subito impreparato. Le forze israeliane in tre giorni travolsero quelle di Nasser, dilagando nel Sinai. Per opera di mediazione da part di Krushev le truppe
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egiziane rimaste si ritirarono dal Sinai che rimase, anche a causa della inattività di Francia e Inghilterra, nelle mani di Israele. Grazie all’intermediazione degli USA, il consiglio di sicurezza dell’ONU decretò la fine delle ostilità. Nasser, che usciva sconfitto dal confronto bellico, ebbe però la capacità di porsi come il leader dei movimenti di indipendenza africani ed asiatici e l’attore più importante della guerra fredda in medio oriente. Tuttavia egli dovette far fronte ad alcune condizioni imposte dai vincitori e cioè consentire il libero transito attraverso il canale di Suez, la rimozione del blocco nello stretto di Tiran, la demilitarizzazione del Sinai. Grazie all’adempimento di queste condizioni le forze di pace anglo–francesi abbandonarono il paese.
Negli undici anni seguenti Israele divenne uno dei referenti occidentali del commercio petrolifero tra Iran e Europa, sviluppò importanti infrastrutture industriali che favorirono una rapida crescita economica, trasformandolo in un attore politico mondiale.
Durante il decennio successivo alla sua fondazione, Israele definì la propria politica internazionale. Il principale fornitore di armi rimase per un certo tempo la Francia, sostituita dagli USA. Inoltre altre nazioni vendevano segretamente armi ad Israele per non inimicarsi i paesi arabi. Ad un certo punto le spese militari di Israele divennero molto onerose e andarono ad incidere sulla situazione economica complessiva. La popolazione araba che viveva entro i confini passò da 156.000 nel 1956 a 301.000 nel 1966. Dopo il 1948, benché il 75% degli arabi si fosse insediato nella Galilea, solo il 35% dei palestinesi erano impegnati nell’agricoltura, mentre la maggioranza era costituita da lavoratori salariati nelle industrie, e una piccola parte svolgeva piccole attività libero – professionali. Vennero addirittura creati dei ghetti per gli arabi. Politicamente i palestinesi arabi nutrivano simpatie per i partiti di sinistra e quando questi ultimi appoggiarono Nasser la questione palestinese ebbe risvolti mondiali.
I motivi dello scontento palestinese erano innanzitutto dovuti ad una linea governativa contraddittoria, che dava spazio da un lato ad espropri con indennizzi
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ridicoli di contro a iniziative per miglioramenti agricoli. Oppure sostegni alle scuole arabe e discriminazioni lavorative verso i laureati palestinesi anche se provenienti da scuole ebraiche. Furono questi alcuni dei motivi che portarono alla nascita dell’OLP, sulla base di accordi tra gruppi che rivendicavano istanze simili, e sotto il patrocinio di al Fatah fondata da Yasser Arafat e Khalil Wizir. Le rivendicazioni dell’OLP erano relative alla liquidazione di Israele sul piano politico, militare, sociale e culturale e la costituzione di un esercito di liberazione.
I finanziamenti alla nuova organizzazione arrivarono dai paesi arabi e soprattutto da Nasser il quale aveva dichiarato nel 1962 la costituzione di un documento relativo alla formazione di un movimento antisionista permanente.
La guerra dei sei giorni
Il conflitto arabo-israeliano del 1967 è uno tra i più difficili da comprendere per la disparità di forze in campo, la rapidità con cui gli israeliani annientarono gli eserciti nemici e il contesto generale in cui maturarono quegli avvenimenti. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto va ricordato, senza scendere nei particolari, che il quadro internazionale vedeva i paesi musulmani circostanti il territorio israeliano caratterizzati da un profonda ostilità sempre nei riguardi di Israele, sostanzialmente a causa delle precarie condizioni in cui erano costretti a vivere i palestinesi arabi in Terra Santa. Tralasciando le singole dinamiche internazionali, in cui non mancarono la presenza attiva dell’URSS e degli USA, si pone come necessaria una descrizione degli eventi bellici. Con un attacco a sorpresa, la mattina del 5 giugno 1967, in poche ore l’aviazione israeliana distrusse a terra quella egiziana, giordana e siriana. Poi, grazie alla supremazia aerea le truppe di terra in tre giorni conquistarono il Sinai, insieme alla città antica di Gerusalemme. Infine l’esercito israeliano si impadroniva delle alture del Golan e si attestava a 45 Km da Damasco, il 10 giugno 1967.
I leaders arabi pagarono cara la sconfitta, che produsse al loro interno sollevazioni popolari quando non vere e proprie rivoluzioni e colpi di stato. Per far fronte alla situazione si riunì il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nel cui ambito la
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maggioranza dei membri era favorevole ad un ritiro immediato da parte israeliana dai territori occupati, obiettivo sul quale convergevano gli interessi dei Paesi arabi, i quali continuavano a negare il proprio riconoscimento internazionale ad Israele. La risoluzione ONU, poiché diplomaticamente ambigua, non soddisfece gli interessi di nessuna delle parti in causa. A parte l’interesse manifestato dall’ONU al fine di ricomporre i dissidi e le rivalità che la situazione evidenziava, non vi fu modo non già di avviare trattative da entrambe le parti ma finanche di redigere una bozza di accordo su un piano di ripartizione della sovranità sui territori dall’una e dall’altra parte.
La guerra dei sei giorni comportò cambiamenti decisivi sullo scenario internazionale. L’Unione Sovietica ruppe i rapporti con Israele e sancì il legame tra panarabismo e comunismo ed accostò il concetto di sionismo a quello di razzismo. La priorità del problema dei profughi fu alla base dell’emancipazione palestinese dalla tutela dei regimi arabi.
Va infine sottolineato che se da principio la contrapposizione araba verso Israele aveva assunto il linguaggio rivoluzionario del marxismo ponendosi come laica, anticolonialista, antimperialista, dopo il 1967 assunse i toni mistici dell’Islam politico, con relativi rimandi alla guerra santa. Anche in Israele sorse un movimento simile anche se ovviamente speculare, che univa messianesimo e azione politica: il Gush Emunim o Blocco della Fede.
Tra il 1967 e il 1973 Israele creò dei punti di popolamento o colonizzazione dei territori sottratti agli arabi durante la guerra. Naturalmente venne prontamente emanata una risoluzione ONU che vietava agli ebrei di compiere quel passo. Israele si limitò a rispondere che le misure adottate miravano soltanto a proteggere i luoghi santi il cui accesso era impedito, fino a prima delle ostilità, dal veto giordano. Intanto gli espropri ai danni dei Palestinesi continuavano nel silenzio generale.
Una volta conquistati, dopo la guerra, i territori precedentemente appartenenti al novero dei paesi musulmani dell’area, Israele era convinto di poter continuare ad esercitare su di essi la propria influenza, ma non aveva previsto di dover fare i conti
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con una resistenza palestinese che premeva, armi alla mano, per limitare il potere degli ebrei sui territori. L’ostilità palestinese si manifestò sin dai primi momenti con scioperi di funzionari che rifiutavano di lavorare per il governo israeliano. Con Arafat ai vertici dell’OLP dopo il 1968 cominciarono ad acuirsi e a imbarbarirsi i rapporti con Israele da parte palestinese. E’ del 1970 l’attacco palestinese di Settembre Nero. L’OLP divenne una sorta di organizzazione interpartitica, una sorta di federazione che accomunava movimenti e organizzazioni animate dalle stesse idee e dalla medesime rivendicazioni. I palestinesi dell’OLP crearono dei propri insediamenti e delle proprie basi al confine giordano dal quale poi si spostavano per compiere azioni contro il nemico ebraico.
