martedì 19 agosto 2025

Come annunciato nei messaggi che precedono il post che sto per presentarvi contiene un lungo saggio a carattere sostanzialmente "divulgativo" all'interno del cui elaborato si incontrano più generi letterari. Dato che la prima versione del lavoro è piuttosto ingombrante, direi che un post per ogni sezione dell'opera andrà più che bene per dare modo a chi abbia in animo di leggerla senza dover sostenere uno sforzo irragionevole.

Iniziamo dall' introduzione e dal prima capitolo dell'opera.

CONSIDERAZIONI ATTUALI

Individuo. Società. Religioni a confronto.

Premessa

Carattere del presente lavoro è l’utilizzo di alcuni strumenti letterari, nella fattispecie di alcune distinte “forme” o “generi” letterari: la cronaca autobiografica; l’opuscolo a carattere politico, economico e sociale, incentrato su questioni riferibili al contesto sociale di cui lo scrivente è parte, con più ampi accenni ad alcune problematiche relative alla storia italiana; l’indagine storico/religiosa; il commento a opere prettamente teologiche . Tutto ciò attraverso un procedere prevalentemente divulgativo, quindi espressivamente semplice, che dovrebbe consentire, per quanto possibile, allo scrivente, di confrontarsi, oltre che con il proprio vissuto personale e il contesto familiare e sociale di riferimento, anche con una problematica di più ampio respiro, cioè la tematica religiosa. I suddetti strumenti sono necessari anche a che lo scritto in parola possa adeguatamente favorire nel lettore una riflessione in merito a questioni, non solo attinenti alla storia personale dello scrivente, e al proprio contesto familiare e sociale, ma anche relative a problematiche teologiche, cioè attinenti alla religione o per meglio dire “alle” religioni, con una chiara limitazione della trattazione a quelle maggiormente diffuse e praticate nel mondo. Tutto ciò altresì nell’intento di stimolare nel lettore un rinnovato interesse per le tematiche in discorso, insieme al tentativo di determinare un sommovimento in senso positivo della sensibilità sempre del lettore, e ciò nell’auspicio che sempre il lettore, e sempre se ve ne saranno, persino tra coloro cui accadesse di avere tra le mani lo scritto in parola, eserciti nei riguardi di esso scritto, oltre a tutto ciò che

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occorre per apprezzare adeguatamente un lavoro di scrittura simile a quello cui mi riferisco in questa breve premessa, e che cercherò di sviluppare in seguito, quella dote naturale a ciò indispensabile: la capacità di porsi delle domande e di cercare di dare ad esse delle risposte. Lo scritto che presento al lettore è suddiviso in cinque parti, apparentemente ciascuna a sé stante e nondimeno tutte legate da un intento che rappresenta in via definitiva l’esigenza, da parte dello scrivente, di testimoniare il proprio vissuto e altresì di chiarificarlo a sé stesso prima che ad altri, tutto ciò anche con l’ausilio della trattazione storica e teologica, cui riferire un discorso sufficientemente ampio sulle religioni, ciascuna collegata ad un preciso contesto storico. Il presente scritto vorrebbe, pertanto, costituire una indagine sui fini ultimi del proprio personale percorso di vita, generalizzando la propria esperienza individuale, a carattere interiore, per estenderla e porla a confronto con quella relativa al contesto familiare e sociale di riferimento, per poi passare “hegelianamente” da quest’ultimo al concetto di “trascendente”, nel modo in cui tale concetto si trova espresso dalle maggiori manifestazioni del sacro, cioè sempre del trascendente, che la civiltà umana abbia ad oggi prodotto: le religioni. E sempre tra le religioni, riferendomi a quelle più diffuse nel mondo, maturare una riflessione che per i gradi suddetti conduca ad una maggiore conoscenza, come in un percorso di personale catarsi, dapprima dello scrivente relativamente al proprio vissuto, e successivamente in riferimento agli altri ambiti indicati, ma sempre tenendo presente la ricerca di un ideale punto di contatto intellettuale con il lettore, in merito a tutto ciò che in termini concettuali sarà inserito nel presente lavoro, in maniera che lo scrivente spera sia coerente e sempre nella speranza che il presente lavoro possa costituire un mezzo atto a tale intento. Come detto, le partizioni in cui il presente scritto è suddiviso sono cinque: la prima è incentrata sulla personale ricerca interiore che dovrebbe consentire a chi scrive, per quanto possibile, di rinvenire entro sé stesso i propri ricordi, quelli ovviamente di una certa rilevanza e attinenti alle situazioni che pian piano emergeranno nel corso della scrittura, ed anche quelli a carattere strettamente personale, così da renderne partecipe il lettore; tutto ciò

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insieme alla formulazione di considerazioni e opinioni sempre a carattere strettamente personale, ma sorrette da un sostrato di conoscenze specifiche, sulla realtà vivente del comprensorio del Vallo di Diano, cioè il territorio in cui vivo, il che sarebbe a dire un insieme che, come accennato, auspico sia coerente, composto di notazioni e considerazioni, anche a carattere propositivo oltre che meramente descrittivo, innanzitutto in riferimento alla mia storia personale, per poi poggiare su una base critica a sfondo politico/sociale/economico la descrizione di avvenimenti relativi al contesto sociale, non eccessivamente recenti, che per essere valutati con un minimo di oggettività richiedono di essere osservati alla giusta distanza, e quindi per l’appunto relativamente risalenti. La seconda parte dello scritto consta invece di un insieme di considerazioni, sempre a carattere personale, e tuttavia fondate su una minimale base di nozioni teologiche, relative ad un’opera direttamente riferibile ad una figura di altissimo rilievo all’interno della Chiesa Cattolica, cioè il Santo e Pontefice Giovanni Paolo II. Le osservazioni che intendo formulare riguardo a questa figura “epocale” nella storia della Cristianità traggono a fondamento, tra le opere che il sunnominato Pontefice ha a suo tempo redatto e dato alle stampe, il libro/intervista a cura del vaticanista Vittorio Messori, dal titolo “Varcare la soglia della Speranza”, un’opera chiaramente abbastanza risalente, in quanto pubblicata nel 1994, ma che ritengo nondimeno ricca di interesse anche per i lettori di oggi, relativamente ai quali mi pare costituisca un qualcosa che conserva un valore eminentemente divulgativo e anche indirettamente educativo, quale essa ha sempre avuto, valore che è percepito anche dallo scrivente, cioè che lo scrivente ha interesse a raccontare l’intervista al papa, di cui ha preso lettura, come momento di personale riflessione, e sempre sulla base dei contenuti che un lettore, peraltro non del tutto privo di nozioni di teologia, sia atto a recepire e a porre per iscritto possibilmente senza dire inesattezze. Ciò che scriverò a proposito dell’opera considerata, sarà comunque qualcosa di originale e a sé stante: nessun timore di plagio. Si tratta invero di un buon numero di osservazioni e considerazioni personali, da un lato a carattere divulgativo, dall’altro a carattere esplicativo o di semplice commento,

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originate dalla lettura del testo in parola, ma come detto senza che chi scrive si appropri della lettera dell’opera, cioè senza che ne realizzi una semplice riscrittura. Sempre poi nel solco tracciato dall’approccio, il quale vorrebbe essere umilissimo ma anche ove occorra rivolto in senso critico, all’oggetto dell’analisi, la terza parte dello scritto che presento al lettore, include, essa parte, per quanto possibile e per quanto la difficoltà di realizzarne il proposito lo consenta, una comparazione tra le maggiori – se non altro quanto al numero di fedeli che esse possono contare – religioni del mondo presente, e cioè oltre alla Cristiana, la Musulmana, la Ebraica, la Induista, e la Buddhista. E sempre per quanto i mezzi intellettuali e culturali di cui posso disporre me lo consentano, una comparazione che sia suddivisa in due “insiemi” secondo un ragionamento che proceda per “affinità/differenze”, ragionamento che conduca esso stesso a considerare in un insieme indipendente, ma che contenga tutto ciò che riguarda, se non altro a livello divulgativo, le interrelazioni tra Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo, cioè tra quelle che vengono a ragione dette “Religioni del Libro”, perché tutte in qualche modo legate alla Scrittura Biblica, e quindi più simili ciascuna alle altre. In tal senso tenterò di instaurare un discorso che, dalle origini dei culti menzionati, giunga sino ad oggi, e ovviamente anche e per quanto detto un discorso relativo a tutte le interrelazioni tra Cristianesimo, Islamismo ed Ebraismo dalle origini sino ad oggi, ovviamente sulla base di alcuni ben definiti episodi storici, con particolare riferimento, quindi, all’aspetto storico prima che teologico, ma con le dovute cautele, cautele frutto di un approccio privo di pretese veritative o scientifiche, alle vicende che interessano e soprattutto “hanno interessato” nel corso di secoli, le tre religioni considerate. Ad esempio e per quanto riguarda gli Ebrei, evidenziare e commentare le periodiche persecuzioni che ancora ad oggi denotano il particolare rapporto tra questo popolo dalla storia millenaria e il suo Dio, che è fonte di prosperità ma anche di immani tragedie, rilevantissima fra tutte l’Olocausto subìto dagli ebrei nel secolo scorso, avvenimento che gli ebrei considerano chiaramente alla stregua di una delle tante sciagure inviate da Dio a causa dell’allontanamento di Israele, cioè sempre degli

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Ebrei (Israele, cioè Popolo di Dio, cioè Popolo Ebraico) dalla via della Fede in Yahveh, il loro Dio, il Dio delle Scritture. Se poi tento di risalire indietro nel tempo attraverso l’utilizzo della riflessione personale e di quel minimo di cognizioni di cui ho memoria in merito al tema trattato, ma soprattutto della bibliografia che ne è alla base, allora mi si rivelano di specifico interesse i rapporti tra Ebraismo e Cristianesimo nei territori a prevalenza cristiana, nella fattispecie focalizzando l’attenzione su un Paese e su un’epoca, quale fu l’Italia e quali furono i secoli precedenti la realizzazione dell’Unità politica del Paese, quando ancora esisteva uno Stato della Chiesa che con l’Ebraismo intratteneva rapporti di relativa intolleranza e segregazione, e finanche ancor più indietro nel tempo, tentando di indagare il tipo di relazioni intercorrenti tra l’ebraismo e le altre due religioni oggetto del presente discorso, ed anche, ove lo scrivente riesca nell’intento, il tipo di relazioni tra le tre religioni monoteistiche e gli adoratori di altri culti durante quello che fu il periodo di nascita e consolidazione dei fondamenti teologici e dottrinali delle tre religioni in parola. Per quanto riguarda la storia del Cristianesimo, ma anche dell’Islam, pur non essendo un teologo né uno storico vorrei fare lo stesso che con la religione Ebraica, cioè elaborare una ricostruzione della storia di ciascuna di queste fedi in relazione alle altre due traendo a motivo alcune vicende storiche in riferimento alle quali ha avuto luogo un qualche tipo di interazione tra coloro che, nel corso di secoli, rispettivamente, abbracciavano ciascuno uno dei suddetti culti. Quindi non solo a partire dal punto di vista teologico, ambito nel quale peraltro e come detto, posso contare su un limitato insieme di conoscenze, ma soprattutto in riferimento alle vicende storiche del culto cristiano, gran parte delle quali ovviamente presuppone un incontro/scontro sempre tra cristianesimo e gli altri due culti interessati e di ciascuno di essi con gli altri due. Insomma tutto ciò che nel volgere degli ultimi 2000 anni circa si può ritenere abbia interessato nella maniera più rilevante, e cioè nei modi e nelle maniere che verranno evidenziate nel corso dello scritto, i tre culti in parola. Tutto il discorso è ovviamente da intendersi rivolto a fini che sono sempre divulgativi, non essendo lo scrivente né uno storico, né un teologo, come detto, ma

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forse un capace divulgatore. Per altro verso vorrei che l’intento comparativo della presente scrittura interessasse anche le affinità e le differenze tra due religioni che fanno riferimento ad altri contesti civili e sociali e a differenti ambiti socio/culturali ma che sono altrettanto rilevanti, non fosse altro che per il numero di fedeli che ancora oggi ad esse rendono culto nel mondo, ossia Induismo e Buddhismo, religioni anche esse in parte fondate su testi scritti di riferimento. La quarta parte è invece relativa ad una riflessione, puramente personale, ma ovviamente su base testuale, attinente al problema dell’esistenza dell’anima per come esso è inteso negli scritti di S. Tommaso D’Aquino. La quinta e ultima parte del presente lavoro vorrebbe invece essere un tentativo di confrontare il contenuto dei Vangeli e ancora il problema relativo alla sostanza animica, con la riflessione personale di S. Agostino, quale fondamentalmente essa è condensata in alcuni suoi scritti giovanili.

