martedì 19 agosto 2025

E veniamo alla parte seconda, destinata innanzitutto a coloro i quali siano stati positivamente impressionati dalla parte prima del presente lavoro. Riassumendo la parte del aggio che propongo ai potenziali lettori, si tratta di alcune considerazioni in merito alla Fede, ovviamente la Cattolica, come susseguenti ad una esclusivissima intervista che il vaticanista Vittorio Messori riuscì a realizzare durante un colloquio, ovviamente il più informale possibile, nientemeno che con Sua Santità dell'epoca, cioè Papa Giovanni Paolo II. Senza voler ulteriormente tediare la curiosità dei lettori, lascio a loro, la lettura e il giudizio su quanto segue.

 Parte seconda: considerazioni su un dialogo di Fede

Ciò che, come anticipato, costituisce l’argomento della presente seconda parte dello scritto che sottopongo al lettore, si fonda su un argomento specifico, a sua volta contenuto in un’opera in particolare: l’opera “Varcare la soglia della speranza”, libro/intervista a Papa Giovanni Paolo II da parte del vaticanista Messori.

Prima di cominciare mi si consenta però di aprire una breve parentesi a carattere storico/giuridico, in riferimento a ciò che costituisce il sostrato normativo ai rapporti tra Stato Italiano e Santa Sede. Innanzitutto per quanto riguarda la normativa di carattere fondamentale, cioè quella contenuta nella Nostra Costituzione, e a monte degli avvenimenti del 1870, cioè “presa di Roma” da parte delle forze dell’allora Regno d’Italia, cui fece seguito la nascente Città del Vaticano, che sorse sulle rovine della precedente entità statuale, cioè lo Stato Vaticano, essa Città del Vaticano

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continuò a mantenere il carattere di entità statuale, pur avendo perduto la sovranità su gran parte dei territori della entità stauale preesistente. Va detto anche, tralasciando le molte normative intese a regolamentare i rapporti tra Italia e Santa Sede immediatamente dopo la presa di Roma e poi successivamente, cioè tra il 1870 e il 1948, che gli articoli della Carta Costituzionale che risposero, con vocazione alla immodificabilità, a tali annose esigenze di regolamentazione, sono, a partire dal 1948, anno di entrata in vigore della Costituzione, l’art.7 e l’art.8 della medesima Costituzione, in particolare il primo, l’art.7, riferentesi ai rapporti tra Stato Italiano e Santa Sede su base internazionalistica, cioè nel senso della regolamentazione dei rapporti tra due entità statali indipendenti l’una dall’altra, precisando che tali rapporti da quel momento si sarebbero intesi come disciplinati dai Patti Lateranensi, cioè dagli accordi a carattere internazionale stipulati nel 1929 tra il Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri dell’epoca, cioè Benito Mussolini, e l’omologo rappresentante diplomatico della Santa Sede, Mons. Pietro Gasparri. Nell’art.7 in parola si stabilisce anche che tutte le modificazioni normative dei rapporti tra Italia e Santa Sede si intendono realizzate e automaticamente entrate in vigore senza la necessità di una modifica apposita dell’art.7, ma con legge ordinaria, ovviamente concordata tra le due Parti. La domanda che in proposito ci si potrebbe porre, considerando il contesto storico e gli equilibri politici, sarebbe relativa alla “ragione” per cui le forze comuniste, all’epoca fortemente presenti in Assemblea Costituente non decisero di eliminare dal testo costituzionale ogni riferimento alla religione cattolica e ai Patti del Laterano. Probabilmente Togliatti non ebbe comunicazioni in tal senso da Mosca, oppure le intenzioni di Stalin erano contrarie ad una “comunistizzazione” del nostro ordinamento a causa del pericolo di un risorgere del nazifascismo e di una recrudescenza degli scontri armati, che nel 1948, cioè l’epoca della definitiva entrata in vigore della Costituzione erano, almeno di fatto, cessati. Va detto che spesso si sente ripetere che il nostro Paese poggerebbe su una forma di Stato “laico” e spesso si invoca un presunto “principio di laicità” che farebbe, del Nostro, un Paese a ordinamento aconfessionale, cioè vi sarebbe una

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sostanziale libertà di culto ma senza che le esigenze del culto o dei culti vadano a interferire nella la vita democratica del Paese, cioè nel suo ordinamento giuridico. Io, che un po’ di diritto l’ho studiato, ritengo invece che lo Stato italiano sia uno stato “confessionale”, e ciò non in forza dell’art.7 della Costituzione, il quale pure è posto a disciplina della presenza del Cattolicesimo in Italia, Cattolicesimo inteso come religione; bensì in forza dei rapporti tra due entità statali a carattere internazionale, cioè su base meramente politica ovvero di politica internazionale. Cioè a dire che dato che ciascuno Stato che intrattenga rapporti diplomatici con qualunque altro Stato, nella gran parte dei casi è dotato di una sua propria forma di Stato peculiare, soprattutto e innanzitutto per quanto riguarda la forma di Stato, che in Italia è “democratica” mentre in Vaticano è “teocratica”, si verifica che paradossalmente il dialogo tra le due forme di stato sia definito dall’interazione e dal confronto tra uno Stato che si vorrebbe laico, e d’altra parte uno Stato che laico non lo è affatto. Ed è per questo che per tutto ciò che riguarda le tematiche etiche, che peraltro molti Paesi esteri hanno felicemente risolto concedendo una quasi totale libertà – e penso ai matrimoni gay, ma anche alla fecondazione assistita o alle decisioni inerenti il “fine vita” – occorre necessariamente scendere a patti con una entità giuridica che volendo può dire, sia a livello internazionale, cioè in quanto Stato, sia a livello religioso, cioè indirizzando il voto dei cattolici presenti in Italia, che se per ipotesi il Parlamento apre in qualche modo, anche cautamente, al riconoscimento delle unioni di fatto o sin anche ai matrimoni gay, il Vaticano ha facoltà di emanare per mano del Pontefice, una Enciclica che per ipotesi vieti ai cattolici italiani di votare, e questo perché in forza dell’art.7 esistono rapporti di dialogo e confronto su questo tipo di tematiche tra Italia e Santa Sede, in base ai quali le due entità statali possono far valere le proprie prerogative e le proprie istanze, l’una nei confronti dell’altra, legittimamente. Insomma la confessionalità dello Stato Italiano deriverebbe dal fatto che quando in ambito legislativo si viene a determinare un contrasto su una tematica etica, allora dato che l’etica soggiace alla legge, sempre in Vaticano e sulla base dell’art.7, lo stesso Vaticano in forza

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dell’art.7 sunnominato può far sentire la propria voce in quanto sul piano internazionale si tratta di un partner di “riferimento” per lo Stato Italiano, sulla base del Trattato e del Concordato del Laterano. In questo senso e nei limiti in cui la tematica etica viene a confondersi con l’attività del Parlamento Italiano, quest’ultimo è tenuto a considerare la rilevanza della posizione Vaticana in merito. Ciò non avverrebbe se l’Italia fosse uno Stato aconfessionale. Quanto all’art.8, la cui modifica si ebbe nei primi Anni ’80, essa modifica fu sottoscritta dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi e da Mons.Agostino Casaroli, quest’ultimo in rappresentanza della Santa Sede. L’art.8 cost., come modificato dall’accordo in parola, consente che in Italia, oltre alla religione cattolica, siano compresenti, ovviamente non come “partner internazionali” ma come associazioni a carattere privato, come a dire nella forma istituzionale di persone giuridiche o anche “enti morali”, anche altri culti o fedi o religioni che in Italia hanno un forte radicamento, il quale radicamento non è certo quello che, in termini temporali, può vantare il cattolicesimo, ma che comunque risale a secoli or sono. Sto parlando ovviamente della Chiesa valdese in Piemonte, dei Luterani nel Sud Tirolo, degli Albanesi, ROM e Slavi nelle Puglie, questi ultimi per lo più di credo Musulmano. La domanda quindi si rinnova: l’Italia è o non è uno Stato laico o aconfessionale? Io penso che sia, più che uno Stato aconfessionale, uno stato “pluriconfessionale”, data la quantità di culti ammessi e dato che questi culti, a cominciare dal Cattolicesimo romano, intrattengono in vario modo e periodicamente rapporti con lo Stato italiano.

Tornando a quanto inizialmente anticipato, cioè allo scritto avente ad oggetto l’intervista di Vittorio Messori a Giovanni Paolo II, per iniziare cercherò di interpretare in maniera originale la sunnominata opera e possibilmente ad attribuire alla relativa riflessione, un contenuto almeno in parte indipendente da ciò che costituisce la sostanza del libro, intendendo per sostanza, non tanto le domande dell’intervistatore, cioè del noto vaticanista Vittorio Messori, quanto soprattutto le risposte del Santo Padre, in modo tale da riuscire ad estrapolare da quelle stesse risposte, alcuni sensi di intendimento e osservazioni che consentano di andare oltre

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la superficie del messaggio Papale, per cogliere il vero senso di quel messaggio, cioè il suo senso cristiano.