Nello stesso periodo in cui l’OLP iniziava a compiere attentati, Egitto e Israele avevano concluso accordi di pace relativi al Canale di Suez. Intanto re Hussein di Giordania, mosso da ostilità nei confronti dei palestinesi che occupavano i suoi territori, lanciò un attacco contro i campi profughi palestinesi al confine, ciò che provocò ampie ritorsioni da parte della Siria e dell’Iraq che però rimasero nel novero delle intenzioni a causa dell’intervento ebraico in aiuto di Hussein. I profughi palestinesi che fuggivano da tali scontri si rifugiarono in Siria e in Libano, che era un paese multietnico e la cui multiculturalità non costituiva un problema per gli altri paesi arabi dell’area. Ciononostante ci si stava preparando ad un nuovo conflitto: la guerra del Kippur.
La guerra del Kippur
L’Unione sovietica considerava il medio oriente una posta troppo importante, e non voleva abbandonare Paesi demograficamente consistenti come la Siria o l’Egitto. Nell’intento di fare di quest’ultimo una base militare i sovietici inviarono circa 14.000 esperti militari, una flotta da guerra di oltre 60 navi e organizzarono un sistema di protezione del canale di Suez con missili terra aria Sam 4 e Sam 6. Gli incidenti lungo il canale a iniziativa israeliana cominciarono già nel 1967. Anche l’alleanza tra USA e Israele diventò più stretta e le spese militari di quest’ultimo crebbero notevolmente. Nell’estate del 1970 vi fu un tentativo per riprendere i
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colloqui tra Egitto e Israele, per iniziativa di USA e URSS, ma gli incontri furono interrotti dalla morte di Nasser. Il successore di quest’ultimo, Sadat, chiese l’appoggio sovietico per cacciare gli israeliani dal Sinai. Data la scarsa considerazione da parte sovietica, Sadat decise di allontanare tutti i consiglieri sovietici dall’Egitto. Privo di appoggi anche in ambienti USA, Sadat si rivolse al mondo arabo e in particolare alla Siria, al Libano e alla Giordania, che appoggiarono il leader egiziano.
L’attacco da parte di Siria ed Egitto venne sferrato il 6 ottobre del 1973. La situazione internazionale era propizia ad una iniziativa di tal genere in quanto ciascuno degli Stati che avrebbero potuto intervenire erano invece impegnati in problematiche interne, ad esempio gli USA a causa dello scandalo Watergate, l’Europa alle prese con dissensi interni al continente e gli arabi impegnati nel mese sacro di Ramadan. L’azione egiziana si svolse nel giorno del Kippur, quando in tutto Israele viene regolarmente sospesa qualsiasi attività. L’esercito israeliano, totalmente impreparato per un attacco a sorpresa subì ingenti perdite e dovette ritirarsi da una parte consistente dei territori conquistati nel 1967.
Tuttavia la macchina bellica di Israele non tardò ad riorganizzarsi. Le posizioni perdute furono riconquistate nel giro di quattro giorni, e oltre a ciò gli israeliani arrivarono fino alle porte di Damasco. Il 24 ottobre, quando venne accettata l’ultima tregua, l’esercito ebraico era penetrato profondamente in Egitto e avrebbe potuto puntare direttamente sul Cairo. A causa del’intervento dei sovietici la situazione subì uno stallo. Il Consiglio di sicurezza si riunì il 28 ottobre. Con la conseguente risoluzione l’ONU ribadiva la necessità dell’avvio di negoziati per una pace durevole. Le spese da parte israeliana per respingere l’attacco del kippur erano state di sette miliardi di dollari e cioè l’equivalente dello stesso PIL israeliano dell’anno precedente.
Gli anni settanta e il governo del Likud
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Le perdite umane arrecate ad Israele dalla guerra del Kippur erano state considerevoli. A causa della minaccia dei missili sovietici, assai più potenti di quelli israeliani, la politica della difesa dei confini conquistati diventava superata, anche perché ad un attacco ai confini da parte di Israele avrebbe potuto far seguito una reazione sovietica, e ciò, nell’ottica dei paesi arabi dell’area, non doveva accadere. Per la prima volta dal 1948 la gente si sentiva vulnerabile. Dal punto di vista diplomatico, dopo la guerra Israele si trovò di nuovo isolato. Oltre come detto ai comunisti, anche i Paesi non allineati, quelli africani, delusi dalle aspettative propagandate dall’Occidente e quindi anche da Israele, si schierarono a favore degli arabi. Alcuni paesi africani come l’Etiopia di Hailé alassié ritennero giunto il momento di concludere un’alleanza tra paesi musulmani nella prospettiva della creazione di una organizzazione federativa africana. Anche Europa e Giappone, intimorite dalla possibilità di sanzioni sulle forniture di petrolio da parte dei regimi islamici, negarono il loro appoggio ad Israele, anzi comminarono allo stato ebraico delle sanzioni tramite l’embargo militare e tecnologico. Insomma si creò una situazione nella quale maggiore era l’ostilità di un paese verso Israele maggiori erano le forniture di petrolio di cui poteva beneficiare presso gli stati produttori. In questo contesto, negli ambienti di potere in Israele, maturò la decisione di avviare negoziati di pace. Accanto alla enormità delle spese militari sostenute da Israele per le due guerre, il deficit tra importazioni e esportazioni era passato da 1 a 3,5 miliardi di dollari tra il 1972 e il 1974. L’inflazione era cresciuta sino al 56% costringendo il governo di Rabin ad una svalutazione e all’introduzione di nuove tasse. A ciò si aggiungeva la necessità a causa delle pressioni sovietiche di accogliere 60.000 ebrei all’anno, ciò che costituiva un peso ulteriore per un paese già provato quale era Israele. Infine l’OLP aveva acquisito una certa rilevanza internazionale, era stata riconosciuta nel 1975 da più di 100 governi ed Arafat cominciava ad essere famoso anche in Occidente. Sadat si era reso conto delle difficoltà di Israele e ritenne che trattative diplomatiche con Israele sotto l’egida degli USA fossero qualcosa di non inattuabile ed anche una scelta poco rischiosa rispetto ad una nuova guerra che
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sicuramente neanche Israele per quanto detto avrebbe voluto. D’altra parte anche Sadat doveva affrontare problemi interni come un tasso di inflazione del 40%, uno squilibrio notevole nella bilancia dei pagamenti, un diffuso analfabetismo, l’esodo degli sfollati di guerra verso il Cairo e la problematica costituita da periodiche sollevazioni popolari. Infine un tentativo di pacificazione era sentito come necessario anche dagli USA che non intendevano alienarsi le simpatie dei paesi produttori di petrolio. Le richieste egiziane riguardavano i territori occupati e la smobilitazione delle forze israeliane. Gli israeliani chiedevano misure di sicurezza presso il Sinai che impedissero una nuova guerra, la sicurezza dei confini meridionali, il libero transito nel canale di Suez, un accordo di non belligeranza e la cessazione della violenta propaganda antiebraica da parte dell’Egitto.
Il primo colloquio si svolse con il benestare dell’URSS nella persona del ministro Kossighin e degli USA con il segretario di stato Kissinger. Successivamente si tenne una conferenza di pace il 21dicembre a Ginevra con la presenza di USA, URSS, Egitto e Giordania. Siriani e Palestinesi negarono la loro partecipazione e costituirono insieme a Libia ed Iraq un fronte del rifiuto sotto protezione sovietica. Il passo più importante nell’avanzamento delle trattative di pace si ebbe il 18 gennaio 1974 con accordo di ambo le parti per una tregua, nel rispetto delle reciproche richieste.