Parte prima: considerazioni personali retrospettive

Per iniziare mi si lasci ribadire che l’insieme delle considerazioni che mi accingo a formulare e sviluppare nella prima parte della presente scrittura, se mi si concede la legittimità di una simile pretesa, è relativo, in qualche maniera e misura, alla mia storia personale, unitamente ad alcune considerazioni in merito alla realtà del comprensorio valdianese, cioè del Vallo di Diano, un territorio situato al confine tra Campania e Lucania, amministrativamente afferente alla Provincia di Salerno, nel quale vivo e ho vissuto la gran parte della mia vita; considerazioni condensate nel presente scritto e nei limiti che mi sono concessi e dalla mia personale memoria e dal materiale documentale che a suo tempo ho avuto modo di consultare. Le fonti cui ho attinto al fine di attenermi per quanto più possibile alla veracità e all’esattezza delle informazioni e delle cognizioni inserite nel presente scritto, sono molteplici e verranno indicate nella bibliografia riportata in fine alla presente scrittura, in una sezione ad essa specificamente dedicata. Peraltro mi sarebbe chiaramente impossibile mettere per iscritto ed al tempo stesso attribuire valore veritativo a tutto ciò che, al di là delle fonti la cui fruizione da parte mia è stata

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indispensabile ai fini della scrittura del presente lavoro, non si trova altrove che nella mia memoria e sulla quale memoria altrettanto ovviamente non esistono e non possono esistere fonti scritte o altrimenti consultabili. Vorrei anzi ribadire che la mia memoria è l’unica fonte davvero in massima parte attendibile, sempre a scanso dei predetti riferimenti bibliografici, in merito a tutto ciò che di personale ho facoltà, in quanto la mente ancora lucida di un uomo di mezza età, quale io sono, me lo consente, di ricordare nel merito di ciò che è stata la mia vita dai primi mesi successivi alla nascita fino ad oggi. Ciò che vale per gli autori di tutti i libri di memorie e di cronache autobiografiche vale quindi anche per me, almeno in questa parte del presente scritto: non esigo né pretendo che tutto ciò che ricordo corrisponda al vero, come non pretendo che il materiale consultato sempre ai medesimi fini, cioè la realizzazione di questa parte del presente scritto, allo stesso modo in cui in un qualunque scritto che vorrebbe porsi come di “critica sociale” o, nello specifico della parte del presente scritto dedicata alle memorie personali dello scrivente, come di “cronaca autobiografica”, peraltro commista a considerazioni di ordine politico, sociale ed economico, nel senso più propriamente riferibile a tali espressioni, sia un qualcosa di sufficientemente attendibile. Detto altrimenti non pretendo che ciò che mi accingo a narrare e ad esporre, nonostante il lume costantemente volto alla ricerca della esattezza e della inconfutabilità, quanto all’aspetto veritativo, di un racconto peraltro difficilmente verificabile nei fatti, nella sua versione definitiva, in una parola quello che in fabbrica si dice “prodotto finito”, non sia anche notevolmente differente, anzi forse addirittura contrastante in riferimento alle intenzioni iniziali dello scrivente. Non è altresì mia personale intenzione citare tutti coloro che ho avuto la sfortuna, a volte, a volte la fortuna di incontrare nel corso di 38 anni circa di vita vissuta. Tuttavia chiedo al lettore un minimo di indulgenza pregandolo di considerare che l’esigenza di tutelare il diritto alla privacy, la mia così come quella di altri, non può porsi in contrasto con l’esigenza di menzionare se non rappresentare per quanto è in me, una buona parte di coloro che ho incontrato e che ho frequentato nel mio personale percorso di vita e

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di studio. Attribuirò quindi a ciascuno di coloro che, nel bene e nel male, mi hanno accompagnato nel mio personale percorso, dei nomi fittizi, se proprio occorresse attribuire a ciascuno di loro un nome, pur nella più completa incertezza, in merito alla probabilità che gli interessati, anche tra coloro che avranno tra le mani la presente scrittura, abbiano modo e motivo di ricordare quei giorni, quei momenti che rappresentano dei frammenti del loro vissuto come del mio, ma che ad ogni modo confido abbiano lasciato una qualche traccia anche nei loro ricordi. Se è così ne sono più che lieto; se non è così allora sono certo di potermene in qualche modo fare una ragione. Tutto ciò che ho scritto finora è ovviamente necessario a chiarire i termini del discorso, e costituisce altresì una dichiarazione cautelativa contro coloro che, ove gli salti la pulce nell’orecchio o la mosca al naso, comincino a “meditare” azioni legali nei miei personali riguardi, sempre in ragione di ciò che mi accingo a mettere per iscritto.

Come in ogni prova letteraria che si rispetti, e penso ai Promessi sposi del Manzoni piuttosto che al Decameron di Boccaccio, all’Iliade di Omero piuttosto che alla Sua Odissea, occorre che il narratore inquadri il contesto dell’opera, ed è ciò che tenterò, spero efficacemente, di fare qui preliminarmente anche io. Innanzitutto, trattandosi di uno scritto che in parte attinge al genere letterario della autobiografia, ma anche a quello dell’opuscolo di critica sociale e di costume, credo che inizialmente, come nella successione dei generi citati cui ho inteso riferire il contenuto dello scritto in parola, occorra qualche breve cenno al luogo della mia nascita, cioè, con termine abusato, una “ridente” cittadina in provincia di Salerno a nome Polla. Polla può essere territorialmente collocata in quel frangente della nostra Italia in cui prosperano i centri abitati che con locuzione anch’essa ormai abusata vengono definiti “piccoli centri”, con riferimento a quella espressione più generale, cioè Italia dei Comuni, espressione la quale non è altro se non quell’abito mentale che porta a considerare che, sebbene unica in quanto “Nazione”, esiste in Italia un consistente novero di centri abitati che conservano, accanto alle proprie, irriproducibili bellezze naturali, anche un certo modo di vivere, di pensare, di concepire i valori sociali e

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quindi un proprio concetto di socialità e di convivenza, differente da comune a comune. E’ questa una regola a cui Polla non fa eccezione. A questo punto sento l’esigenza di descrivere, per quanto è in me, coloro che a Polla non solo ci sono nati, come lo scrivente, ma anche coloro che ci vivono da sempre, quotidianamente. Se tento di ritornare sufficientemente indietro con la memoria, ai miei ricordi di bambino e poi di ragazzino, essi ricordi sono ossessionati, in riferimento a Polla, dalla terribile paura degli zingari. Si diceva all’epoca che il Nostro Oriente, cioè i territori al di là dell’Adriatico, territori che un tempo avevano rappresentato una ragione di timore ma anche delle più strambe fantasticherie, e cioè sempre e ovviamente i Paesi al di là dell’Adriatico; quei Paesi, a causa del crollo, o per meglio dire della “implosione” della propria struttura ordinamentale, cioè della Federazione Jugoslava, in precedenza retta politicamente e militarmente dalla forte autorità del dittatore Josip Broz, detto Tito, nome di battaglia quest’ultimo, assunto dal dittatore durante la resistenza contro i nazifascisti, dopo la morte di questi fosse piombata nel caos più assoluto a causa del risorgere di risentimenti religiosi conflittuali, temporanemanete sopiti dalla dittatura ma mai del tutto scomparsi. Si diceva anche che in un contesto del genere, frammentato e violentato dalle guerre interetniche, alcuni oppositori al nuovo ordine, cioè quelli che mi verrebbe da definire “anticomunisti per vocazione”, in Patria, ma al di fuori dei confini di quest’ultima “comunistissimi”, fossero stati indotti all’espatrio da una falsa “propaganda”, che li avrebbe motivati a recarsi oltre Adriatico per “esportare il comunismo”. Si diceva anche che questo fenomeno migratorio di massa interessasse non solo la ex Repubblica Federativa Jugoslava, ma ad esempio anche la vicina Albania. Tuttavia coloro i quali giunsero sulle coste italiane erano sì jugoslavi e albanesi ma non propriamente appartenenti a quelle etnie. Erano per dirla tutta, “zingari” o “gitani” che dir si voglia. E da allora, cioè dal loro arrivo a Polla come nei centri limitrofi, e privi di mezzi di sussistenza, si diceva un tempo che gli zingari cominciassero a commettere ogni genere di latrocinio, insomma di “furto”, nelle strade e finanche nelle abitazioni, finché, giunto all’età della piena ragione, un mio

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coetaneo mi raccontò che gli zingari avevano smesso di rubare. Ma Polla non era e non è soltanto questo. Polla è un comune che, per quanto riguarda l’atteggiamento verso il resto del comprensorio, non ha quel calore umano, quella apertura empatica che potrebbe essere invece attribuita a uno dei Paesi limitrofi, ad esempio a Sant’Arsenio.Tuttavia a Polla esistono, come in ogni gruppo sociale organizzato che sia degno di questo nome, delle regole, regole che vanno al di là di quelle “statali”, che periodicamente vorrebbero imporre alle istituzioni ivi presenti criteri e parametri di riferimento ad esempio in materia di gestione “ospedaliera”. No: gli abitanti di Polla lottano periodicamente perché l’ospedale non venga né destrutturato come vorrebbero alcuni, né ristrutturato, come vorrebbero altri, né chiuso al pubblico come talaltri vorrebbero. Si parla, per quanto riguarda Polla, di gruppi e sottogruppi sociali concorrenti e compresenti allo Stato e da quest’ultimo separati non certo fisicamente, ma a causa del loro carattere di popolo. In epoche ormai passate, cioè durante il II Conflitto Mondiale, ad esempio, gli zingari venivano deportati nei campi di lavoro, dove si tentava di dar loro una educazione alla proprietà, al lavoro onesto, al rispetto della legge, peraltro senza che tutto ciò sortisse grossi risultati. È la stessa dinamica adottata con maggior successo nei paesi ex componenti della defunta URSS, che attraverso il sistema delle zone etniche risolse per lungo tempo il problema dei caratteri asociali o antisociali degli zingari, assegnando sulla base della etnia di riferimento, ciascun gruppo etnico ad una regione territoriale, nel rispetto degli usi e dei costumi federativi ma anche su un piano di parità: io rispetto i tuoi usi e costumi purché non danneggino i miei, tutto ciò su una base di reciproca convivenza. Nascono così gli stati a prevalenza “nomade” delle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.

Ma parlavo di Polla. Tutto ciò che riesco ancora a ricordare del mio comune di nascita è, da un lato, una forte connotazione politica comunista, il rifiuto totale di autorità legittimamente costituite, una qualche tolleranza per l’elemento religioso e d’altra parte l’assenza quasi totale di politiche per il lavoro. Non c’è modo a Polla di trovare un qualche tipo di occupazione retribuita in quanto il réfrain è il seguente:

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cerchi lavoro? A cosa ti serve un lavoro se abbiamo un ospedale e quando hai fame puoi andare lì e riempirti lo stomaco? Si direbbe, e non vorrei straparlare, di economia razionata, pianificata, persino per quanto riguarda il cibo. A suo tempo, quando in altri luoghi, in altre sedi, si era nel ’92, fu deciso che in Italia bisognava portare i comunisti, il proposito fu sicuramente realizzato, ma a che prezzo? Tramite quali politiche di integrazione i migranti di oltre Adriatico furono accolti in Regioni come le Puglie o l’Entroterra Lucano? Quello che ricordo è un caos incredibile. Posso ipotizzare, ma è solo un’ipotesi, che una volta caduto il sistema partitocratico a causa di Mani Pulite, coloro i quali erano vicini alla propria fine politica avessero deciso di passare dalla socialdemocrazia al comunismo senza attendere che le “nostre” masse fossero pronte, ma addirittura invocando l’intervento esterno di gente che comunista lo era, ma semplicemente perché aveva la luce elettrica erogata direttamente dallo Stato, gente che insomma non era libera neanche di accendere la luce elettrica senza rendere conto a nessuno, tanto meno allo stato e cioè gente che non aveva sufficiente discrezionalità neanche relativamente a “quanta” elettricità utilizzare, sia in ragione del tempo che della quantità. Dicono che a Polla i consumi, a parte i pasti in ospedale, sono ridotti al minimo, e ovviamente quando qualcuno va in ospedale per mangiare è perché ha assunto qualche sostanza, volgarmente definita “pane”, che favorisce l’appetito. Ovviamente oggi a Polla la droga circola a fiumi come quasi dappertutto, non solo quindi a Polla, ma mi domando se il ricorso alla droga più che un bisogno indotto dai tempi presenti non sia un modo per controllare che le cose vadano bene, che nessuno si lamenti, che l’ordine sociale non venga turbato. Non sei contento della famiglia? C’è la roba. Va male con la ragazza? C’è la roba. Altra istituzione che se penso a Polla ricordo con piacere è il convento dei Frati di Sant’Antonio che rappresenta, come tutte le istituzioni ecclesiastiche, un qualcosa di “buono”, come una casa sempre aperta in cui chiunque può entrare in un momento difficile. Se penso alla politica mi viene da pensare che non sono mai stato in sede comunale a Polla, cioè non so, ancora oggi e pur essendo un uomo di mezza età, dove si trovi la sede del comune di Polla. Probabilmente esiste un tale livello di

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anarchia, il che non vuol dire “assenza” di regole ma una tale “interiorizzazione delle regole” che il potere amministrativo centrale non necessita, per essere esercitato, di istituzioni propriamente dette. Per passare ad altro mi fa sempre un gran piacere ripensare alla struttura urbanistica di Polla, il suo Ponte sul fiume Tanagro, il suo Monumento al Milite Ignoto, ma soprattutto la sua vita notturna, la sua Taverna del Cinghiale Bianco: difficile arrivarci ma servizio, portate e coperto sono impeccabili. Polla è sicuramente un “comune” nell’Italia dei Comuni, e non è molto differente tra i comuni del comprensorio, ad esempio da Sant’Arsenio, comune immediatamente limitrofo, provenendo dalla direzione Sud della SS19. Anche Sant’Arsenio ha il suo ospedale di riferimento, anche Sant’Arsenio lotta costantemente per una causa di civiltà: che l’ospedale rimanga aperto. Non importa che l’avversario sia la Provincia, la Regione, lo Stato. C’è gente che ha bisogno di cure e l’ospedale deve rimanere. Su Sant’Arsenio e il suo ospedale mi piace ricordare quello che a suo tempo un mio amico mi raccontò e dato che udii lo stesso concetto ripetuto da più persone ciò mi porta a riflettere se non sia proprio così. L’amico in questione mi disse che a Sant’Arsenio c’era e forse c’è ancora, una brutta aria, come se la gente che nasce e cresce lì avesse qualcosa di intimamente perverso, che porta la maggioranza della cittadinanza a recarsi almeno una volta nella vita in ospedale, in particolare nel suo reparto psichiatrico. Ovviamente quello che succede a Sant’Arsenio non è quello che succedeva mettiamo in Russia ai tempi di Breznev, cioè milioni di persone internate a causa di malattie inventate come la c.d. “psicosi del dissenso”. Un amico mi disse che a Sant’Arsenio la gente va in ospedale a causa di qualche tipo di contaminazione nell’aria che respira. Forse è una diagnosi migliore e più vera di quella della psicosi del dissenso. Di Sant’Arsenio ricordo un concetto della “pubblica proprietà” che non è quello che c’è in altri comuni. Lì esiste un rispetto per gli spazi pubblici che non si trova altrove. Non a caso uno dei pochi comuni che può permettersi di pagare un vigile urbano è proprio Sant’Arsenio, e tutto ciò ovviamente affinché vi sia qualcuno che si occupi degli spazi pubblici impedendo fenomeni deteriori come vandalismo o scarso rispetto del

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codice della strada la cui osservanza è il prodromo al pubblico decoro e all’ordine pubblico ma anche un qualcosa che consente di evitare accidenti come sinistri stradali o occupazioni abusive dello spazio pubblico, come accadrebbe se cominciassero a sorgere contrasti tra coloro che ai pubblici spazi “ci tengono” e coloro che vandalizzano un pubblico bene come una panchina pensando così di ribellarsi allo Stato, alla pubblica amministrazione o a chi quella panchina ha realizzato. Tra Polla e Sant’Arsenio c’è San Pietro al Tanagro, comune di dimensioni ridotte in riferimento a Polla o Sant’Arsenio, ma davvero pittoresco, col suo edificio comunale che ne rappresenta l’elemento di maggiore evidenza. Ecco, io non conosco altri edifici comunali in quella zona del comprensorio a parte il palazzo comunale a San Pietro. Ciò che colpisce è che accanto alla sede del Comune è sorta una piccola piazza con un piccolo pub, l’Urbe, nome motivato forse da un richiamo benaugurale ai tanti ragazzi che da San Pietro si spostano a Roma per “fare l’Università”. Ciò non vuol dire, sia per San Pietro che per Polla, che per Sant’Arsenio, che queste entità cittadine siano delle copie in piccolo dell’EUR a Roma. Anche i tre centri hanno i loro vicoli, le loro zone nascoste e anche ovviamente e purtroppo luoghi colpiti dal degrado urbano, ma la politica serve anche a questo: alla integrazione e al recupero sociale. In tanti partono con l’idea di fare il sindaco ma poi ci rinunciano perché la vita va vissuta per come è, va accettata in maniera moralmente sana e nel rispetto di tutti: questo vuol dire “integrazione”.