La prima delle domande che Messori pone al Santo Padre è relativa al “come” nell’anno del Signore 1994, (epoca della pubblicazione dell’opera), si possa ancora giustificare la presenza tra i “Potenti della Terra”, di un uomo che asserisce, e con largo seguito e consenso, di essere il Vicario di Dio nei rapporti tra quest’ultimo e il genere umano. Se infatti è vero che il Dio di cui il Santo Padre è Vicario in Terra, è un Dio composto da tre Persone o Principi Ontologici (ossia, per i Cattolici la “Santissima Trinità”), tra essi perfettamente consustanziali sebbene distinti, cioè Padre, poi Figlio e infine Spirito Santo, compresenti e non susseguenti, nel tempo e nello spazio, allora deve per conseguenza affermarsi che il Papa rappresenta la Santa Trinità, o se non altro, almeno il Secondo Principio della Trinità, cioè il Figlio, il quale, quando i tempi furono maturi, per volere del Padre e per Opera dello Spirito Santo si incarnò nel seno di una donna ancora illibata, cioè la Santa Vergine e si fece uomo tra gli uomini, dando inizio, attraverso la propria morte e resurrezione, alla Chiesa cristiana, e istituendo Pietro quale suo successore; allora deve essere altrettanto vero che il Santo Padre in quanto Vicario di Cristo, ossia reggitore delle Cose del Mondo sino alla fine dei Tempi, svolga sulla Terra, in mezzo alla gente comune, la funzione di reggitore della Chiesa di Cristo (ossia la seconda Figura Ontologica della Trinità) in attesa che il “titolare” del Soglio torni dal Cielo per porre fine al presente ordine delle cose e per instaurare un nuovo ordine eterno. Come già accennato sulla base dei Vangeli, fu Cristo a investire di questo compito l’Apostolo Pietro, pronunciando le famose parole che tutti conosciamo relative alla fondazione della Chiesa cristiana, e al potere di Quest’Ultima su Cielo e Terra e finanche sulle Porte delle Tenebre, Chiesa che successivamente alla morte di Pietro e di Paolo in Roma divenne Chiesa cristiano/cattolica romana. In altri termini Cristo fece di Pietro il proprio successore e istituì in lui il primo Papa. La domanda che in riferimento a tutto ciò, Messori rivolge al Pontefice è relativa al rapporto sempre tra il Pontefice e il proprio ruolo di Vicario di Cristo.

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La risposta del Papa trae spunto da una semplice frase che, nelle Scritture del Nuovo Testamento Gesù rivolge a Pietro, ma non solo a lui, in diverse circostanze, come la rivolse prima ancora che Cristo la rivolgesse a Pietro, l’Angelo di Dio a Maria annunciandole che Ella sarebbe divenuta la Madre di Dio. Le stesse parole, cioè “Non abbiate paura” le rivolge anche il Papa, più volte durante il proprio Pontificato, a tutti coloro che credono in Gesù, ma hanno paura del peso del Suo Sacrificio, perché ritengono che non sia umanamente possibile “imitare Cristo” fino in fondo, benché ciò costituisca un dovere per ogni buon cristiano, e per evidenti ragioni. Ma soprattutto, afferma Papa Woityla, la paura ad oggetto di questa esortazione al coraggio in contrapposizione ad essa paura è in via definitiva relativa al rapporto di ciascun credente con la propria “intimità” e quindi con ciò che il Papa chiama “il cuore dell’uomo”. Il desiderio di attenuare la paura che è in sostanza parte dell’umana natura, si rivela, dice il Papa, anche nell’esortazione ad invocare il Padre Nostro con le parole che Gesù stesso ha pronunciato per la prima volta e di cui è resa testimonianza nei Vangeli. Ma qual è l’oggetto della paura di Pietro? Pietro ha paura di vedere Dio incarnato, di essere Suo seguace, Suo apostolo, e infine Suo amico. Quando, dopo l’Ultima cena, allorché Giuda tradì Gesù consegnandolo ai soldati di Roma, Pietro ebbe paura. Ebbe paura di condividere lo stesso destino del Suo Maestro e cioè di essere processato e condannato come Gesù sarebbe stato processato e condannato. Allora in preda alla stessa paura che Gesù tante volte lo aveva invitato ad abbandonare, lo rinnegò per tre volte, ciò che peraltro Gesù stesso gli aveva già precedentemente annunciato. Fu solo quando successivamente Pietro ebbe modo di constatare il ritorno del Suo Maestro dal regno dei morti, e quindi la Sua Resurrezione, che l’apostolo non ebbe più paura, ed ebbe davvero piena fiducia. E considerando la questione da tale prospettiva – dice il Pontefice –, non hanno alcuna importanza i titoli che vengono usualmente rivolti al Vicario di Cristo, Vicario quale anche Pietro fu, e cioè ad esempio “Santità” o “Santo Padre”. Ciò che conta davvero, che pone le basi della Chiesa è l’amore fraterno tra Gesù e Pietro, tra Gesù e Paolo, tutto il resto non conta. La Chiesa, “una

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e diffusa su tutta la Terra” ha quale pietra, quale testata d’angolo il rapporto tra Gesù e i Dodici tra i quali i più vicini al Maestro furono per l’appunto Pietro e Paolo, con la differenza che pur avendolo conosciuto entrambi, ciascuno di essi lo conobbe in modo diverso: Pietro personalmente, Paolo nel contesto di una visione spirituale. Ma anche la Fede in Gesù da parte di Pietro e Paolo non fu un qualcosa privo di cedimenti, di paure, di rotture, di sacrificio, fino alla morte di Croce, che fu un avvenimento presente anche nel contesto delle loro vite oltre che in quella del Maestro. Il problema centrale dei Vangeli è lo stesso problema che afflisse il Popolo di Dio durante i millenni in cui sempre il “Popolo di Dio”, cioè a dire il “Popolo ebraico” dispiegò, come vuole l’Antico Testamento, il proprio personale rapporto con Dio, con il quale, a suo tempo costituì una “Alleanza”: il problema del rapporto tra Dio e il Popolo che a partire da Giacobbe prese nome “Israele” è la scarsa Fede. E ciò in quanto la Bibbia, se non altro nell’Antico Testamento è un continuo mettere alla prova da parte di Dio la Fede del Suo popolo, un continuo allontanamento e successivo ricongiungimento tra Dio e Popolo Eletto. Maggiore era la fede in Dio da parte degli Ebrei, tanto maggiore era la prosperità e la serenità in grazia di Dio di quel popolo. Quando invece essi, gli Ebrei, si allontanavano dalla Fede, allora subivano le più tremende sventure, ad esempio l’esilio in Egitto o la schiavitù babilonese. C’entrerà, e senza fare voli pindarici, anche nelle vicende dell’Antico Testamento, la paura come origine delle sventure ebraiche: la stessa paura di cui parla il Santo Pontefice? Fin dove si può arrivare se la paura nei riguardi di Dio viene meno, se viene meno il timor sacri? Indubbiamente i due concetti di “paura”, quello neotestamentario e quello veterotestamentario danno luogo a due diverse prospettive nel rapporto individuale e anche collettivo con Dio. I Vangeli parlano di invito a non avere paura da parte di Gesù ai suoi discepoli perché seguano con fiducia il messaggio cristiano. Gli Ebrei dal canto loro spesso non hanno o non hanno avuto paura perché se avessero o avessero avuto paura allora non avrebbero, più volte, nel corso peraltro di millenni, contravvenuto alle Leggi che Mosè apprese sul Monte Sinai e consegnò al Popolo, Leggi incise sulle Tavole dell’Alleanza. Due

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concetti diversi di paura quindi, forse persino speculari. Ma torniamo a commentare lo scritto di Giovanni Paolo II. Nel primo capitolo del libro in parola, nelle battute finali della prima domanda che Messori rivolge al Papa, domanda articolata e ricca di spunti, quale solo un giornalista del suo livello sarebbe capace di porre, sempre il Messori, un po’ impudentemente, pone al Santo Padre la questione del “se” a momenti il Papa non dubiti, cioè del “se” non vi siano dei momenti in cui il Papa, nient’altro che come uomo e quindi a prescindere dal proprio ruolo, non si interroghi circa la “realtà”, o ancor meglio la tangibilità del proprio personale rapporto, prima col Dio dei cattolici, e poi con tutti coloro che in quel Dio, che è lo stesso di cui il Papa “fa le veci” qui sulla Terra, credono “fermamente”. Ovviamente la domanda che giace al di sotto di questa delicata provocazione è relativa sempre al tipo di approccio, veritativo o meno, che il Papa come tutti i fedeli instaura intimamente con il mistero della Trinità. Vero è senz’altro che tale mistero non ammette “prova visibile” e che quindi l’unico strumentum ingenii di cui il fedele, e quindi anche il Papa, dispone per attingere a tale mistero è la Fede, quella con la “F” maiuscola; tuttavia il valore veritativo della Fede è sufficiente, esso solo, a rendere conoscibile o se non altro “attingibile” in qualche maniera e misura, il mistero della Trinità? Le parole con cui il Papa risponde alla domanda, a cominciare da quella relativa alla Fiducia in sé stesso, che il Papa, in quanto guida spirituale deve preminentemente avere, affinché coloro che non credono non possano scardinare un edificio che proprio la figura del Pontefice è chiamata a reggere, e non possano ridurre tale figura ad un residuo di un passato lontanissimo e che oggi non ha più niente da dire; tali parole si fondano, nel solco del già detto, su una citazione dalla Bibbia, e nello specifico dal Nuovo Testamento, quando Gesù invita Pietro a “non avere paura”. E’ bene ripetere il riferimento alla frase pronunciata dal Pontefice e prima di Lui da Gesù. Di che cosa Pietro aveva paura? Aveva paura del mistero che si celava in quell’Uomo, peraltro legato a Pietro da una solida amicizia, e di tutto ciò che sempre quell’Uomo, cioè Gesù, rappresentava o poteva rappresentare, data la quantità di prodigi che, sempre Pietro insieme agli altri apostoli, ma soprattutto

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Pietro, aveva veduto e udito provenire da quello stesso Uomo che si proclamava Figlio di Dio. Concludendo la risposta alla prima domanda di Messori, il Papa, peraltro vivamente, invita a vincere la paura con la preghiera, affinché attraverso la preghiera, il credente instauri con Dio un rapporto di tale confidenza quale ad esempio il Santo Escrivà de Balaguerre, fondatore dell’Opus Dei, in uno dei “pensieri” contenuti nel suo personale breviario intitolato “Cammino” e dedicato alla formazione dei giovani cristiani, definiva, ovviamente da un punto di vista assiologico, persino analogo al tipo di relazione che “lega l’amico all’amico”, niente di meno.