Intanto sul confine siriano erano ripresi gli scontri, poiché la leadership Siriana era irremovibile sulla questione del ritiro dal Golan da parte di Israele e inoltre giocava la carta dei prigionieri di guerra rifiutandone la restituzione. Tuttavia Kissinger riuscì a convincere Assad, il leader siriano, ad una tregua sulla base della offerta ella collaborazione statunitense in campo economico e tecnologico, e della cessione da parte siriana della zona contesa ad una forza di pace che garantisse sia gli interessi siriani che quelli degli ebrei. Anche l’Europa favorì il percorso di distensione firmando con Israele un accordo che prevedeva una zona di libero scambio. Il difficile processo di pace terminò con una visita del presidente egiziano in Israele e un suo discorso alla Knesset.
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L’accordo di pace del 1979
Il 26 marzo del 1979 Sadat firmò il trattato di pace con Israele sulla base di precedenti accordi intervenuti tra Carter e Begin, ricordati come Accordi di Camp David. Begin, divenuto primo ministro nel 1977 promise che Israele sarebbe venuto incontro a tutte le richieste avanzate dai paesi musulmani con successivi accordi con questi ultimi e con l’OLP. Quest’ultima proposta venne rigettata con virulenza sia dall’OLP che dai Paesi della Lega araba.
Nonostante si fosse fatto promotore di questo accordo Sadat non riuscì a gestire convenientemente i problemi dell’economia egiziana, e d’altra parte in campo internazionale non ottenne tutto ciò che avrebbe potuto se avesse posto in essere una condotta differente. Tutto ciò fu probabilmente quanto armò la mano del suo assassino.
Gli anni che seguirono furono segnati da violenze, fondamentalismi, contrapposizioni di interessi sia nel mondo islamico che ebraico. La crisi del comunismo e il conseguente declino dell’URSS a livello internazionale e il clima di violenza esasperata che interessava ancora la regione mediorientale, ponevano questioni che non potevano lasciare indifferenti le parti in gioco.
Finalmente nel 1987 l’Egitto fu reintegrato all’interno del mondo arabo. Col tempo sia israeliani che palestinesi giunsero alla conclusione che la mediazione, anche tra OLP e destra ebraica non poteva non essere l’unico modo per ottenere una stabile convivenza tra le due etnie che essi rappresentavano.
La situazione palestinese
Le disposizioni dell’accordo di Camp David non erano abbastanza chiare per quanto atteneva all’indipendenza palestinese. I problemi sul tappeto erano irrisolti nonostante tutto. Nel 1979 i Palestinesi contavano una popolazione di 750.000 persone nella West Bank e di circa 450.000 a Gaza, il loro livello di vita si era elevato di molto ed era superiore a quello di alcuni Paesi arabi della regione. Il dislivello tra aumento del PIL israeliano e quello dei palestinesi di Gaza era notevole e le cifre andavano a favore dei palestinesi. Anche il tasso di analfabetismo
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seguiva lo stesso trend. Il maggiore disagio dei ceti arabo – palestinesi emergenti era la prospettiva di un futuro precario. Indipendentemente dalla loro formazione i giovani palestinesi continuavano a svolgere mansioni secondarie, mal pagate e prive di tutela sindacale. Da parte israeliana, il premier Rabin, messo alle strette dal partito Nazionale Religioso all’interno del governo fu portato ad accettare la creazione di nuovi insediamenti nei territori. A causa di questa scelta da parte della leadership israeliana, i giovani palestinesi insorsero e Rabin di nuovo messo alle strette e sperando così di moderare i protestatari, concesse libere elezioni che però videro affermarsi una schiacciante maggioranza dei rappresentanti dell’OLP, che chiedevano nient’altro che la risoluzione del problema nazionale. Anche in questo caso Rabin espresse scelte politiche incerte, ma alla fine non ascoltò le pretese degli eletti a Gaza e in West bank. La guerriglia e il terrorismo ripresero. Quando poi salirono al potere i conservatori, la posizione in merito alla Palestina subì una involuzione: l’unica forma di autonomia per i Palestinesi doveva riguardare l’aspetto amministrativo, e non poteva estendersi al suolo, come qualunque stato nazionale, perché il suolo era sacro, per tutti gli ebrei ma non per i palestinesi. Il partito conservatore decise di estendere gli insediamenti nei territori fino a 300.000 persone. Con un decreto si concedeva ai villaggi ebraici, situati nelle punte avanzate del territorio colonizzato di recente dagli ebrei, il diritto di organizzare la propria difesa militarmente, cioè di circolare armati, ciò che ovviamente non fu di beneficio ad una situazione già di per sé esplosiva. Le infrastrutture che vennero costruite, come strade o acquedotti furono realizzate per collegare gli insediamenti ebraici con l’entroterra e isolare i villaggi arabi privandoli anche di acqua potabile. Tra il 1974 e il 1979 i morti in totale furono1.207 e 2.950 i feriti. Nel 1980 poi, una legge definita “fondamentale” dichiarò Gerusalemme capitale unica dello Stato di Israele. Nel 1981 gli ebrei si erano ormai insediati sul 30% del territorio della West bank che ben presto dalle 18.000 unità iniziali si sarebbe sestuplicata solo dieci anni più tardi. Nello stesso anno anche il Golan veniva annesso, in spregio alle direttive ONU e agli accordi di Camp David.
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L’invasione del Libano
Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 vi fu una serie di avvenimenti riassumibili con l’aumento del prezzo del petrolio, triplicatosi nel decennio successivo, la rinascita del fondamentalismo religioso islamico con la rivoluzione iraniana khomeinista, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, il conflitto tra Iran e Iraq, il problematizzarsi della guerra civile in Libano, con spostamento nel Paese dei cedri, dello scontro arabo-israeliano.
Nel 1981 il governo israeliano venne destituito a causa di scandali che interessarono i conservatori. Begin venne rieletto nelle nuove consultazioni, sebbene di misura, sfruttando l’appoggio dei partiti religiosi, della componente sefardita, e il conflitto interno al partito laburista tra Rabin e Peres. Il piano di insediamento di Begin nella West bank richiedeva una serie di misure repressive, tra cui le più estreme erano le deportazioni cioè i rastrellamenti nei villaggi arabi di giovani attivisti, condotti poi oltre la frontiera giordana. Questi flussi furono poi per esigenze logistiche diretti verso il Libano. Dalla metà degli anni settanta furono costretti a spostarsi in Libano circa 300.000 palestinesi, i quali vivevano in quel Paese nelle peggiori condizioni di tutto il mondo arabo. Erano sicuramente guardati con sospetto dal governo maronita, di fede cristiana, erano di fatto esclusi dalla vita produttiva del Paese e andavano ad ingrossare le file del sottoproletariato urbano. Data l’entità del problema esso fu presto preso a cuore dalla dirigenza dell’OLP che, dal quartier generale di Beirut aveva arruolato tutti coloro che si trovavano nei campi profughi. Disponendo dei fondi provenienti da Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo, Arafat e suoi avevano organizzato una efficiente rete di assistenza che comprendeva ospedali, scuole, stazioni radio, banche, servizi telefonici, fattorie ed imprese dove trovavano impiego migliaia di dipendenti palestinesi. Nella regione del Monte Hermon la guerriglia palestinese aveva creato centinaia di rifugi dove erano custodite armi provenienti dalla Libia e dall’Unione Sovietica e decine di campi di addestramento da cui i feddayn partivano per le loro incursioni. Per reazione gli israeliani mettevano in atto raid aerei che spesso colpivano la popolazione civile libanese e palestinese.