E veniamo al comune che più di tutti ha interessato i miei primi vent’anni di vita: Sala Consilina, che la stampa “comunale”, e non soltanto quella cartacea ma anche televisiva, almeno a livello di tv locali, definiscono “comune capofila” del Vallo di Diano. Ho passato a Sala Consilina tanti anni di studio e di socialità. Ho cominciato dalle elementari, come tutti, dalle suore però. Una formazione dura, a volte non adatta a bambini di quell’età ma che nella sua durezza aveva il seme degli uomini e delle donne di oggi, cioè degli ottimi cittadini e cittadine. Ciò che quel tipo di scuola predilige è ovviamente la formazione caratteriale e morale del bambino anziché quella prettamente didattica, ma ciò che ti rimane è un patrimonio di abilità che

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nelle scuole pubbliche non puoi trovare, perché le scuole pubbliche tendono a privilegiare esigenze di integrazione che presuppongono che il docente venga incontro al discente per aiutarlo quasi in modo “personalizzato”. Dalle suore no: lì siamo tutti uguali, non conta niente nessuno e ci sono degli standard di formazione che devono essere raggiunti. Per me passare dalle suore alle scuole medie è stato come passare dal carcere alla “rivista” in stile Totò: un cambio totale di prospettiva, minore disciplina, maggiore serenità nello studio ma anche minore profitto. Ancora oggi porto dentro le ferite del tipo di educazione ricevuto dalle suore, ma ne conservo anche il prezioso insegnamento. Poi le superiori al Liceo Classico. Studiare mi appassionava, ero uno in gamba, e tra le righe devo anche dire che all’età di 15 anni subii un atto di bullismo: fui malmenato davanti all’ingresso del Liceo per motivi che ancora adesso mi restano oscuri. Peraltro devo dire che gli anni del Liceo passarono discretamente bene, sia a livello di profitto che a livello di socialità, per quel poco che le differenze tra ragazzi provenienti da contesti sociali, cittadini e quindi culturali tra loro differenti potevano permettere.

Tutto ciò che ho scritto finora riguarda ciò che è la memoria “di superficie” dei miei primi vent’anni, ovviamente a livello scolastico, di contesto sociale e di cittadinanza. Tutto ciò che racconterò da ora in poi è un po’ una confessione ma è anche un modo per liberarmi da ricordi spiacevoli. Alcuni psicoterapeuti dicono che scrivere dei propri guai può essere un’ottima valvola di sfogo, e io ci credo. Ecco perché vorrei raccontare alcuni episodi che riguardano quella sfera dell’interiorità individuale che non può essere facilmente raccontata senza mettere da parte un po’ di pudore insieme ad una minimizzazione dell’ottemperanza alle convenzioni sociali comunemente accettate.

Tutto ha inizio quando avevo circa tre anni di età. Ero ricordo, un bel bambino, vispo, intelligente, in salute. Già a due anni davo a mia madre tali noie che per disperazione la povera donna mi mandò all’asilo, dove imparai a leggere e scrivere prima dei tre anni d’età. Ricordo che mangiavo anche in asilo, e che sulla qualità

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delle portate, da bricconcello che ero, avevo anche da dire. Solo a volte però. Ho ricordi frammentari delle frequentazioni in asilo ma ricordo bene il mio primo approccio all’insegnamento da parte di chi di dovere e alla formazione scolastica, che devo anche dire non fu dei migliori. Non accettavo critiche o prese in giro, mi sentivo perseguitato. Questo tipo di atteggiamento, cioè un vago senso di persecuzione me lo sono portato dietro per tutto l’iter scolastico, fino alle superiori e poi anche dopo, all’università, dove è sfociato in una vera e propria psicosi. Credo che il cattivo rapporto con la scuola intesa certo, come istituzione, ma anche come individui che lì dentro ci lavorano, sia nato principalmente da una non conoscenza delle dinamiche sessuali che in quei luoghi si instaurano tra bambini e poi ragazzini e poi adolescenti e magari anche con docenti. Tutto ciò per chiarire che la carica erotica di ragazzini sui 12 anni di età e a volte ancora più giovani, non viene percepita, come si può leggere in tanti testi dedicati all’infanzia e all’adolescenza e al passaggio dall’una all’altra. Esistono o esistevano ai tempi in cui ero ragazzino, insegnanti i quali, anziché consigliare ai genitori di prendere di frequente i propri figli sulle ginocchia come si faceva una volta, quando alle famiglie si diceva, in relazione ai figli e durante la loro crescita, la verità delle cose, cioè che nella fase dello sviluppo adolescenziale, la carica erotica di maschietti e femminucce va in qualche modo addolcita per non dare luogo a fatti o esperienze, piacevoli o spiacevoli ma comunque traumatizzanti; dicevo che esistevano docenti i quali anziché fare tutto ciò che un docente coscienzioso dovrebbe fare, in merito a questa problematica, non davano alcuna delle indicazioni che pure avrebbero dovuto dare a chi di dovere, cioè le famiglie, ma a volte “scandalizzavano” essi stessi i ragazzini per motivi che possono essere di duplice natura: o l’ignoranza del docente in merito oppure il menefreghismo e l’atteggiamento paracriminale del docente o dei docenti in questione. Occorrerebbe ripensare il concetto di sessualità in spazi pubblici come la scuola, gli ospedali, le carceri e in genere in ogni luogo in cui si riceve una qualche forma di educazione o rieducazione. Nel dire tutto ciò muovo dal presupposto che la ragione del generale silenzio, soprattutto a scuola, sulla morale

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sessuale e sul modo di fare certe cose, sia un qualcosa che va a ledere la libera e serena crescita dell’individuo. Dato che, e parlo per esperienza, il sesso ognuno lo fa a modo suo e che c’è anche gente incapace di farlo, allora si tace anche a coloro che ne avrebbero la capacità, la possibilità di avere una sana vita sessuale. E qui veniamo al tema di fondo che, raccontando la mia vita, devo dire, mi sono trovato ad affrontare. Ovviamente si parla sempre di ambito scolastico, ambito nel quale ho trascorso la gran parte della mia vita. Il problema di merito mi pare chiaro ed è la assoluta confusione e disorganizzazione; per risolverlo esistono due soluzioni: o si continua come adesso a mescolare gli studenti, uomini e donne senza un minimo criterio regolatore, senza attenzione a cose come per l’appunto il fatto che il sesso ognuno lo fa a modo suo; oppure si separano anzitutto uomini e donne. In secondo luogo occorrerebbe uno screening sulle tendenze sessuali di uomini e donne e infine una suddivisione del corpo scolastico secondo quelle che sono le “affinità” più che secondo quelle che sono le differenze. Ho avuto modo di sperimentare rapporti sessuali non cercati, non voluti, ma solo imposti e necessariamente accettati perché i cc.dd. “partner” avevano un modo di approcciare l’altro, in questo caso il sottoscritto, che a me non piaceva. Allo stesso modo è capitato il contrario, cioè che fossi io a prendere l’iniziativa in quel senso, senza ovviamente chiedermi se il tipo di approccio tentato fosse consono ai desideri e alle inclinazioni del partner di riferimento. Allora per risolvere il problema alla radice occorrerebbe una educazione sessuale inserita nelle materie curriculari perché bene o male, arrivati a 12 anni d’età i ragazzini riescono a capire con chi andare e perché. Quelli che non ci arrivano vanno edotti in quel senso. Se non si operasse in tal modo si arriverebbe a un punto tale in cui i traumi, anche a posteriori, che è possibile subire, magari anche senza rendersene conto in via preliminare, sono tali e tanti che alcuni equilibri durante la crescita ne resterebbero irrimediabilmente compromessi. Poi ovviamente mi preme esprimere e descrivere un concetto di libertà che a mio parere non ha mai perso di validità, il quale concetto implica che la socialità è convivenza e non arbitrio. Ma, mi domando: è meglio convivere nella confusione più totale o

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prediligere l’ordine nei centri di formazione dei cittadini del domani per avere cittadini migliori? Se l’educazione sessuale continuasse ancora ad oggi a non essere inserita come materia curriculare almeno a partire da dopo la frequentazione delle scuole dell’obbligo, come potrebbero i ragazzini maturare consapevolmente la propria identità sessuale senza traumi? Siamo sicuri che la separazione tra uomini e donne fin dalle scuole primarie non potrebbe essere un deterrente per evitare che, da adulti, si arrivi al punto limite, e succede, di bruciare i copertoni sul lungo mare mettiamo a Salerno? Una domanda che mi verrebbe da fare ai sostenitori della promiscuità sarebbe la seguente: si può da parte di una giovane donna, violentare un bambino di due anni senza contatto fisico? Ma probabilmente se succede allora vuol dire che o la donna in questione non sa che violentare un bambino di due anni è reato, oppure se ne frega perché tanto esiste un concetto di sessualità che è uguale per tutti, ma ovviamente solo a livello teorico. Mi tornano alla mente ricordi confusi sui miei primi anni, anni in cui ero ovviamente, data l’età, un soggetto debole. Ricordo con rammarico le frequentazioni con comitive di zingari albanesi, con venezuelani emigrati dall’Italia ai tempi del Fascismo e ritornati in Patria, e altre esperienze simili le cui cause devo, in quanto cittadino consapevole, necessariamente ricondurre ai regimi politici che di volta in volta, in spregio alle più elementari regole di diritto, consentivano a tale gentaglia di minare le fondamenta dell’ordine sociale con la loro sola presenza.

E passiamo all’ambito familiare. Sono nato da padre “pavimentista” e madre “commerciante al dettaglio”. Ho conosciuto tra i miei antenati, solo quelli materni e non quelli paterni, in quanto mio nonno paterno è deceduto prima che io nascessi. Ho invece conosciuto mia nonna paterna, che è vissuta molto a lungo e che mi ha visto diventare uomo. Ricordo di aver sofferto anche la fame, in certi frangenti temporali, in certi periodi storici, in cui già i politici di professione stringevano la proverbiale cinghia, figurarsi i comuni cittadini.

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Ma il problema di cui adesso voglio parlare, per liberarmi dai sensi di colpa e dai fantasmi del passato è il mio percorso universitario. Dopo i primi due anni di studio “matto e disperatissimo” ho subìto un crollo psico/fisico che mi ha impedito di portare a termine gli studi in tempi ragionevoli e tuttavia ho ottenuto la laurea nell’aprile scorso anche con buona media e buon punteggio finale, anche grazie ad una tesi ben fatta. Quello che mi auguro nel futuro è riuscire a lavorare a Roma come avvocato, perché fare l’avvocato è il mio sogno, fin da bambino e anche perché, dopo 20 anni di studio del diritto, credo di doverlo a me stesso.

Vorrei spendere qualche parola ancora sul corpo docente e sui suoi metodi di insegnamento, a cominciare dalle scuole elementari. Personalmente credo di aver ricevuto, quando ero alunno delle suore, la migliore educazione possibile per quei tempi, ma devo dire che ho dovuto, purtroppo e sempre a causa di un errato concetto di socialità, condiviso all’epoca anche nelle scuole paritarie, frequentare individui aberrati e aberranti che facevano cose come rubare dolciumi nel vicino negozio di alimentari, utilizzare droghe pesanti fino al punto di scambiarsi gli aghi, dare luogo nei locali deputati a toilette alle peggiori colluttazioni e risse, del tutto immotivate, in alcune delle quali io stesso più di una volta sono stato coinvolto. La docente dell’epoca mi proibiva di aver accesso ai locali dei water per una decisione di crudele isolamento dal resto della “marmaglia”, cosicché ero costretto ad aspettare la fine delle lezioni per attingere un po’ d’acqua presso la nonna di un amichetto che aveva a disposizione una fontana. Credo si possa dire che quegli anni, se confrontati all’addestramento militare che viene impartito ai soldati americani nei sei mesi precedenti la leva per il Vietnam, ad esempio nel film di Kubrick Full Metal Jacket, possano rendere l’idea del tipo di educazione ricevuto, ovviamente con le dovute giuste proporzioni. Devo dire d’altra parte che lo studio alle elementari non era continuativo, ma inframmezzato da un paio di mesi di riposo, che trascorrevo giocando a calcio con gli amici. Dato che però la rabbia repressa dalle suore veniva fuori virulentemente durante la partite di pallone che si giocavano almeno due volte alla settimana, mio nonno materno, col quale ho sempre avuto un

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pessimo rapporto, un giorno presso il focolare, come se fossi un animale, mi malmenò pesantemente, cosa che ricordo ancora con orrore. Tutto ciò senza contare i litigi che ero costretto a sperimentare quotidianamente con mio padre che all’epoca, vuoi per ignoranza vuoi per altri motivi, non era certo uno stinco di santo. Se il rapporto con mia madre e con mio padre era quello che era, il rapporto con mia nonna materna era anche peggiore. Litigavamo ad ogni occasione buona perché quello che lei preparava da mangiare a me non piaceva, così per ridurmi alla fame cucinava sempre peggio e solo e soltanto cibi che solo ero tacitamente obbligato a mangiare, perché tutti gli altri, a cominciare da mio padre e mia madre, evitavano certi alimenti. E veniamo al rapporto con i coetanei dell’epoca. Un episodio valga per tutti: quando venivano a casa a giocare ai video/games, gli amichetti d’infanzia gettavano gli scarti delle caramelle dietro il mobile su cui era collocato il televisore e mia zia materna (si, avevo una zia materna morta di tumore all’età di 42 anni) ovviamente pensava che il responsabile fossi io.

Detto tutto ciò mi domando: come etichettare il mio vissuto, come interpretarlo, come farmene una ragione? Razionalmente mi dico che è la vita stessa che implica in sé delle spiacevolezze, ma ciò non toglie il valore umano della sofferenza. La sofferenza è qualcosa di presente nel mondo e riguarda tutti, ma la sofferenza da me vissuta, poiché riguarda solo me, è la “mia sofferenza” e me la tengo stretta.