Ed è proprio sulla preghiera che verte la seconda domanda rivolta al Pontefice. In che modo il Papa si rivolge a Dio nella preghiera? Che tipo di approccio il Papa utilizza per rivolgersi a ciò che Egli rappresenta in Terra? La risposta del Pontefice è inizialmente ovvia. Anche la preghiera, come ogni forma di comunicazione, si instaura tra due interlocutori, cioè tra colui che prega e Colui cui la preghiera è rivolta.Tuttavia la preghiera ha un qualcosa di inconfondibile in quanto, diversamente da altre forme di dialogo non nasce per iniziativa di colui che prega ma per iniziativa di Colui che “riceve” la preghiera, ossia il Signore. Si tratta di un rapporto di intimità che non può prescindere da una pratica costante. Non si può peraltro affermare che la preghiera del Santo Padre abbia la stessa forza e lo stesso valore della preghiera del comune credente. Essa è un qualcosa di più pregnante e potente ed è tanto più intenso il rapporto tra chi prega e chi la preghiera la riceve quanto maggiore è la vicinanza, sia a livello sacramentale sia a livello spirituale tra pregante e interlocutore nella preghiera.

La terza domanda di Messori rimane incentrata sulla preghiera: per chi e come prega il Papa? La risposta parte anzitutto dalla costatazione che il Papa non ha facoltà di pregare liberamente ma solo nella misura in cui lo Spirito Santo gliene concede facoltà. In secondo luogo Egli, il Papa, afferma che coloro per cui prega sono sempre gli uomini ossia l’Umanità intera e in proposito cita un passo tratto dal libro della Genesi in cui Dio, non ancora menzionato nelle scritture come Padre di Gesù,

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prova la più grande gioia nell’aver creato il Mondo con tutto ciò che esso contiene, perché il Mondo Egli vide che “è cosa buona”. Ecco, dice il Pontefice: la preghiera è fonte di gioia, ciò che vuol dire che in qualche modo attraverso la preghiera il cristiano che prega entra in stretto contatto non solo con il Creatore ma anche con il Creato provando una indicibile felicità e pienezza di spirito. Va detto anche che esistono tante forme di preghiera, ad esempio quel tipo di preghiera che trascende le parole di una orazione per diventare pura contemplazione del Sacro Mistero, come d’altra parte è prassi in alcuni ordini monastici. Dalle parole del Pontefice traspare anche una ulteriore funzione della preghiera: quella di prendersi cura del prossimo attraverso la preghiera è qualcosa che Dio rende possibile sulla base della purezza e della pienezza della Fede di chi a Dio rivolge la preghiera.

La quarta domanda ha ad oggetto la richiesta, peraltro umile e discreta, di chiarire in che modo e per quali segni o ragioni, i cattolici credano fermamente che la Chiesa, quale edificata da Cristo e per mezzo di Lui, sia un qualcosa di tangibile che tuttavia si lega all’inattingibile, e che la sua manifestazione metafisica sia proprio ciò che congiunge il Cielo, inteso quest’ultimo come Sede del Mistero Trinitario, e la Terra, tutto ciò secondo il detto che fu di Cristo rivolto a San Pietro quando Egli conferì al proprio successore il potere di sciogliere e legare ogni cosa in Cielo e in Terra. La risposta del Pontefice, antico Maestro di filosofia è incentrata su tutto l’insegnamento della Patristica e soprattutto della Scolastica, ma soprattutto su due nomi, cioè Sant’Agostino e San Tommaso D’Aquino, i due grandi dottori della Chiesa il cui compito, che essi stessi si attribuirono, fu di chiarire e rendere accessibile attraverso i riferimenti, le analogie, le commistioni con alcuni filosofi della Grecia antica, due su tutti, Platone e Aristotele, tutto ciò che era il portato e il più profondo senso del messaggio evangelico e della teologia cristiana. Non fu certo opera vana se ad oggi la percezione del soggiacere della Filosofia come materia di studio alla Teologia, è ancora viva e presente non solo agli ecclesiastici ma anche e soprattutto a molti filosofi.

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Per quanto riguarda nello specifico Sant’Agostino, che fu vescovo di Ippona, città dell’allora Africa settentrionale, nel periodo a cavallo del IV e del V secolo d.C., egli visse in un momento storico in cui il Cristianesimo aveva una forte necessità di essere preservato da un lato dalle eresie e dalle mistificazioni; dall’altro dalle vere e proprie confutazioni delle verità di Fede ad opera ovviamente dei pagani, ma anche da parte di tutti coloro che all’epoca avevano abbracciato altri credi e altre Fedi. L’attività filosofica di Agostino è solo in parte intendibile come “costruttiva” o “chiarificatrice”, come a dire nel senso in cui fosse volta alla interpretazione delle scritture attraverso l’uso dello strumentario filosofico. Essa è inizialmente rivolta a confutare le dottrine di fede avverse al Cristianesimo, che all’epoca di Agostino erano sostanzialmente tre: il “manicheismo”, il “donatismo” e il “pelagianesimo”. Per quanto riguarda la polemica contro i manicheisti essa è incentrata sul problema del “male”. I manicheisti si domandavano quale fosse, nonostante la presenza attiva e vivificante di Dio nel mondo, l’origine del male, e soprattutto in che modo fosse possibile risolvere tale problematica da un punto di vista speculativo. Agostino risponde affermando che il male è assenza di bene. Dove c’è Dio il male non può esistere perché sarebbe una contraddizione in termini, dato che Dio, che è peraltro onnipresente, è sostanzialmente Amore. Tutto ciò dal punto di vista metafisico. Per quanto attiene ai mali fisici, pur presenti nella realtà delle cose, essi o non esistono perché fanno parte di una totalità benefica, cioè naturalmente buona e quindi per lo meno sono curabili, oppure la loro causa risale al peccato originale e quindi cooperano attraverso la sofferenza che procurano, alla salvezza, perché costituisce Verità di Fede che la sofferenza redime, come insegna lo stesso vissuto terreno del Cristo. Quanto ai mali morali essi esistono a causa delle tentazioni terrene che allontanano l’uomo dalle cose dello spirito. Si tratta dunque di cedimenti alle lusinghe del mondo.

Quanto alla polemica con i Donatisti, questi ultimi erano fermamente convinti che la massima evangelica “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, andasse interpretata alla lettera, ossia coloro che fanno parte della Chiesa

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costituiscono una comunità di Perfetti che non devono per alcun motivo entrare in contatto con le Autorità civili, pena la revoca a loro carico di sacramenti come il Battesimo. Chiara mi pare in proposito la ragione della viva opposizione di Agostino a questo culto, che se non altro era atto ad instillare nelle gerarchie che ad esso aderivano, la propensione ad avere sospetti gli uni nei riguardi degli altri e ad escludersi a vicenda sempre dal novero delle gerarchie per i più futili motivi.

La polemica più spinosa è però quella contro il Pelagianesimo. Nel V secolo Pelagio, monaco irlandese, viveva a Roma, città ove venne a conoscenza della dottrina agostiniana della grazia. Il suo punto di vista consisteva nel negare che la colpa originaria di Adamo impedisse all’uomo la possibilità di fare il bene, in quanto sia prima sia dopo il peccato originale l’uomo è comunque in grado di operare il bene, anzi a maggior ragione grazie alla acquisizione della capacità di discernere il bene dal male “dopo” e “a causa” del peccato originale (Abbagnano – Fornero). Ma dato che secondo Agostino a tal fine, cioè la realizzazione della capacità umana di non peccare, occorre la “grazia”, cioè uno specifico atteggiamento dello spirito che solo l’intervento di Cristo può infondere nell’uomo, allora ciò vuol dire sempre secondo Agostino che Pelagio è nell’errore.

Ora, il Papa cita Sant’Agostino, su cui il manuale Fornero – Abbagnano è assai chiaro ed esplicativo, per rappresentare all’intervistatore che il movimento cattolico è stato così duraturo e ha così incrollabilmente resistito a tutti i tentativi di confutazione del proprio edificio metafisico anche e soprattutto grazie a figure come quella del sunnominato Sant’Agostino, mentre la citazione relativa a San Tommaso D’Aquino ha il medesimo fine sebbene filosoficamente e teologicamente più complessa. Per questo motivo, come detto ad inizio lavoro, parleremo di San Tommaso a suo luogo. Per tornare al dialogo tra Messori e il Papa, la quinta domanda cui il Pontefice è chiamato, con la medesima discrezione e delicatezza, da parte di Messori, a rispondere, è propriamente relativa alla validità o meno, al giorno d’oggi e per l’uomo di oggi, di una speculazione filosofica e teologica sulla natura, o più prosaicamente e diffusamente di porsi delle “domande di senso”

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inerenti alla funzione, al messaggio, alla missione della Chiesa cattolica nel mondo. La risposta del Pontefice è per l’appunto affermativa, e muove in senso critico dalla considerazione di quel movimento filosofico, scientifico e sociologico che è stato il Positivismo, cioè quell’insieme di idee e convinzioni che, tentando di gettare le basi di un discorso gnoseologico, negano a priori la capacità per l’uomo di conoscere la realtà a prescindere dai sensi. Tutto ciò che possiamo conoscere della realtà, dicono i positivisti, lo apprendiamo dai sensi: non c’è conoscenza priva di questa fonte, di questa causa: i sensi. Ciò che il Papa contesta a questo orientamento di pensiero, cioè sempre il Positivismo, è che la realtà che è al di fuori dell’uomo non è l’unica realtà di cui l’uomo possa fare esperienza. Esiste una realtà, ad esempio quella che attiene all’interiorità di ciascun individuo, che prescinde dai sensi, ma non si può per questo affermare che non sia una realtà tangibile, “esperibile”. Allo stesso modo la realtà della Fede è una realtà che fa riferimento a qualcosa, a un principio che trascende i sensi, ad esempio nel fenomeno della “estasi mistica”. Può la scienza, ciò che il Papa chiama Positivismo, giungere ad una conclusione certa sulla inesistenza del fenomeno della estasi mistica solo e soltanto sulla base della osservazione di fenomeni meramente empirici? Cosa vuol dire questo? Vuol dire che oltre alla dimensione fisica, intesa come realtà tangibile, esiste un’altra dimensione la quale si sostanzia in ciò che riguarda questioni come l’esistenza dell’anima, dello spirito, e quindi in senso ampio anche le verità di Fede, cioè i Dogmi.