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La guerra civile libanese era iniziata nel 1974, in una imboscata da parte di un’unità militare di falangisti maroniti in un autobus che stava trasportando passeggeri palestinesi alla periferia di Beirut. La reazione palestinese fu violenta e provocò la morte di diversi cristiani e gli incidenti si diffusero nella capitale. I musulmani libanesi si unirono ai palestinesi e in breve gli scontri sfuggirono al controllo del governo. La Siria inviò nuclei militari palestinesi e il conflitto volse a favore dei musulmani. Alla fine Assad decise di intervenire per porre fine ai combattimenti che avevano già provocato 70.000 morti ma chiese uno stanziamento di sue truppe, truppe siriane su territorio libanese a tutela dell’ordine interno. In pratica gli israeliani controllavano lo spazio aereo, le truppe di terra dell’OLP rinunciavano alle incursioni per il dovere di tutelare l’ordine a sua volta presidiato dai siriani mentre gli sconfinamenti palestinesi, se proprio ve ne fossero stati, furono posti sotto il controllo di un ex ufficiale cristiano originario del Libano. Questa tregua funzionò per due anni, dopo di che tutto tornò come prima, anzi forse in proporzioni ancora più gravi di prima.
Nel 1978 gli israeliani in risposta ad un attacco palestinese che aveva provocato 34.000 vittime penetrarono una prima volta in Libano con 8.000 uomini richiedendo l’intervento della forza di pace dell’ONU che iniziò il presidio della zona con 3.000 uomini. Nel 1981, a causa di un attentato da parte di falangisti cristiani contro un ponte presidiato da siriani Assad decise di spostare i missili SAM 6 nella valle della Beka’a. Furono episodi come questi che fecero maturare in Begin l’idea dell’intervento, che non doveva solo stroncare la resistenza palestinese ma anche eliminare la presenza siriana in Libano per instaurare un governo cristiano alleato di Israele. Il pretesto per l’attacco fu l’attentato all’ambasciatore israeliano a Londra, il 3 giugno del 1982, ad opera di un militante palestinese. In risposta il giorno seguente un massiccio bombardamento preluse all’avanzamento israeliano forte di 80.000 uomini lungo la costa per evitare l’artiglieria dell’esercito di Damasco. Il terzo giorno gli aerei israeliani distrussero le batterie dei missili siriani e le truppe di Damasco si ritirarono con gravi perdite. Due giorni dopo gli israeliani cessarono la
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loro invasione ma in realtà continuando a combattere e raggiungendo la periferia orientale di Beirut. Le perdite palestinesi furono di 6.000 persone, le israeliane di 800. Rimaneva la questione più delicata da risolvere. Bisognava eliminare la presenza palestinese da Beirut ovest, ma né israeliani né falangisti vollero impegnarsi in un combattimento lento e sanguinoso. Begin decise per l’assedio e Beirut venne bombardata dal mare, dai monti e dall’aria per ben due mesi. Alla fine i profughi libanesi vennero evacuati dalle forze di pace dell’ONU e inviati nei paesi viciniori. Ma la vendetta palestinese non si fece attendere. Bashir Gemayel, dopo aver vinto le elezioni israeliane saltò in aria durante un comizio a causa di una bomba probabilmente di matrice siriana. Pochi giorni dopo soldati libanesi pentrarono nei campi di palestinesi di Sabra e Chatila, due quartieri di Beirut e massacrarono oltre 3.000 uomini, donne e bambini. A Gemayel successe il fratello Amin, il quale pensò di ristabilire l’antica alleanza con la componente sunnita della regione di Beirut. Questo però doveva essere solo il primo passo per la conclusione di un patto ufficiale con ritiro di siriani e israeliani dal territorio libanese e l’instaurazione di relazioni ufficiali tra Libano ed Israele. Il nodo irrisolto era la presenza di milizie cristiane nel sud del Libano. In un clima di tensione mentre i Siriani riarmavano l’esercito, Israeliani e Libanesi si accordarono per un trattato di non belligeranza tra i due paesi e il ritiro israeliano e siriano dal Libano. La Siria però per bocca di Assad rifiutò di collaborare facendo saltare il tentativo di negoziato. Il libano si trasformò a tutti gli effetti in un campo di battaglia. Negli anni a venire gli israeliani persero nel Libano meridionale una cifra di militi pari alla somma delle perdite di tutte le guerre sostenute in passato contro lo stato o gli stati arabi di volta in volta considerati nemici. Alla fine, cioè nel 1983 – 1984 anche le truppe di pace furono colpite dalla furia di un conflitto che sembrava non dover mai finire, con i presidi americano e francese che correvano gli stessi pericoli delle basi degli autoctoni fatte saltare da camion suicidi armati di tritolo. Dopo le pressioni del governo di Damasco e gli episodi accaduti nel giro di due anni appena, e sotto
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pressione di Damasco, Amyn Gemayel cancellò gli accordi con la Siria e si dimise dall’incarico di capo di governo.
Il processo di pace
Il dopo Begin
Al momento delle sue dimissioni Begin non aveva un successore. Dopo alcune discussioni all’interno del Likud , emerse la figura di Shamir, benché fortemente compromessa col massacro di Sabra e Chatila. Begin, a parte qualche lodevole iniziativa, non era stato un buon politico. Israele si trovava in condizioni difficili, sia economiche, sia a causa di un tessuto sociale fortemente lacerato. Relativamente poi alla questione palestinese lo stesso governo e la stessa opinione pubblica ebraici non avevano le stesse convinzioni. Ad esempio forte era la contraddizione tra ebrei sefarditi e ashkenaziti. L’agricoltura era depressa a causa di mancanza di mercati esteri affidabili. La politica degli insediamenti e le risorse militari spese in Libano avevano causato un tasso di inflazione che nel 1983 era del 400% annuo e un debito pubblico decuplicato dal 1977. Il governo Shamir fu perciò costretto nel mese di ottobre del 1983 ad imporre un piano che trasformava titoli bancari in obbligazioni statali, redimibili in 5 anni, e nelle settimane seguenti a svalutare lo shekel del 23% per controllare il debito con l’estero. Vennero introdotte nuove tasse e limiti sulla quantità di valuta acquistabile per chi si recava all’estero. Queste misure non risolsero però completamente la situazione. Nel 1984 la defezione dalla coalizione di governo della lista Tami, determinò il governo a indire elezioni anticipate. I laburisti guidati da Peres vinsero di misura ma data la incapacità di costituire una stabile coalizione optarono per un governo di unità nazionale alleandosi al Likud.
Uno dei primi provvedimenti del nuovo governo fu il ritiro dal Libano, lasciando una presenza militare a ridosso del confine. In questo modo fu possibile riallacciare rapporti con l’Europa e con gran parte dei Paesi africani. A livello interno un rigido controllo dei salari e dei prezzi ridusse l’inflazione. Il commercio con l’Europa aveva avuto negli anni esito negativo, ragion per cui il governo negoziò un’area di
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libero scambio con gli Stati Uniti per un certo numero di prodotti agricoli e industriali. Infine sempre a livello interno le aziende pubbliche in perdita furono ristrutturate, nel campo dei trasporti marittimi, ferroviari ed aerei. Infine nel 1986 vennero ristabiliti i rapporti con l’Egitto grazie ad un arbitrato della suprema corte dell’Aia che decise in favore dell’Egitto la questione della sovranità del porto di Taba, che venne considerato parte della penisola del Sinai.