Per ritornare al rapporto con mio nonno materno, data la esigenza a carattere morale che mi spinse a rappacificarmi con lui negli ultimi anni della sua vita (morì alla veneranda età di 96 anni) mi viene alla mente un ricordo. Ricordo che abbiamo trascorso molti pomeriggi lungo il Tanagro, il fiume che attraversa la periferia di Sala Consilina, in macchina, da soli parlando del più e del meno e a volte anche ridendo tra noi. Ecco: questi sono episodi che ricordo con piacere. Per quanto riguarda mia nonna materna, poiché negli ultimi anni di vita viveva costretta su una sedia a rotelle, spesso le portavo gli affettati per la cena giù dal negozio di alimentari, negozio che lei, data l’età, aveva ceduto a mia madre (mia nonna viveva

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al piano superiore e salire e scendere le scale le costava molta fatica ). Abbiamo anche avuto momenti di intimità e di confidenza nei quali abbiamo parlato io dei fatti miei lei dei suoi, sempre su un piano di educazione e di civiltà. Ho trascorso dieci anni con i miei nonni, a cui in definitiva ho sempre voluto bene. Nonostante tutto. Ho anche un fratello che all’età di 20 anni circa commise, sempre che l’accusa fosse fondata, un tentativo di reato ai danni di un ragazzo handicappato e ci furono degli strascichi a livello penale. Grazie a Dio l’avvocato difensore era uno bravo. Dopo i guai giudiziari mio fratello è emigrato a Hong Kong dove ha impiantato una piccola attività commerciale di import/export, con la quale ha accumulato un po’ di soldi, si è legato a una bella ragazza, italiana, immigrata in Cina da generazioni, e adesso non so quali intenzioni abbiano per il futuro. Gli auguro solo un mondo di bene.

Vorrei spendere ancora qualche parola sulla parentela, e magari esporre il mio personale concetto di rapporto di parentela. All’epoca in cui avevo una decina d’anni, mio nonno pensò bene di reclutare in ottemperanza ad esigenze lavorative, in quanto da poco diventato suo “genero”, uno spiantato che però, pur essendo un perdigiorno, aveva fatto colpo su mia zia cioè sulla sorella di mia madre. Mio nonno mise a disposizione del genero un locale di ampia metratura per collocarvi una attività di produzione di insegne luminose. Mio nonno trasmise la scarsa simpatia che aveva per me anche a suo genero, cioè mio zio, il quale non voleva assolutamente che io gironzolassi nel “magazzino artigianale”. Fui malmenato da mio zio, da alcuni dipendenti della “azienda” e anche da altra gente solo perché ero un bambino abbastanza precoce e devo dire anche un po’sfacciato. Sta di fatto che ora il “negozio” impiantato in quel locale non esiste più, mio zio che spiantato era e spiantato è rimasto, ha lasciato “roba e debiti” come si dice da noi e se ne sono perse le tracce. Al momento è in arrivo, alla veneranda età di 95 anni un mio prozio dall’America per non so quali motivi o risentimenti o punti d’onore feriti.

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Devo aggiungere che l’iniziale “tirata” sugli zingari deriva dal fatto che solo a posteriori le cose della vita emergono in maniera nitida e chiara. E infatti a posteriori mio zio si è confermato per quello che è, cioè uno zingaro, un nomade, un individuo senza fissa dimora. Il locale inizialmente assegnato da mio nonno, ormai defunto, a mio zio all’epoca cui ho accennato, è collocato sotto un piano superiore che al tempo in cui le cose andavano bene, cioè quando mio zio mangiava bene grazie alle affiliazioni politiche e grazie ai soldi facili, fu ristrutturato, da semplice “nuda struttura” e adibito a dimora della figlia, mia cugina, che intanto aveva preso marito. Tuttavia quando i soldi sono venuti a mancare per gli stessi motivi per cui è difficile che una mucca partorisca due vitelli gemelli, la struttura, già rimessa a nuovo, non poté essere pagata per quanto valeva il lavoro che era stato eseguito sempre sulla struttura, che ora è rimasta abbandonata probabilmente per gli stessi motivi per i quali le case dei cosiddetti “camorristi” a Napoli rimangono abbandonate a causa della incapacità, da parte dell’occupante di turno, di pagare l’amministrazione comunale che ha decretato la costruzione dell’immobile destinandolo a edilizia popolare, con l’obbligo però per l’occupante, di pagare quanto meno a rate l’opera finita.

Nella mia famiglia che, devo dire è abbastanza estesa, ci sono però anche altri parenti, di cui uno, un mio zio, è stato, ai tempi delle migrazioni di italiani del Sud verso il Nord Europa, “apprendista” in una fabbrica di cabine per veicoli agricoli in Svizzera. Una volta tornato in Patria, sempre qui a Sala Consilina, decise di impiantare una fabbrica di cabine, le stesse che aveva imparato a costruire in Svizzera. Sto parlando del fratello di mio padre il quale si atteggia ancora oggi che ha un’età, ad industriale mentre coloro che davvero realizzano le cabine sono gli operai, essendo lui un incapace. Mi pare di aver capito che l’età alla fin fine gli abbia dato alla testa. Il suo concetto di lavoro è “io progetto le cabine e gli operai le realizzano”, ma gli operai potrebbero lavorare anche da soli, perché ovviamente lo sanno fare mentre lui è un mezzo rimbambito che non capisce niente. Questa è parte della situazione.

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Altra situazione sarebbe con l’altro mio zio, sempre fratello di mio padre, il quale per anni mi ha riservato le peggiori umiliazioni e questo solo perché io volevo “studiare”. Da quando sono laureato non l’ho più visto. E Grazie a Dio.

Ci sarebbero poi altri parenti, a loro volta parenti di mio zio ma da parte della zia acquisita. Mi risulta che una dei due abbia avuto una overdose da eroina e che l’altro non abbia fatto di meglio se le informazioni di cui dispongo non mi ingannano.

Ci sarebbero poi altri miei c.d. “parenti”. Devo però fare una precisazione: dato che negli ambienti familiari a struttura patriarcale, quale quello da cui anche io provengo, ci si passa i nomi, primo per confondere le acque ai tutori dell’ordine e poi per accusare falsamente il legittimo portatore del nome, allora si verifica che una intera famiglia priva di nome si attribuisca la parentela di una persona onesta per fare i propri porci comodi, nella sicurezza di poter spendere il nome dello sprovveduto in caso di guai con le forze dell’ordine. Ora i parenti di cui vorrei parlare hanno fatto esattamente questo. Si sono attribuiti il mio cognome di battesimo per poter poi addossare la colpa di qualche illecito a me facendo il mio nome alle forze dell’ordine, senza la minima consapevolezza, sempre da parte della parentela, circa il controllo capillare del territorio e la abissale disponibilità di informazione su soggetti che operano in maniere semi legali, da parte di carabinieri, polizia e quant’altro. La loro attività economica, che nelle intenzioni dovrebbe essere una rivendita all’ingrosso di mangimi, è completamente priva di capitali, ma se questo non fosse abbastanza andrebbe anche detto che il proprietario, nominalmente mio cugino, si abbandona alle peggiori turpitudini con i figli e forse anche con la moglie a quanto mi è dato sapere.

Altri cugini li ho in quel di Policastro, amena cittadina balneare sulle rive del Tirreno. Mia cugina fa la donna delle pulizie ma almeno è un lavoro onesto. Il marito è impegnato a quanto mi risulta in attività poco pulite. Si tratta di una famiglia patriarcale alla vecchia maniera, che, ribadisco, ho modo di sospettare implicata in traffici poco puliti.

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Ora che il quadro familiare che mi vede e mi ha visto appartenervi è stato da parte mia, e credo in maniera esatta e chiara, sebbene approssimativa per via di scarsa anche se formalmente onorata frequentazione, in minima parte descritto, è mia intenzione, sempre nel solco della affermazione preliminare al presente scritto, cioè che tutti coloro di cui sto per “parlare” sono persone la cui identità, se questa fosse rivelata, potrebbero legittimamente dolersene, sia a livello personale, sia a livello legale; dicevo che è mia intenzione descrivere le molte vicende che hanno interessato nel volgere degli anni le persone cui ho accennato, tentando, quale scopo ulteriore, di risalire, sempre per quanto la memoria e le fonti a cui ho avuto ed ho facoltà di attingere, me lo consentano, ad alcune generazioni antecedenti alla presente, per meglio delineare un quadro di “famiglia” che è, bene o male, parte di me e che su di me proietta le proprie influenze, sia implicite, cioè sottostanti alla sfera della percezione cosciente, sia esplicite, cioè nel senso di tutto ciò che a livello prettamente auto/coscienziale mi è dato ricordare.

Comincio allora questo mio racconto a partire dal più risalente antenato da parte di madre, ciò che sarebbe a dire il padre del padre di mio nonno, quindi il mio “trisavolo”. Dalle scarne informazioni di cui dispongo e che mi provengono da un fuggevole colloquio con mio nonno, ad oggi defunto ma all’epoca ancora in vita, ho appreso che segno di sottomissione e di reverenza nei riguardi di quel lontano antenato da parte dei nipoti, quale anche mio nonno era, consisteva nel baciare il piede destro del vecchio antenato e mi verrebbe da pensare che all’epoca, si era secondo un calcolo approssimativo almeno all’inizio o comunque nella prima metà del XIX secolo, non era ancora diffusa la pratica del baciamano, senz’altro più agevole, se non altro a livello di impegno “fisico” in confronto a quell’altro tipo di ossequio. Questo è tutto ciò che dalle memorie del mio defunto ascendente ho appreso in merito ai caratteri e alle costumanze di quell’epoca, così lontana nel tempo che il suo ricordo non era probabilmente molto “presente” neanche a mio nonno, nel momento in cui me ne metteva a parte. Il vecchio antenato di mio nonno aveva d’altra parte una dozzina di figli da cui nacque anche il padre di mio nonno,

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cioè il mio bisnonno, a nome Nicola. Conservo ancora tra le carte della casa in cui abito la decorazione che coraggiosamente l’antenato Nicola si guadagnò con onore combattendo in battaglia a Vittorio Veneto. Conosco il passato del mio bisnonno Nicola grazie ai riferimenti a lui rivolti da mio nonno, quando ancora era in vita. Anche mio nonno di primo grado, a nome Antonio, fu soldato in guerra, questa volta la seconda guerra mondiale. Spesso davanti al focolare mi raccontava di essere stato dislocato all’epoca , insieme al battaglione di cui era parte, in Grecia, ovviamente nel contesto di quell’impresa fallimentare dal punto di vista militare, che ricordano tutti coloro che hanno un minimo di memoria storica, nella quale persero la vita centinaia di migliaia di nostri compatrioti, prima del provvidenziale invio da parte di Hitler, di truppe paracadutate per salvare il salvabile, cioè non solo mettere fuori pericolo i residui dell’esercito italiano ma anche capovolgere le sorti della battaglia facendone una vittoria che non mi perito di definire “posticcia”, ovviamente per parte italiana. Sempre durante le tante sere passate dinanzi al focolare nonno Antonio mi raccontava di aver appreso anche parte della lingua e della sintassi greche, dato che in Grecia rimase in ferma per ben due anni. Non è mia intenzione spacciare i racconti e i ricordi di mio nonno per verità, semplicemente perché tutto ciò che usciva dalla sua bocca non avrebbe potuto più essere verificato ma soltanto creduto. Eppure in tutto ciò che diceva non mi pare di aver avuto la ventura di riscontrare incongruenze di sorta, né mi è mai sembrato di scorgerlo nell’atto di mentire, ad esempio per coprire la memoria di uno scontro armato nel quale per ipotesi un soldato nemico avesse perduto la vita a causa sua o altro. Anzi soleva ripetere di non aver mai esploso un colpo. Ciò che piuttosto seppi da mio padre in seguito, fu che, anziché combattere, mio nonno a un certo momento fuggì dai luoghi deputati al contingentamento delle milizie, sia regolari sia fasciste, per evitare di essere destinato ad un teatro di guerra particolarmente “caldo”, tutto ciò ovviamente per non rischiare di rimetterci la vita. Una volta poi tornato dalla guerra ricordo sulla base di quanto appreso da mia madre, che impiantò una piccola “taverna” come si usava all’epoca e da lì, dal momento che gli affari andavano bene, un piccolo

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negozio di generi alimentari, collocato sotto il piano superiore della casa ereditata da mio bisnonno Nicola, e anche in questa nuova attività, grazie al senso degli affari, del risparmio e del decoro, mia nonna, a nome Marianna e sempre mio nonno Antonio concepirono le loro figlie: mia zia Angela, mia Madre Raffaella e mia zia Nicolina. Io nacqui nel 1983 ed ebbi la fortuna di passare i primi anni di vita in una situazione di relativa agiatezza, grazie al fatto che le attività di mio nonno e di mia nonna, cui successivamente sarebbe stata associata anche mia madre, andavano per il meglio. Ho già accennato ai primi anni di vita, che trascorsero in maniera relativamente serena, circondato dall’affetto dei parenti e coccolato e vezzeggiato in ogni modo. Ho anche già detto che, una volta lasciata la casa paternale e trasferitisi i miei genitori a poche centinaia di metri di distanza dalla dimora dei suoceri, giunto all’età dei 2 anni circa fui mandato all’asilo, a differenza di mio fratello che invece già all’epoca manifestava repulsione per tutto ciò che vuol dire lavoro ma finanche ordine, disciplina e ovviamente studio. Mio fratello Antonio rimaneva perciò con mia madre, a me toccava la scuola. Dei primi anni di asilo ho ricordi frammentari, ma ricordo le sfuriate delle suore contro i bambini troppo vispi e anche qualche episodio di bullismo a mio danno. Quello che di quell’esperienza ricordo con più vivo rammarico è un qualche tipo di accenno o approccio che dir si voglia a carattere sessuale, sia da parte della maestra laica, sia da parte di qualche compagnuccio. Giunto in prima elementare, avevo già un discreto bagaglio di esperienze che a quell’età e anche prima di quell’età, sono più che diffuse. Lo studio mi appassionava e mi piaceva, non solo per un’embrionale tendenza a ricercare la soddisfazione intellettuale ma anche e soprattutto per i complimenti della maestra, che mi erano di stimolo a migliorare. Ricordo che, come già detto, la disciplina era molto severa. Non c’erano alternative: o studiavi o studiavi per forza. Le prime due classi delle elementari le frequentai con due insegnanti laiche, non però dalla terza classe in su, perché da lì in poi ci furono le suore e non più le maestre. Ripeto come ho già accennato all’inizio del presente lavoro, che la disciplina cui sei sottoposto se studi dalle suore è molto più “dura” che con maestre laiche e lascia il segno.