Ed ecco che Messori passa alla sesta questione, che riguarda peraltro il cammino di Fede o non Fede di molti. La domanda è sul perché Dio non si manifesti chiaramente, perché non dia in qualche modo una prova tangibile della sua viva presenza, perché si limiti ad intervenire solo occasionalmente, ad esempio con i “miracoli” o solo in certi luoghi come Lourdes, Fatima, Santiago de Compostela, Loreto. La risposta del Papa fa riferimento, sempre in maniera velatamente critica, innanzitutto alla circostanza che con Cartesio nel Seicento vi fu una sorta di rottura tra coloro che, da un lato, credevano fermamente ai precetti della Chiesa, intesa

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quest’ultima dal punto di vista diffuso tra le gerarchie e quindi dagli esegeti ma anche dai teologi laici e coloro che, d’altro lato, a quel tempo concepirono, da laici ovviamente, un nuovo modo di percepire sé stessi, i processi cognitivi, il rapporto con la realtà dei sensi, ecc. L’iniziatore di questo movimento fu come accennato il filosofo francese Cartesio, il quale fu senz’altro autore di una nuova epistemologia, cioè di nuovi modi e strumenti per avvicinarsi alla conoscenza della realtà, sia la realtà relativa a sé stessi e al proprio intimo sia la realtà sensibile. Non più “creazione”, da parte di un essere da venerare e invocare, ma “autosustanziazione”, cioè autodeterminazione in ragione e grado delle facoltà cognitive; non più fede ma freddo ragionamento, che procede per causa ed effetto; non più Dio quale principio primo d’ogni cosa ma l’individuo “pensante” come sostanza della realtà percepibile, che è quindi l’unica realtà possibile. Ed ecco che il fondamento della realtà poggia non più su un principio trascendente quale è Dio, ma invece su un principio immanente, cioè interiore all’uomo, il puro intelletto, il cui estremo distillato è la massima: “penso dunque sono”. Ma ponendo per un attimo da parte Cartesio e il suo Razionalismo, la giusta risposta alla domanda posta da Messori la dà comunque il Papa, il quale afferma, senza téma di errore, che Dio si è reso parte della realtà tangibile proprio con la venuta sulla Terra da parte di Gesù, Suo Figlio Unigenito. Se intento di Cartesio era liberare il mondo dalla superstizione, intento di Gesù era liberarlo dai peccati. Quale dei due propositi fu più ambizioso?

La settima domanda ha fondamento nel confronto che Messori “discretamente” propone tra Gesù ed altri “mistici” che la Storia ricorda, e cioè Maometto, Buddha e Socrate. In base a quale titolo Gesù è ritenuto Manifestazione terrena di Dio mentre quegli altri no? Anche a questo ovviamente il Papa dà una risposta, la quale fa riferimento a più punti. Gesù non può per niente essere accostato se non liminalmente alle predette figure storiche in forza di alcune considerazioni, relative a:

- la natura umana/divina di Gesù;

- la sua missione salvifica sulla Terra;

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- l’istituzione della Chiesa cristiana.

Certo, Gesù può per alcuni aspetti essere accostato a Socrate, ad esempio per la serena sottomissione con cui accetta una morte ingiusta, che Socrate accettò per non contravvenire alle Leggi, le quali nell’Antica Grecia erano peraltro considerate alla stregua di divinità; a Maometto, perché al pari quest’ultimo Gesù dettò precetti e regole di condotta al proprio popolo in funzione della salvezza eterna; a Buddha, a causa del Suo misticismo e della sua persistente anche se non totalizzante esigenza di distacco dal mondo, la stessa esigenza che sta ad esempio alla base del ritiro nel deserto per 40 giorni 40 notti da parte del Cristo come raccontato dai Vangeli.

Ma nessuna delle tre figure storiche citate da Messori può essere in tutto assimilata sia al Gesù in quanto figura storica, sia al Gesù in quanto parte di Dio o per meglio dire al Gesù che è Dio Egli stesso o si proclama tale;

La ottava domanda è particolarmente impegnativa. Messori chiede al Papa se in definitiva vi fosse davvero la necessità da parte di Dio di sacrificare Suo Figlio, cioè parte di sé, per cancellare i peccati del mondo, per redimere l’Umanità. E quali sono le analogie con le tante descrizioni di morte e distruzione contenute in tanti libri dell’Antico Testamento? La ragione non è ovviamente agevole da intendere, innanzitutto perché richiede una spiegazione complessa. Si parte dal presupposto che l’Alleanza stabilita tra Abramo, rappresentante del Popolo Ebraico, e Dio si fondava su un insieme di disposizioni legislative che Dio stesso avrebbe poi affidato in maniera tangibile, cioè incise sulle Tavole della Legge, a Mosé sul Monte Sinai al tempo della prima uscita dall’Egitto. Tali regole e disposizioni formavano ciò che Dio stesso definì “Alleanza”, un’ alleanza fondata su un rapporto di obbedienza da parte del Popolo ai precetti indicati da Dio a Mosè. Ovviamente tale Alleanza comportava dei doveri che se non adempiuti avrebbero causato lutti e sciagure sempre a carico del popolo ebraico, come d’altra parte sarebbe avvenuto il contrario allorquando quelle stesse disposizioni fossero state osservate, cioè quando in virtù di tale obbedienza, alle sciagure si sarebbero avvicendati periodi di pace e prosperità. Con Gesù Dio intende stipulare una nuova Alleanza, questa volta perenne, perché

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fondata sul sangue del Suo Figlio Unigenito. Ciò sarebbe a dire che attraverso i sacramenti, cioè la liturgia eucaristica e gli altri, che concettualmente ripetono, in maniera tale da sublimarli, cioè da coglierne l’essenza, atti e gesti rituali di sottomissione e di lode a Dio funzionalmente simili ai sacrifici compiuti millenni or sono nell’Antico Tempio di Gerusalemme, più volte ricostruito sempre nell’arco di millenni, a maggior gloria di Dio stesso, lo stesso Dio di Mosè intendesse redimere “tutta” l’umanità e non solo gli Ebrei perché la stessa Umanità non peccasse più né contro di Lui né contro il prossimo. Il corpo di Dio di cui si parla nel Nuovo Testamento, ossia la Chiesa fondata sul capo di Pietro, ha proprio questa funzione; quanto alla sua natura anagogica, essa è il Corpo di Cristo, sia in quanto simbolo della salvezza eterna, sia in quanto essa è, per volere di Cristo, ciò che congiunge il mondo terreno e il Mondo trascendente, e la cui vocazione, ha carattere universale, cioè è diretta a tutti coloro che scelgano in coscienza e per tramite di Gesù di aderire alla Sua Chiesa. Sempre nella settima domanda Messori si chiede se sia davvero concepibile un Dio come quello Cristiano. Anche Paolo in proposito era inizialmente scettico e di poca Fede, anzi era un acerrimo persecutore dei Cristiani, ma ad un certo momento della propria vita decise di seguire Colui il quale gli si era manifestato nel pieno della propria divina luce sulla via per Damasco. Tutti i Concili che nel corso di secoli si sono avvicendati all’interno della Chiesa tra coloro che su Gesù, sulla Sua natura Divina, sulla Sua missione salvifica, sulla Sua Umanità e insieme Divinità, nutrivano le più diverse convinzioni, compreso tutto il novero delle eresie che di quando in quando minacciavano le fondamenta stesse della Chiesa; i suddetti Concili e senz’altro sino al Vaticano II erano periodicamente impegnati a ricondurre alla ortodossia (dal greco “retta opinione”) una quantità di false convinzioni circa la figura di Cristo tra le quali assai diffuso era ad esempio l’Arianesimo, eresia che negava che Gesù potesse condividere una duplice natura, al tempo stesso umana e divina. Questa dunque la funzione dei Concili: ricondurre ad unità le idee e le posizioni intellettuali di tutti coloro che sulla questione “cristologica” nutrivano dubbi, convinzioni teologicamente inesatte, o addirittura,

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come gli Ebrei, il rifiuto di considerare Gesù quale incarnazione terrena del principio o “logos” divino. Finalmente durante Concilio di Nicea, dice il Papa, si trovò un accordo di massima, cioè si proclamò che Gesù “è il figlio unigenito dell’eterno Padre, generato e non creato, della Sua stessa sostanza, per mezzo del quale tutte le cose sono state create”.

La ulteriore domanda che l’intervistatore pone al Pontefice è ancora più esplicita e sempre relativa alla ragione della necessità da parte di Dio di inviare Suo Figlio per la salvezza di tutti gli uomini, e in un “eccesso di zelo” di “suggellare” questa missione di salvezza con il sangue e con la Croce. Perché la storia della salvezza che il cristianesimo ci racconta è così “complicata”?