Il faticoso avvio del processo di pace
Rimaneva irrisolta la questione più delicata, ossia quella relativa ai territori occupati. Già nel 1977 il primo ministro israeliano in più occasioni aveva dichiarato di essere favorevole ad una ripartizione territoriale che prevedesse l’estensione della legge giordana alla West bank. In tal senso i primi contatti privati tra Hussein e Peres avvennero nel 1987 a Parigi e a Londra con il benestare degli Stati Uniti, il tacito supporto egiziano ma all’insaputa del Likud e dell’OLP. I due leader ipotizzarono di sottomettere la questione all’ONU e al suo Consiglio di Sicurezza. Quando l’anno successivo il Likud si avvicendò al governo e la situazione pregressa si venne a sapere, Shamir parlò di tradimento e Arafat precisò che non era sua intenzione convivere con lo Stato di Israele. Le elezioni del 1988 diedero vita a un governo di unità nazionale, che a sua volta determinò una situazione di stallo nella quale re Hussein ebbe la sua parte. Hussein e il suo paese avevano sempre pagato lo stipendio di funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, insegnanti, la moneta era rimasta la stessa e i programmi di insegnamento nelle scuole palestinesi rette da leggi giordane, erano gli stessi che in Giordania. Hussein si era anche impegnato ad investire fondi per costruire case, strade, scuole e per migliorare il porto di Gaza. Ma ora dato che le cose tra palestinesi e ebrei nelle zone contese non cambiavano perché ne mancava la volontà, allora cessava anche l’impegno della Giordania verso un possibile e stabile accordo di pace. Un altro cambiamento non era stato ancora previsto, ossia il malcontento palestinese che esplose lungo il confine giordano.
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L’intifada ovvero il risveglio palestinese
Nel 1986 i Palestinesi dei territori erano 1.261.000 di cui mezzo milione viveva a Gaza. I problemi dell’area, innanzitutto a carattere economico e nonostante le dichiarazioni ufficiali del governo israeliano erano sempre gli stessi, ossia lavori di poco conto, analfabetismo diffuso, stagnazione della mobilità sociale. A ciò si aggiungeva il peso della occupazione israeliana, forte di 120.000 soldati. Altro elemento da considerare era lo spostamento del gruppo dirigente dell’OLP a Tunisi con conseguente assenza di tutela verso i Palestinesi dei territori, anche quella minimale garantita dall’OLP. Tuttavia le frange palestinesi stanziate in Israele concepirono un proprio progetto per riuscire ad eliminare i problemi di convivenza con Israele. Essi proposero la prospettiva di un Grande Israele inteso come stato binazionale, in cui agli arabi fosse riconosciuto anche un margine di rilevanza politica a causa del dato numerico indicativo della popolazione araba, cioè un valore assai alto e che chiedeva di non essere trascurato. Questo disegno ovviamente non piacque a Israele che per parte sua incoraggiava i Palestinesi a acquisire la cittadinanza giordana o comunque ad attraversare il Giordano. Poiché le differenze ideologiche continuavano si vennero formando all’interno del mondo palestinese alcuni raggruppamenti organizzati militarmente, il più importante dei quali era Hamas, la cui ideologia propugnava principi socialisti e li cementava con il richiamo alla tradizione, cioè alla pratica coranica, ed accettava la violenza come metodo di lotta politica. Nei territori e in sinergia con l’OLP, Hamas costruì moschee, scuole coraniche, ospedali. Hamas si diffuse rapidamente in alcuni villaggi dei territori e sebbene a volte in contrasto con l’OLP tenne ferma la determinazione a favore della causa palestinese.
Nel novembre del 1986 vi fu una poderosa insurrezione da parte dei palestinesi della West Bank e di Gaza, innescata da un banale incidente stradale tra due vetture guidate l’una da un israeliano e l’altra da palestinesi, senza che le autorità israeliane si attendessero una simile eventualità. Altrettanto inattesa fu la rapidità organizzativa dell’Intifada. Più di 70.000 lavoratori scesero in sciopero, i
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commercianti smisero di pagare le tasse e la popolazione cominciò a boicottare i prodotti israeliani. Il mantenimento o il ripristino dell’ordine nelle zone interessate costò a Israele ingenti somme, come costò ingenti somme per il tempo in cui durò, l’Intifada, cioè tutte quelle iniziative che intendevano colpire economicamente Israele. Una volta repressa la rivolta, che peraltro fece il giro dei media internazionali, Israele pose nel 1990 e permanentemente 10.000 uomini come mezzo di controllo e di tutela dell’ordine nelle aree interessate dai torbidi.
Il movimento dell’Intifada suscitò come detto notevole attenzione da parte dell’opinione pubblica internazionale, schierata a favore dei palestinesi contro l’intransigenza israeliana nei territori. Sempre nel 1990, usciti i laburisti dal governo per alcuni disaccordi con i conservatori del Likud, Shamir ebbe mano libera per accentuare la politica di penetrazione nella West bank e a Gaza.
Intanto Arafat aveva dichiarato in sede internazionale di essere d’accordo nel venire incontro alle esigenze israeliane, attraverso la ratifica delle risoluzioni ONU relative alla soluzione del conflitto. Arafat era di nuovo al centro dell’attenzione e gli Stati Uniti, appreso questo nuovo atteggiamento di buona volontà presero subito contatti con l’OLP. I motivi dell’apertura da parte di Arafat erano molteplici. In primo luogo vi era la necessità di controllare l’Intifada cioè un movimento privo di direzione e sostanzialmente spontaneo. In secondo luogo Arafat pretendeva di sedere su un piano di parità con Hussein e Peres che sembravano voler avviare trattative a sua insaputa con altri gruppi filopalestinesi. In terzo luogo l’OLP valutò la possibilità di gestire i flussi di immigrati provenienti dall’URSS. Infine Arafat voleva assicurarsi l’attenzione dei Paesi musulmani della Lega araba, che si mostravano totalmente impegnati a livello diplomatico con la guerra tra Iraq e Iran, trascurando le esigenze palestinesi. A proposito della guerra, i palestinesi si schierarono in massa a favore di Saddam Hussein, ritenendo in questo modo di avvicinarsi anche agli altri Paesi arabi in sede diplomatica, suscitandone una maggiore attenzione verso la questione palestinese. Le conseguenze di questa scelta a livello internazionale furono catastrofiche. Il governo israeliano si chiuse a riccio su qualunque tipo di apertura,
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mentre anche l’Occidente prese le distanze da Arafat, e in particolare gli Stati Uniti rinsaldarono la loro alleanza con Israele.
Una volta finita la guerra, e sempre a causa delle dichiarazioni di Arafat, lo sceicco del Kuwait espulse dal proprio territorio 200.000 lavoratori palestinesi, ai quali corrispondeva il 30% del prodotto interno lordo del paese. Anche in Israele molti palestinesi erano stati sostituiti con immigrati dalla Russia.
Dopo la guerra del Golfo gli USA assicurarono aiuti a Egitto e Siria per i danni di guerra, ed espressero l’impegno di ristabilire nei territori una situazione identica a quella di prima della guerra del 1967. La pace con Israele, voluta sia dagli USA che dall’URSS si basava su un accordo che garantiva a Israele il risarcimento dei danni di guerra a condizione di un parziale ritiro dai territori.
Nel 1991 venne indetta la Conferenza di Madrid cui parteciparono alcuni Paesi del mondo arabo insieme a USA e URSS e ovviamente Israele. I colloqui proseguirono fino al 1993. Le questioni sul tappeto erano le solite e interessavano i rapporti civili e militari tra Israele egli altri paesi dell’area. Si pervenne tuttavia di comune accordo ad una distensione nell’area dei territori che interessò anche Israele. Tra tutte le questioni poste sul tappeto ve ne era però una che Israele non avrebbe mai risolto come da tutti auspicato, cioè concedere l’autonomia politico–guridica ai palestinesi dei territori.