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Tuttavia non mi sentirei di negare a me stesso il ricordo di quegli anni, tre per la precisione, vissuti a contatto con le serve di Dio. La maestra era solita dire che le case si comincia a costruirle dalle fondamenta e non dal tetto, come a dire che quello che fanno nelle scuole pubbliche è cominciare dal tetto. Grazie a Dio giunsi in quinta elementare e ottenni la licenza elementare, anche con buon profitto. Dopodiché le medie inferiori, che per me come ho già ricordato rappresentarono una ventata di aria pulita, maggiore libertà, anche e soprattutto d’espressione, maggiore piacere nello studio, insegnanti con cui potevi discutere anche più liberamente di quanto la differenza di ruolo tra docente e discente potrebbe consentire. Ricordo con estremo piacere alcuni docenti dai quali ho imparato molto, sia a livello umano che a livello meramente didattico: due su tutti, il Prof. Gaetano Ricciardone e la Prof.ssa Teresa Damiano, delle vere guide per ogni ragazzino di quell’età, cioè 12 anni circa. Anche alle medie inferiori ottenni ottimi voti e la licenza, dopodiché iniziai un percorso per me del tutto nuovo al liceo classico, ma senza abbandonare la costanza e la perseveranza dei primi anni di studio. Gli anni del liceo li passai con giovani della mia età ma provenienti a gruppi di due o tre da più Comuni del comprensorio, ciò che ovviamente non favoriva i rapporti sociali e men che mai quelli “amicali”, cioè caratterizzati da maggiore intimità. Gli anni del liceo trascorsero, comunque sia, in maniera tranquilla, anche se devo dire che a volte la pace del contesto scolastico veniva turbata da una lercia congrega di teppisti provenienti dall’esterno del liceo, che cercavano solo di fare confusione, ad esempio malmenando qualche studente che, povero, magari si era alzato alle sei di mattina per andare a scuola anziché perdere il proprio tempo dietro a stupidaggini o peggio. Devo peraltro dire, come ho già fatto, che anche a me è capitato di essere malmenato davanti all’ingresso del liceo. Ancora ad oggi non riesco a capacitarmi delle ragioni che spinsero un energumeno di cui ovviamente tacerò il nome, a scagliarmi addosso una gragnuola di pugni, ma ovviamente è passato, è un qualcosa che fa parte dei c.d. “brutti ricordi” ed è un qualcosa che risale a quella età e lì rimane, collocato in un canto della memoria che cerco sempre di non rivangare. Per quanto riguarda il

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profitto al liceo, esso profitto era davvero alto, era qualcosa che compensava la solitudine cui la studentesca mi aveva condannato dopo essere stato malmenato, insomma la gran parte di coloro che frequentavano il liceo non voleva la mia presenza, mi considerava “di troppo”, a parte il corpo docente, che di me ha avuto sempre un ottimo concetto. Anche gli anni del liceo però giunsero al termine. Ottenni il diploma col massimo dei voti, cosa che considero un titolo di merito e un attestato di stima da parte della commissione esaminatrice.

Nel 2002 mi iscrissi all’Università LUISS Guido Carli di Roma. Nei primi due anni di università seguii tutti i corsi, dalle otto del mattino alle sette di sera esclusi i sabati. Tuttavia ebbi, per cause ancora del tutto da appurare, un crollo psicofisico al secondo anno, per il quale fui costretto a tornare a Sala Consilina, dopodiché cominciai a fare la vita del pendolare, cioè spostarmi da Sala a Roma, Città che era, come accennato, sede dell’Università, e viceversa anche da Roma a Sala, non più ogni sei mesi o nelle feste comandate come nei due primi anni, ma ogni volta che si presentava una scadenza da rispettare, ad esempio un esame. Ho fatto la vita del pendolare per molti anni ma d’altra parte ad oggi sono laureato con 50 esami sostenuti, una parte in Roma, una parte in Polo Mattioli a Siena, dove a suo tempo decisi per motivi personali di trasferirmi per concludere il mio percorso di studi. Al momento sono in cerca di lavoro.

Bene. Ora, dopo aver parlato di me e della mia situazione personale credo di poter accennare a quella della mia famiglia “allargata”, cioè descrivere con maggiori dettagli tutti coloro che, bene o male sono o sono stati parte della mia vita personale, che mi hanno per così dire accompagnato nel cammino percorso fino ad oggi, insomma tutti coloro che, per un motivo o per un altro hanno incrociato la mia strada, anche se solo a tratti o momentaneamente.

Poiché è mia ferma convinzione che la capacità di instaurare relazioni sociali degne di questo nome appartenga soltanto a coloro che abbiano raggiunto un certo grado di maturità mentale e quindi anagrafica, sento l’esigenza di considerare che le prime

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interazioni sociali consapevoli – lo dico, beninteso, senza essere né un sociologo né un pediatra – si possano instaurare approssimativamente intorno ai sei anni di età. Ma di quella età io non ho ricordi abbastanza rilevanti per considerare finanche i contorni di un simile tipo di interazione. Tutto ciò che impari prima dei sei anni serve unicamente se non esclusivamente a prendere per così dire le misure a ciò e a chi hai intorno, cioè tutto ciò che ti circonda a livello fisico e solo in ultima istanza tutto ciò che costituisce i rapporti umani, in primis le persone. I miei primi rapporti umani al di fuori dell’ambito familiare li ho avuti ovviamente con i compagnucci all’asilo. Ora, avrei in proposito la necessità interiore di prospettare due possibilità: se tutto va bene riesci un attimo ad armonizzare i tuoi atteggiamenti e il tuo modo di pensare, concepire il mondo, interpretare la realtà con quello dei tuoi compagnucci; se va male sei relegato in un limbo dal quale è difficile uscire. Ad esempio a me all’asilo piaceva scrivere, disegnare, insomma praticare quel novero di attività intellettuali che a quella età alcuni, e sono una minoranza, prediligono svolgere, se non altro per mero interesse, ma anche a volte perché l’isolamento cui gli altri ti sottopongono e che deriva da considerazioni estranee a cose come le capacità individuali ma che fa riferimento ad un atteggiamento molto diffuso già tra bambini: se non fai quello che faccio io, ti escludo; porta a rifugiarsi in quel tipo di attività che sono senz’altro al di là di ciò che elementarmente la vita quotidiana richiede, ma che hanno comunque sia una rilevanza “differente”, comparabile alla stessa differenza che corre tra un muratore e un ingegnere. Arrivati al punto in cui cominci ad essere isolato per le tue idee, per il tuo modo di vivere, per il tuo concetto di attività e di quotidianità, non ti rimane molto altro da fare che gettarti nelle attività prettamente intellettuali o presunte tali. Scrivo tutto ciò per portare alla mente del lettore la circostanza, banalmente espressa dal noto andante, secondo cui “non si può avere tutto dalla vita”, il quale mi pare rappresenti con viva forza evocativa tutto ciò che riguarda il mondo della scuola, del quale mondo mi permetto di parlare perché ad esso ho dedicato più di trent’anni della mia vita e al quale continuo a dedicare tutto il tempo di cui posso disporre nell’arco della giornata. Non è per

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citare banalmente l’Antoine che cantava “ti tirano le pietre” ma è soltanto un modo per constatare che se prendi una strada non c’è ritorno e se la strada che prendi è quella sbagliata allora ci possono essere dei problemi. Ed ecco perché esistono gli educatori sociali, e tutto quel novero di figure di riferimento, all’interno delle istituzioni scolastiche, che coadiuvano il corpo docente nell’indirizzare, innanzitutto attraverso la valutazione delle prestazioni intellettuali degli alunni, e poi valutandone il modo di attingere ai rapporti sociali, verso il ruolo che nel contesto sociale, inteso in senso ampio, quei giovani uomini e quelle giovani donne andranno a svolgere.

Ma ritorniamo per un attimo alla descrizione delle prime persone che ho avuto intorno poco dopo essere venuto al mondo; parlo ovviamente dei genitori. Nei primi anni di vita, fin verso i due anni di età ero un bambino di un tale vitalità che consideravo una tortura vera e propria passare dalla tre alle cinque ore davanti all’apparecchio televisivo. I programmi per bambini che all’epoca somministravano le tv di stato mi erano venuti talmente a noia che avevo “letteralmente” delle crisi di nervi ogni volta che andavano in onda e soprattutto ogni volta che ero costretto a guardare “Holly & Benji” piuttosto che “Pollon” , “Heidi” o altri che adesso non ricordo. Sentivo letteralmente il bisogno “fisico” di uscire di casa, di andare in giro, di prendere contatto col “fuori”, come in una ripetizione inconscia di quello che è l’atteggiamento del feto materno una volta giunto al momento del parto. A quell’epoca – si era in altri tempi – mio padre e mia madre non avevano una casa tutta per sé ma convivevano con mia nonna paterna, la quale a suo modo faceva sentire la propria “influenza” e la propria “autorità” di ascendente anche a volte attraverso modi bruschi, cosa che ha continuato a fare fino all’età di ottantaquattro anni, quando poi ci ha lasciati. A questo proposito sento il dovere di dire, a detrimento delle istituzioni e delle pratiche ecclesiastiche, che il prete, convocato per l’occasione presso il letto di morte della defunta, ritenne un punto d’onore e me lo fece anche sommessamente notare, che io uscissi dal locale perché, a suo dire, non avendo io seguito le celebrazioni eucaristiche per lungo tempo, non avevo il

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diritto di pretendere di essere presente nell’occasione in cui a mia nonna sarebbero stati somministrati i sacramenti che la stessa occasione richiedeva, e ciò ovviamente anche contro quella che era la mia volontà, sacramenti che sarebbero stati omessi se nonostante le intimazioni io fossi rimasto nel locale. Si tratta di un comportamento riprovevole sia a carico del prete sia a danno della pubblica decenza. Tu prete non hai alcun diritto, persino in una prospettiva meramente legislativa, di escludere dal luogo in cui si trova un defunto uno dei presenti solo perché a tuo parere il cristiano in questione – perché sempre di cristiani si parla – conduce una vita che a tuo giudizio non è una vita conforme a quelle che sono le tue convinzioni in merito alle Sacre Scritture. Ricordo che nel locale della defunta era presente una donna con la quale avevo precedentemente avuto degli screzi, o per meglio dire un vero e proprio litigio, tutto ciò a suo tempo, e comunque anni prima che mia nonna venisse meno. Al momento del funerale nessuno di noi due, cioè io e la donna in questione, avemmo il coraggio di dare e ricevere le condoglianze l’un l’altra ma qualcosa nel suo atteggiamento mi fece intendere che il litigio di un tempo poteva considerarsi un qualcosa di passato, non tanto a livello temporale ma come atteggiamento di reciproco perdono e reciproca empatia, cosa che il prete in questione non avrebbe mai capito.

Per tornare al discorso relativo alle persone che ho avuto vicine nei primi anni di vita credo meriti se non altro di essere menzionata la sorella di mia nonna, presente al momento in cui mia nonna fu presa da malore e trasportata d’urgenza in ospedale. Quel che ricordo piacevolmente in proposito sono le parole di conforto da lei pronunciate per rassicurare mia nonna sull’esito del malore da cui era stata colpita. Oltre a ciò, ma si tratta di un episodio più risalente, ricordo con simpatia tutti i dolciumi di cui appena giunto all’età della ragione, ebbe la gentilezza di offrirmi dopo che con papà e mamma eravamo stati una volta a casa sua per una visita di cortesia.

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Ricordo che sempre a causa della spiccata vitalità che manifestavo da bambino man mano che crescevo venivo accompagnato da mia madre dal barbiere per una sana scapigliatura e magari anche qualche colpo di rasoio ai primi accenni di barba. Il barbiere era molto simpatico e anche molto disponibile, capace, preciso come un neurochirurgo di chiara fama e molto professionale.

Intanto la vita andava avanti, l’impegno scolastico era costante e assiduo, e ricordo le splendide giornate di sole, quando indisturbato scorrazzavo per i campi e per le vigne della “masseria” di mio nonno materno, ricordo, ecco: ricordo il mare. Ad ogni fine anno scolastico per ben tre mesi mia madre portava me e mio fratello che, devo dire, era abbastanza riluttante a quel tipo di trasferte, nella ridente, anch’essa come Polla, cittadina di Policastro, dove si dice ancora che proprio lì, in quel luogo, Gioacchino Murat, cognato di Napoleone avesse pronunciato le famosissime parole “qui non si muore”. Mia madre aveva un concetto di vacanza che non era il mio e non era neanche quello di mio padre. Il suo – di mia madre – modo di intendere le vacanze al mare era il seguente: alzarsi prestissimo la mattina per trovare una volta raggiunto il lido, un mare calmissimo e soprattutto pochissima gente lì in spiaggia. Il mio concetto di vacanza al mare ovviamente non era il suo: io la vacanza al mare la vedevo più che di giorno, di notte, quando la gente va a divertirsi in qualche locale alla moda o qualche ritrovo esclusivo. Ad esempio avrei voluto che di sera, non tutte le sere ma almeno qualcuna, noi quattro, io mio padre, mia madre e mio fratello, si andasse tutti in un ristorante col menu a base di frutti di mare, o a mangiare una pizza o comunque a partecipare di quel tipo di ambiente che solo i locali “di mare” ti possono dare e che solo lì puoi pretendere di avere.

Ora, non è mia intenzione fare come si dice un volo “pindarico”, ma soltanto continuare a parlare semplicemente del mio vissuto personale, che come dicevo non può essere fatto solo di ricordi belli ma anche di qualche brutta esperienza, anche in termini di umiliazioni personali, fissate a livello consapevole perché particolarmente dolorose, perché ciò che vivi, bene o male ti lascia un segno, bello o brutto che sia.