La domanda muove ovviamente da un punto di vista totalmente “laico” perché non considera l’imponderabilità del volere divino. In altri termini Messori sa benissimo che la risposta alla sua domanda poggia semplicemente sulla Fede, cioè su un sentimento che si trova all’opposto del ragionamento e di tutto lo strumentario di cui il procedimento razionale si serve per attingere alla “verità”. Verità che però sebbene attingibile razionalmente non è certo Verità di Fede, perché quest’ultima non ammette come parametro veritativo la ragione o la logica o quant’altro. Il papa, compresa la natura provocatoria della domanda di Messori, risponde con un ulteriore riferimento, ripetendo il “già detto” per maggiore sicurezza, a ciò che avvenne a livello filosofico agli inizi del XVII secolo con la fondazione di un nuovo sistema filosofico, e ciò ad opera, in massima parte di un filosofo francese, il già nominato Cartesio. Ciò che Cartesio concepì ed elaborò in merito alla conoscenza umana fu in sostanza l’asserire che tutto ciò che non è razionalmente concepibile non esiste. Dice Cartesio che lo stesso essere umano, se fosse privo di intelletto, se cioè vi fosse in esso una sorta di separazione tra la materia di cui esso uomo è composto e la sua facoltà di pensare razionalmente, allora vi sarebbero dei problemi a livello gnoseologico, il che concettualmente implicherebbe che si dovrebbero operare delle distinzioni non solo tra uomo e Dio ma anche tra uomo e uomo. Se invece l’uomo pensa secondo ragione, se percepisce sé stesso come essere pensante,

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allora tutto ciò che non può essere verificato attraverso i sensi, l’intelletto e la ragione non è di questo mondo: è impossibile perché non “rilevabile razionalmente”. La storia della salvezza cristiana si fonda ovviamente su presupposti speculari a quelli da cui muove la analisi cartesiana. Non si riesce a comprendere il mistero della incarnazione, morte e resurrezione di Gesù se non si opera un atto di Fede. Ed è a compiere questo atto di Fede che è chiamato chiunque voglia avvicinarsi al Cristianesimo.

La decima domanda è anche essa relativa alla religione cristiana come religione della salvazione. Tutto ciò che essa religione ha dato al mondo a partire dalla venuta di Cristo, non può essere compreso razionalmente, ma occorre sempre un atto di Fede. Il cui opposto è ovviamente e ad esempio un’altro aspetto della filosofia e della storia dell’uomo: l’Illuminismo. Il Papa continua a descrivere ciò che può accadere quando il messaggio del Salvatore resta lettera morta, resta inascoltato. E allora nel corso della storia dell’Umanità occorre pensare ad esempio a quella pura follia che diede luogo alla Rivoluzione francese, la quale non solo fu causata da uomini privi di Fede, ma giunse persino alla negazione della stessa Fede, definendola “superstizione”.

La domanda successiva è ovviamente relativa al “perché” dell’esistenza nel mondo, nonostante il sacrificio della Croce, del male, della violenza, di tutto ciò che sembra negare che il Redentore abbia davvero redento tutti. Come spiegare questa contraddizione? Ovviamente la risposta del Papa fa riferimento anche a tale proposito, ad una verità di Fede, e cioè che una volta compresa la differenza che corre tra l’inconsapevolezza dell’uomo appena creato nel Giardino dell’Eden e la successiva acquisizione di consapevolezza della differenza tra Bene Male da parte di quello stesso uomo, egli – l’uomo – è divenuto capace di scegliere tra il Bene e il Male, e conseguentemente tutte le sciagure lontane e recenti che hanno colpito l’Umanità, a volte in maniera terribile, e si pensi in proposito quanto meno alle Guerre mondiali e all’Olocausto, hanno un senso. Hanno un senso in riferimento alla dualità della umana natura, la quale è a volte portata a compiere il male, o

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meglio ciò che Dio, da saggio Legislatore, aveva indicato come Male sin dai tempi dell’Alleanza con Mosè; altre volte a compiere il Bene. Insomma il problema del Male nel mondo può essere risolto concludendo che esso male non dipende da Dio ma dalla libera facoltà di scelta che l’uomo acquisì a causa del peccato originale, cioè la facoltà di scelta tra Bene e Male. Insomma il vitello d’oro diviene a volte una tentazione così forte da allontanare l’uomo da Dio. Ma allora come giustificare ulteriormente l’esistenza del male nel mondo? Il male nel mondo esiste, perché coloro i quali sono parte di esso mondo, che in di esso vivono e agiscono, sono incapaci il più delle volte di comprendere il mistero della morte e della resurrezione, e ciò perché in sostanza non hanno Fede, perché pur conoscendo ciò che è Bene e ciò che è Male, spesso sono portati a operare nel senso del Male piuttosto che del Bene.

Continuando nel discorso si potrebbe dire che la Morte e la Resurrezione sono senz’altro un messaggio di inaudita potenza nei confronti di coloro che non conoscono Dio o in cuor loro lo rifiutano; nei confronti di coloro che non hanno una coscienza o per meglio dire non “sanno” di averla, una coscienza. Ma allora il motivo rimane lo stesso: ed è lo stesso motivo per cui Dio primamente allontanò Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, cioè l’acquisizione della capacità di discernere il Bene dal Male. Se è questo che l’uomo da allora, cioè dai tempi della esclusione dal Paradiso, porta dentro di sé, ossia il Peccato Originale, Peccato che tormenta i non battezzati, cioè i non liberati da quel peccato attraverso il Battesimo, si potrebbe affermare che la Misericordia divina abbia voluto scegliere tra coloro che, membri di una embrionale Umanità, simbolizzata da Adamo ed Eva nelle scritture, una Umanità rea di aver ceduto alla tentazione della conoscenza, fossero degni del perdono relativamente a quel peccato, grazie alla circostanza di essere scelti da Dio attraverso i propri ministri, cioè il Clero, a tal fine introducendo, a seguito della Discesa del Suo Figlio Unigenito sulla Terra, il Sacramento del Battesimo, il quale sacramento è volto a conferire al battezzando il perdono salvifico dalla colpa originale di cui ciascuno è responsabile alla nascita perché ne sono responsabili i

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propri antenati, a cominciare da Adamo ed Eva, che per primi contravvennero al divieto posto dal Padre Eterno di attingere ciò cui del Giardino dell’Eden non avrebbero mai dovuto attingere: cioè sempre il frutto della conoscenza del Bene e del Male.

Per tornare alla finalità soteriologica del Cristianesimo, va detto che la dottrina della salvezza, che dal Cristianesimo discende in virtù di Cristo e della Sua morte e Resurrezione, potrebbe essere convenientemente elaborata asserendo che essa religione, sempre il Cristianesimo, grazie al dono della Fede, possa sì essere intesa come religione della salvezza, ma non soltanto della salvezza dal peccato, che, ove presente e in assenza del sacramento della penitenza, determina dopo la morte corporale, la dannazione della stessa anima peccatrice, ma in definitiva e in aggiunta la salvezza dalla stessa morte corporale, la quale secondo la teologia di Paolo sarebbe una condizione transitoria nella prospettiva che tutti i vivi ma soprattutto tutti i defunti, nel Giorno del giudizio saranno giudicati per le loro colpe e per il loro meriti secondo il vaglio insindacabile di un unico giudice: Gesù Cristo.

Altro discorso riguarda la pluralità quasi infinita di “credi religiosi” compresenti nel mondo. Come è possibile concepire che il Dio di Abramo, pur essendo unico, non sia il Dio di Maometto, pur esso unico e soprattutto non quel Gesù che i musulmani considerano solo un profeta e gli ebrei soltanto un “sovversivo”? La soluzione che il Papa prospetta è il dialogo costante con tutti i credi e le religioni del mondo, nella consapevolezza che la rivelazione del principio Divino non è unica ma molteplice e che ovviamente sarebbe impossibile schierarsi in maniera ostile nei confronti di religioni e credi che sono diffusi nel mondo tanto quanto il Cristianesimo, ed alcuni anche più diffusi. Diffusi ad esempio in estremo oriente: la Chiesa è ben consapevole che la presenza delle missioni cattoliche in Asia, cioè nel continente territorialmente più esteso del mondo, è assai limitata, ciò in quanto le credenze e le conseguenti pratiche di vita delle antiche religioni e Chiese in quei luoghi sono radicate da millenni. Altro confronto che i Cristiani sono costantemente chiamati a risolvere, si spera positivamente, è quello che interessa le “fedi” animiste, vicine