Gli accordi di Oslo
Intanto le elezioni israeliane del 1992 avevano premiato ancora una volta Shamir, il quale tentò delle caute aperture verso i Palestinesi, ciò che gli alienò l’appoggio di alcuni partiti della coalizione di cui Shamir era a capo, provocando la caduta del governo. In tale contesto un elemento di rottura fu costituito da una nuova ondata di immigrati dall’URSS, che non vedevano di buon occhio il partito conservatore, il Likud. Ed infatti nelle nuove consultazioni elettorali il Likud perse con ampio margine di scarto a vantaggio del partito laburista. Intanto mentre da un lato si tentava di riprendere le trattative iniziate a Madrid, l’Intifada continuava e molti si chiedevano se Arafat fosse ancora in grado di controllare il movimento. Va anche
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evidenziato che nel frattempo un gruppo di professori del Dipartimento di scienze applicate di Oslo favorì contatti ufficiosi tra Arabi palestinesi ed esponenti del governo israeliano. Nell’agosto 1993 anche grazie all’iniziativa di Oslo venne stesa la prima bozza della “Dichiarazione di principi” ratificata a Washington il 13 settembre, cui seguirono però dure contestazioni sia da parte palestinese che ebraica. I punti della dichiarazione erano i seguenti: riconoscimento reciproco tra OLP e Israele, ritiro da Gaza e Gerico da parte Israeliana, con instaurazione di una sovranità palestinese. Dopo un periodo di cinque anni ritiro ebraico dalla West bank con cessione della sovranità ai palestinesi. Gli israeliani si sarebbero limitati a presidiare il territorio, e sempre a loro sarebbe spettato anche il controllo sulla amministrazione giudiziaria.
Successivamente Israeliani, Palestinesi e Giordani si impegnavano ad avviare e concludere accordi definitivi per un definitivo assetto delle loro entità nazionali, compresa la risoluzione dello spinoso problema di Gerusalemme, che però anche insieme alla questione degli insediamenti e dei rifugiati politici sarebbe stato risolto progressivamente in seguito. Il 26 ottobre sempre del 1993 vene siglato l’accordo di pace con la Giordania, che in questo modo ripristinava relazioni diplomatiche e commerciali non solo con Israele ma anche con Tunisi, Marocco, Oman e Qatar. Israele, grazie alle aperture nei confronti dei palestinesi cui aveva aderito cominciò a beneficiare di un più favorevole atteggiamento internazionale nei suoi riguardi.
Le difficoltà di applicazione
Gli accordi intercorsi tra Israele e Palestina furono accompagnati da alcune azioni violente. Il 13 settembre due esponenti di Hamas furono uccisi in un regolamento di conti, ribadendo la distanza dell’OLP dalle frange estreme del movimento di liberazione. Nel 1994 nella moschea di Hebron un militante del Kach, organizzazione fondamentalista sionista, uccise 29 palestinesi in preghiera. Inoltre bisogna ricordare che sempre mentre si trattava per la pace l’esercito di Israele era impegnato contro gli Hezbollah del Libano meridionale, sempre a causa della questione degli insediamenti. Intanto i negoziati continuavano. Il 29 aprile 1994 a
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Parigi venne firmato il protocollo sui rapporti economici tra Israele e OLP. Il 4 maggio al Cairo Rabin ed Arafat si accordarono su un piano dettagliato per il ritiro da Gaza e Gerico che iniziò il 17 maggio. Il 7 giugno israeliani e giordani ratificarono un’intesa sui confini e sulle risorse idriche e ambientali. I trattati vennero sottoscritti alla presenza del Presidente Clinton come garante.
Nonostante tutti i progressi compiuti sul piano degli accordi di pace il 1995 si aprì all’insegna dell’incertezza e della violenza. Il 22 gennaio morirono su un autobus fatto esplodere più di 20 persone. Il 28 settembre nonostante tutto, vi fu un accordo siglato a Taba che stabiliva il ritiro israeliano da altre città e villaggi palestinesi, accompagnato da un timido tentativo di Arafat di indire nuove elezioni. L’accordo di Taba non risolse la situazione in quanto venne rifiutato da Siria, Libia e Iran.
Il tentativo di accordo di Taba isolò il suo promotore principale cioè Rabin, che in sede di Knesset rimase in minoranza a vantaggio del Likud e dei partiti conservatori. L’assassinio di Rabin suggellò la insormontabile difficoltà di condurre alla pace la regione dei territori. Questa forte difficoltà si manifestò anche alle elezioni del 1996 vinte dal Likud ma di stretta misura sui laburisti.
Ovviamente la morte di Rabin impressionò tutti, Occidentali, Palestinesi, ebrei sionisti e moderati, laici e religiosi, sollevando sempre gli stessi problemi e le stesse riflessioni, cioè la stabilità della democrazia in Israele, il rapporto con gli arabi, la reazione degli stati della Lega araba , la possibilità di conservare una pace duratura.
Nella sua campagna elettorale Netanyahu fece leva proprio su queste paure.
Il capo del governo israeliano di fronte alle pressioni di Clinton, cercò di limitare le ingerenze americane, appoggiando in USA il Partito conservatore cioè il partito repubblicano. Il massimo punto di crisi si verificò nel 1997quando Netanyahu annunciò la costruzione di un nuovo insediamento ad Har Homa. Gli Stati Uniti favorirono questa scelta ponendo il veto in Consiglio di sicurezza ONU. Per tutta risposta Arafat minacciò la compromissione dell’ordine pubblico in quelle zone e in tutti i territori. Dal 21 marzo furono 23 le persone che rimasero vittime di attentati di matrice palestinese. In risposta gli israeliani al governo sanzionarono
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economicamente le zone controllate dai palestinesi. Nonostante Netanyahu si fosse comportato esattamente come i suoi predecessori, tra il 1997 e il 1998 ratificò l’accordo su Hebron e il compromesso di Wye nel Maryland. Con il primo si disponeva il ritiro israeliano dall’80% del territorio di Hebron. Con il secondo di decideva il ritiro per il 90% dai territori occupati e il trasferimento di funzioni all’ANP. L’accordo non ha ad oggi avuto applicazione. In sospeso rimangono ancora oggi l’accordo con la Siria, il ritiro israeliano dal sud del Libano e lo Statuto giuridico di Gerusalemme. Questo il quadro assai complesso che fu lasciato in eredità politica a Barak.
Le premesse dei negoziati di Camp David II
Il programma elettorale di Barak, per ciò che concerneva la politica estera prometteva oltre al ritiro dal Libano meridionale, un accordo con siriani e palestinesi da realizzarsi al massimo in due anni. I negoziati di Camp David dovevano considerare alcune questioni pregiudiziali sulle quali non si poteva transigere: Gerusalemme capitale unita di Israele, l’assenza di ritiro totale dai territori conquistati nel 1967, nessun esercito palestinese o straniero al di là del Giordano, una amministrazione israeliana nella maggioranza degli insediamenti palestinesi nei territori.
La ripartizione dei territori concordata col trattato di Taba nel 1995 era la seguente:
- La zona A, comprendente il 3% della Cisgiordania e il 20% della popolazione palestinese, posta sotto controllo della autorità palestinese.
- La zona B, circa il 27% del territorio su cui è concentrata la quasi totalità dei 4.540 villaggi palestinesi, affidata ad una amministrazione congiunta, l’ordinaria affidata ai palestinesi, la politica di sicurezza agli israeliani.
- La zona C, più del 70% del territorio, controllata da Israele.
Arafat, nonostante le limitazioni contenute nel trattato era riuscito ad ottenere, dall’epoca della conclusione del trattato, un corpo armato di 40.000 poliziotti, un aeroporto a Gaza e il controllo sul 70% del territorio palestinese e della relativa
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popolazione. Inoltre con la nomina di osservatore all’ONU con il nome di Palestina, l’ANP era stata formalmente riconosciuta.