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Cominciamo dal principio. Quando ero studente delle superiori e a fine anno scolastico, l’amministrazione scolastica organizzava, col pretesto di perfezionare negli studenti la conoscenza della lingua inglese, che era materia curriculare, cioè oggetto di valutazione, dicevo la presidenza del liceo organizzava gite a pagamento con destinazione Inghilterra, o comunque Paesi di lingua anglofona. Durante queste gite o escursioni che dir si voglia, ne capitavano di tutti i colori. C’erano addirittura docenti che si premunivano, prima della partenza, con involucri contenenti hascish o altre droghe leggere con l’intento di smerciare la roba oltre i confini nazionali. Ovviamente dato che in Paesi come l’Inghilterra esiste una conoscenza del tipo di italiano che vi si reca sempre con lo stesso scopo, cioè guadagnare con la droga e ovviamente edotte da chi di dovere le autorità competenti, si verifica sempre lo stesso copione: il potenziale spacciatore viene convocato dalle autorità ed è, nel migliore dei casi, costretto a consegnare il pacchetto contenente la sostanza stupefacente, senza che il senso di umanità di una nazione che è la culla della civiltà occidentale, venga meno, anche nei casi più critici e quindi senza che il tentativo di reato del potenziale spacciatore sia punito, a parte la requisizione della quantità di sostanza detenuta.

Per passare ad altro e per parlare con maggiore diffusività della mia esperienza universitaria, sento il dovere di dire per tutti coloro che non lo sapessero, e devo ammettere che l’ultimo a saperlo sono stato io, che in università non ci vanno i figli di papà ma tutti coloro che “meritano” di andare in università. Ciò vuol dire che non è vero il detto per cui se hai il paparino che ti raccomanda puoi ottenere la laurea, altrimenti no. Ciò vuol dire invece che per andare in università devi avere le capacità fisiche e mentali che ti preservino da un esito fallimentare del percorso universitario. Insomma ne va della vita. Ovviamente se la laurea proprio la vuoi perché non puoi fare senza, perché a certi livelli diventa una fissazione, allora ci sono centri come Milano Bicocca o Alma Mater Bologna che la laurea te la danno, senza problemi e senza grossi patemi. Se poi tuo padre o tua madre sono compromessi in qualche modo con quei movimenti che si diffusero in ambito

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universitario nel ’68, allora le cose diventano un pochino più difficili ma se hai qualche soldo da parte la laurea te la puoi anche comprare.

Sul ’68 ovviamente io ho le mie idee come altri hanno le loro. Il movimento che cominciò nel ’68 può essere definito come un momento di forte conflitto tra corpo docente universitario e corpo studentesco. Le politiche economiche dei due decenni precedenti avevano determinato una forte crescita del capitale umano lavorativamente attivo, e non soltanto in occupazioni manuali, che non trovava però uno sbocco lavorativo in quei settori in cui i genitori di quel capitale umano erano stati a lungo impiegati, ad esempio aziende come FIAT o Pirelli e va detto nondimeno che quegli stessi genitori desideravano per i propri figli una collocazione lavorativa socialmente più prestigiosa della propria. Queste sono le premesse. Le conseguenze di questo atteggiamento diffuso, che se non fosse stato come detto assai diffuso, non giustificherebbe né spiegherebbe un fenomeno complesso e delicato come la derivazione della scolarizzazione di massa dalle legittime aspettative della classe sociale emergente, cioè quella dei lavoratori, e non farebbe della scolarizzazione di massa un fenomeno dalla enorme portata se non altro a livello sociologico, furono che le nuove leve del proletariato, nell’empito della ricerca di nuovi diritti a parte il lavoro tout court, insomma quello manuale, pretesero di accedere a un mondo, quello delle Università e dei centri di alta cultura, che non era il loro e che soprattutto non era loro congeniale perché non ne capivano le regole di fondo. Se la scuola è un diritto, si diceva, garantito dalla Carta costituzionale, allora l’accesso deve essere libero. Il problema di fondo che il movimento non capì è che per ottenere la laurea ti devi adeguare a quelle che sono le regole di giudizio e di valutazione del corpo docente. Ma dato che il corpo docente di allora era abbastanza differente da quello odierno, cioè tendeva all’esclusione anziché all’inclusione, alla selezione anziché alla solidarietà, il risultato è stato tutto ciò che è venuto dopo e cioè le occupazioni delle sedi universitarie, e finanche gli scontri armati tra coloro – sempre giovani erano – che comprendevano e accettavano la logica meritocratica e coloro che la rigettavano e la

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osteggiavano perché lo studio è un diritto e finanche la laurea è un diritto. Ma si capisce che il ragionamento parte da un presupposto errato, che cioè tutti gli uomini e le donne siano uguali e che quindi comprendere quale sia lo studente più preparato a scapito del meno preparato sarebbe una sorta di insulto a ragione, la quale vorrebbe che tutti abbiano la stessa capacità di apprendimento al di là delle differenze apparenti. Non è così e lo dimostra che anche se usi la pistola non puoi cambiare un ordine delle cose che è naturale, che va da sé. In ogni epoca storica sono esistiti coloro che apprendono, cioè i discenti e coloro che insegnano e valutano cioè i docenti. Voler addirittura ribaltare i ruoli è come una barzelletta: può far ridere, ma poco altro.

Sempre relativamente alla problematica del ’68, essa ha radici più profonde di ciò che ritiene l’opinione generale dei nostri tempi. La tesi da cui parto è la seguente. Il ’68 non è il 2001. Le vicende della II Guerra Mondiale erano all’epoca ben presenti a chi di dovere. Si sapeva che le leggi militari emanate in tempo di guerra dai tedeschi e dai fascisti in qualche modo avrebbero ostacolato i comunisti del domani. Anche oggi esiste in Germania un sistema di selezione ai fini del collocamento che interessa ogni singolo individuo che è parte del sistema di organizzazione del lavoro, della socialità, del reddito, della gestione delle imprese e ovviamente anche per quanto riguarda la gestione della scolarità e dei centri di alta cultura come le Università. Io sono rimasto con la memoria ferma alla riunificazione delle due Germanie impressa nelle memorie di molti altri a causa del notissimo episodio della simbolica caduta del muro di Berlino, ma siamo sicuri che successivamente le due Germanie siano ridiventate davvero “nei fatti” un’unica nazione? Per quanto riguarda la scolarizzazione, la quale è questione che mi interessa da vicino perché gran parte della mia vita l’ho passata all’interno di istituzioni scolastiche, siamo sicuri che in Germania vi sia una pur minima possibilità da parte del singolo “aspirante” studente di scegliere il proprio percorso di studi se non proprio di accedere all’istruzione universitaria tout court? Io avrei i miei dubbi. Da bambino frequentavo un giovincello di nazionalità austriaca la cui madre aveva da ridire sul

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sistema di istruzione tedesco, che a suo parere era eccessivamente meritocratico. Al bambino in questione non veniva insegnato neanche il tedesco come lingua madre ma il dialetto parlato nel Land di provenienza. La donna era confusa e incredula perché riteneva che suo figlio potesse aspirare a qualcosa di meglio. Ecco: in Italia siamo afflitti da una fortissima carenza dello Stato e delle sue istituzioni nel senso della trasformazione del sistema istruttivo in un qualcosa che anziché la solidarietà premi il merito, anzi operi una selezione degli studenti sulla base delle reali capacità di questi ultimi anziché sulla base di istanze di solidarietà e integrazione, a scapito del merito. In Germania è il contrario: è lo Stato a decidere per i cittadini e non viceversa e questo perché ci sono dei parametri e delle categorie di giudizio e valutazione che non ci sono qui da noi in Italia. Non ci si può sbagliare: in Germania se sei destinato a fare l’operaio lo sai prima, perché esistono dei criteri di riferimento che ti indicano le tue proprie capacità, le tue doti fisiche, finanche la tua tendenza a delinquere, in casi estremi. Ripeto che non c’è da scappare. Ovviamente in Italia abbiamo i pediatri, gli esperti dello sviluppo paidetico, gli educatori, ecc. Il problema è che non ci sono persone disposte ad assumersi la responsabilità di ciò che dicono o fanno, perché non sono persone qualificate. Ovviamente per ridurre il gap internazionale relativamente ai parametri indicati, tra Italia e Germania, sarebbe necessario che anche in Italia accadesse ciò che ai tempi accadde in Germania, cioè l’affermazione di un movimento “epuratore” e “riallocatore” di risorse, che si trattasse di capitale umano o capitale strumentale. Ma dato che i costi umani di una situazione del genere non potrebbero essere sostenuti da noi Italiani senza troppi pesi sulla coscienza allora si tira a campare. La gente sana viene ricoverata per errore e muore, mentre i pazzi girano liberi, i ladri rubano, gli assassini uccidono, gli immigrati clandestini scorrazzano alla bell’e meglio dove e come piace a loro, mentre la Chiesa cattolica cerca di tamponare i danni che sono dovuti al surplus di libertà che è oggi concessa, sempre a livello di libertà di pensiero, oltre che di azione, alla gente comune. Come risolvere i problemi se non estirpandoli alla

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radice? E’ meglio eliminare il malato o la malattia? Non lo so ma qualcosa mi dice che se il malato guarisce allora sarebbe come cogliere due piccioni con una fava.

Per continuare il discorso intrapreso parlando del sistema scolastico tedesco, mi si consenta un paragone con quello italiano, ovviamente sulla base della esperienza maturata nel settore da circa 35 anni. Ciò che non funziona nel sistema scolastico italiano è ovviamente dato dalla predilezione per il valore della integrazione all’interno del circuito educativo, predilezione che viene posta in essere attraverso l’attuazione di principi generali di civiltà come la solidarietà o la inclusione, indipendentemente dalle inclinazioni intellettuali e personali del singolo individuo. Tuttavia bisognerebbe intendersi sul senso di queste espressioni. Se integrazione vuol dire accozzaglia, all’interno di una stessa classe o scolaresca, di elementi che di affine non hanno nulla a parte la condizione di “discenti”, allora non ci possiamo trovare. Un esempio di scuola davvero efficiente mi verrebbe da rinvenirlo in Finlandia, ovviamente sempre sulla base delle informazioni di cui dispongo. Lì il sistema scolastico ha due funzioni: dare agli alunni una solida formazione culturale di base e subito dopo “educare al lavoro”. Detto altrimenti: incentivare l’acquisizione di quelle abilità che consentono al singolo individuo di interagire proficuamente con la realtà quotidiana nelle sue incombenze “essenziali”, quale è appunto il lavoro. Esistono ovviamente anche forti agevolazioni alla prosecuzione degli studi oltre quella che è definita qui da noi “scuola dell’obbligo”, ad esempio la possibilità di usufruire di borse di studio o altri incentivi affinché i più meritevoli raggiungano i livelli più alti di istruzione.

Certo è che un sistema di organizzazione sociale e nella fattispecie scolastico simile a quello finlandese non lo vorrei comunque in Italia, né che questo somigliasse a quello, soprattutto perché il sistema educativo italiano, pur fondato su altri principi che l’efficienza e la produttività, cioè su principi che, come detto, sono preminentemente la solidarietà e l’integrazione, è idoneo, in base ai sunnominati criteri fondativi, cioè sempre integrazione e solidarietà, ad impartire una solida

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formazione di base e ad accompagnare, tenendo conto anche di un rapporto di costante dialogo con le famiglie dei singoli studenti, il singolo studente verso la maturità, intellettuale, sociale, spirituale, in una parola “esistenziale”. Anche se magari, come è accaduto anche a me, ti trovi in una situazione in cui devi frequentare le lezioni insieme a ragazzi che stanno ripetendo l’anno perché bocciati l’anno precedente, tutto ciò può essere più che proficuo per conoscere la realtà di alcune situazioni che non sono al giorno d’oggi così lontane come potrebbero pensare coloro che sono un po’ “sprovveduti” e che ritengono che certe situazioni di “degrado familiare e sociale” interessino solo Nazioni lontane migliaia di kilometri dal nostro ambiente, dalle nostre vite, dalla nostra quotidianità. Questa è una lezione importantissima che non si può imparare se non si riesce a interiorizzare il “concetto” di “integrazione” insieme a quello di “solidarietà”, cioè l’atteggiamento favorevole a rinunciare a parte della propria educazione, della propria istruzione, della propria maturazione intellettuale, per venire incontro alle esigenze di coloro che hanno in partenza minori risorse, magari non solo a livello meramente economico ma anche per quanto riguarda il resto.

Per passare ad un altro punto che mi preme mettere in luce relativamente alla scuola pubblica, esso è nella totale assenza di igiene, la quale va ad incentivare un altro e ben più lacerante problema: una fortissima diffusione di quel fenomeno che è la “dipendenza da droghe”. E’ questo un problema sul quale ho molto riflettuto e che ha le proprie dinamiche di sviluppo e diffusione. Quando ti trovi in un istituto pubblico il contatto con coloro che fanno uso di sostanze è inizialmente involontario. Ci sono cioè in ogni scolaresca coloro che utilizzano droghe pesanti. Poiché però tali sostanze ci sono, se non altro perché circolano nell’aria, e interessano quindi tutti, drogati e non drogati, attraverso funzioni corporee come la traspirazione, e anche ovviamente nelle aule scolastiche, allora si verifica il fenomeno per cui anche se tu personalmente non fai uso di sostanze, magari il tuo vicino di banco che invece le utilizza, durante la traspirazione cutanea, ne trasmette una parte anche a te. La consapevolezza dell’essere drogato già prima di esserlo

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dovrebbe essere trasmessa dal docente a colui il quale non fa uso di sostanze anche se potrebbe generare delle ripercussioni sull’andamento della attività del plesso scolastico che implicherebbero o il totale abbandono delle lezioni (sciopero) da parte dei drogati “consapevoli”, che ovviamente costituiscono la maggioranza oppure delle forti crisi da “assenza di sostanza” da parte di coloro che ordinariamente non fanno uso di sostanze pesanti, a parte che a scuola e ovviamente in maniera involontaria.

C’è poi un altro fenomeno di cui vorrei parlare e cioè i legami tra politica e liceo, e più ampiamente tra politica e scuole superiori e comunque in ultima istanza tra politica e istituzioni scolastiche.