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peraltro al Cristianesimo perché anch’esse professano l’esistenza di una sostanza invisibile, l’”anima”, che darebbe vita, essa stessa, ad ogni cosa. Ovviamente questo tipo di generalizzazione non può, dice il Papa, essere accettato in toto dalle gerarchie ecclesiastiche, ma aperture di questo genere sono comunque considerate un elemento di vicinanza, non solo nelle credenze ma anche nelle pratiche di culto e nell’estremo rispetto che questi culti manifestano per mezzo dei fedeli nei riguardi di ogni essere vivente, e persino verso ciò che comunemente noi occidentali consideriamo “inanimato”. Tra i culti non cristiani ma ricchi di proseliti nel mondo occorre menzionare, su tutti, Induismo e Buddhismo. Il primo dei due è un insieme di credenze che fanno perno sul concetto di “incarnazione”, cioè a dire che per gli induisti non esiste per lo stesso individuo una sola vita, limitata nel tempo e destinata ad una trascendenza conforme alla maniera in cui essa vita è stata vissuta in questo mondo, ma un numero infinito di esperienze esistenziali che, sempre secondo gli induisti, gli uomini sperimenterebbero nel corso di millenni. Ovviamente la ragione di una tale credenza è sempre quella che sta alla base delle tradizionali religioni non soteriologiche. Ogni buon induista è fermamente convinto che il ciclo nascita/morte sia lo stesso per tutti, anche “per gli animali” e sia funzionale ad una progressiva acquisizione di coscienza “distribuita” su molteplici esistenze. Il fine, il termine del procedimento di reincarnazione dovrebbe essere definibile come la condizione in cui l’individuo non ha più necessità di reincarnarsi perché ha raggiunto un livello di coscienza in corrispondenza del quale si instaura una totale liberazione dalle “impurità” spirituali che imponevano all’individuo, per essere cancellate, cioè per arrestare il ciclo nascita/morte/rinascita, di vivere più esistenze. Ora, una similitudine tra Induismo e Cristianesimo potrebbe essere la seguente: allo stesso modo in cui gli Induisti ritengono che il progresso sociale sia un male, cioè a dire un male nei confronti della pace sociale e dell’etica comunemente accettata, poiché vale la regola secondo cui ciò che è sulla Terra rispecchierebbe un ordine Divino che sta al di sopra di ogni cosa terrena; così i Cristiani, ovviamente Cattolici (per i Protestanti vale il contrario) ritengono che

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l’ascesa nell’ambito del contesto sociale sia un qualcosa che dipende massimamente dalla posizione e dal ruolo sociale del singolo individuo e dei propri ascendenti eche ad essi deve necessariamente essere conforme. Non vi sarebbe quindi, neanche per i cattolici, la possibilità di elevarsi al di sopra della propria “casta”, come dicono gli induisti o “classe sociale d’appartenenza” come diciamo noi occidentali. Per passare all’altra grande corrente religiosa presente in Asia e assai diffusa anche al giorno d’oggi, sebbene più risalente nel tempo persino in confronto al Cristianesimo, essa è il Buddhismo. Il Buddhismo prende nome dal pensiero di un uomo, Siddartha Gautama : successivamente definito “maestro”, “illuminato”, “guida spirituale”, cioè, soprannominato il “Buddha”, il quale visse nel VII secolo a.C., e dal cui insegnamento deriva l’insieme di pratiche e credenze che da lui stesso prendono il nome, cioè il “buddhismo”. Scopo dell’esistenza, dice Buddha, è la realizzazione di un confronto attivo con tutto ciò che di male vi è nel mondo, a cominciare dalle malattie, per arrivare alla morte, e finanche alla pazzia. L’insieme delle pratiche che il Buddha suggerisce a coloro che intendono seguirne l’insegnamento per raggiungere la pace spirituale, è di rinunciare ai desideri terreni, fonte di sofferenza, fisica e spirituale, per adottare una condotta di vita che si liberi da ogni contaminazione da parte di ciò che sempre Buddha definisce “passioni” ossia desideri che divengono talmente ossessivi da causare a volte casi di pazzia conclamata, o per il meno di scarsa serenità: oserei dire anche al giorno d’oggi. Ma per fare tutto ciò, per raggiungere questo fine, cioè in sostanza la liberazione dal dolore, dice Buddha, è necessario esperire l’unico strumento che può consentire una totale liberazione dai desideri, dalle angosce, dalla pazzia e dal dolore: la meditazione. La meditazione opera nel modo seguente: attraverso l’isolamento occorre preservare la propria sfera personale da ogni e qualsivoglia disturbo, insomma rimanere soli in un luogo appartato e lì tentare di eliminare dal propria mente ogni forma di pensiero, non importa se buono o malvagio. Il tempo necessario per eliminare del tutto i propri pensieri, buoni o cattivi che siano, è differente da persona a persona, ma una volta raggiunto lo stadio del “non pensare”,

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ovviamente prolungato per quanto è necessario, si ottiene ciò che i buddhisti chiamano Nirvana, il quale vocabolo tradotto nella nostra lingua vorrebbe dire qualcosa come la “completa liberazione” da ciò che di male è nel mondo, e soprattutto entro sé stessi a causa del mondo: in una parola “il Nulla”, il che è sostanzialmente come dire “Illuminazione”. Il Nirvana è assenza di desiderio e quindi di passione e in ultima istanza di dolore, quest’ultimo riferibile essenzialmente al modo di porsi nei confronti della realtà da parte dell’individuo, che nella gran parte dei casi causa sofferenza, non nella sfera fisica, ma nell’ambito latamente spirituale.

Ciò che rimane, una volta attinto ad un discorso sulle maggiori religioni del mondo, quale è quello di Giovanni Paolo II, è la necessità di accennare all’ultima delle tre religioni monoteistiche del giorno d’oggi, cioè la religione musulmana, tutto ciò sempre, come finora fatto, prendendo le mosse dalle parole del Pontefice Giovanni Paolo II pronunciate in risposta al vaticanista Messori nel libro/intervista “Varcare la soglia della speranza”, oggetto del presente commento. E ovviamente tentando di chiarire in questa parte della presente scrittura, il portato di quelle parole per un comune cristiano quale anche io sono. La religione islamica, dice il Pontefice, non è una religione cristologica, cioè una religione “della salvezza per mezzo di Cristo”. Gesù è in essa considerato un profeta e non l’incarnazione di Dio. Il rapporto del musulmano con la propria religiosità, quindi con il proprio Dio è esclusivamente personale. Non vi sono promesse nascoste. Eppure il musulmano è connotato quale portato della propria fede da un senso di devozione al proprio Dio che ad esempio non hanno i Cristiani o gli Ebrei. Ad esempio Ebrei e Cristiani pregano molto meno degli islamici, per i quali la preghiera è obbligatoria almeno cinque volte al giorno. Altra peculiarità da attribuire all’Islam è l’assenza di rappresentazioni di Dio. Le moschee, cioè i luoghi di culto, sono spesso capolavori di architettura ma è impossibile trovare su di esse una raffigurazione del volto di Dio. In compenso esistono ricchissime decorazioni sia dell’interno che dell’esterno delle moschee, decorazioni il cui nome è “arabeschi” che non hanno nulla da invidiare quanto a

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bellezza, alle rappresentazioni di tradizione cristiana aventi come soggetto Gesù o l’Onnipotente.

Con riferimento all’Ebraismo e ai suoi rapporti con il Cristianesimo, ciò che mi pare di capire dalle parole del Pontefice è che essi rapporti vanno intesi nel senso dell’unità e della continuità, e non della divisione e della contrapposizione. Il Pontefice afferma che la Santa Alleanza che Mosè instaurò sul Sinai con il Dio Javhè a favore del suo popolo non fu minacciata dalle opere e dalla predicazione di Gesù come invece gli Ebrei del tempo in cui Egli visse morì e risorse, ritennero di dichiarare ai Romani per provocarne la condanna a morte prima da parte di Pilato e poi della folla incosciente. Al contrario la vita e la predicazione di Gesù furono soltanto il compimento dell’ insieme di profezie messo per iscritto dai redattori della Bibbia sia nella versione occidentale in lingua greca che, prima ancora, nella Torah, cioè il compimento di tutto ciò che nell’Antico Testamento era stato profetizzato, ad esempio da Isaia, sulla venuta di un Messia che avrebbe liberato il Popolo Ebraico dalla schiavitù di potenze nemiche assicurando un’epoca di pace e prosperità eterna al Popolo Eletto.

Per continuare l’analisi e, per quanto possibile, l’interpretazione delle parole del Papa, occorre ora far riferimento al discorso formulato dal Santo Padre secondo un punto di vista dal quale considerare la storia delle prime comunità cristiane e di come, in esse comunità fosse assai forte e radicato, al tempo in cui Paolo era ancora in vita, l’impegno missionario. Per quanto riguarda le comunità ebraiche del tempo, esse credevano ancora in Javhè e mostravano segni di inquietudine nell’udire la buona novella del Cristo risorto. Le comunità greche erano a loro volta legate a doppio filo alle credenze politeistiche dei pagani. Tuttavia nonostante questa iniziale debolezza, i numerosi Concili che in quei tempi furono convocati gettarono le fondamenta del messaggio cristiano anche in comunità che di Cristo non avevano ancora sentito parlare. Un esempio di fervore missionario è quello che ci è dato dai Santi Cirillo e Metodio, che trasmisero i Vangeli tradotti in greco ai popoli dei Balcani, rendendo possibile anche a loro avvicinarsi alle scritture. Secolo dopo

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secolo l’opera di conversione raccoglieva i suoi frutti man mano che il mondo conosciuto andava espandendosi. Si giunse così, dopo la scoperta delle Americhe, all’inizio di un’opera di conversione e proselitismo che da allora avrebbe interessato tutto il nuovo continente, e ciò proprio nei secoli della Riforma Luterana che in Europa aveva privato la Chiesa di Roma di gran parte del proprio ascendente e – diciamolo pure – del suo potere. Ovviamente l’opera di evangelizzazione portata avanti dalla Chiesa non cessa all’epoca di Cristoforo Colombo, ma arriva fino ai nostri giorni. In tal senso vanno viste le numerose encicliche che di volta in volta inneggiano alla conversione e alla redenzione qui sulla Terra, che è preludio della redenzione futura. Due su tutte: Redemptoris missio e Evangelii nuntiandi.