Accennando per sommi capi ad una analisi sociologica del problema palestinese, ma anche di alcune categorie di ebrei che si trovano ai margini della società,va detto che queste persone sentono un senso di frustrazione che dipende dall’assenza di opportunità che per i più, e si parla di gente di età anagrafica che si aggira intorno ai vent’anni, si traduce nell’attribuzione della responsabilità di tale situazione alla elite israeliana. Purtroppo la politica israeliana è quella di una aggressiva acquisizione di sempre nuovi spazi nelle aree contese con i palestinesi, che si traduce nel trasformare gli arabi che vivono nei territori contesi in una massa di profughi ogni qual volta viene realizzato un nuovo insediamento da parte israeliana, e chiaramente queste azioni di forza da parte di Israele si traducono nella perpetuazione di attentati sia nei confronti dei militari sia nei confronti dei civili israeliani e ovviamente vale anche il contrario. Ma dato che l’organizzazione delle forze militari israeliane è più efficiente di quella palestinese, che manca del tutto di ordine e di mezzi militari, allora si verifica che i musulmani dei territori hanno quasi sempre la peggio in termini di perdite umane.
Ma torniamo a parlare del processo di pace. Al momento del loro incontro sia Arafat che Barak erano indeboliti, l’uno a seguito delle dimissioni di sei ministri, l’altro dall’insofferenza crescente della popolazione per le accuse di corruzione e brutalità al suo sistema di polizia e per l’incapacità da parte sua di controllare efficacemente le azioni degli integralisti. Il punto di disaccordo totale e che determinò l’ennesimo insuccesso nella trattativa di pace a Camp David, fu per Barak la questione dei rifugiati, con rifiuto da parte del premier israeliano di assumersi responsabilità al riguardo. Da parte di Arafat vi sarebbe stata una pedissequa riproposizione del necessità di rispettare le risoluzioni ONU che prevedevano il ritorno dei profughi e il ritiro israeliano.
A smuovere la situazione di stallo creatasi dopo il nulla di fatto a Camp David II, intervenne la provocazione di Sharon con la passeggiata sulla spianata delle
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moschee, con la quale il leader del Likud violava una serie di accordi che a suo tempo avevano riservato quell’area di Gerusalemme ai soli fedeli islamici, provocando un certo numero di disordini e di vittime.
Il problema dei profughi
Con la nascita dello Stato israeliano 750.000 Palestinesi abbandonarono le loro case e i loro averi per riparare nei paesi limitrofi di cultura araba. In precedenza, cioè quando lo stato ebraico era nella sua fase embrionale di costituzione non si era neanche posto da parte di chi di dovere il problema di una convivenza con una minoranza araba. Gran parte dei discendenti dei profughi che all’epoca della nascita di Israele lasciarono la Palestina sono oggi in prevalenza abitanti in Giordania.
All’interno dei negoziati di pace, sono stati costituiti due comitati competenti in materia. Il primo è stato costituito dopo Madrid, e si basa su scelte politiche che vorrebbero escludere i Palestinesi dal contesto nazionale per inviarli nei paesi limitrofi. Il secondo comitato si interessa invece dei ricongiungimenti familiari. Un terzo comitato è sorto con gli accordi di Oslo, e vede la partecipazione dei paesi dell’area a favore della ricollocazione delle cc.dd. “displaced persons”, cioè del ritorno dei profughi nei loro paesi d’origine. Ciò che in quella sede, cioè per il dopo Madrid, si è concordato è il ritorno di 80.000 Palestinesi nei territori.
La Conferenza di Ottawa costituisce al momento la sintesi più aggiornata, risalente al luglio 1999 sul contenzioso dei profughi Palestinesi. Esistono in proposito risoluzioni ONU che riconoscono il diritto palestinese al ritorno e al compenso per i danni subiti. La posizione relativamente alla questione da parte degli USA in sede di negoziato è stata ambivalente, poiché da un lato si sono astenuti dal condannare la politica israeliana, dall’altro hanno manifestato un atteggiamento favorevole al rientro in Israele delle “displaced persons”. La posizione del governo di Barak sul punto è stata assai più dialogante di quella dei suoi predecessori e si è tradotta nel concedere ad Arafat il ritorno di un buon numero di displaced persons, non però nei territori che erano stati arabi fino al 1948, ma negli attuali insediamenti.
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Da parte israeliana le soluzioni al problema degli insediamenti ruotano intorno a due scenari principali. Il primo prevede un progetto viario che colleghi tra loro gran parte delle colonie escludendo quelle controllate dall’autorità palestinese ed evitando di attraversarle, ma per fare ciò sarebbe necessario confiscare altre terre per realizzare i collegamenti adeguati. Il secondo scenario prevede di evacuare i palestinesi concedendo loro un rimborso adeguato. I motivi della preoccupazione e del disaccordo palestinesi sono comunque prevedibili, in quanto innanzitutto essi accusano Israele di averli privati delle ricchezze del territorio, e in secondo luogo affermano che i territori comprati da Israele e quindi tolti ai Palestinesi sino al 1948 sarebbero ancora dei primi proprietari, cioè arabi e Palestinesi. Ma vi è anche un terzo punto che riguarda il diritto internazionale, in base al quale le risoluzioni ONU che vengono rivendicate dai Palestinesi prevedono un totale abbandono da parte di Israele dei territori occupati dal 1948.
E’ quindi evidente che il problema degli insediamenti, a lungo rimandato in sede internazionale è l’ostacolo decisivo al processo di pace ed è prodromico a tutte la altre questioni diplomatiche e militari che interessano il medio oriente e i paesi arabi da un lato, Israele dall’altro.
La questione di Gerusalemme
Gerusalemme venne dichiarata capitale di Israele nel 1980, previa approvazione dell’esecutivo e del parlamento israeliani. Nel 1983 però una risoluzione ufficiale dell’ONU invalidò la decisione della Knesset e di Begin, allora premier di Israele.
Le dinamiche di insediamento da parte israeliana a Gerusalemme si delinearono dopo la guerra dei sei giorni, quindi a partire dal 1967. Le esigenze che motivarono la costruzione di abitazioni per gli Ebrei erano di due tipi: innanzitutto si trattava di creare una continuità demografica tra la parte occidentale della città e il monte Scopus. Il piano regolatore del 1968 prevedeva due fasi successive di insediamento. La prima consisteva nel popolamento delle aree disabitate, la seconda prevedeva la
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costruzione di una cintura di insediamenti, sulle alture circostanti in modo da controllare l’intera regione intorno a Gerusalemme.
I Palestinesi dal canto loro rivendicano i propri diritti su Gerusalemme, oltre che argomentando ragioni storiche, anche per la forte presenza di popolazioni arabe, per l’iniquità degli espropri e il prelievo fiscale sugli immobili considerato discriminatorio.
Un altro nodo spinoso riguarda la città antica cioè il centro di Gerusalemme, uno spazio di appena 4 Km quadrati in cui sono concentrati la maggioranza dei simboli delle tre religioni monoteistiche. Gli israeliani, impedendo la costruzione di abitazioni arabe nel comprensorio urbano della città hanno invece favorito costruzioni ebree e cristiane nell’hinterland così impedendo ai musulmani arabo/palestinesi di insediarsi nel centro. La Knesset in tutti i suoi componenti ha di Gerusalemme la stessa idea, cioè quella di capitale dello stato di Israele. I Palestinesi per parte loro continuano a invocare la risoluzione ONU che imponeva di considerare Gerusalemme, come dotata di uno status internazionale garantito, quindi anche palestinese, sotto l’egida sempre delle Nazioni Unite. Le proposte che vari studiosi del problema relativo alla convivenza in Gerusalemme degli esponenti delle tre religioni del Libro son state diverse e in sostanza hanno avuto ad oggetto la risoluzione, su un piano civile e tale da non scontentare nessuno, delle contrapposizioni che impediscono in Gerusalemme la pacifica convivenza tra i fedeli delle tre religioni.