Su questo piano mi verrebbe da ricordare, ai tempi del liceo, la letterale “invasione” di militanti comunisti, che si aggiravano costantemente, pur avendo qualche anno di età in più in confronto a noi adolescenti, sempre nel liceo di cui anche io ero alunno. Si trattava ovviamente di mal mestatori i quali pretendevano addirittura che i locali per il riscaldamento utilizzassero un tipo di combustibile contaminato con le droghe pesanti. Tutte le volte in cui il combustibile veniva a mancare si verificavano immancabilmente degli scioperi, sempre fomentati dai soliti mal mestatori, cui ovviamente veniva a mancare ciò di cui avevano bisogno: cioè le sostanze pesanti. Si capisce bene che si trattava di una situazione nella quale anche coloro che di sostanze non facevano uso, prima o poi venivano avvicinati dallo spacciatore di turno ed entravano così anche loro in quelli che Baudelaire definiva “paradisi artificiali”. Sempre sulle droghe: esse rappresentano sicuramente un problema a carattere sociologico che non riguarda soltanto l’ambito scolastico ma quasi ogni aspetto di quelle che mi verrebbe da definire “relazioni sociali”. La droga serve a tante cose: hai la ragazza? La droga facilita le interazioni a carattere sessuale. Non hai la ragazza? Non c’è problema: esistono sostanze che danno le stesse sensazioni di un amplesso. La droga è purtroppo piaga antica, le cui origini risalgono almeno all’inizio del ventesimo secolo, quando alcuni chimici sintetizzarono in laboratorio

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una molecola chiamata “tecnicamente” dimetiltriptamina, che era in sostanza un derivato del papavero da oppio, quest’ultimo coltivato soprattutto in Asia centrale, in particolare in regioni come Afghanistan o Pakistan. Ora, inizialmente questo tipo di sostanza era utilizzata per curare alcune problematiche che all’epoca non rispondevano ad altre cure, come ascessi, malattie respiratorie, oltre che come comune antidolorifico. Quando però, sempre a livello sperimentale, se ne riconobbero gli effetti collaterali, l’uso di tali sostanze cominciò ad essere oggetto di provvedimenti legislativi restrittivi, tanto che ad oggi dall’assenza di regolamentazione del fenomeno si è passati ad una proibizione altrettanto sostanziale. Quanto ai motivi che inducono un soggetto a fare uso di sostanze “stupefacenti”, come oggi vengono definite le sostanze in parola, i motivi sono tanti: dalle delusioni nella vita quotidiana, alla difficoltà di accettare le traversie della vita, che comportano, per come va il mondo, la continua necessità di risolvere problemi economici, sociali e più in generale esistenziali, oppure semplicemente la scarsa capacità da parte del singolo di accettare la realtà delle cose per quale essa è. E infatti si potrebbe dire che la droga costituisce per i più un rifugio, un qualcosa che evita di pensare, e quindi, come scrisse a suo tempo Schopenauer, il filosofo del pessimismo cosmico, di “soffrire”. Questo per quanto riguarda il problema “droghe pesanti”. Se si passa a quello delle “droghe leggere”, l’uso che se ne fa dipende in sostanza da problematiche che sono più facilmente trattabili di quelle che sono relative alle droghe pesanti e tutto ciò perché in primo luogo non danno dipendenza oppure danno scarsa dipendenza. In secondo luogo perché l’utilizzo di tali sostanze è legato alla necessità di combattere cose come la “depressione”, esigenza che mi pare accostabile o addirittura prodromica, se non altro a livello concettuale, alle necessità psicologiche che stanno alla base del consumo di quelle sostanze che comunemente sono dette eroina o cocaina, cioè le droghe pesanti.

Mi pare di aver detto tutto ciò che, relativamente al problema droga, è possibile dire, quanto meno a livello fondamentale. Ciò di cui ora vorrei parlare riguarda le opportunità lavorative che un posto come quello in cui ho vissuto sino alla maggiore

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età, cioè il Vallo di Diano, può offrire o non offrire. Da un punto di vista geografico la sub/regione d’Italia in cui vivo si trova nel profondo entroterra campano, e a livello meramente amministrativo fa capo alla provincia di Salerno. Tuttavia in termini geografici si trova più vicina a un centro come Potenza che a un centro come il sunnominato Salerno. Le conseguenza di questa situazione, cioè del fatto che Sala Consilina si trovi territorialmente più vicina a Potenza che a Salerno produce ovviamente delle ripercussioni innanzitutto sulla situazione economica della zona, la quale ripeto che amministrativamente fa capo a Salerno, e tuttavia territorialmente si trova più vicina a Potenza e di Potenza conserva anche alcuni atteggiamenti, alcuni modi di concepire la vita e di condurla, insomma è qualcosa che se si passa da Sala a Potenza anziché a Salerno salta subito agli occhi, un po’ come gli orango delle foresta amazzonica si riconoscono, quando si ritrovano insieme, dall’odore. Ricordo che per ovviare a questa discrasia, cioè la dualità Salerno/Potenza, le organizzazioni politiche dell’ epoca avanzarono ufficialmente al ministero dell’Interno formale richiesta che Sala Consilina divenisse essa stessa da Città, Provincia. I motivi della richiesta sono ed erano tanti: ad esempio il maggior afflusso di denaro, cioè in gergo tecnico “trasferimenti”, che sarebbero giunti qui a Sala dal capoluogo di Regione, cioè Napoli. Insomma lo sviluppo di Sala Consilina è stato ed è sempre legato alla misura in cui gli amministratori locali, dotati o privi di qualifiche in tal senso, riuscissero nel passato e riescano nel presente a fare affluire qui a Sala i fondi necessari a impiantare attività che nella maggioranza hanno carattere commerciale. Si parla di piccoli negozi che vengono concessi mediante licenza da parte delle pubbliche amministrazioni, e quindi anche da quelle che operano in quel di Sala, senza che però alla concessione della attività faccia riscontro una sia pur minimale alfabetizzazione economica che consenta al titolare dell’attività in parola di interiorizzare la semplicissima nozione di logica economica che vorrebbe che alla dazione in prestito di un capitale seguisse l’investimento dello stesso capitale in senso remunerativo dell’investimento iniziale, secondo una percentuale di crescita adeguata all’andamento del mercato, cioè al livello dei prezzi e all’atteggiamento

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più o meno aggressivo della “concorrenza”. In assenza di tutto ciò si verifica che Sala Consilina diventi una sorta di “pozzo senza fondo”, dove il pubblico denaro viene utilizzato non in senso progettuale ma soltanto per campare, da parte del beneficiario, quei sei mesi di durata del prestito a rate accordato dall’ente comunale o da chi per esso, dopodiché l’attività economica in parola viene meno. Mi domando come potrebbero Sala Consilina o per esteso il Vallo, sviluppare una struttura economica tale per cui l’ente erogatore, cioè il Comune per il tramite della Regione, della Provincia o di chi per essi, del denaro necessario ad impiantare stabilmente un’attività economica sul territorio, potesse, sempre l’ente erogatore, essere certo che i denari spesi avranno un ritorno in termini di crescita economica e sviluppo in senso migliorativo delle condizioni di vita e di lavoro che interessano il nostro comprensorio. E allora dato che si è ancora lontani da questo livello di consapevolezza di etica economica, esistono le cosiddette “banche di credito cooperativo” le quali a quanto ho modo di capire dovrebbero assolvere a due funzioni: da una lato la raccolta di fondi provenienti dal pubblico risparmio in maniera da poter intervenire quando si verificano alcune situazioni critiche come la cessazione, ad esempio per scarsi profitti, o peggio a causa di una sottocapitalizzazione dovuta a incapacità nella gestione del fondo iniziale, di una qualsivoglia attività economica; dall’altro finanziare periodicamente eventi che sono ovviamente, almeno nelle intenzioni, dei “collettori” di denaro che viene ricavato mediante l’investimento in progetti di incontro e condivisione sociale i quali sono, a quanto ho modo di capire anche un modo, per coloro che devono un favore alla amministrazione comunale, di sdebitarsi del favore ma anche di fare ciò che in definitiva la politica è chiamata a fare: propiziare l’integrazione tra i membri della collettività, attraverso la concretizzazione di istanze, priorità, prerogative, valori come la già nominata integrazione, oltre alla solidarietà, al senso di appartenenza ad una comunità, alla promozione di dinamiche sociali, ovviamente nel senso di una socialità intesa in maniera la più ampia possibile ecc. Sulle banche di credito cooperativo, vorrei fare alcune considerazioni sulla loro incidenza nell’ ambito

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dell’economia locale, ovviamente e preliminarmente sulla base di alcune considerazioni a carattere giuridico. Innanzitutto una chiarificazione del termine “banca di credito cooperativo”. Sappiamo che cosa è una banca: una banca è tecnicamente un elemento di quel circuito di redditività che vede l’interazione di una pluralità di elementi e cioè le famiglie, le imprese, e per l’appunto, posti al centro del circuito, istituti di credito come le banche. La dinamica è la seguente: il ruolo delle banche all’interno del circuito “famiglie / banca / imprese” è in sostanza quello di gestire il rapporto, a volte difficile, data la pluralità degli interessi in discussione, che le famiglie tendenzialmente propense al risparmio, le imprese tendenzialmente propense all’investimento e le banche instaurano ogni qual volta occorra realizzare una operazione economica e per operazione economica intendo un qualsiasi movimento di denaro. Innanzitutto le banche dal canto loro hanno una prima funzione, che è quella di porre in contatto risparmio e credito, e attraverso tale operazione di “mediazione” favorire ciò che in termini tecnici si potrebbe definire “domanda e offerta di capitali”. Il ragionamento è molto semplice. Le famiglie, come soggetto economicamente attivo, sono naturalmente portate a rivolgersi ad una banca allorquando hanno la necessità di depositare i propri risparmi per ottenere, anche a lunga scadenza, dei profitti. Ciò avviene o attraverso l’acquisto di titoli di stato come BOT, CCP, CCT, BTP e altri oppure stipulando, in accordo con società assicuratrici vicine agli istituti di credito, contratti di assicurazione che consentano di ottenere, al termine del periodo convenuto, un rendimento costante di capitale il più frequentemente su base rateale. I depositi bancari sono come detto una fonte di reddito. Probabilmente il lettore si chiederà “perché”. I depositi sono una fonte di reddito perché sulla quantità di denaro che la banca utilizza ad esempio per finanziare una operazione di investimento in capo ad altri che al risparmiatore, essa banca è tenuta a corrispondere un interesse al risparmiatore che ivi ha depositato il proprio denaro, quale corrispettivo della immobilizzazione del capitale di risparmio presso la banca. Quanto descritto costituisce una prima funzione che la banca pone

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in essere quando intende occuparsi della gestione del denaro delle “famiglie” ossia del denaro dei singoli risparmiatori.

Quanto però al rapporto tra le banche e non più i piccoli risparmiatori, ma invece coloro che sono non piccoli risparmiatori ma soggetti in grado di proporre alla banca di erogare finanziamenti finalizzati all’investimento di un certo ammontare di capitale, anche considerevole, concordando con l’istituto di credito in questione l’ammontare della c.d. “redditività”, cioè la percentuale di capitale investito che ritornerà all’investitore, in senso accrescitivo rispetto all’investimento iniziale, una volta realizzato il profitto derivante sempre dall’investimento di capitale, va detto che il calcolo della redditività, cioè la percentuale di profitto ricavato dal capitale investito è una operazione che deve tener conto di molteplici fattori, quali ad esempio le condizioni del mercato, la situazione occupazionale, l’andamento in percentuale dell’elemento inflattivo, l’andamento dei tassi di interesse relativi al costo del denaro da utilizzare per effettuare concretamente l’investimento di capitale che si intende realizzare e molti altri parametri i quali, assieme a quelli già elencati possono rendere più o meno sicuro l’investimento quanto maggiore è l’esattezza del calcolo degli stessi nell’unità di tempo data. Ovviamente in relazione a questo tipo di operazioni e a questo tipo di soggetti non si parla più di “famiglie” ma di investimenti operati, su scala più ampia da coloro che tecnicamente si possono definirsi “imprese”. A differenza dell’elemento “famiglia” cioè piccolo risparmiatore, che soddisfa la domanda di denaro da parte dell’istituto bancario di riferimento attraverso la dazione di somme a deposito, percependo interessi su quelle stesse somme, l’imprenditore chiede alla banca di soddisfare il “proprio” bisogno di denaro attraverso la domanda di capitali da investire in attività remunerative, ad esempio la costruzione e vendita di appartamenti che verranno, una volta costruiti, alienati ad acquirenti che dispongano ovviamente di capitali sufficienti, attraverso un accordo preliminare anteriore alla effettiva realizzazione del plesso edilizio, contraendo così un duplice debito: non solo nei riguardi della banca che finanzia l’investimento ma anche nei confronti di tutti coloro che

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sottoscrivono un contratto di acquisto di edifici non ancora costruiti (c.d. “vendita in pianta”). Per tornare alla struttura organizzativa della “banca di credito cooperativo”, va detto innanzitutto che essa banca, in quanto società cooperativa e non ad esempio “società per azioni”, è fatta destinataria da parte della legge, anche Costituzionale, di una serie di benefici a carattere fiscale, nei rapporti con i depositanti, con gli investitori, e finanche con gli altri istituti bancari, benefici di cui non godono tutti gli altri istituti di credito. Tutto ciò dipende ovviamente dalle forme giuridiche che le banche in questione adottano, le quali forme, si parla sempre di forme giuridiche, sono adottate dalle banche diffuse nel nostro comprensorio perché richiedono delle prerogative, a livello di quelli che sono tecnicamente definiti “depositi di garanzia”, che si adattano perfettamente a piccoli istituti di credito quali quelli che sono localizzati nel nostro comprensorio, mentre l’adozione, ad esempio, della forma giuridica s.p.a. non gioverebbe in quanto implicherebbe la imprescindibile disponibilità di capitali, da parte dell’istituto di credito che volesse adottare quella determinata forma giuridica, così ingenti che l’economia locale non potrebbe sostenerne i costi, sia a livello di investimento iniziale che in termini di gestione del rischio da parte dell’ente economico privato in questione .

Parte di ciò che ho scritto finora riguarda la situazione economica qui nel Vallo e in particolare quella legata a Sala Consilina.