Continuando nel commento del dialogo tra Messori e Papa Giovanni Paolo II, si parla ora di gioventù. L’intervistatore chiede al Pontefice di esprimere un giudizio sui giovani di oggi in riferimento alla Chiesa. Il papa dice che fondamentalmente i giovani sono, in tutte le epoche, sempre gli stessi. Che sono molto attenti al messaggio evangelico, ma che hanno anche delle esigenze, ad esempio quella a che il loro modo di approcciarsi alle cose del mondo sia quanto più consono ai propri principi e alle proprie aspirazioni. I giovani cercano di realizzare sé stessi all’interno del contesto sociale e per farlo utilizzano gli strumenti tradizionali del lavoro, della professione, del matrimonio e alcuni anche del sacerdozio. Sulle giornate mondiali della gioventù, dice il Papa che la prima di tali giornate non fu Sua iniziativa ma un qualcosa che partì dal basso e che nondimeno Egli ne fu lietissimo. D’altra parte il Pontefice considera i giovani di oggi fortunati per non aver dovuto essi condividere o perfino sperimentare sulla propria “persona” quelle che sono state le grandi tragedie del secolo passato. E’meglio o peggio, non aver vissuto una guerra, se non altro a livello di consapevolezza e formazione personale? E’possibile trasmettere ai giovani dei valori senza che sia necessario un nuovo conflitto mondiale che attraverso la morte di milioni di persone abbia l’effetto di riconciliare con “la vita” coloro che restano “vivi”? Il papa pensa di si.

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Con specifico riguardo all’esperienza della guerra mondiale, il papa è invitato da Messori a posare per un momento lo sguardo sulla tragedia dei totalitarismi che furono la causa prima dell’ultima guerra. Uno in particolare: il comunismo. Come interpretare le immani tragedie del XX secolo alla luce del messaggio evangelico? Dov’era Dio quando milioni di persone morivano in guerra, nei lager e nei gulag? In proposito la risposta del papa è innanzitutto un accenno a tutto ciò che di buono il cristianesimo ha fatto in favore della pace, della giustizia e della verità nel mondo ed Egli ci dice anche, in riferimento all’esperienza comunista, che coloro i quali instaurarono sistemi comunisti avevano anche essi le proprie ragioni come traspare dall’enciclica “Laborem exercens”. Il papa prosegue dicendo di apprezzare il movimento comunista nella misura in cui esso movimento è, al pari del Cristianesimo, ma sempre a “suo modo”, un movimento di redenzione, che tende a modificare la sostanza morale dell’individuo, in opposizione ai movimenti democratico/liberali in cui predomina il fenomeno deteriore del consumismo, cioè dei consumi in sostituzione dei valori fondamentali e degni di un essere umano, quei valori che rendono un semplice individuo “persona” anziché “consumatore”. D’altra parte il papa fa anche notare che la caduta del comunismo era già stata predetta e annunciata a suo tempo dalla Madonna ai tre fanciulli semianalfabeti di Fatima, fanciulli che di per sé stessi non potevano avere conoscenza di eventi tanto lontani ed estranei alla loro quotidianità. Non a caso il Pontefice fa notare che l’attentato di cui Egli fu vittima personalmente potrebbe essere stato necessario nell’ottica della Provvidenza di Dio e conforme al Suo modo di comunicare con noi uomini e in definitiva ai Suoi disegni ultimi su noi uomini e donne cristiani.

La domanda successiva che Messori pone al Pontefice è relativa alla circostanza che, nonostante il Cristianesimo, nelle sue tante diramazioni, e ad esempio nel confronto con la dottrina Luterana, sia una religione che accoglie nel proprio seno una quantità di credenze, riti, gruppi più o meno caratterizzati da posizioni ideologiche e prerogative che a volte vanno anche contro quelli che sono i dogmi cattolici, cioè le Verità di Fede quali predicate dalla chiesa di Roma; dicevo che ciò

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nonostante la Fede cattolica continua ad essere diffusa in tutto il mondo, e nella figura del Santo Padre e nelle gerarchie a professare le medesime verità di fede, senza curarsi di coloro, ma anzi favorendo il dialogo con coloro che, sempre nel seno del Cristianesimo, aderiscono a posizioni teologiche differenti, e a volte persino contrarie ad alcuni dogmi cattolici di cui il Pontefice è custode. In definitiva la domanda che Messori pone è la seguente: si può ad oggi affermare che la Chiesa cattolica sia l’unica tra tutte le Chiese cristiane, a detenere il “monopolio” della Verità?

La risposta del papa attiene alla metafora, presente in molti testi ufficiali e non ufficiali della Chiesa, e che risale a San Tommaso, secondo cui il corpo di Dio che è la Chiesa, ha tante diramazioni, come per l’appunto lascia intuire la similitudine del corpo umano e delle sue membra risalente sempre a San Tommaso D’Aquino. Detto ciò il Papa ricorda che la Chiesa cattolica è incentrata su Cristo, che essa è una Chiesa “cristologica”, ma che nonostante i dogmi relativi a Cristo siano immutabili, e non possano essere “scardinati” dalle credenze e dai culti affini a quello prettamente cattolico, vero è comunque che il dialogo con tali diramazioni da parte del Cristianesimo cattolico è molto intenso, nonostante le inconciliabili differenze. A giustificazione di ciò e soprattutto a difesa dei dogmi di Fede, la Chiesa cattolica dispone di alcune istituzioni, ad esempio la Congregazione per la dottrina della Fede, che garantiscono l’uniformità e la coerenza del messaggio evangelico, a scanso di deviazioni dalla retta “opinione” sulle Sacre scritture. E tale prerogativa non discende dall’alto, non ha alcuna altra derivazione che la vita, la morte e la resurrezione di Cristo, colui che quella Chiesa a suo tempo ha fondato. Fu Cristo, come è più che noto, ad istituire in Pietro il primo Papa. Questo dovrebbe essere un monito per tutti coloro che vorrebbero inficiare il messaggio evangelico con interpretazioni posticce ovvero con la contestazione e il rifiuto rivolti ad alcuni dogmi di Fede, che i Pontefici, nel corso della storia, hanno introdotto al fine di completare e armonizzare la Dottrina Cattolica con l’insegnamento iniziale di Cristo, ciò di cui Gesù stesso aveva ad essi conferito il compito con la fondazione

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della Chiesa cristiana, per mezzo di Pietro, attribuendo a quest’ultimo e a tutti i suoi successori “le chiavi” del Regno. Tuttavia, nonostante l’unicità e sostanziale coerenza del messaggio evangelico, quale inteso dalla Chiesa di Roma, continua il Papa, esistono all’interno del movimento cristiano alcune divisioni in merito all’interpretazione dei Vangeli. La prima divisione interessa i rapporti tra Cattolicesimo occidentale e Chiesa ortodossa orientale di rito bizantino. Si tratta tuttavia di una divisione meno intensa di quella che interessa i rapporti, ad esempio, tra la Chiesa protestante anglicana e sempre la Chiesa di Roma. L’unico modo per appianare i contrasti, dice il Papa, per quanto possibile, è l’instaurazione di un dialogo costante che tenga conto dei caratteri peculiari di ogni confessione che si dica cristiana, e anche purtroppo della esigenza da parte di tali confessioni, di discostarsi a volte in maniera persino intollerabile, dalla Verità cattolica. Anche agli ebrei il Papa si rivolge nell’ottica di un dialogo costante, e nella consapevolezza di quella immane tragedia che è stato l’Olocausto per il popolo Ebraico. Ma in che modo sarebbe oggi possibile ricondurre ad unità le tante divisioni all’interno del Cristianesimo, anche tralasciando il dialogo con altre Fedi? Il Papa in proposito ricorda il valore della tolleranza e il “principio” del “buon vicinato”, e fa notare che le differenze a volte sono fonte di ricchezza, anche quando riguardano la totalità dei movimenti che ad ogni modo si richiamano al messaggio cristiano.

E poi il Concilio Vaticano II, su cui Messori chiede l’opinione del Pontefice, il quale paragona il Concilio a qualcosa che abbia a che vedere con la Pentecoste, e cioè l’Unione dialogante di uomini che provengono dalle più diverse Nazioni, che si riuniscono per il Bene della Chiesa, e per indicare a tutti i credenti in un momento delicato il percorso da intraprendere. Il Concilio, una volta concluso, ispirò poi i Sinodi post/conciliari, in uno dei quali, ovviamente successivo al Vaticano II, nacque tra i Padri Conciliari l’idea di redigere il Catechismo della Chiesa cattolica, che ad oggi da decenni è uno dei libri a carattere religioso più diffusi nel mondo. Sempre per quanto riguarda il Concilio Vaticano II dalla prospettiva del Pontefice, Messori ricorda come il Papa fosse stato in più di una occasione tacciato di intenti

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restaurazionisti all’interno del Concilio. Ovviamente non è così, dice il Pontefice: il Concilio è stato una grande occasione di riunificazione e di dialogo tra i rappresentanti di tutti i movimenti dichiaratamente Cristiani. Il Concilio fu sicuramente un’occasione di incontro e condivisione con una forte apertura verso la presenza dei Cattolici nel mondo, sia al livello delle gerarchie, che operano nell’ambito delle missioni diffuse nei Paesi più lontani del Continente africano, sia in Estremo oriente sia in Sud America, sia al livello della comunità dei fedeli, attraverso un dialogo costante, ricco di aperture e di occasioni di confronto. Ma il richiamo al Concilio, fa notare Messori ha introdotto nell’ambito dei credi e delle confessioni legate alla Chiesa di Roma da una origine comune, cioè il riferimento cristologico, una forte opposizione a certe decisioni di Fede adottate proprio in ambito conciliare. Il Papa ne è ovviamente consapevole nella misura in cui ci dice che, nonostante la maggiore libertà dei costumi, non del tutto invisa alla Chiesa, esiste il forte pericolo di un crescente relativismo, con il quale già Papa Paolo VI aveva dovuto confrontarsi, quando promulgava l’enciclica Humanae Vitae. Si può comunque affermare, dice il Papa, che il Concilio sia stato la causa, la fonte, di una fede rinnovata e più profonda. Infine un accenno al comunismo, la cui caduta, afferma il Papa, costituisce un fattore positivo dato che ha consentito il risorgere del sentimento religioso nelle Chiese dell’Europa dell’Est, in particolare in quella di rito ortodosso. Se poi però si guarda un attimo al recente passato e si pensa alle tragedie che gli uomini di tutto il mondo hanno vissuto durante il XX secolo, allora si può ragionevolmente affermare che il secolo XX è stato popolato di martiri della Fede, ad esempio Massimiliano Kolbe o Edith Stein, i quali sono vissuti per testimoniare ancora una volta che in millenni di storia e nonostante difficoltà apparentemente insuperabili, la Chiesa Cattolica, ma anche l’Ortodossa, sono ancora vive e presenti accanto agli uomini di buona volontà e ai veri credenti.