La strada da percorrere è ovviamente lunga e le ipotesi elaborate per garantire la pace sono non abbastanza convincenti e condivisibili sempre nell’ottica di favorire un processo di pace che, in qualunque modo venga concepito non deve provocare negli interessati le forti emozioni negative che per esempio portarono all’assassinio di Rabin e successivamente al boicottaggio del suo progetto di pace. Ciò che vale per Israele e Palestina vale in piccolo anche per Gerusalemme. Se si riuscisse a sancire per via diplomatica la separazione di Gerusalemme in due aree, una ebraica e cristiana e una araba il problema della convivenza delle tre etnie sarebbe
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agevolmente risolto. A suo tempo Barak aveva proposto un’amministrazione palestinese a Gerusalemme est e nei luoghi sacri all’interno della città antica.
Nel negoziato di Camp David, per la prima volta si è affrontato il problema della amministrazione della città. La proposta israeliana prevedeva la separazione del settore orientale da quello occidentale. La divisione della città antica contemplava invece l’attribuzione del quartiere ebraico ed armeno agli Israeliani e di quello cristiano e musulmano ai Palestinesi. Il problema, non risolvibile mediante spartizione era però relativo alla spianata delle moschee e al Monte del Tempio, luoghi che a cagione della propria valenza profondamente religiosa non possono ammettere spartizioni perché interessano tutte le religioni praticate in Gerusalemme.
La posizione siriana
Il problema che ha da sempre coinvolto le relazioni tra Israele e Siria è relativo alla conquista da parte di Israele durante la guerra dei sei giorni delle Alture del Golan. Al fine di trovare, inizialmente, una soluzione diplomatica da parte del premier Assad, si sostituì l’intento di dotarsi di risorse militari che evitassero un peggioramento della situazione e magari col tempo di raggiungere una potenza militare tale da riuscire a riconquistare i territori sottratti alla Siria durante la guerra. Ciononostante la Siria non riuscì mai a controbilanciare la potenza israeliana, anche per le difficoltà di politica interna in cui si trovava il paese. Vi furono anche altri motivi che scoraggiarono iniziative militari siriane contro Israele. In primo luogo in quanto quest’ultimo disponeva della bomba atomica, in secondo luogo in quanto non si poteva fare appello alla unità dei Paesi arabi, date le rivalità e le contrapposizioni tra i vari leader dell’area. Infine col cessare della guerra fredda la Siria non poteva più contare sull’aiuto sovietico.
La volontà da parte di Assad di mantenere gli eserciti siriani in Libano lo convinse a rivolgere le proprie attenzioni diplomatiche agli USA e a tentare accordi con Israele.
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Tali accordi vi furono a causa del fatto che, indebolito l’Iraq a causa della guerra del golfo la Siria rimaneva l’unico problema per quanto riguardava la sicurezza nell’area mediorientale.
Gli intricati negoziati che si susseguirono tra il 1992 e il 1996 raggiunsero una intesa articolata in tre punti. Israele si impegnava al ritiro dal Golan a condizione di poter garantire la protezione militare nei suoi confronti. La Siria si impegnava a concludere un accordo di pace con Israele e a garantirne i confini, ad esempio con la Giordania. Infine anche il Libano avrebbe ratificato un accordo di pace con Israele.
I negoziati subirono uno stallo a causa degli attentati compiuti da Hamas nel 1996, e il cambio di governo israeliano disdisse la politica degli accordi di pace, e dichiarò che la situazione del Golan sarebbe rimasta quella del 1967, senza nulla togliere né aggiungere. Ciò però era molto difficile date anche le caratteristiche della Siria.
La situazione della Siria a livello interno era costituita dalla mescolanza di diversi gruppi etnico – religiosi al cui equilibrio si rendeva necessario quale garante della pace sociale un governo dispotico. La rivoluzione baathista che si verificò negli anni sessanta e che pose Assad al potere fu un avvenimento che riuscì a integrare nell’organizzazione nazionale anche le componenti marginali del paese, cementando l’unità nazionale, ciò che ha garantito sempre ad Assad la gestione assoluta del potere per lungo tempo. Una volta deceduto, Assad fu sostituito da suo figlio il quale addirittura giunse a rivendicare i confini precedenti al conflitto del 1948. Si tratta di poche decine di metri ma che sono fondamentali per garantire l’accesso al lago di Hula e a parte del lago di Tiberiade.
Il Libano
Quanto all’occupazione israeliana del Libano essa era concentrata sul 10% del Paese. Le prime forme di resistenza libanese cominciarono il 16 ottobre 1983 quando un convoglio militare israeliano si intromise nella folla che era intenta a celebrare la festa religiosa sciita di Ashura. Ciò provocò l’emissione di una fatwa a danno degli ebrei. Il 16 febbraio 1985 fece il suo debutto Hezbollah, il partito di Dio, i cui componenti si ripromisero di cacciare Israele dal Libano.
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La Siria avrebbe potuto agevolmente intervenire in un contesto di guerra sempre più sanguinoso e più critico ma rinunciò a causa del proprio isolamento internazionale. Tenendo conto di ciò la Siria tentò di avvicinarsi all’Iran. I motivi che determinarono Israele a persistere nella propria politica di occupazione del Libano traevano ovviamente fondamento da trattati internazionali. In particolare alla conferenza di pace di Versailles ad Israele era stato assegnato un territorio che si estendeva sino al fiume Litani, in Libano, e l’invasione del Paese da parte israeliana era perciò giustificata in sede internazionale. Questo tipo di argomentazione era tuttavia abbastanza futile. La realtà era che Israele stava mettendo in atto semplicemente una politica di potenza. Oppure la spiegazione è un’altra. All’atto della fondazione dello stato di Israele nel 1948 Ben Gurion espresse l’intenzione di trasformare il Libano in uno stato cattolico alleato di Israele. E questo progetto fu probabilmente tentato da Sharon nel 1982. In quest’ottica il governo isreliano aveva già dagli anni settanta cominciato a sostenere i militari cristiano-maroniti con forniture di viveri e armi, nonché ovviamente denaro.
Tuttavia la decisione del governo Barak di ritirarsi dal Libano tendeva a ricavare da tale favore, concesso alla Siria mediante il ritiro, che quest’ultima non tentasse azioni militari contro Israele a causa della vertenza del Golan.
Sempre per quanto riguarda il Libano, gli Hezbollah sono consapevoli che il loro ruolo in ottica di guerra ha un senso solo finché Israele costituisce una minaccia e non vedono con ostilità la presenza di truppe siriane a protezione del confine.
In tempi recenti gli equilibri nell’area mediorientale si sono saldati con quelli dell’Asia centrale e in particolare a causa dell’attacco statunitense all’Afghanistan, che ovviamente ha ridisegnato lo scenario geopolitico nell’area. La guerra in Afghanistan è ovviamente il risultato dell’attacco alle torri gemelle da parte di terroristi legati ad una organizzazione nota come Al–Qaeda il cui leader Osama bin Laden pare discendere da una illustre stirpe di origine araba. E proprio l’Arabia Saudita ha a cuore il problema dell’area degli insediamenti e della questione di Gerusalemme. La risoluzione pacifica del contenzioso gioverebbe anche ai sauditi,
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in quanto non più nel mirino di organizzazioni terroristiche anche di origine saudita che minaccerebbero la penisola arabica.
Infine c’è l’Egitto, dotato di una consistenza demografica che è la più alta tra i Paesi dell’area, e il cui presidente Mubarak è un interlocutore privilegiato degli Stati Uniti e di Israele. Questo è ad oggi lo stato della questione.