Per tornare al problema droga, devo dire che è a mio parere scandaloso che nei centri deputati al recupero dei tossico/dipendenti, centri collocati sempre nelle vicinanze degli ospedali maggiori, anziché mettere in atto nei detti centri iniziative terapeutiche finalizzate al recupero dei soggetti coinvolti nel problema droga, non si faccia altro che alimentare il problema delle dipendenze. Ciò che vorrei considerare in proposito sarebbe una soluzione al problema assai più proficua di quelle adottate nel nostro comprensorio, cioè ad esempio una soluzione idealmente “vicina”, in certo modo, a quelle che sono le iniziative adottate oltreconfine, ad esempio in Svizzera, dove il problema è stato quasi del tutto risolto attraverso il ricorso a

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strutture come le “narcosale”. Il movente della predisposizione delle narcosale, cioè l’istituzione di luoghi pubblici adibiti alla erogazione delle sostanze pesanti, fa leva su un sentimento molto diffuso tra coloro che fanno uso di sostanze, cioè il senso della “segretezza” sulla propria dipendenza, il che sarebbe a dire il senso di una sorta di “intimità” tra il fruitore della sostanza e l’insieme delle sensazioni che la sostanza stessa provoca sempre nell’assuntore. Nelle narcosale vale il principio per cui se vuoi farti una dose di eroina puoi farlo perché l’assunzione di droghe, anche pesanti, è legale, ma ad una condizione: che l’uso della sostanza avvenga “alla luce del sole”, cioè che la sostanza venga somministrata da personale qualificato e tutto ciò per indurre nel drogato un senso di vergogna per la propria condotta che pian piano porta sempre il drogato a riflettere innanzitutto sulla propria vita, sui propri valori di riferimento e quindi anche su quei dis/valori che concernono il proprio stato di dipendenza. In molti casi, e le statistiche non mentono, il drogato impara a fare a meno delle droghe proprio all’interno di questo tipo di istituzioni, istituzioni che ovviamente in Italia sono assenti. Sui motivi per cu in Italia non esistono narcosale, il motivo di fondo mi pare essere analogo a quello per cui esistono narcosale in Paesi come la Svizzera, cioè una questione relativa ai fondi che la finanza pubblica destina al problema e relativamente al modo in cui si sceglie di utilizzare sempre i fondi pubblici a disposizione. La presenza delle narcosale è consequenziale ad un senso dell’ordine e del mantenimento della pace sociale che da noi non prevede misure così nette come per l’appunto le narcosale, ma che si esplica nella attiva presenza di tutta una serie di figure di riferimento, a cominciare da psichiatri, assistenti sociali, per finire con psicologi e psicoterapeuti, che sono ovviamente bravissimi nel terapizzare, anche a livello strettamente individuale, le persone che hanno questo tipo di problema.

Il lettore ricorderà a questo punto del discorso, che in alcune pagine precedenti alla presente ho tentato di fare un breve quadro, fondamentalmente sulla base di ricordi di un’epoca ormai lontana e che fortunatamente ad oggi può dirsi passata, dei Comuni del Vallo, sempre ripeto, su base meramente reminiscenziale. Mi riferisco

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alla descrizione di alcuni dei comuni del comprensorio, cioè Sant’Arsenio, Polla e San Pietro al Tanagro. Vorrei allora continuare a parlare dei Paesi che fanno parte del nostro Vallo di Diano, a cominciare questa volta dall’ultimo dei Paesi geograficamente appartenenti al Vallo e cioè Padula. Su Padula, non il centro storico ma Padula Scalo, dove ai tempi della strada ferrata faceva sosta il treno, dispongo di alcune conoscenze che mi derivano, soprattutto quelle relative alla gente che lì vive e lavora, non dall’averle apprese dai libri e nella cui esattezza non so se confidare o meno. So che a Padula c’è il Liceo Scientifico anche se non ho mai avuto modo di visitarlo, ma soprattutto so, perché a suo tempo vi andai in gita scolastica, che Padula è sede della seconda più importante, se non altro per dimensioni, abbazia monacale d’Europa, che ebbi il privilegio di visitare al tempo in cui ero studente delle medie. Ciò che mi torna alla mente di quella visita si perde nei ricordi e nel passato, ma alcune delle cose che vidi all’interno dell’abbazia mi rimasero dentro, tant’è che le ricordo ancora oggi. Ma prima di descrivere l’abbazia mi sia consentito qualche cenno storico: innanzitutto va rilevato che per decenni l’ingresso all’abbazia fu letteralmente bloccato dai detriti ivi riversati da una precedente esondazione del fiume Tanagro, e fu portato, il livello di esso ingresso rispetto al suolo e sempre a causa dei detriti, al di sopra del livello del manto stradale. Grazie a Dio e grazie alla Pro Loco di Padula i residui furono al fine rimossi ed ora l’ingresso principale della Certosa è di nuovo accessibile. Oltrepassato l’ingresso principale si entra in un amplissimo cortile interno alla cui estremità opposta è collocato l’ingresso vero e proprio alla struttura. All’epoca in cui visitai per la prima volta la Certosa, parte dell’edificio era stata chiusa al pubblico per decisione della amministrazione comunale a causa della necessità di recupero e restauro di alcuni locali interni, ma ovviamente ciò non mi impedì di fissare nella memoria bellezze incomparabili come la famosissima “scala a spirale” che conduce ai locali superiori, oppure la volta in stile romanico in un locale impreziosito da altari in legno magnificamente intagliati oppure in marmo eccellentemente intarsiati. Fu allora che compresi il senso delll’espressione “lavoro

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certosino”. Se poi da “Padula scalo” si percorrono alcuni chilometri in direzione Nord comincia la strada in corrispondenza della quale inizia il territorio di Sala Consilina. A Sala Consilina ho trascorso la più gran parte della mia vita, perché lì viveva la mia famiglia. Sala Consilina, diceva qualcuno, ha i difetti della città senza avere i pregi del piccolo centro urbano e viceversa. Forse ci aveva visto giusto dal momento che tutte le iniziative a suo tempo adottate dalla amministrazione comunale per abbellire e per rendere più vivibile la Nostra Sala Consilina o si sono perse nel vuoto dei rancori e dei disaccordi, oppure sono state realizzate ma sempre necessariamente tenendo conto degli interessi e quindi delle preferenze e quindi degli obblighi che la classe politica di Sala ha da sempre contratto con i propri elettori, ognuno i propri, con la conseguenza necessitata, quindi, che quelle stesse iniziative si sono sempre realizzate solo in parte e a volte a scapito di ciò che avrebbe dovuto essere il risultato su base progettuale. In via definitiva nel corso degli anni ho dovuto imparare che il “potere” come concetto non esiste, se non nella misura in cui dalla democrazia si passasse ad un regime militare, in cui ciò che deve essere fatto viene fatto senza che nessuno osi fiatare. Ovviamente mi è più chiaro che nel passato che coloro che hanno “vinto” le passate elezioni non hanno né la passione per la politica, né l’interesse a migliorare la cosa pubblica, né l’empatia per il territorio, cioè tutto ciò che dovrebbe animare ogni politico che si rispetti e che pretenda di essere rispettato non solo come politico ma innanzitutto come persona.

Purtroppo devo anche, perché ne sento il dovere in quanto cittadino, dire che la classe politica che abbiamo qui a Sala non è certo peggiore di tante altre ma non è neanche migliore. L’interesse per la cosa pubblica implicherebbe che tutti coloro che, qui a Sala e in politica, hanno a cuore il pubblico interesse, scegliessero un unico candidato per le elezioni comunali, insomma un’unica lista civica priva dell’appoggio a partiti che sono sì rilevanti nel panorama nazionale ma che lasciano i nostri territori in balìa di sé stessi perché i voti di ciascun candidato alla carica di sindaco non sono sufficienti a ottenere un peso politico tale da imporre alla politica “nazionale” le proprie richieste e le proprie istanze, che sono poi quelle della

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cittadinanza tutta. Un minimo di serietà e di senso civico vorrebbe che le liste elettorali a Sala fossero redatte da persone a tal punto e tanto attente alle esigenze del territorio da rinunciare ad una piccola fetta del proprio potere per unire le forze nell’ottica dello sviluppo, della realizzazione di principi di civiltà, che passano anche per la politica, quella vera che non può non concretarsi in un peso elettorale reale e non solo fantasticato, sempre nell’ottica di livello e rilevanza politica nazionale.

Se fossi sindaco nelle condizioni descritte proporrei a tutti i sindaci del Vallo di unire le forze per costituire un’unica amministrazione comunale, in cui una coalizione di partiti avesse almeno la maggioranza necessaria per governare, cioè la maggioranza assoluta, un unico municipio, un unico elettorato, insomma eleggere un solo sindaco per tutto il comprensorio, sulla base del meccanismo del plebiscito, strumento di governo delle dinamiche elettorali tanto caro a chi di dovere durante il ventennio. Come a dire insomma che l’unione fa la forza.

Ciò che non mi sta bene dell’attuale modo di condurre la politica è che non esiste il concetto di “responsabilità”. Mi rendo conto che le istanze, gli interessi da tutelare e finanche i desideri da soddisfare sono tanti almeno quante sono le teste che di quei desideri e di quelle istanze sono portatrici, ma non si può pretendere “la botte piena e la moglie ubriaca”. Occorre a mio parere evitare gli sprechi, applicando all’impegno pubblico quei criteri di onestà, trasparenza e quando necessario “rigore”, che hanno fatto a suo tempo il bene del Paese e per Paese intendo non solo Sala Consilina ma quella “bene amata” Italia tutta di cui anche Sala Consilina è parte, nel bene e nel male. Non si può da un canto criticare le scelte di governo perché non producono benefici sul territorio e poi essere del tutto assenti o inerti quando occorre adeguarsi ai parametri fissati dal governo innanzitutto in termini di spesa pubblica, per riuscire quanto meno a far “quadrare i conti”. Ripeto che Sala Consilina non è una monade, non fa parte di una realtà isolata da un contesto amministrativo che ovviamente è quello dello Stato e quindi delle sue istituzioni e

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della sua pubblica amministrazione, anche a livello locale. Lasciare il Comune e per comune intendo la sede comunale costantemente abbandonata perché fare il sindaco è ritenuto un privilegio cui nessuno - come dicono a Sant’Eustachio, una località questa, posta sulla cima del monte San Michele, e di tendenza politica piuttosto comunista - ha il diritto di accedere, perché la gente è in grado di governarsi da sola e non ha bisogno di tutori, è quanto di più vicino non “all’anarchia”, come alcuni vorrebbero, ma al più totale arbitrio che poi è in fondo sinonimo di anarchia, quella però massimamente deteriore.

Ritornando a parlare dei comuni del comprensorio, dopo qualche decina di chilometri dall’inizio del territorio di Sala provenendo da Padula, comincia l’adiacente comune di Atena, che è a sua volta suddiviso in Atena lucana e Atena lucana Scalo, per via della circostanza, ancora presente alla memoria degli abitanti, che un tempo, neanche troppo lontano, anche Atena scalo, come Padula, era sede di un passante ferroviario. Il primo dei due centri, cioè Atena si trova arroccata su un’ altura di cui purtroppo e per mia personale mancanza non conosco il nome; l’altra fa da sipario alla SS19 fino a raggiungere il territorio di Polla. Cosa dire di Atena se non che anche essa conserva il fascino e le meraviglie che in pochi, oltre a noi del Vallo possono vantare in confronto ad altri territori, probabilmente altrettanto ricchi di storia ma carenti di bellezze naturali? Devo però aggiungere che sempre a causa della scarsa conoscenza dei fondamenti di una economia sana e virtuosa si verifica purtroppo periodicamente che i giovani del nostro comprensorio tra i quali se posso vorrei idealmente collocarmi anche io, giovani che nutrono legittime ambizioni sulla propria vita personale, sociale e anche lavorativa, siano costretti a lasciare lo splendido entroterra valdianese che ha dato loro i “natali”, per spostarsi a nord, a Salerno a Napoli a Roma o anche più su fino a Bologna e Milano, perché incapaci di trovare nei luoghi d’origine una occupazione degna di questo nome oppure di accedere a quei centri di alta cultura che se fossero presenti nel Vallo eviterebbero tanti spostamenti e tanta fatica per raggiungere i Poli universitari di riferimento e anche per ottenere un lavoro, dovendo, va detto, confrontare la

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propria situazione personale con quella di tanti coetanei alla ricerca di un lavoro tout court cioè che prescinda dagli studi, insomma una occupazione “e basta”. Si tratta, per quanto riguarda Sala Consilina, ma direi anche relativamente a tutto il Vallo, di un problema antico che risale per lo meno all’epoca del Ventennio, quando torme di valdianesi partivano a piedi da Sala Consilina e dagli altri centri limitrofi per recarsi nelle Puglie a mietere il grano in cambio di quella che a suo tempo era definita “la giornata” e cioè cibo sufficiente per arrivare in forze al giorno successivo per poi ricominciare da capo. Quei tempi finirono negli anni ’70, se la memoria non mi inganna, in coincidenza della chiusura delle attività del magnate del grano dell’epoca, cioè Pavoncelli, la cui azienda diede gli ultimi sussulti di “salute” proprio in quegli anni. Ovviamente il fallimento di Pavoncelli escluse molti diseredati e derelitti dal commercio dei cereali ma la sua fine si colloca in un tempo in cui l’economia del Paese Italia era divenuta abbastanza solida da riuscire da sola a fare fronte quanto meno alle necessità essenziali della gente, in ogni modo, e cioè quanto meno nel senso di garantire un pasto al giorno a tutti coloro che ne avessero bisogno. Ripeto che l’emigrazione da Sala e da altri centri, è fenomeno antico e non ancora del tutto risolto anche oggi. Se all’epoca di Mussolini le masse diseredate si spostavano percorrendo chilometri a piedi per un tozzo di pane, oggi gli spostamenti si verificano per altri motivi, a causa di altri bisogni, ad esempio il bisogno di istruzione e magari di trovare una occupazione confacente agli studi intrapresi e possibilmente portati a termine con discreto profitto. Ovviamente esistono, come già detto, università e università. Ad esempio Salerno, per quanto efficientissima e dottissima non è qualitativamente paragonabile a centri d’eccellenza come la Bocconi a Milano. Il problema, arrivati a un certo punto non può più essere risolto accedendo alla convinzione che “tutte le università sono uguali” perché non è così. Il movente e la causa prima di ogni scelta personale deve essere “il dovere verso sé stessi di trovare una università che eroghi i servizi più confacenti alle esigenze di chi sceglie di frequentarla”. E a tal proposito non mi perito di dichiarare che conosco benissimo i problemi che si possono riscontrare se

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si sceglie una università non confacente ai propri bisogni di studente. Conosco anche cosa voglia dire per uno studente del Vallo accedere ad un Polo Universitario come la Orientale di Napoli, fortemente collegata alla politica locale del Vallo, Università in cui si studia poco e bene e grazie alle cui referenze si è certi di trovare lavoro. La mia personale esperienza universitaria si colloca tra due poli: LUISS in Roma e Polo Mattioli in cui è ubicata le sede accademica della facoltà di Giurisprudenza in Siena. Attualmente sono laureato, anche con discreto profitto nonostante le immani fatiche che ho dovuto sostenere per arrivare dove sono. Non è invero facile superare con profitto, nell’insieme 50 esami in due Università differenti senza per nulla cominciare a soffrire di problematiche attinenti alla sfera nervosa, e infatti attualmente sono in cura da un bravo psichiatra. E se mi si consente per un attimo di ritornare alle osservazioni precedenti credo di poter affermare con un certo grado di sicurezza che la vita universitaria, in base all’esperienza maturata da chi come me proviene dalla periferia d’Italia, non è facile per nessuno, tanto meno poi per chi di quel tipo di vita non abbia una sia pur minimale conoscenza preliminare.