Per rispondere ad una ulteriore domanda di Messori, inerente alla esistenza, se sia ancora viva e presente o retaggio del passato, di Inferno, Purgatorio, e Paradiso, il Papa cita allora l’Enciclica Lumen gentium, nella quale si parla di “funzione

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escatologica” della Chiesa e della sua dottrina. Noto è il significato di “escatologia”, intesa come la somma di tutto ciò per cui la Chiesa in attesa del Giudizio Universale opera qui sulla Terra. E’questa la verità che l’enciclica in parola ci ricorda, ossia essa ci ricorda che in un tempo più o meno lontano da oggi ognuno di coloro che adesso sono qui, nel mondo e vivono le proprie esistenze, magari incuranti del “domani”, dovranno al fine rendere conto finanche dei loro pensieri, perché questo è ciò che li attende al cospetto di Dio. L’uomo infatti, dice il Papa, è un essere responsabile, cioè consapevole di ciò che è bene e di ciò che è male. In tale prospettiva occorre distinguere tra Chiesa “temporale” e Chiesa “celeste”. Occorre operare sempre nel senso che tutto ciò che di santo e di giusto è in Cielo sia fonte di santità e di giustizia sulla Terra. E’ probabilmente vero, dice il Papa, che tutto ciò che di umanamente tragico è accaduto nel XX secolo abbia allontanato le coscienze dal pensiero di un inferno spirituale e quindi non terreno ma trascendente, dopo aver constatato dove l’umana crudeltà può giungere per mezzo degli Inferni terreni che hanno travagliato nel ‘900 più di una generazione e si parla ovviamente e in sottofondo sempre del Comunismo. Tutto ciò però non deve far perdere la speranza che la “sensibilità per le cose ultime” debba condurre il credente in un luogo sicuro per sé ma soprattutto per la propria anima, ossia acquisire il senso della non comparabilità tra ciò che accade in questa vita che è come ricorda il Salve o Regina “una valle di lacrime”, e ciò che accadrà dopo, ciò che per i peccatori irredenti sarà dieci, cento, mille volte più terribile di tutto ciò che può accadere qui sulla Terra, e finanche peggiore di un Inferno sulla Terra. E diciamo pure che una mano, quale è quella della Chiesa, è sempre presente nel mondo, anche quello d’oggi, per indicare una via, un cammino di Fede che, se percorso fino in fondo può portare alla salvezza eterna.

Se poi sia umanamente possibile vivere una vita retta e fondata su dei valori di riferimento, pur senza aderire ad alcun credo o fede, il Papa ammette che ciò è senz’altro possibile. Ostano però ad una pienezza di vita e di felicità, tutte le cose che derivano all’uomo da due suoi attributi: una coscienza e un senso della Verità

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che se non nutriti, se non curati, possono determinare uno stato d’animo interiore molto simile a quello del marinaio che ha perduto la bussola e non riesce a riprendere terra. Va anche detto che, per restare all’esempio, “perdere la bussola” è qualcosa di molto più facile che nel passato. La società odierna ha sostituito i propri falsi dei, cioè essenzialmente i beni di consumo, con il vero Dio, nonostante Lui solo sia fonte di una vera pienezza e gioia nell’esistenza. Tuttavia anche coloro che non hanno conoscenza delle cose di fede e per i più diversi motivi, hanno la possibilità di avvicinarsi, anche proficuamente alle verità della Fede. Tutto ciò ovviamente senza scadere in quella che, tra le innumerevoli eresie, che nel corso dei millenni hanno minacciato l’Unità della Chiesa, fu definita, come già accennato, Eresia Pelagiana secondo la quale l’uomo può condurre una vita felice anche a prescindere dai Vangeli, a prescindere dalla Grazia Divina, ciò che ovviamente non corrisponde a Verità.

In tema di “diritti umani”, tema molto attuale al giorno d’oggi, Messori chiede al Santo Padre innanzitutto in che modo i diritti umani possano essere definiti da un punto di vista cristiano e in secondo luogo se si tratti solo di diritti intesi in senso meramente materiale o anche in senso spirituale. Insomma se vi sia o no qualcosa di più profondo.

La risposta del Pontefice parte dalla considerazione del marxismo come dottrina sostanzialmente fondata sulla violenza dell’uomo contro l’altro uomo, ma ciò, questo carattere del marxismo, è in contraddizione con ciò che il marxismo intende realizzare, cioè la felicità dell’uomo su questa Terra. Il Papa ci dice che questa strada, quale esempio di tante altre, è sbagliata, da tutti i punti di vista e sulla base di qualsiasi dottrina, se non ci si apre alla consapevolezza e alla pratica quotidiana di un unico messaggio, il “comandamento dell’amore”, messaggio portato da un unico “messaggero”: il Cristo. E’soltanto donando sé stessi agli altri che si può realizzare un mondo migliore, amando cioè il prossimo come sé stessi, come solo Cristo ci ha amati e come solo in Lui e con Lui possiamo trovare lo stesso tipo di apertura spirituale verso il prossimo.

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E’ chiaro però che il comandamento dell’amore deve confrontarsi con alcune realtà che non solo ignorano tale comandamento ma che anzi cercano di negarlo, di relegarlo su un piano soggiacente e subordinato, per rivendicare istanze che per ipotesi possono anche essere considerate “giuste”, ma che senz’altro esulano dalla messa in pratica del messaggio cristiano. Si parla in primissimo luogo di diritto all’aborto in contrapposizione al diritto alla vita del nascituro. Va detto che il Papa si è molto esposto su questa tematica, tanto che i suoi continui messaggi pubblici e le sue esternazioni sono state spesso definite “ossessive”. Il Papa spiega che il diritto alla vita è un diritto non solo civile ma anche fortemente legato alle dottrine e ai principi della Chiesa di Cristo. L’interruzione di gravidanza non è niente altro che la compressione, o peggio la repressione di questo diritto, il diritto alla vita, che non per niente molti vorrebbero fosse postposto a quello della madre che decide per l’aborto. Abortire, tranne forse in casi estremi non può costituire un diritto, o quanto meno un diritto da contemperare con altri diritti: ad esempio il diritto/dovere di avere figli in costanza di matrimonio, il dovere di praticare l’astinenza sessuale per quanto è possibile, il dovere cui ogni donna è tenuta di scegliere, di preferire la vita alla morte. Grazie anche alle forze politiche cattoliche dei tempi che furono, l’aborto è oggi regolato da una legge, che dovrebbe essere intesa a regolarizzare il fenomeno e a ricondurlo nell’alveo dei comportamenti “a rischio” e pertanto doverosamente renderlo oggetto di un controllo la cui esplicazione è ovviamente da ascrivere alle autorità preposte: per questo esiste una legge sull’aborto, ed è già qualcosa.

E’ noto che il Pontificato di Giovanni Paolo II è stato costantemente ispirato alla devozione, particolarmente intensa, da parte del Pontefice, per la Madre di Dio. Ovviamente la domanda di Messori non può che evocare alla mente del Papa episodi antichi, cui il Santo Padre ebbe facoltà di assistere, episodi di devozione al culto mariano, a cominciare da quando, bambino, Papa Woytila contemplava con profonda devozione l’immagine della Madonna del Perpetuo Soccorso, oppure il ricordo del culto della Vergine di Jasna Gora, rappresentata da una statua a immagine di donna “di colore” e venerata da secoli come la Regina della Polonia. A

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parere del Papa, tutto quel movimento libertario che riguarda molte donne odierne, ossia una riproposizione delle posizioni del femminismo degli anni ’60, si deve ad uno scarso rispetto per la figura della donna, che si sente fortemente sminuita e oltraggiata da certi comportamenti prettamente maschili, che tuttavia derivano spesso da una scarsa conoscenza del problema dei rapporti, anche nei luoghi pubblici, tra uomini e donne, e ciò sia da parte degli uomini che delle donne.

E per finire questa lunga intervista della quale ho tentato di sviluppare le tematiche e dalla quale ho tentato di estrapolare gli insegnamenti più significativi, c’è un’ultima affermazione che vorrei sottolineare, e che ci riconduce all’inizio del colloquio tra Messori e il Papa: il “non abbiate paura” con cui il dialogo in parola ha avuto inizio. Per rendere ulteriormente chiaro il significato attribuito dal Papa a tale esortazione, Egli pone a confronto da una parte la dialettica “padrone/servo” formulata a suo tempo dall’eminente filosofo tedesco Hegel, e dall’altra il rapporto padre/figlio su cui si fonda il messaggio evangelico, nella fattispecie della parabola del “figlio prodigo”. Mentre infatti la prima delle due relazioni menzionate si riferisce a un qualcosa di imposto per mezzo della violenza, la seconda, quella tra padre e figlio, è fondata sull’Amore. E alla fine della storia l’Amore è tutto ciò che rimane. Gesù lo sapeva prima di chiunque altro, Padre a parte.